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Fermenti 1

CONTEMPORANEA

7 di Velio CarratoniATTUALITÀ

15 Quel maledetto pipistrello! di Mario RondiLA CRITICA LETTERARIA OGGI IN ITALIA - Dodicesima parte

18 Critica, analisi, significato di Francesco Muzzioli 27 Per la critica: prime note sparse sulla forma del saggio di Marcello CarlinoCREATIVITÀ

33 Cosimo Cinieri l’epico e il suo pubblico-popolo di Cesare MilaneseSAGGISTICA

40 Il romanzo dello scarto: la «Funzione Beckett» nel romanzo sperimentale italiano di Fabiana Cecamore 48 Poesia sperimentale del xx secolo Manifesti e testi teorici di Giovanni Fontana 55 Giacinto Spagnoletti, cent’anni di un maestro di letteratura di Sergio D’Amaro 57 Jack Kerouac: sulle strade d’America ho cercato la felicità

di Sergio D’Amaro 59 Alcuni giudizi critici sulla poesia di Dante Maffia di M. Praz, J.L. Borges, P.P. Pasolini, I. Calvino, G. Bufalino, L. Sciascia, P. Levi, O. Macrì, G. Corso, N. Ginzburg, M. Vargas Llosa, E. Clementelli, S. Martelli, G. Trebisacce, L. Benassi, G. Roma 73 Oreste Macrì poeta di Maurizio Nocera 85 Cinque pezzi facili di Alberto Artosi 91 Autori del Centro Italia La poesia di Rodolfo Di Biasio di Antonella Calzolari 97 Nicolò Tommaseo, Alessandro Manzoni, Giulio Bonola e il giallo del manoscritto sottratto

di Eleonora Bellini

PERIODICO A CARATTERE CULTURALE, INFORMATIVO, D’ATTUALITÀ E [email protected] – fermenti-editrice.it – facebook.com/fermentieditrice – twitter.com/fermentiedit

n. 250, anno L (2020)NUMERO DA COLLEZIONE

SOM

MA

RIO

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BLOC NOTES

102 di Gualberto AlvinoRICERCA 111 Andante e trobadorico di Luciana RogozinskiMUSICA 129 Percorsi letterari nella critica musicale D’Annunzio Montale Zanzotto di Giovanni Inzerillo 151 Sospinto da un arcano poter Un ritratto di Leoncavallo in due schizzi di Marzio e Bernardo Pieri 160 Due per Uno e Tre in Due Le differenti drammaturgie negli universi musicali di Stockhausen e Liberovici di Bernardo Pieri

PARLAR FRANCO a cura di Gualtiero De Santi 169 L’estremo Rosato di G. D. S. 175 Il félibrige friulano di Pasolini di Mirco Ballabene 176 Nino Pedretti: poesia e prosa in italiano di Maria Lenti 178 L’Ėpitaphe Villon di Amedeo Giacomini di G. D. S. 181 Rosanna Gambarara, “Dedlà” di G. D. S. 185 “Provi di lingua matri” di G. D. S. 186 Salvatore Di Pietro, tra mondo cristiano e industrializzazione di Renato PennisiPERSONAGGI 191 Lungo Viaggio al termine di un… Notturno Italiano e… oltre… di Pippo Di Marca 203 Magia Ciarla, la madre di Raffaello di Maria LentiCINEMA 206 «Il pessimismo è troppo umano»: (ri)scoprire l’ultimo Elio Petri di Emanuele Bucci

EFFETTO NOTTE a cura di Gualtiero De Santi 219 Joker e Martin di G. D. S. 223 Ricordo di Piero Tosi di G. D. S. 226 Una telefonata con Piero Tosi di Cristina OrtolaniPOESIA 228 Immagino ogni tanto e altro di Dante Maffia 235 Scarti di Ariodante Marianni 236 Composizioni di Gualberto Alvino

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240 Stranite impronte di Marco Buzzi Maresca 246 Il canto delle sibille di Mario Rondi 249 Ma io non lo dirò di Nadia Cavalera 251 Trent’anni dalla fine del Novecento di Sergio D’Amaro 259 La mia patria e altri testi di Gianluca Di Stefano261 Palermo Palermo di Antonella Doria264 Di pesci e di stelle: poesie di Vera Germano a cura di Gualtiero De Santi 269 Epidemia e altro di Italo Scotti270 Dove la Merini ha spremuto il dolore e altro di Vinicio Verzieri272 Una terrazza sul Cosmo di Lidia SellaNARRATIVA 277 Il corvo della regina e altri racconti di Mario Rondi (con illustrazioni di Beniamino Piantoni) 282 Lettere dall’infinito prossimo (passare) di Giovanni Baldaccini 286 Donna in ritratto di Gemma Forti 289 Il deserto dentro di Gianluca Cinelli 299 Storie di mare di Giovanni Fontana 302 Quasi acqua di Bruno Conte 305 Zio e nipote e altro di Marco Palladini 317 Il misogino e altro di Gianluca Di StefanoGARRULA - Narrativa giovani 325 Hai mai pensato all’infinito? di Chiara Albonetti

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ARTE 327 Segni & segni “Fuoripagina”: opere e mostre della Collezione Roffi di Giovanni Fontana 337 Il sogno e le trasposizioni fantastiche nelle opere di Lillo Messina di Claudio Strinati 340 Linea della vita Paragrafi per Bordoli di Vincenzo Guarracino 361 Sogni di spettri/narrazione di un lavoro di Enrico Pulsoni 365 Giuseppe Modica (tavole) 366 Tito: prolifico ricercatore di misteri da fondere 370 Silvia Venuti, poetessa/scrittrice di Vittorio Sgarbi, Marco Rebuzzi, Paolo Levi 374 Dell’ignoto: Euridice non abita più qui di Giovanni BaldacciniTRADUZIONI 378 Alcuni sonetti di Shakespeare a cura di Silvano Agosti 381 Un poeta greco contemporaneo: Dinos Siotis a cura di Crescenzio SangiglioBIBLIO/CARAVAN

392 di Velio Carratoni Su Edoardo Lombardi Vallauri, La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persua-

sione; Ema Stokholma, Per il mio bene; Leonard Bernstein, Lettere ai familiari, 1945-1990;Paola Di Nicola, La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio;La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, a cura di Anna Vinci; Marco Palladini, StrasognandoFellini, (attraverso nove stazioni/stagioni filmiche); Leopoldo Pirelli, Esperiernza e riflessioni

BIBLO/SOUND

405 di Gemma Forti Su Seamus Heaney, Sweeney smarrito; Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia, Essere o no scrit-

tori, Lettere 1963-1988; Remo Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale; Edoardo Bruno, Critica del gusto. l’immaginazione al potere; Alfredo Accatino, Outsiders 2; Carla Maria Russo, Una storia privata - La saga dei Morando

RECENSIONI

413 A tutto Scotellaro di Sergio D’Amaro 414 Giaime Pintor, un costante piacere di vivere di S. D’A. 417 Libri tra i libri di Marcello Carlino Su Alessandro Carandente, Giuseppe Pontiggia. Dalla scoperta dei classici alla critica del

linguaggio; Michele Fianco, Un semplicissimo universo inespanso; Stefano Lanuzza, L’arte della realtà. Prime note sulle scritture di Velio Carratoni

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422 Su Ferruccio Brugnaro, Las locuras ya no son locuras. Antología poética; Gemma Forti, S/VAN/AR/EGGIA

di Maria Lenti 424 Su Gemma Forti, S/VAN/AR/EGGIA

di Mario Rondi 426 Insolite quotidianità di Marco Furia 428 Il Consiglio d’Egitto. Un romanzo-pamphlet che ha affascinato il cinema e il teatro di Rebecca Marcucci 430 “Donne” di Andrea Camilleri di R. M. 431 Il fascino di Don Fabrizio Salina di R. M. 433 Una introduzione alla poesia di Marco Palladini di Francesco Muzzioli 436 Epicedio sul sud di Gualtiero De Santi 438 Elena, Ecuba e le altre di G. D. S. 440 Un’estetica dell’inquietudine di G. D. S.AI FERRI CORTI 444 Materia e sembianze di Velio Carratoni

INSERTO FONDAZIONE PIAZZOLLAINEDITI 449 Dizionario semifilosofico intellettuale di Marino PiazzollaARCHIVIO 451 “Sua Maestà” con la camicia rossa di Vincenzo TalaricoRIPROPOSTE 452 Una filosofia per l’uomo (María Zambrano) di Marino Piazzolla 455 Nuove gioie. Su Apollinaire di M. P.RECENSIONI 457 di Gualitero De Santi Su Il fiore della poesia boliviana d’oggi a cura di Emilio Coco

MANIFESTAZIONI 460 Presentazione Rivista “Fermenti” n. 249 del 27 novembre 2019

462 HUDEMATA O FERITO A VITA. Dalle opere poetiche di Marino Piazzolla

463 Volumi pubblicati in collaborazione con la Fondazione Piazzolla

470 Audio e video pubblicati sul sito www.fondazionemarinopiazzolla.it

474 Note biograficheAll’interno, riproduzioni artistiche di: N. Balestrini, B. Bordoli, B. Conte, G. Fontana, B. Piantoni, L. Messina, E. Pulsoni, G. Modica, Tito, S. Venuti.

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“Fermenti” n.248 “Fermenti” n.249

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Contemporaneadi Velio Carratoni

Ragioni di primatoFellini. Alla ricerca di un programmarsi senza tregua. In omaggio a un mondo

che, sebbene in disgregazione, valorizza sogni intermittenti. Favole mai riduttive, o cause da sminuimento d’obbligo. La donna era per lui creatura i cui derivati non sanno di complice omertà. Le creazioni di Eva non rientravano nelle fughe o limitazioni forzate, ma nei misteri dell’eterna creatrice di ogni forma esistente. Coinvolgimenti contraddittori e inevitabili.

Le sue tematiche fanno pensare che il mondo, bello o brutto, è stato ripro-posto da donne che appartengono alla geniale illusione di esserci, da presenti assenti nel bene e nel male. Nel giusto o nell’ingiusto. La donna è la benedizione o la causa del creato. In suo nome l’Ente supremo ha costretto il genere umano a faticare con il sudore della fronte, per sentirsi con lei coinvolta.

Circa poi la vita intima non è appropriato svelare quanto e come Federico sia riuscito ad andare al di là di Giulietta che per lui è stata creatrice di ogni comprensione, sopportazione, guida, consigliera, ispiratrice. Qualsiasi approfon-dimento è avvenuto per ragioni filmiche per vagliare o confermare tematiche femminili che, con la diffusione della psicoanalisi, del realismo, tramutatosi in sogno ad occhi aperti o chiusi, ha rievocato o superato ogni esigenza di vita. Il cinema per lui è l’arma, il mezzo di seduzione o dissipazione di ogni istante. Ogni personaggio che incontra diviene ragione artistica non circoscritta. Può trattare chiunque, per captare effetti più vari. Nessuna ha un volto, dato che tutto viene vivisezionato, inventato, rivissuto con l’animo del creativo, la cui tendenza è quella di percepire, rimanendo nell’atmosfera di indefinite intenzioni, in nome del superamento o annullamento. Tutto avviene per contrasto.

L’artista vallo a capire, se sei in grado. Meglio allora non capirlo, che deci-frarlo male. Interpretarlo da piccolo-borghesi significa rifugiarsi nelle limitazioni burocratiche della vita ordinaria.

Arrivare a insinuare: “Io ero la compagna, Giulietta la madre, la donna del focolare. Io ero la trasgressione” serve a interpretazioni a senso unico, di meri scopi pubblicitari o in nome di esclusive ragioni che prescindono dalle pretese di un regista. Data l’indole del personaggio che non era l’uomo della strada o un rappresentante di massa. “Stavamo per metterci insieme”. Si può dire per ipotiz-

V. Carratoni visto da Vinicio Verzieri

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zare il contrario di quanto avvenuto nella vita reale, sottolineando quanto sia importante il ruolo del vincitore nella vita intima. In natura conta ciò che avviene. Non quello che si sbandiera sfacciatamente, senza usare un minimo di misura.

Attenzione alle cosiddette vedove di turno, che compaiono per immortalare loro intime performances.

Ciò accade quando il re viene a mancare. Ultimamente anche per Craxi è avvenuto lo stesso, All’appello non è mancata nessuna, a vedova ancora in vita.

Perché certe superstiti sfoggiano il primato? Dovrebbero avere più rispetto di chi pretendono rievocare, evitando resoconti da talamo. Per non cadere nella grettezza provinciale di vecchia data.

Tra metafisica e impressionismoFilippo De Pisis (1986-1956)1, che Giuliano Briganti mi aveva citato tra i

suoi preferiti, da considerare non per la sua firma modificata (Luigi Tibertelli), anche a parere di De Chirico, ma per le sue zone di frequenza, tra le quali Ferrara, Roma, Assisi, Poggio Mirteto.

Nei due luoghi citati in coda elabora, a parere di Sandro Zanotto “opere nuove e originali”, che gli servirono a dare il lancio alla sua attività, anche in fatto di vendite. Come documentato in Roma al sole, (Neri Pozza, 1994).

La poesia è tutt’altroSon più di 50 anni che in Italia l’elenco dei poeti, in ordine cronologico, è

rimasto lo stesso: Ungaretti, Montale, Quasimodo, Gatto, Bertolucci e i soliti affiancati per continuare l’elenco. Tanti inseriti son caduti o son spariti per ragioni di carrierismi o di contratti esosi o di pretese da prime donne. Chi li ha sostenuti in queste intese? Tanti cosiddetti critici, accademici o lettori di case editrici con la mira di rinnovare impegni o esclusioni. Tanti son stati trascinati in imprese affaristiche o di lustro. Così più che alle applicazioni sono emersi scopi fuorvianti.

A quando un vero rinnovamento non condizionato dalle solite firme o da situazione prestabilite? Che se appartenenti alla schiera di aggiunti forzati fareb-bero meglio a studiare e informarsi di più. Senza che le solite Biasutti si mettano a sindacare e ad applicare metodi da gare provinciali e scontate.

Gli editori e i docenti non possono garantire su un genere che dovrebbe essere seguito da lettori o da addetti ai lavori. Categorie in pre-estinzione.

Oggi ci sono più stornellatori che poeti, più firme alla moda, appartenenti a generi che esulano dalla poesia: parlamentari, docenti con l’aria da rinascite umane, psichiatri o sanitari, impegnati in molteplici faccende da parcelle facili o attori amanti dei contratti da capogiro.

La poesia è tutt’altro. Non certo quella professata da Sandra Milo.1 Si ispirò all’esperienza metafisica e poi impressionistica, realizzate attraverso un suo personale e

intimo cromatismo, per il quale il colore diveniva parte notevole delle sue ricerche. Fu anche critico e scrittore in prosa e in versi.

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Cosa preferire?

Chi scalda la terra? Siamo noi a non accontentarci, assaliti da pubblicità assordanti animate dal dio consumo, che se si ferma, addio posti di lavoro, sprechi, sale della terra di una sopravvivenza vacillante. Non si può avere tutto. O i consumi, che garantiscono vita o austerità, che regolano ritmi e sbilancia-menti. Utili ma nefasti. Cosa preferire?

Alla fine i più maiuscolari son proprio gli anti

Maiuscolaro è colui il quale non tollera che si pensi diversamente il rapporto ai canoni prestabiliti, relativi a una dottrina. In nome di tale principio si dovrebbe usare in un discorso, rispetto per le idee altrui. In pratica, se tentate di pensarla diversamente dal principio primo, scatta il meccanismo della difesa prestabi-lita, della verità unica. Da qui la contraddizione in termini secondo cui a una teoria non può esservi diversità, libera discussione, principio primo che prevale su tutto. Da qui il contrasto di fondo secondo cui a ogni antimaiuscolarismo si determina il maiuscolarismo dell’idea unica, che genera il dogma della verità. Il libertarismo ideologico ha le gambe corte e il cervello ristretto. Tanto che, alla mancanza di un capo schiera, non può esserci propagazione o sviluppo. Se ci sono quattro gatti ad assecondare, nella realtà alla sua dipartita c’è la fuga immediata a gambe levate dei suoi assertori, cui non spetta altro che fantasticare o elogiare in segreto la genialità di una dottrina morta sul nascere.

Quante altre teorie hanno la stessa sorte? Da ciò ne consegue che una conce-zione per avere sviluppo e ampliamento, anche di fronte ad avversità o contrasti dialettici deve riuscire a confermare l’idea iniziale. Per coerenza e umiltà, qualità mancanti ai dogmatici derisi proprio dagli antimaiuscolari.

Ogni angheria va vagliata

L’ardita partecipazione è l’anello delle compromissioni ridotte a sfide o lotte per confermare o escludere rivalse del concesso o dell’avuto arbitrio, sia pure concesso. Tutti dipendiamo, divenendo chi più chi meno assalitori, che violano, per sfida, noia, tormento, ossessione.

La salvezza si raggiunge snobbando chi viene incontro, assecondandoci tutti. Chi si duole impone agli altri i propri fardelli.

Nessuno è esente da corbellerie di schiere, prive di sagoma o di identità definita. Ogni teoria è bella e condivisibile se proviene da scannatoi prelibati. Ammessi o meno, ma di una ferocia irriferibile. Se non ci fossero lotte cruente non ci sarebbero prove che vittimizzano l’ostaggio di turno.

Ogni angheria va vagliata. Se immotivata, si ripercuote contro. Se orga-nizzata a sbafo viene ripagata, tramite sorprese che il caso riserva con estrema puntualità.

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Siamo complici di ogni malefatta, battendoci il petto per vergogne celate, sapendo che il rimedio più efficace è risultare in dolo, ammettendo di esserlo.

Questo il salvacondotto per comprendere errori di una specie che si reputa al di sopra. Pur sguazzando nelle putredini di giochi perversi, per i quali diamo animo, corpo, spirito, volontà per sfoggiare lordure, meglio se diverse e inaspettate.

Ma gli sdegni servono per elevare un grazie a chi ci ha maledetto, dimo-strando di restare savi in un ginepraio di oscene conquiste. Senza le quali non c’è vita o senso. Questa l’illusione di sentirci coinvolti in un divenire tragico/smunto, purché contaminato da effetti speciali.

Ricordare o cadere in equivoci da sfatare

Per anni Moravia ha mal digerito la traduzione dell’opera omnia di Pavese in Francia presso Gallimard. Se ne è vendicato adducendo con una certa inesattezza che l’unico stratagemma per attingere alla notorietà fu per lo scrittore piemon-tese l’essersi suicidato, quasi insinuando che si sarebbe ammazzato per diventare famoso. Ricordiamo che trattare Pavese porta alla sua tragica fine, non conside-rando invece che la sua celebrità deriva anche da altre qualità innegabili.

Di Bevilacqua non si parla più. Neanche per ricordare alcuni particolari della sua attività letteraria. Eppure per anni il suo nome era diventato quasi luogo comune. Metodo che fa pensare a quello adottato per Pigrilli o Da Verona, rite-nuti grandi romanzieri in anni grigi.

Bello o circolare?

Bello essere uguali. Anche se il conformismo appiattisce, pur riconoscendo in metafora che è sempre meglio di ciò che risulta circolare, dato che il piatto conferma, mentre il circolare va oltre. Andare oltre per evitare l’arcinoto è condi-viso da molti.

Perfino durante il ventennio c’erano i pensatori ribelli, che amavano andare in carcere o al confino per diversificare il loro pensiero.

Oggi molto livellato per il gusto della contrapposizione reiterata, a danno dei più che credono nella diversità solo in nome dello scopo.

Diversi per costoro sono i traditori della fede e della parola data, ma le regole si reggono in quanto principi dell’opposto. Chi è opposto è un traditore del piat-tismo voluto.Quando ci si sente diversi si divieni liberi e autentici. Costruttori per certi amorfi di regole comuni.

Onnipresente

Per Camilleri resta l’illusione di un apparato da cassetta. Con il pretesto di una cultura personalistica. A senso unico. Da autore, regista, derivazione di apparati fanatico-burocratici di casta inamovibile. Addio libera scrittura di intrat-

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tenimento da caserma presidiata, senza altra scelta da condividere. Momento peggiore di ciascuno per volontà di matrice d’apparato politico è quello di poten-ziare il potere di prendere, non di diluire o suddividere con intenti da libero pluralismo.

Se non si è imposti da certi apparati RAI difficilmente ci si arriva. Non basta non condividere per lavarsi mani e coscienza Camilleri non è il simbolo di ogni coscienza libera, facendo parte di una cricca di fondo, che diviene insostitui-bile o di cattivo esempio. Pirandello, Moravia, D’Annunzio e tutto il seguito delle guide solite, avranno monopolizzato, ma almeno si tendeva a risultati non macchiettistici.

In Camilleri appare il tentativo dell’insostituibilità, imponendo soliti luoghi, sia pure incantevoli, conditi da personaggi prestabiliti che si muovono burat-tinescamente, profferendo terminologie dialettali, tendenti a significare gesti, moine, cadenze, concepite con lo stampino.Quando riusciremo a scamillerizzarci ne acquisterà sia il teatro, genere alquanto precluso nei programmi TV con la valorizzazione di lavori mancanti all’appello ormai da decenni. Per esistere, purtroppo, a un certo punto bisogna sparire, non per finire ma per facilitare un respiro più salutare.Pappa e ciccia, ciccia e pappa, gioco permanente in vigore per appiattire e svilire. Purtroppo per anni siamo andati avanti seguendo tale andazzo, divenendo spesso vanificati e spappolati.

Alberto Arbasino tra retronismo e tentativi di approfondimenti

Fin quando ha partecipato a vicende di un Novecento paradossale ha mostrato di battersi per dire la sua, sovvertendo ogni logica prestabilita. Così Arbasino è divenuto spaginatore di composte rievocazioni, riuscendo a superare quella che i più chiamavano Avanguardia che concepiva a suo modo. Si occupava di arte, letteratura, musica, costume, non limitandosi a seguire direttive, preferendo sovvertirle. E al di sopra di tutto arrivava all’interpretazione, anche se per lui nel romanzo non doveva prevalere trama o descrizione pedissequa di luoghi, personaggi, stati d’animo. L’autenticità era l’espressione o il gioco tridimensio-nale. E la voce diveniva così immedesimazione saltellante. La finezza stilistica era animata da un logaritmo di natura filosofico-moralista. Non quella della retta via ma della stravaganza logico-costruttiva. E in ogni affermazione-definizioneprevaleva il giudizio di una mente lucida e raffinata. Non era la sua una ricerca comica, come ha detto qualcuno, ma una contesa ilare e briosa. Le stravaganze erano di sapore scettico-sofistico. Mentre le interpretazioni di cronaca non rasen-tavano il privilegio dei fatti ma dei significati da marionette brille. E in quei fantasmi trovava ogni ragione di fondo. Tutto diveniva movimento, trasforma-zione. Quella di chi vorrebbe completare, pur sapendo che il giudizio libero giustifica e muove il tutto.

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Che almeno la sua attenzione duratura serva a rifondare non solo la cultura dell’unguento, ma dello sprazzo di là da venire. Rispetto al mortorio di tanti fatti azioni storie. Da rinnegare e superare.

Come autore non è definibile, essendo riuscito, come ha detto Tabucchi a far troppo parlare di sé. Sono le opere o i fatti a testimoniare che ogni idea non funge da soluzione, offrendo il presupposto di base di dissolvimenti possibili. Roma per lui è servita come punto di concretizzazione dopo gli iniziali tentativi manierati del Nord. Nella capitale, con le frequenze nei vicoli, piazze, ristoranti si era manifestata l’inclinazione verso il manierismo e la scrittura. Tutto si era tramutato in coinvolgimenti al peperoncino, risentendo anche della conoscenza di personaggi che, a mano a mano, si moltiplicavano anche all’estero. La presenza di Spadolini, Sarti, Zolla, Ginzburg l’aveva favorito e instradato. E Alberto si è trovato coinvolto da castigamatti di ogni manipolazione della democrazia ai primi passi e durante tante scandalosità all’opera, sottaciute per il gusto di risul-tare prodi o inventori. Ma di sputtanamenti farseschi se l’è bevuta poco, trasfi-gurando e non tacendo. Così gli eroi son divenuti pupazzi di un sistema contro, manipolato da falsi profeti. E da snob travestito ha sputtanato falsi millantatori, dimostrando di essere più informato degli informati. Passando per Gadda, l’au-tore della misantropia esibita, delle ritrosie castranti, degli accortismi da filoneingessato; per Penna il vate degli isterismi reconditi, della cattiveria geniale, delle insolenze da isterico perenne, permaloso; per Pasolini, cenerentola in fuga fissa, all’ora delle cacce stregate, prima della fine di banchetti luculliani; per un Visconti, l’animo desolato da senso aristocratico di appetiti evanescenti di una maestria irripetibile. Ma il più avveduto risultava lui, protagonista di sdegni, di farse, di tragedie rivissute da finto figlio di puttana dell’ultima ora. Le sue erano ricostruzioni, che partendo dal mistero arrivavano ai concettualismi mai esibiti come assiomi, ma con il candore dei costruttori-distruttori della commedia all’italiana che non diveniva italica ma di sapore teutonico-anglosassone-franco-andaluso. E i suoi occhi vitrei divenivano quasi imbalsamati nella loro piega gonfia e affossata, mentre le gote apparivano lignee, come fossero state scolpite da mastro Geppetto, il tono di voce seguendo un ritmo da violinista guidato da toni semi brevi, tendenti ad una cantilosità manierata da falsetto. Né cupa né leggera di un candore imprevisto e di una cadenza da paraculo che non sapevi ti prendesse in giro, ti accogliesse con riserva, preannunciando l’ultima parola che sarebbe giunta al momento inaspettato. Da lui che incarnava materia più anglo-sassone che italica, dello schianto a guidare l’eterno valzer delle scintillanti luci a intermittenza e di sussurri lasciati a languire. Tutto per lui diveniva antipasto di preparazione compunta, sfociante nel minestrone dalle mille sfaccettature e dal miscuglio inesauribile che con Fratelli d’Italia diveniva pietanza raffigurante la sua nazione dalle mille trovate, dai casini fusi, delle lordure raggruppate, degli umori tra il rapito e il boccheggiante, esaltante il bottino di ladri, banchieri, capi banda di industrie andate in fumo o di servitori più delle latrine che della gleba.

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E gli eterni ritornelli, filastrocche o versacci di piazze, di mangiatoie fumanti giustificavano camarille di apparati, di mazzette in circolazione dissennata.

Altro che Citati ne invocasse più parsimonia nel descrivere malinconie e turpi-tudini con orpelli e bigiotterie, inzuppate da liquori e liquori per alterarne sapori nei depositi di digestioni complicate. Ogni viaggio, incursione, incontro, dialogo erano il frutto di un consumo smodato che avrebbe causato blocchi interminabili (come avvenuto). E il cantore snob, dalle mille tonalità tra il giulivo, il lagnoso, il manierato, non avrebbe perso la lucidità, anche tra tanti fumi, sbraiti, apoteosi, crolli, orgasmi costruiti, in onore del finto sempre attuale.

Insomma un cuoco degli eccessi che non se n’è persa una per lisciare, flagel-lare, usare la vasellina, dato che il bottino è sempre in offerta. Ma che offerta, risolta in carceri traboccanti, sanità in decomposizione, istruzione in ribasso, volgarità ceduta a prezzi d’oro, tradimenti da nettari dei tanto amati e venerati, famiglie distrutte, gioventù bruciata, buchi sempre più dilatati e sfondati, sacrilegi all’ordine del giorno ne sono prove lampanti. Le sue previsioni non si riferivano a ieri ma a periodi riguardanti almeno cinquant’anni dopo. E per le sue constatazioni non invocava nessun rimedio. Da allora più che il presunto scrittore prevaleva il giornalista che per il fatto di Moro si rattristava, sottolineando l’avvenimento di questo Stato, tanto ricco di storia, di civiltà, ma anche imbarbarito da crudeltà che confermavano la nostra specie contro, mettendo in risalto le solite contraddi-zioni del popolo dell’abbuffata e dell’aggregazione “di una parte della sinistra e la disgregazione di un’altra parte” che stimolano effetti fantastici. Non riuscendo a considerare che ogni fatto tragico in Italia è sintomo “di vecchie eterne costanti antropologiche...ogni volta camuffate e appiattite in attesa delle grandi crisi...”.

Fossero avvenute almeno quelle per modificare progredire trasformare. E invece giù polemiche permanenti, collegate con “il banditismo e l’accidia”. Inquesto stato Arbasino rappresentava la prova più misurata, di una riflessivitàamara e sconsolata. Addio al giocoliere, al venditore di fumo o al prestigiatore degli imbarazzi nascosti. Con tale prova nel 1979 smetteva di fare il mangia-fuoco per divenire sconsolatamente cosciente. Quarant’anni e qualcosa in più fa, anticipava più cautela per divenire emblema di un ribelle privo di scettro e illusione. Uno sconfitto di una linea cultural-informativa di una consistenza dicendo quasi addio ai funambolismi o ai giochi piroettici di una esuberanza da genio insostituibile.

Scendeva dal trono, rifugiandosi in acide battute o nei silenzi più ravvicinati. E da politico quasi scompariva, ammainando la bandiera dell’eclettico senza tregua. Risultando quasi fuori esercizio. Non certo come testimone attratto da richiami artistici o da stimoli da dandy.

Sappiamo poco della sua fine. Null’altro oltre alle comunicazioni sbrigative che fosse malato da tempo. Né la stampa ha fornito notizie rifinite.

Ce lo fanno rivedere quando era giovanissimo; ce lo ripropongono come un pettegolo del tempo che fu. Chi sa come riscoprirlo.

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In occasione di ricordi affrettati, ripetitivi, non son mancate tante citazioni che a risentirle ti fanno pensare come la cultura sia ormai una reminiscenza di devastazioni inesorabili. Detestava l’italietta di allora che oggi è peggiorata, essendo divenuta più volgare, cinica, cafona, amorfa. Almeno in quegli anni c’erano vitalità, entusiasmo, qualche illusione in più. La politica era un disastro, ma oggi è un cimitero anonimo. Le correnti letterarie avevano più consistenza, escluso il Gruppo ‘63, che è durato sei anni. E poi tutti a occupare posti del potere. I giovani sono annullati come idea e entità. Vengono trattati da rimasugli o da scarti su cui è meglio sorvolare. Eppure tra loro c’è del buono, quel buono che, se ha potuto, ha tagliato la corda all’estero. I nomi della cultura son divenuti ombre del momento. Di qualcuno una volta ce se ne occupava. Ma oggi, se non hai santi in paradiso, nessuno ti si fila e certi titoli di opere osannate dal solito potere, se durano un anno o due è già troppo. Diverso anche il modo di trattare certi autori. Tranne qualche rarità di classici o di nomi illustri, che, se vengono riproposti con cura e approfondimenti, appartengono alla razza dei fenomeni una tantum.

Arbasino ne L’ingegnere in blu (2008) ricorda brevemente Manzoni con luci-dità, senza riserve e manipolazioni. Ne fa un ritratto che invoglia e rende vivo il personaggio.

In vita è stato bistrattato per la sua tendenza a risultare erudito e amante di autori elencati. Lo faceva per inquadrare personaggi per le loro preferenze o per i gusti, parte integrante di luoghi, tempi. La cultura è tutt’altro, ma ricordare nomi a volte fa rivivere storie, rivolgendo rievocazioni con il tempo sempre più negato. Esempio di una attenzione che contraddice la battuta di tanti sprovve-duti: “Se non lo nomina nessun critico-scrittore, vuol dire che non è poi tanto significativo”.

Altro appunto che va a favore di Arbasino, a parte le partecipazioni, quando ancora era in grado di farlo, a mostre, esecuzioni musicali, rappresentazioni di opere e di spettacoli memorabili, c’è l’amore per i viaggi che non servivano per ragioni di svago, di passatempo, ma per approfondire storie o avvenimenti. Parti-colari quasi ignorati da masse che hanno viaggiato senza scopo o ragioni. Per approfittare di offerte di agenzie di viaggio, invadendo luoghi, limitandosi i più ad adattarsi in ambienti antigienici e ristretti, compromettendo storia e ragione stessa del Tour, pratiche non certo condivise da chi ne ha venerato scopi e ragioni.

Arbasino sarà stato un manovratore della parola da presunti riconoscimenti mirati, ma non un sentenziatore protagonista di prese di posizioni nazional-po-polari, maschera da salotto, accademico patito di informazioni o pensieri snob. È stato invece personaggio non allineato alle sciatterie imperanti che varrebbe la pena di conoscere da parte di infarinati di curiosità libresche.

Un libro non è per forza oggetto d’effetto, anche se qualcuno prova a renderlo tale per soddisfare riserve preconcette. Al di sotto può esserci altro da scoprire.

Velio Carratoni

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Quel maledetto pipistrello!Lettera dall’estrema periferia

di Mario Rondi

Nei nostri paesi, la Val Seriana, la gente muore a bizzeffe: non suonano più le campane, non fanno i funerali, li trovano nelle stanze, morti oppure li portano dagli ospedali già nella cassa.

Sono tanti: vecchi, giovani, troppi. Ci dicono che è colpa del corona-virus!

Non si può uscire da casa, non si può uscire dal paese, non si può andare al parco comunale, non si può andare

al cimitero: i morti non ci sono più, restano solo appesi al muro le foto dei morti, il funerale si farà quando passerà il contagio.

Quando passerà cominceranno le statistiche dei sapientoni: i decessi sono in calo, ma il giorno dopo sono in crescita; s’inaspriscono le pene per chi va in auto, per chi è colto per strada senza un plausibile motivo, per chi non ha le mascherine.

Le mascherine però non ci sono, non si trovano: dicono che li portano i Cubani, i Cinesi, gli Americani, ma al mio paese non si trova una mascherina e allora ci si arrangia, si costruisce una bandana, si prendono quelle delle maschere degli anni passati, ci si vete da bandito, basta non prendere la multa.

E questi sapientoni che ci proibiscono tutto, fra poco anche di respirare, ci vengono a dire che il virus è scatenato da un pipistrello, che aveva già portato altre gravi pestilenze e disastri!

Che geni, questi scienziati che sanno tutto: che appaiono alle tivù, che ponti-ficano, che hanno la parola facile, conoscono tutte le molecole e le loro compli-canze, stanno studiando un farmaco contro il tumore, perché questi soloni non ci hanno pensato di indagare sul pipistrello che era già conosciuto come appor-tatore di morte?

In una società progredita, con tutto il benessere di cui ci vantiamo, con tutti i tipi di pannolini e cioccolatini, con i migliai di computer che si vendono, di auto che circolano, di missili che si lanciano sullo spazio, di potenti compressori e supposte di ultima generazione, nessuno di questi grandi scienziati ha pensato di studiare i pericoli del pipistrello.

Così la gente muore, ha mangiato carne infettata e insalata radiottiva, ma va all’altro mondo per un banale virus di cui non riescono a trovare l’antidoto:

Disegno di Beniamino Piantoni.

ATT

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non passa giorno, istante che si glorifica la scienza, il progresso, la nostra bella società dei consumi che ci regala la pubblicità e si potranno vincere premie favo-losi con un cioccolatino, una patatina, un cavolo rinomato.

Malauguratamente però si muore e non si capisce perché: così danno la colpa ai poveri cristi che sono indisciplinati ed escono a prendere una boccata d’ossi-geno, a qualche scalmanato che si mette a correre diffondendo il virus.

Improvvisamente siamo tornati al medioevo: non si può uscire dal paese, quando prima hanno fatto di tutto per rendere tutti i paesi interconnessi: la Val Seriana è un lungo budello senza fine di continuità perché con lo sviluppo urba-nistico sono tutti attaccati.

Certi paesi si sono specializzati in un prodotto, altri in un altro: se io resto senza carta della stampante al mio paese non c’è e devo andare a quello vicino; se mi salta una lampadina al mio paese non vendono più lampadine e devo per forza correre al paese vicino, se devo comprare un cappello di plastica so dove andare, al mio paese non c’è e così di seguito, per scelta dei nostri oculati ammi-nistratori.

Di colpo siamo tornati al paese autarchico, solo che non c’è più niente, neanche quello che vende le stringhe delle scarpe, bisogna andare al mercato; per il pesce, se non si vuole mangiare spazzatura, bisogna scendere in città o andare a un paese abbastanza lontano.

Tutto proibito: voi direte “mangia del tuo orto”che ti dà tante soddisfazioni; non si può perché la “Val de Gru” risulta in un altro paese e quindi se mi muovo arrivano le multe.

Cantano ai balconi, sono tutti contenti, sono tutti educati, ma siamo tornati all’età della pietra: la gente è incappucciata, gira la testa, non si parla perché il pericolo è di restarci secchi.

Dicevo medioevo, ma ancora qualcosa di più: non si leggono i giornali, dove ci sono pagine di morti, solo la gazzetta dello sport, ma le gare sono sospese e allora inventano il gioco del dito mignolo in camera, possibilmente senza colpi di vento e con le luci al neon.

Tante guerre, tanti sacrifici, tanta sofferenza, ma abbiamo sempre la tivù accesa che ci bombarda quotidianamente il cervello: quella non si tocca! Non puoi andare a raccogliere i ciclamini o le mammole, ma la tivù con la sua bella pubblicità te la sbattono in faccia in tutti i momenti, e ti fanno anche pagare il canone, poveretti!

Chissà perché è sempre colpa dei poveri cristi, che vogliono troppo: il budino, il cioccolato nel paese dell’eldorato, ma mancano le mascherine, mancano i medici e mancano i farmaci.

Cosa facevano intanto questi soloni di scienziati e medici specializzati: anda-vano ai convegni e parlavano di scienza, quella che risolve tutti i problemi, infatti si vede: ci fanno crepare come cani, poi c’è il vescovo che ci viene a benedire e il sindaco con la fascia tricolore che ci ringrazia della nostra morte rapida.

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Troppo comodo incolpare sempre gli altri: ma quelli che dovevano proteg-gerci, che sono i nostri tutori, dove sono finiti? A fare statistiche, a dirci che il morbo imperversa, che la Val Seriana è una delle più devastate: andateci voi, soloni, nella Val Seriana al mio paese, dove non trovi un benzinaio aperto, un ciclista che ripara le biciclette, tanto non si può girare, non serve!

Vendono mazzi di crisantemi, ma bisogna andare in un altro paese e se devi portare un garofano al cimitero, prendi la multa!

Questo è il grande paese del progresso, della grande industrializzazione, della diffusione di massa della cultura: quattro vecchi che giocano a scopa nel bar, adesso chiuso.

Il mondo di Pantalone, noi abbiamo il “Giopì” che viene rappresentato come un genio, ma in realtà è un povero diavolo che ne combina di tutti i colori e ai margini della realtà: la nostra lingua cavernosa poi fa il resto, ma ci sono i cultori di questo gergo da pastori e mandriani e si scrivono anche poesie in questo deli-cato idioma che primeggia nelle aspirate, specie in alcuni paesi.

Tutti allegri: abbiamo un bel virus-corona che ci manda all’altro mondo, ma sempre cantando per non deludere il padrone, come a suo tempo diceva Dario Fo.

Così chiudono le fabbriche, chiudono le biblioteche, chiudono le edicole, chiudono le mostre e dobbiamo cantare, non perderci d’animo perché gli scien-ziati sono in azione: stanno cercando il vaccino, un giorno lo troveranno, ma saremo tutti morti e allora non ci resterà che ridere nella nostra bara, supposto che ce la diano e non ci caccino prima nei forni crematoi, vi dirò come finisco.

Mario Rondi

Dall’archivio di Fermenti: presentazione a Roma del volume Elio Filippo Accrocca. Interprete e testimone del suo tempo di Maria Armellino.Da sinistra: Peppino Neri, l’autrice, Giuliano Manacorda, Renzo Paris, Velio Carratoni, Luiciano Luisi, Giuseppe Tedeschi.

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LA CRITICA LETTERARIA OGGI IN ITALIA - Dodicesima parte

Critica, analisi, significatodi Francesco Muzzioli

1. La crisi della critica può essere agevolmente messa in conto alla gene-rale crisi della mediazione nella società attuale. Gli intermediari non riescono più ad essere efficaci: lo stato e le sue istituzioni, l’organizzazione dei partiti e dei sindacati, la scuola e la trasmissione dei saperi, tutti versano in situazioni critiche. C’è l’unificazione offerta dalla rete, è vero, ma è di tipo labile, un conte-nitore neutrale che determina una sommatoria di narcisismi individuali. Sicché l’antagonismo sociale si dissolve nei microantagonismi di una rissa quotidiana di tutti contro tutti, nella quale non solo l’aggregazione, ma si perde anche l’in-dividuazione della contraddizione principale. Ma lasciamo tutto ciò ai sociologi della “società liquida”.

Restiamo per ora e qui alla considerazione della funzione mediatrice della critica: non è forse quella di costituire un passaggio tra il testo e il lettore indi-rizzandolo attraverso determinate valutazioni e spiegazioni? Ma ormai, se alla fonte ciascuno può pubblicarsi il libro da sé e a valle ciascuno può emettere con altrettanta indipendenza il proprio giudizio, il mediatore apparentemente scom-pare. Il che non significa però la realizzazione della parità democratica perché, sebbene a nessuno sia interdetto l’ingresso, proprio l’alta quantità dei messaggi privilegia gli avvantaggiati in partenza, i detentori della potenza di fuoco della pubblicità, o del numero dei followers. Comunque sia, la critica non serve; anzi un tentativo di orientamento potrebbe sembrare impositivo e la stessa pretesa di una competenza specialistica un privilegio elitario di cui vergognarsi…

È vero che spesso la mediazione critica è stata autoritaria. Quando il critico, in base al suo ruolo istituzionale (che fosse elevato su una cattedra o su un grande giornale è lo stesso), emetteva i suoi giudizi con il tono dell’ipse dixit, non c’è dubbio che avesse potere ‒ si pensi a quello dello storico della letteratura che può ammettere o cancellare gli autori che vuole: una sorta di diritto di vita o di morte ‒ ma non educava ad altro gusto che il suo proprio, eretto a modello indiscutibile. Che questa funzione di controllo da custode della soglia si sia perduta, non è poi un gran male; senonché, la pura e semplice apertura delle frontiere (tutti scrit-tori! abolita ogni differenza tra scrittori e scriventi) ha come esito la confusione generale che alla fine scontenta proprio gli autori, spesso alla ricerca disperata di un riconoscimento fuori della cerchia parentale. Diventa quindi necessario inter-rogarsi sulla critica e sulla sua funzione mediatrice; quale mediazione? Perché è evidente che ce ne possono essere di tipo molto diverso.

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2. La rete è piena di valutazioni critiche, di microcritica, di critica diffusa; spesso sostenuta con grande sicumera, ma soprattutto legata al semplice voto, positivo o negativo: mi piace/non mi piace. Si tratta di giudizi prevalentemente non motivati, altrettanti ipse dixit, sebbene emessi non verticalmente, ma oriz-zontalmente. In sostanza è come se, delle valutazioni dei testi e delle opere, si potesse contendere, ma non discutere. Uno scontro di affermazioni, non un confronto. Manca un terreno comune e un arbitraggio (moderatore, norme argo-mentative, ecc.) che possano favorire la relazione. E questo perché la rete è infi-nita, non circoscritta, in essa si parla a tutti e a nessuno. Chi giudica, allora, non si sente tenuto a dichiarare, accanto al giudizio, con quali criteri lo abbia emesso. Forse non si rende nemmeno conto di averli, dei criteri. Perché alla fine,nell’epoca della confusione generale (né destra né sinistra, e via occultando le opposizioni), trionfa, per forza di cose, il senso comune.

Ora, gli anni che abbiamo ormai alle spalle, quelli verso la fine del Nove-cento ‒ dai Sessanta agli Ottanta ‒ anni dei quali ancora siamo testimoni oculari, malgrado sembrino lontani anni-luce; dunque quegli anni, tra le altre cose, sono stati gli anni della teoria. La teoria letteraria ‒ che poi non era soltanto letteraria, tanto che i nomi dei suoi autori e le relative bibliografie finiscono per coincidere con nomi e bibliografie della storia della filosofia ‒ aveva provato a mettere in discussione i criteri fondanti della valutazione estetica, per così dire, “tradizio-nale” (proporzione, armonia, unità, equilibrio, sintesi=bellezza, ecc.) e ad avan-zare le diverse ipotesi di spiegazione e analisi del testo (semiotiche, sociologiche, psicologiche, ecc.). Ed è interessante notare che, dopo quella stagione, la rivin-cita del senso comune ha dovuto necessariamente ri-convalidarsi proprio con un linguaggio prossimo a quello della teoria (penso all’ermeneutica di Gadamer e al suo sforzo di pensiero, ferrato e articolato in Verità e metodo, per rimettere in campo la tradizione e il valore del classico).

In After Theory (2003), Terry Eagleton con il suo consueto umorismo un po’ nero esordisce immediatamente: «The golden age of cultural theory is long past». E, dopo un elenco di grandi nomi che hanno segnato un’epoca (da Lacan a Said, passando per Lévi-Strauss, Althusser, Barthes, Foucault e compagnia cantante) e dopo aver ricordato alcuni amari destini individuali di questi autori, commen-tava: «It seemed that God was not a structuralist». (Che Dio non fosse struttura-lista lo si poteva sospettare dal disordine del mondo…). A parte gli scherzi, non c’è dubbio che con l’eclisse della teoria (in Italia già molto penalizzata anche al suo apice dal fondo storicistico ed erudito del corpo accademico che ha sempre recalcitrato ad aprirsi al discorso teorico, dovesse mai alterare le sue pratiche feticistiche) aveva a diminuire anche lo spessore della critica, che tornava ad essere appannaggio non di un dibattito metodologico, ma della mera sensibilità dei singoli. Mentre la critica militante, lungi dal contestare il sistema editoriale di mercato, andava, nei casi migliori, alla disperata ricerca del meno peggio.

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3. Una idea pedagogica che ho sempre connesso all’attività critica era quella di avvicinare critica e lettura. Solitamente si pensa al critico posto in luogo alto e al lettore inversamente in luogo basso, il primo emette e il secondo accoglie le indicazioni del “superiore” (un po’ lo stesso rapporto del fedele rispetto all’of-ficiante) prendendole per buone sulla base alla gerarchia dei ruoli. Solitamente s’intende il critico come superlettore: in fondo, non fa niente di diverso ‒ lui legge lo stesso testo del lettore comune ‒ ma lo fa in modo più raffinato e attento (in inglese si dice close reading, lettura ravvicinata). Nello stesso gesto c’è una differenza di grado. La prassi corporativa tende ovviamente ad aumentare questa differenza; invece l’idea pedagogica sarebbe quella di fornire anche al lettore semplice gli strumenti critici per muoversi autonomamente e per essere in grado di valutare non solo il testo, ma il giudizio stesso del critico ufficiale, difenden-dosi dagli abusi di fiducia. Avvicinamento verso l’alto.

Del resto, immaginiamo un soggetto subalterno il quale comprenda la neces-sità dell’emancipazione: il suo interesse, quindi, oltre a quello di collegarsi ad altri per avere la forza sufficiente, starà nel mettere in dubbio l’egemonia discor-siva del potere che lo opprime e lo tiene soggetto. Ma ecco allora che deve rica-vare, da dentro il discorso del potere (dalle contraddizioni di quel discorso), le modalità utili a incrinare la solidità dello schermo, delle immagini e apparenze che lo rendono subalterno. Questi strumenti li deve sottrarre all’avversario in modo da cambiare il terreno del discorso in proprio favore.

Ma se l’assetto passa dalla contrapposizione alto/basso a quella tra centro e margini e se la lotta non è più per cambiare il sistema, ma per essere inseriti in esso (la lotta per il riconoscimento), fa parte di questo enorme slittamento della protesta anche un avvicinamento tra critica e lettura inverso al precedente e precisamente verso il basso. La critica diventa soffietto pubblicitario per invo-gliare alla lettura; il critico si pone al livello dei consumatori; la critica diventa osservazione scientifico-statistica delle reazioni dei lettori; la critica finisce per vidimare le classifiche di vendita. Nelle recenti posizioni ‒ delle quali mi sono occupato nel precedente numero di questa stessa rivista ‒ le modalità della lettura “ingenua” vengono confermate in base alle neuroscienze, per cui alla critica non resta che inchinarsi alla natura delle sinapsi cerebrali.

Stretta tra l’istintivo e lo scettico (la prima cosa che salta in mente e l’im-possibilità di una spiegazione oggettiva definitiva) l’analisi viene congedata a favore del fantasma della persona rintracciabile dietro i segni della scrittura. E ci sarebbe da riflettere sul ritorno di fiamma della funzione-autore.

4. Tempo fa, alcuni studenti durante un dibattito enunciarono un criterio valu-tativo sulla base di “mi arriva/non mi arriva”. Questa idea di un “pervenimento” è interessante. Intanto assume le vesti di un dato di fatto non opponibile. Si faccia il seguente esperimento: poste in una qualsiasi libreria due pile di romanzi, una di Fabio Volo e l’altra di James Joyce si verifichi quale delle due si esaurisce

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per prima… Ma l’“arrivare” non è soltanto questo (sostanzialmente di natura promozionale): si tratta soprattutto del conseguimento di un contatto con inten-sità emotiva e psicologica. Una sorta di scintilla o di agnizione di consonanza. Niente di nuovo, l’“arrivare” ‒ ancorché gli studenti ne fossero ignari ‒ c’era già nello Ione di Platone con l’immagine della forza magnetica contagiosa, che in fondo si può configurare da entrambe le parti, perché se la poesia non arrivanello stesso tempo non attrae, e la colpa è comunque sempre della sua debole energia e forza magnetica.

Ora, quello che voglio discutere qui non è della validità soggettiva di quella valutazione, quanto piuttosto del ricorso alla sensibilità-sentimento, la mozione del cuore che oggi si delinea come una vera e propria politica della commozione: per mitigare la dissoluzione sociale e la guerra dei particolarismi (geografici,corporativi, condominiali e quant’altro) si fa appello all’emotività quale ultima risorsa per il comportamento umanitario. Contro una ragione ridotta al cinismo del vantaggio immediato, si pensa di ovviare con l’irrazionale, se non proprio con il religioso. E quale migliore alleato della letteratura intesa come zona franca dal meccanismo del pensiero, dal freddo numero e dalla pesante fattualità? La poesia con la mistica, la finzione con l’immaginazione, entrambe giocate contro il “principio di realtà”. Non passa per la testa che, tolto il principio di realtà, resta il “principio del piacere”, non a caso sbandierato in modalità valutativa per i prodotti letterari (torniamo al mi piace/non mi piace), tutt’altro che alterna-tivo rispetto alla logica di mercato… Per altro, mi è già occorso di sottolineare come ‒ malgrado tutte le più buone intenzioni ‒ il risultato della depressione del ragionamento vada favore del pensiero mitico e di conseguenza delle soluzioni autoritarie.

Insisto a ritenere che qualsiasi scrittura, anche la più delirante, abbia una logica, per quanto complessa e non argomentata (vedi l’Amleto: “c’è una logica in questa pazzia”); e che quindi la critica sia appunto l’esercizio di esposizione di questa logica interna e di scoperta dell’implicita valenza dimostrativa anche del testo apparentemente più innocente e lontano da dimostrazioni. La critica, insomma, come traduzione da un linguaggio a un altro, del non-argomentato nell’argomentativo; e sia chiaro non al fine di ridurre tutto a ragione pedissequa e banale, quanto invece con il massimo interesse per l’irrazionale, per strappargli un di più di ragione. Valga l’appunto di Walter Benjamin:

Bonificare territori su cui finora è cresciuta solo la follia. Pe netrarvi con l’ascia affilata della ragione, senza guardare né a de stra né a sinistra, per non cadere preda dell’orrore che adesca dal lurido della foresta. Ogni terreno ha dovuto, una volta, essere dis sodato dalla ragione, ripulito dalla sterpaglia della follia e del mito.

5. Sappiamo bene dell’impossibilità della tragedia nell’epoca moderna, in mancanza del personaggio superiore piegato dal destino. E tuttavia permane una

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sorta di tragico moderno, anzi piuttosto di tragico di consumo. Nella società del piacere, il tragico residuo è l’insorgenza del dolore. Una parte della produzione letteraria odierna riguarda perciò l’esorcismo del dolore mediante la partecipa-zione. Ed è diffusa la scrittura come pratica terapeutica, sicché sono numerosi i libri di taglio autobiografico e dotati, come dire, di una fatticità dolente che chiede commozione e non critica. Questo tipo di produzione, insomma, mentre solle-cita l’etica e al limite dà materiale alla sociologia, mentre richiama un pubblico solidale e, questo sì, lo distoglie dall’intrattenimento del passatempo, esclude tuttavia la valutazione. E passi per la valutazione estetica; ma esclude anche l’analisi. Infatti come è possibile guardare al microscopio il linguaggio, consi-derare i procedimenti, cercare di cogliere la logica e l’ideologia di una scrittura dove l’autore ha messo il suo sangue e la sua carne? Tutto si può fare, questo è vero: posso studiare le similitudini e le metafore di Se questo è un uomo, oppure il ritmo e le ripetizioni della poesia di Pasolini alla madre o di quella scritta da Pavese pochi giorni prima del suicidio; tuttavia è evidente che il “patto testuale” di quei testi non prevede siffatte clausole (Eco direbbe che non è quello il Lettore Modello richiesto). Un intervento critico-analitico dovrebbe essere accompa-gnato dalla disdetta, o almeno dalla messa in parentesi (che risulterebbe partico-larmente forte, scortese e quasi inumana) della “logica” di quei testi.

Non è solo l’espressione della sofferenza a respingere l’analisi, ma anche la sacralità e tutta la mistica poetico-letteraria che si afferma attorno al romanti-cismo, in qualche modo raccogliendo l’eredità della religione screditata dall’il-luminismo. È un processo che conosciamo bene e che torna periodicamente in auge, ogni volta che la crisi della società si fa sentire con più intensità; l’arte e la poesia, come zattere di salvataggio dai marosi della storia, si concepiscono come fatte di un’altra materia o, per meglio essere salvifiche, come immateriali. Perciò non prendibili dal ragionamento: a partire da “quel certo non so che” che carat-terizzerebbe la bellezza più ancora dei parametri canonici, si arriva d’un balzo all’ineffabile, dove si esclude che il discorso possa anche soltanto avvicinarsi al nucleo profondo. Al suo cospetto, le traduzioni della critica vengono tenute al paio di goffi tentativi di riduzione.

E soprattutto viene considerato con commiserazione il significato delle parole: quello sarebbe soltanto il pallido racimolo della magica potenza verbale, una sorta di resto impotente lasciato alla mercé del linguaggio comune, allo scambio utilitario, alla chiacchiera e alla comunicazione ordinaria. Al contrario, il segno sussunto in arte sostiene di possedere un senso superiore al significato e in questo modo ha funzionato a un certo punto la nozione di simbolo come emanazione, infiorescenza inesauribile di sensi ‒ nonché indice di distinzione, perché la sua esorbitante emissione non può essere conseguita dai profani.

È vero che, per certi versi, il sacro è connaturato alla poesia, che nasce nei paraggi del rituale; e si potrebbe sostenere che, nel suo tessuto sonoro, la poesia conservi pur sempre un ricordo del rito, adesso magari laico, come si vede

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dall’uso dell’apostrofe, che altro non è se non un residuo delle pratiche di evoca-zione sciamanica. Tuttavia, nello stesso tempo, alla base della coscienza moderna c’è l’avvertimento che il poeta ha perduta l’aureola e che il punto culminante dell’apoteosi del Senso con la maiuscola è quello stesso in cui sprofonda nel nulla.

E allora: il significato?

6. Se proprio il termine “analisi testuale” sembra troppo freddamente mecca-nico, sostituiamolo pure con quella “ricerca delle tracce” che Benjamin ricava dall’antichissima esperienza del cacciatore:

Chi segue una traccia non de ve solo stare attento, ma deve soprattutto aver già prestato at tenzione a molte cose. (Il cacciatore deve conoscere lo zoccolo del l’animale che insegue, deve conoscere l’ora in cui questo va ad ab beverarsi,deve sapere come scorre il fiume dove la sua preda si dirigerà e dov’è il guado in cui può attraversarlo). In tal modo si afferma il modo più caratteristico in cui l’esperienza appare tra dotta nel linguaggio dell’esperienza vissuta. Le esperienze posso no di fatto essere preziosissime per chi segue una traccia; ma si tratta di esperienze di un certo tipo. La caccia è l’unica attività in cui esse per definizionesono utilizzabili. E la caccia è, come lavoro, assai primitivo. Le esperienze di chi segue una traccia pro vengono solo molto alla lontana da un’attività, o ne sono del tut to indipendenti. (Non a caso si parla di «caccia alla fortuna»). Es senon hanno alcuna consequenzialità e alcun sistema. Sono un prodotto del caso e recano in sé una costitutiva interminabilità, che contraddistingue il compito preferito di chi è dedito all’ozio. La raccolta fondamentalmente interminabile di cose degne di es sere sapute, la cui utilizzabilità dipende dal caso, ha il suo proto tipo nello studio.

La metafora della caccia rende bene il procedimento strategico della critica. Non è sufficiente il desiderio e neppure la preda può essere acquisita per dono angelico. Vi si rivela una natura relativamente oggettiva: la traccia non può essere interpretata dal cacciatore come gli pare, ma deve essere attribuita a una intenzione che non coincide con la sua e che deve essere ricostruita perché l’im-pegno risulti efficace. Nel riconoscimento degli indizi vi ha parte certamente la pratica, l’insegnamento, l’intuito (e ci sono anche i “segreti” del cacciatore), ma il percorso resta comunque verificabile, tanto che si possano seguire le tracce stesse del cercatore di tracce.

Su questo punto non insisterò mai abbastanza. Ad avvicinare al testo lette-rario non vale l’illuminazione riservata ai pochi, non l’appello all’emozione e alla sensibilità, ma è bene che la critica sia una mediazione trasparente capace di rivolgersi addirittura agli insensibili. Comprendo l’obiezione: che gli insen-sibili, se insensibili sono, non potranno mai essere sensibilizzati e che allora tanto vale trasmettere un sapere eletto ai pochi interessati a divenire adepti di un antico appannaggio disdetto dai più. Ai pochi aspiranti non giova “tagliare il

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ramo su cui si sta seduti” (per usare la calzante metafora brechtiana che identi-fica perfettamente il gesto dell’avanguardia), proprio perché la loro aspirazione è di apprendere come stare seduti su quel ramo. Non rovesciare la tendenza. Comprendo l’obiezione che nasce da questi anni regressivi: e però significacondannarsi allo stillicidio di un progressivo esaurimento. Converrebbe invece esporsi e rischiare.

7. Ma l’analisi, l’analisi: è chiaro che è interminabile. Una volta che spostiamo il linguaggio sul terreno che diciamo arte o poesia o anche solo letteratura, le parole si caricano di significati. O meglio, nei termini di una certa linguistica, ai significati “denotativi” si aggiungono e quasi prevalgono le “connotazioni”. Il significato si espande in processi di ambiguità (Jakobson) e di polisenso (della Volpe). E tuttavia, se lo stacchiamo dal terreno (terra terra) del livello letterale, allora, una volta perduto il significato univoco, convenzionale, non abbiamo perso tutto? Non siamo in balia di un supersignificato misterico non attingibile dal codice e solo mostrato a distanza e in aenigmate dai sacerdoti della critica?

Anche il tentativo di utilizzare il cambio di campo semantico rappresentato dalle metafore e dalle figure di analogia, che poteva mettere in luce livelli non previsti dallo stesso autore (una sorta di inconscio testuale), e comunque offrire un elemento sottile di valorizzazione o svalutazione (anche del testo stesso) è stato ridotto, nell’ottica decostruzionista, a un mero paradosso logico che, invece di integrare o arricchire annulla la comunicatività della parola. La storia recente è questa: l’ambiguità è stata vista come un virus, un contagio irreparabile, estesa ovunque con la deriva decostruzionista, sicché non c’è stato risultato che l’ana-lisi potesse attingere che non venisse rovesciato, negato, superato. A figure prin-cipali assurgono l’ossimoro, in quanto azzeramento del significato e l’ironia, non già come forma di polemica, ma in quanto possibilità sempre plausibile di rovesciamento nel contrario. A quel punto, di fronte a un esercizio di scet-tiscismo assoluto per giunta già proclamato in partenza, l’analisi del testo, una volta votata al vuoto, è sembrata una fatica inutile. Ciò ha portato a una rivincita neopositivista, non solo nella critica accademica che deve giocoforza attaccarsi ai dati per insegnare qualcosa di certo e certificato, ragion per cui ha rinforzato il sapere storico, biografico e filologico attorno ai testi; ma anche nell’approccio diffuso alla letteratura (puntato sull’autore) e infine nelle teorie legate alle neuro-scienze, dove ‒ come già indicato ‒ il sapere positivo ratifica certi atteggiamenti “normali” di lettura.

8. Ma ci sono dei limiti all’interpretazione, dei limiti al polisenso. Se non ci fossero, non potremmo nemmeno discuterne. E il limite del polisenso ‒ teste della Volpe ‒ è la sua dialettica con il “letterale-materiale”. Non solo occorre capire in quale direzione va il senso (cioè la tendenza) dell’espansione del signi-ficato: che può propendere verso il simbolo oppure verso l’allegoria, secondo

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una biforcazione complicata, non sempre contemplata da tutti, comunque signi-ficativa in quel dibattito che ho più volte provato ad attraversare. Ma il signifi-cato letterale stesso può presentare spesso il conto e costituire un problema che una critica troppo intuitiva e misticheggiante rischia di non vedere.

Faccio l’esempio della Sera fiesolana di d’Annunzio; prendiamo l’inizio:

Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace

Si potrebbe andare avanti, ma per il momento basti questo attacco. Possiamo cominciare a notare le rime non ordinate ma frequenti, e la metrica mista di endecasillabo e novenario, di solito non compatibili e legati qui da versi lunghi composti (5+9): ma adesso non stiamo a far calcoli né misure, diciamo semplice-mente che c’è la musica di cui d’Annunzio è maestro. E poi notiamo l’atmosfera: i colori, nero e argento, della luce serale e il velo che la luna sembra stendere sulle cose ‒ il velo è il velo del mistero; e il mistero propende verso l’apparizione di un senso nascosto affiorante dalla natura. La poesia ha un effetto seduttivo e lo propone essa stessa iniziando dalla affermazione della sua “freschezza verbale”. La freschezza è attributo di ogni buon prodotto alimentare e qui addirittura il testo non sostiene di avere parole fresche, ma aspira a che le senta tali l’interlo-cutore o interlocutrice, come se parlasse solo per lui/lei (tutto il potere al consu-matore!).

E dunque la freschezza della parola è ricondotta a un suono ovattato e quindi a sua volta misterioso, un suono naturale, il fruscio delle foglie. Ma qui, se si guarda per l’appunto al significato delle parole, s’incontra una resistenza: infatti d’Annunzio non dice “il fruscio che fan le foglie” mosse dal vento, che pure sarebbe venuto a puntino, poiché l’aria mossa dal vento è sempre stata un ottimo equivalente della ispirazione poetica. Qui il poeta pretende troppo, s’inerpica su una strada pericolosa per la sua scena suggestiva: perché ci sono alcune parole che ‒ forse contro la stessa intenzione dell’autore ‒ sono fuori dello scenario naturale, per quanto le si voglia comprendere in esso: gelso, mano, opra, scala. Il gelso ancora ancora potrebbe essere semplicemente la precisazione di un albero tra tanti; ma mano, opra e scala solo gli indici di una presenza che non è perso-nificazione, ma proprio umana persona, per quanto dell’uomo non resti che la sineddoche della mano. E per quanto della sua attività non resti che l’“opra” che

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magari nella sua “lentezza” si cerca di far scomparire nel digradare altrettanto lento delle luci serali. Ma, insomma, diciamola tutta, l’“opra” di una “mano” che sta su una “scala” a cogliere le foglie del “gelso” non è proprio adatta a far da sfondo all’idillio perché è gesto per nulla innocente, non è altro che un lavoro (le foglie del gelso rimandando all’allevamento dei bachi e alla produzione della seta); è quindi un elemento prosaico.

In questo caso il senso letterale è nascosto e confuso negli effetti visivo-tattili (freschezza e scioltezza), eppure compare in alcuni indizi decisivi. Verrebbe da dire, rovesciando il famoso motto di Derrida, che non solo c’è extratesto, ma che l’extratesto resta incluso ben dentro al testo stesso, per quanto mascherato e in qualche modo sfruttato ai suoi fini.

9. Concludendo. Se la critica letteraria vuole avere una valenza autentica-mente democratica deve essere una scuola del sospetto, un esercizio che attivi l’attenzione dentro le cortine fumogene che ci avvolgono, un allenamento alla presa di distanza dalla parola mitica calata dall’alto.

Un atteggiamento mistico-intuitivo solo in apparenza contesta la ragione calcolante del guadagno, il pragmatismo dell’utile. Infatti, quella ragione e quel pragmatismo hanno gambe corte, non sono pienamente razionali, come si vede dagli esiti autodistruttivi, i nodi che stanno venendo al pettine. Non meno ragione, ma più ragione serve. Ora, l’approccio della consonanza poetica e della partecipazione emotiva ci propone l’arte-poesia come una vacanza dal ragiona-mento. È, al dunque, diseducativo. L’unica propaganda che la critica dovrebbe far sua è quella a non smettere di ragionare.

Francesco Muzzioli

Spille da balia punte di diamantedi Gemma Forti

Minacciosi schiumano i fluttidi Maksim Gor’kij(a cura di Paolo Galvagni)

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Per la critica: prime note sparse sulla forma del saggiodi Marcello Carlino

Si suole far coincidere la princeps con gli Essais di Montaigne; epperò è forse di qualche utilità ricostituire una filiera eventuale, sia pure con l’approssi-mazione e con l’azzardo in questi casi pressoché obbligatori – si tratta di ipotesi, infatti, ovvero di pertinenze supponibili e di possibili rinvenimenti di punti di aderenza ideologico-letteraria –; cosicché è da ritenersi conveniente seguire, di necessità a volo d’uccello, e saltando parecchie stazioni di posta, un tracciato che parta da alcuni secoli prima del filosofo francese e del suo titolo più famoso, per arrivare fino alle teorizzazioni che, benché abbiano una certa anzianità di servizio, risultando formulate negli anni mediani del Novecento, giudico tuttora apprezzabili e dunque da mettere a frutto con innegabili benefici per le prospet-tive e la qualità di vita della critica.

Che la forma-saggio riscontri evenienze confacenti, agli albori della lettera-tura d’occidente, nella polifunzionalità tematica della satira (nella postulazione inaugurale del pastiche della satura lanx) e che ne riceva garanzie per la varietà a cui si rifà la sua conduzione semantica, a me sembra un assunto inoppugna-bile, convalidato, per giunta, dalla fortuna che i poeti satirici latini avrebbero avuto nell’età dei lumi, che è quella della confermazione e del consolidamento dell’opera a struttura saggistica, come a breve cercherò di dire.

Se, nella Roma imperiale, si accostano attentamente i testi di Marziale e di Giovenale, appaiono frequenti e determinanti le incursioni in un’area che, peri-metrata dal presente storico, è ben più ampia e ricca di suggestioni dei domini dell’io e del suo, pur de-liricizzato, vissuto quotidiano. Nello scrittore aquinate, che Lucini indicò come modello potenziale delle sue Revolverate, le autorappre-sentazioni in dissidio dalla realtà contemporanea (spesso screziate di nostalgia per la “campagna”, vagheggiata quando comparata a fronte della “città” e del suo degrado) e le cariche polemiche che investono i comportamenti pubblici e la morale collettiva, e contraddicono una weltanschauung che deprime ogni idealità – essa che è sacrificata invariabilmente al profitto, al soddisfacimento dei bisogni primari e alla spettacolarizzazione, in ossequio al principio regolativo riassunto nel sintagma panem et circenses, coniato giust’appunto da Giovenale –, non risparmiando rampogne alla politica degli imperatori di turno e alle loro corti di baldracche e di prosseneti, quelle autorappresentazioni e queste denunce polemiche sono accompagnate e sostenute da considerazioni in punta di diritto, da descrizioni del sistema militare proprie di chi sa di strategie, da conteggi dei flussi migratori e delle mutazioni identitarie che ne conseguono, da analisi di trasformazioni culturali, da schermate di competenza e di consapevolezza urba-nistiche (le quali, per altro, disegnano scenari dalle atmosfere buie e dai chiaro-

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scuri teatrali sparati, sporti verso un espressionismo ante litteram).La satira si apre insomma ab origine, traendone linfa, a puntualizzazioni che

oggi ascriveremmo ad una intenzione saggistica; la sua dimensione mistilinea, sulla cui tenuta è autorizzata e può diventare norma la mescolanza dei generi letterari, è intanto condizione che ne avvicina i testi a quelli a denominazione controllata di romanzo, specialmente al capolavoro di Petronio; e arrischio ad asserire che, proseguendo lungo un versante siffatto, si incontra la Commediadi Dante, la cui composizione certamente calcola nella giusta misura gli apporti possibili della maniera satirica della scrittura; ed aggiungo, ancora e sempre con una buona dose di avventatezza, che il romanzo migliore della storia lette-raria occidentale, in corrispondenza, in parallelo, e così dichiarando ammissibili rapporti di parentela, risulta da una lavorazione politematica e pluridiscipli-nare e si giova dell’incrocio di linee diegetiche e di diramazioni digressive nei diversi campi della conoscenza e della analisi culturale, come Cervantes e Sterne comprovano con divertita e ironica, incontrovertibile nettezza.

Ma scrivevo sopra che, quanto al saggio, il punto di svolta, in Italia e non solo in Italia, è segnato dall’affermarsi della cultura illuministica, che, del resto, si fonda sopra un intreccio europeo di esperienze. E qui, nel rispetto di una deli-berata, necessaria celerità, mi limito a prendere come esempio un nostro cosid-detto minore, Pietro Chiari, commediografo, tra l’altro, noto per aver lungamente polemizzato con Carlo Goldoni. Di Pietro Chiari citerò a testimoni i tre libri delle Lettere scelte di varie materie piacevoli critiche ed erudite scritte ad una dama di qualità, pubblicati esattamente alla metà del XVIII secolo.

La finzione di un invio tambureggiante di missive ad una destinataria, che non è registrata all’anagrafe ed appare disegnata sul cartamodello settecentesco di una blasonata mecenate, colta e fervida e soccorrevole confidente, allestisce un apparato che, a futura memoria, può prestarsi al romanzo epistolare; e frat-tanto libera le maniere della scrittura che, nel quadro di un rapporto fecondo tra letteratura e scienza, o tra divagazione erudita e postilla filosofica, svaria curiosissima intenta ad una molteplicità di sondaggi: sciorina sintetici capitoli autobiografici (di cui è d’abitudine servirsi per ricostruire la figura intellettuale e umana di Pietro Chiari), e accende quadretti di illustrazione del mondo dell’ari-stocrazia a cui appartiene la dama di qualità, e tesse trame iniziali di un racconto d’invenzione, e arrischia succinte esplorazioni dei massimi sistemi. Anche il gioco d’azzardo con le sue motivazioni e in vista di un calcolo puntuale dei pro e dei contro che ne accompagnano l’effettuazione, e il teatro con le sue ragioni didattiche e culturali e con le sue finalità espressive (contro Goldoni, Chiari si pronuncia per un teatro delle maschere, alle quali associa una sua teoria dei tipi umani), e il ciclo delle acque, e la meccanica dei sentimenti (comprendendovi l’amicizia, nel cui nome il mittente mostra devozione per la destinataria, tanto che ne riconosce – sullo schermo della finzione epistolare – la superiorità cultu-rale e umana), e le schermaglie d’amore secondo i protocolli del Settecento, e gli

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affacci su panorami etno-antropologici, e le riflessioni in tema di funzioni e di statuti sociali della letteratura (non sono rari i filamenti metaletterari e le catene metalinguistiche ravvisabili nel testo epistolare), e una storia della civiltà come da “dispense” didascaliche del tempo, e stracci di riflessione politica, e sprazzi di dichiarazioni polemiche contro le conventicole e le accademie e i potentati cultu-rali, e le chiamate a testimonianza o gli intrattenimenti esegetici con scrittori di nazionalità e di epoche diverse (un interlocutore tra i più frequentati è giusto Giovenale): ciò – ed altro che si potrebbe elencare, quando la materia dei tre libri venisse vista al microscopio e refertata nei dettagli – è assembrato di modo che non un fluire sequenziale, e ordinato, determina il regime del testo, ma una “logica” liberamente associativa e un intenso impegno digressivo, ad induzione entropica, fanno la stesura del discorso molto mossa, sollecitata da alternanze e salti di livello, da addensamenti e congestioni o distensioni e diramazioni di percorsi analitici senza organici tenimenti.

Un tale singolarissimo palinsesto, candidabile a pattern di un romanzo episto-lare, è da ritenere che inscriva un pensiero libertino e ne manifesti avvolgimenti e diatesi; è evidente che lo innerva, cioè, una sregolata regolatezza ovvero una scienza delle costruzioni eslege, lasciata operare iuxta propria principia, che premia l’espressione anche ridondante di un sapere, goloso di esperienze quanto Casanova è praticante insaziabile di avventure d’amore.

Le seicento e più pagine della raccolta di Chiari, che finge una corrispon-denza avvenuta, non configurano un racconto filante, organicamente strutturato e, per metodica e per sovrabbondanza di interessi, dirazzano dal trattato, deciso secondo criteri di coerenza e di consecutività analitica; il tutto delle lettere non può essere davvero un pamphlet, mancando della concisione nel caso obbligatoria e rifiutandosi ad alvei che lo contengano, e neppure è un campione di secchezza e di economicità linguistica (una rizomatica inflorescenza barocca ne caratte-rizza, piuttosto, lo stile compositivo). Sono tante le forme rivestite, molteplici gli ambiti semantici frequentati senza che a nessuno sia accordata l’esclusiva; la polivalenza disciplinare, la varietà degli assaggi, la molteplicità delle schiuse procurate, l’intestazione al pensiero libertino e ad una libertina intersezione dei generi di discorso fanno di quest’opera di Chiari una bozza e un modello potenziale, certo bulimico, di taglia più larga e da aggiustare su misure conve-nienti, del saggio. Perché fin dal suo cominciamento ufficiale nell’età moderna, Montaigne testimoniandolo, il saggio non è una nuda e cruda dimostrazione di un teorema e non è la celebrazione di una verità rinvenuta; è al contrario una messa a dimora di diversi semi di cultura, è un esperimento di innesti e di connessioni come sinaptiche, è una operazione ispirata all’arte del porre (o dello sviluppare a raggera), è una rinuncia volontaria al mito (alla sacralità) della verità unica. Che è stata oggetto di tante ripulse, da Montaigne fino al saggismo della NuovaEnciclopedia di Savinio, libro mastro dell’intelligenza costruito per frammenti.

La tradizione della satira in versi, fondata su di un allargamento del ventaglio

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dei mondi significati e su di una dismissione della concinnitas della poesia lirica e della efficienza narrativa, legata a nuclei d’azione, e dagli effetti rastremanti, di quella epica; le vicende esemplari della pluridiscorsività e della apparecchiatura polifonica del romanzo, quando recuperato alle sue motivazioni d’istituzione; la scrittura libertina che muove le pedine senza schemi preordinati, assecondando viceversa richiami e ritmi associativi; la pronuncia del relativo quale condizione, e quale risorsa, del testo allorché approntato sul background appena riassunto: il saggio ha questa storia di annunci e di conferimenti che ne precedono la piena definizione. E la sua parte di primario rilievo, nel corso del Novecento, trova impulsi nella mutazione repentina degli scenari di cultura e nella instabilità degli statuti del sapere e nella improponibilità di quadri ideologici di comune e condi-viso orientamento, per il che è intitolato alla critica il lavoro intellettuale che meglio identifica il secolo trascorso: il secolo della critica come consapevolezza della, e lavoro conoscitivo sulla, crisi.

Il certo è che le teorie inerenti al saggio e alle sue forme hanno le impronte di cui sopra sono stati descritti alcuni profili. Ed è certo che, in correlazione con un habitat dalla ratio e dalla chimica siffatti, sono state portate a compimento le anamnesi più documentate e appaiono registrati e pubblicati i suoi valori funzio-nali di cui sarebbe opportuno, per quel che io ne penso, asseverare e rilanciare qualità di conoscenza e di intervento.

Ancora una volta scelgo uno studio-campione su cui poggiare alcune sinte-tiche riflessioni; e rivado pertanto al Saggio come forma di Adorno, le cui argo-mentazioni mi sembrano reggere più di una prova di carico e conservare tuttora vitali, appropriate e raccomandabili, alcune indicazioni operative.

Indubbiamente la filosofia della scrittura saggistica secondo Adorno, come si legge nel pezzo raccolto nelle Note per la letteratura, è profondamente pervasa e distinta da un rigore prossimo alla auto-sacralizzazione, ossia da una assolu-tezza austera, finanche supponente, che prescrive la negazione di adempimenti strumentali, con le loro possibili ricadute eteronome o di tendenza quand’anche antagonista, che abbiano svolgimento dentro/contro l’universo della comunica-zione, non pregiudizialmente fuori di esso. Nondimeno un tale rigore, per quanto prossimo ad estremizzazioni ascetiche, ottiene risultati rimarchevoli.

La divisione del lavoro e la cerchia autoreferenziale delle accademie, a tutela del potere loro, hanno imposto il criterio di una strettissima funzionalità econo-mica degli studi di pertinenza dei vari settori disciplinari, dai quali è fatto divieto di uscire quand’anche per brevi sortite; e quegli studi nel linguaggio corrente sono definiti saggi, cosicché saggio scientifico, saggio letterario, saggio politico – e chi ha più aggettivi, più ne metta – sono i nomi scelti a designare, magari, articolesse buone per oltrepassare linee mediane e barbose convalide di equi-valenze sulla scorta di metodiche unilateralmente determinate nonché in riferi-mento ad ordinamenti prestabiliti.

Il saggio, sulla cui forma il filosofo tedesco si sofferma per poterne eviden-

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ziare il contributo fondamentale alla riflessione e alla conoscenza, è tutt’altra cosa, invece.

Merita di essere chiamato saggio un testo che non esclude dal suo campo di operazioni una dimensione tendenzialmente eretica e antisistemica; e che si conduce nella libertà di scegliere gli oggetti, non sorvolando, se del caso, sui particolari anche minimi: l’attenzione per i frammenti è decisiva, dirimente.

È compito del saggio non accettare o catalogare, ma interpretare; e sono controindicate tanto l’esclusività, quanto la pretesa di esaustività: il saggio resta “aperto”, disponibile ad una prosecuzione che è prevista in nuce nel suo stesso statuto.

Il saggio denuncia l’illusione di pensare di evadere da ciò che è cultura, e contravviene alla presupposizione di un itinerario che guidi ad una realtà come avente gli stigmi di ciò che è natura, e che finisca risucchiato nell’immediatezza, che è sottratta all’arbitrio e che è posta pertanto a luogo d’elezione di una verità unica: l’ambito del relativo (ovvero dell’escussione critica dell’arbitrario: «la pretesa di verità avanzata dalla singolarità viene presa alla lettera sino a giungere all’evidenza della sua falsità»; «il saggio sospende il concetto di una realtà prima e si rifiuta di ricavare dalla natura i fili della cultura»; «il saggio si immerge nei fenomeni culturali come in una seconda natura, una seconda immediatezza, per distruggere, con tenacia, la loro illusione») segna incontrovertibilmente il suo orizzonte.

Conviene al saggio una intermodalità culturale che favorisca la sua libertà di scegliersi gli oggetti e di far valere l’esercizio del dubbio, che cresce e s’af-fina alimentandosi del confronto e del passaggio antisistemico attraverso diversi sistemi di conoscenza; e gli conviene una modalità costruttiva che faccia leva anche su di una funzione espositiva per la quale la cura del linguaggio coin-cide con un investimento remunerativo di valori di conoscenza (ciò che induce Adorno a ragionare sopra da dialettica di forma aperta e forma chiusa che anima il testo saggistico).

E non il prescindere da qualunque oggetto, facendosi sede di una deriva che santifica la assolutezza irresponsabile del ruolo autoriale, il tenerlo in conto e il misurarsi con esso, nella convinzione che il percorso interpretativo si svolge nel quadro delle determinatezze storiche della cultura, sono requisiti obbliga-tori del saggio (che si raccomandano, aggiungo io, a quanti ne hanno perso la memoria sedotti da misticherie ermeneutiche o da fregole decostruttive senza autocontrolli, che sanno di letteratura tout court). Scrive Adorno: «Il disagio è invece fuori posto perché la costellazione del saggio non è arbitraria come pensa un soggettivismo filosofico che trasferisce la stringenza dell’obiectum in quella dell’ordinamento concettuale. Definiscono il saggio l’unità del suo oggetto e l’unità di teoria ed esperienza entrate nell’oggetto stesso. La sua non è l’apertura vaga del sentimento o delle sensazioni ma apertura che riceve contorni precisi dal contenuto specifico del saggio. Questo si ribella all’idea di opera fonda-

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mentale, rispecchiante a sua volta l’idea di creazione e di totalità. La forma del saggio scaturisce dal concetto critico che nega che l’uomo sia un creatore e che alcunché di umano sia creazione. Riferendosi sempre a cose già fatte, il saggio non si presenta mai come creazione né cerca qualcosa di onnicomprensivo, la cui totalità sia analoga a quella della creazione». E poco prima, in questa sua nota per la letteratura, è fatto impiego di un passo di Max Bense pienamente condi-viso: «È qui che un saggio si distingue da un trattato. Scrive con lo stile tipico del saggio colui che compone sperimentalmente, volta e rivolta il suo oggetto, lo interroga, lo palpa, lo esamina, lo penetra con la riflessione; colui che lo affronta da angolature diverse, raccoglie entro la propria visuale spirituale ciò che vede e traduce in parole quanto l’oggetto mostra di sé nelle condizioni create nella scrittura».

A suggello, ancora Adorno: «Esso logora le teorie che gli sono vicine; la sua tendenza è sempre rivolta a liquidare l’opinione, anche quella con la quale esso inizia. Il saggio è ciò che è stato sin dall’inizio, la forma critica per eccellenza; e cioè, in quanto critica immanente di produzioni spirituali e confrontazione di quel che esse sono col loro concetto, critica dell’ideologia».

La critica letteraria, per rilanciarsi e così svolgere una funzione che ne resti-tuisca il significato e il valore di critica dell’ideologia, dovrebbe modularsi sulla forma del saggio, la forma critica per eccellenza. Ma di questo, semmai, in un “continua” eventuale, in una prossima puntata.

Marcello Carlino

Adriandi Gianluca Di Stefano

Bianco o rosso, è lo stessodi Gianluca Di Stefano

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Cosimo Cinieri l’epico e il suo pubblico-popolodi Cesare Milanese

Cosimo Cinieri proviene dalle avanguardie degli anni Sessanta, quelle più “flagellate” dalla tribolazione linguistica (sia nei pro, sia nei contro), avendo anche attraversato, per quello che lo riguarda più direttamente, più che il lessico, l’eloquio avventurato e irrelato di Carmelo Bene, di cui fu un sodale, ma per assestarsi ben presto, a modo suo, nella canonicità della Lingua intera e severa, ritenendo, giustamente, che lì, in questa canonicità, la Parola, nella sua essenzia-lità (qui il ricorso alla sistematicità saussuriana è indispensabile) risuona meglioe significa meglio. Cinieri predilige far uso della Lingua-Parola nella sua forma-lità definitiva. Non è a caso che il suo teatro si presenti all’insegna del saper far buon uso dei “classici”.

Dal punto di vista della disposizione linguistica, Cosimo Cinieri si può defi-nire un fondamentalista. E lo è anche per il suo modo di concepire la funzione e il mestiere di attore: totus actor, infatti. La sua stessa fisicità, nativamente attoriale (scaenicus homo nato, per l’appunto), glielo consente. Che poi egli sia anche ideatore, regista, elaboratore, Dramaturg, visore-revisore di testi d’autore, scenotecnico e “competente” di supporti tecnici e multimediatici, vuoi verbali, vuoi sonori e vuoi iconici, fa parte di un’esigenza di completezza e di una neces-sità di “autonomia” che gli rende possibile l’operare, in completezza, “da solo”. Il saper operare da solo è il suo denotato e anche il suo connotato.

“Suo” è la parola giusta. Infatti, il suo teatro è suo, anche perché Cinieri si è costruito per sé un pubblico tutto suo. Un pubblico che si è saputo formare in ragione di una poetica ad hoc, circostanziata e praticata da lui nel corso ormai di decenni e che ha le caratteristiche di una vera Kultur, che comporta un lavoro d’uso e di riuso dei “giacimenti” letterari di tutte le epoche. Sia che si tratti dei lacerti della Beat Generation (1978), sia che si tratti della rivisitazione dei “clas-sici” veri e propri, fino ad arrivare alle “voci” del nostro tempo: Da Omero a Neruda: versi divini (2008). Al centro di questa progettualità si colloca la rievo-cazione appassionata dei “fondamenti poetici peculiari” della tradizione italiana. E qui i titoli dei suoi spettacoli più riconoscibili e anche più popolari, parlano da soli: quali Canzoniere italiano (2007) e Italia mia (2011).

Attore per materiali atavici, quindi, questo Cinieri. Il che costituisce una prova in più del suo fondamentalismo di elezione, anche se praticato in modalità estetiche scrupolosamente aggiornate. Comunque sia, è indubbio che Cinieri si presenta come un “aggiornatore” dell’arcaico. Va da sé che, a supporto di questa propensione e disposizione, ci sia un’elaborazione teorico-tecnica circostanziata, dovuta alla riuscita, in termini di continuità e di tenuta, del sodalizio Cinieri-Palazzo: Cosimo e Irma Immacolata. Ed è proprio su Irma Immacolata Palazzo,

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che deve essere posto l’accento dell’attenzione per una giusta comprensione del fenomeno Cinieri, giacché spetta a Irma presiedere, in fase di concezione e di preparazione, al lavoro di drammaturgia e di regia, di cui lei rappresenta la coscienza da sorveglianza critica, oltre che creativa. Di conseguenza, il soda-lizio Cinieri-Palazzo si configura come uno studio-laboratorio, dove la consueta attività dello studiare ciò che si mette in prova, e del mettere in prova ciò che si studia, si articola su un intendimento molto preciso: far sì che l’“aspetto” dello spettacolo, elaborato e proposto, risulti semplice e facile, felicemente esente da ogni traccia di affanno e di fatica, per chi lo percepisce, vale a dire il pubblico. Il pubblico partecipe di Cinieri, attore quanto mai partecipe del suo pubblico stesso.

Tutto ciò in ragione di una volontà di empatia, ottenuta non soltanto fidandosull’insorgenza spontanea dell’empatia stessa, bensì come risultato di una consa-pevolezza dei dinamismi sensoriali, psichici e logici, che stanno alla base di una presa di visione del punto di vista scientifico dedicato agli aspetti della senso-rialità e della percezione, risalendo magari alle origini delle grandi indagini specialistiche su questo campo, rifacendosi addirittura ai fondatori di questo tipo di ricerca, William James-Carl Lange (1884-1885). Come si vede, l’approccio di lavoro dell’ensemble Cinieri-Palazzo, non è solo di tipo letterario, ma anche scientifico, che per quanto riguarda le discipline psicologiche, a mio parere sez’altro, rinvia implicitamente, anche se non dichiaratamente, alle teoriche della Forma, tipiche della Scuola della gestalt. E qui mi riferisco in particolare a una caratteristica procedurale e stilistica insieme, con cui Cinieri mette in scena lavori che egli stesso definisce come “drammaturgia breve” (un suo ”genere” peculiare, che lo qualifica in modo particolare).

Si può e si deve parlare di ricorso alla teorizzazione della gestalt, soprattutto nella “drammaturgia breve” di Cinieri (e qui non si può far a meno di citare il suo Macbeth del 1982-1983) per la presenza in essa di un’evidente tendenza alla stilizzazione, anche geometrizzante, che, difatti, si può considerare come una costante formale della formula complessiva del teatro Cinieri-Palazzo. Formula orientata a tener conto degli aspetti connessi alla percezione, intesa giustamente come fattore determinante per giungere, con valore d’immediatezza, sia all’emo-zione e sia all’intellezione. Ed è precisamente intorno a questo circolo erme-neutico particolare del percepire-sentire-intendere, individuato dalla teoria della Gestalt, e che costituisce una specie di assioma estetico fondamentale, su cui fanno perno tutte le arti in genere, che la procedura teatrale della Cinieri-Palazzo si assesta.

Questo per quanto concerne una questione di “principio” teorico comples-sivo, d’ordine generale; per quanto riguarda, invece, la procedura creativa e produttiva, si è già detto del ruolo fondamentale svolto da Irma Immacolata per la parte creativa, per la parte critica e per la parte registica. Il suo essendo, prima di tutto, un lavoro di reperimento e di scelta dei testi tra un vastissimo

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elenco di autori di epoche e “culture” diverse (e anche disparate). Testi, che, una volta scelti, possono essere sottoposti a scomposizione e successivamente riuniti per “assemblaggio”. Lavoro che si può anche definire come un “darsi da fare” intorno a “questioni di parole” (da associare e concordare con altri “segni”, iconici, gestuali e soprattutto sonori, giacché nella teatralizzazione “cinierica”, la musica si fa fattore essenziale). Ebbene, questo “darsi da fare” intorno a questioni di parole, anche se praticato nei termini del bricolage usuale delle avanguardie, in qualche modo è anche una specie di rievocazione, a matrice più inconscia che conscia (e a questo proposito un altro “grande” conoscitore delle misteriosità del profondo, Gustav Jung, ne darebbe conferma), di una forma da duplicazione delle pratiche archetipiche attribuite alle antiche Pizie.

Non c’è da farsene meraviglia. È proprio della procedura generativa delle avanguardie odierne (per esempio con il ricorso alla tecnica del cup-up: lo chia-mano così i cultori del ricorso all’espediente del trattamento stocastico dei testi) “tagliare” in segmenti testi organici per ricomporli ai fini di un senso “altro”. Benché (sia detto fra parentesi) la preoccupazione principale del trattamento dei testi nella poetica concepita dal binomio Cinieri-Palazzo sia quella di rispettarne il senso “proprio”. Sta, di fatto, però, a proposito di analogia delle tecniche mani-polatorie e combinatorie dei vaticini antichi e delle versificazioni della nostra contemporaneità, come sia da notare che è operando per segmenti e lacerti che le Pizie della tradizione mitologica “inventavano” i loro responsi. E l’arte del far teatro, per quanto modernizzata, laicizzata e grammaticalizzata dagli struttu-ralismi odierni, resta pur sempre una pratica ritualmente legata a una certa idea dell’essere un’arte, il cui fine principale sarebbe quello di riprodurre, produrre e perpetuare tutto ciò che fa mitologia. In teatro è l’immaginario che costituisce il reale, se non altro perché lo sostituisce. Cinieri, da buon fondamentalista del teatro, ne conviene. E vi si attiene.

Ma torniamo ancora un momento sul lavoro da laboratorio, quello in cui vede impegnata particolarmente Irma Immacolata Palazzo sul “bancone”. In qualche modo si è già detto che una cura particolare è rivolta a far sì che nello spettacolo, quale sarà “esternato” dalla demiurgia attoriale di Cosimo, la componente atti-nente alla parte concettuale non sia mai disgiunta da quella emozionale. È una questione di equilibrio e di messa in simbiosi. Ma si deve anche dire, che poi, “in mano e in voce, cioè in corpo” a Cinieri, il fattore emozionale tende a sopra-vanzare, tuttavia con una ragione che si rifà a una motivazione che è sempre attinente a una poetica: l’esternazione teatralmente riuscita di un’emozione deve costituire un accadimento che dia luogo, per chi vi assiste, a un evento “da vivere”. Un derivato anche questo, forse e probabilmente senza forse, del messia-nismo di Carmelo Bene, di cui, peraltro, anche Irma Immacolata Palazzo è stata coadiutrice. Ovviamente tutto ciò si pone in dimensioni contenutisticamente e formalmente del tutto diverse (siamo in mondi diversi, Carmelo Bene andava in direzione dell’eversività della primitività, Cosimo Cinieri va in direzione

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della canonicità dell’arcaicità). E qui si pone l’occasione di dar conferma di una constatazione fondamentale nella formazione e conservazione delle “forme”, che costituiscono l’essenza e la storia delle arti: formazione e conservazione che avvengono, però, passando attraverso la loro trasformazione e la loro muta-zione. In questo “scarto” per continuità e differenza tra Carmelo Bene e Cosimo Cinieri, si può dire che il modo di operare della Compagnia Cinieri-Palazzo stia scrivendo un paragrafo esemplare della metamorfosi delle forme. Si suggerisce di dare trascrizione di questo dato di fatto nei manuali che si occupano di questa questione essenziale.

Veniamo, però, alla “differenza specifica” del laboratorio Cinieri-Palazzo: una ricerca condotta, fin dalle origini, ormai più che trentennali, con criteri di rigorosa professionalità e altrettanto attenta progettualità, in direzione di tre strade parallele, autonome, anche se collegate. 1) la teatralizzazione della poesia in congiunzione con la musica; 2) Il rinvenimento-reivenzione dei classici, ripro-posti nello spirito della contemporaneità (sono classici quegli autori che risultano essere sempre contemporanei); 3) il dar auge alla valorizzazione della “dram-maturgia breve”. E, in effetti, Cinieri è un maestro del saper portare a “misura breve” anche testi da “misura lunga”: il suo, già citato, Macbeth, realizzato asezioni brevi, scandite con geometricità da Gestalt, come si è detto, ne è stato un esempio di notevole riuscita. E anzi, su questa idea della drammaturgia breve, diventa più che opportuno rilevare che si tratta di un’intuizione indiscutibilmente felice, proveniente anche questa dall’esigenza di riduzione della complessità alla semplicità, che, per la Cinieri-Palazzo, costituisce un obbligo di Scuola. Peraltro, il concetto di “misura breve”, che costituisce il principio che porta alla scelta della “drammaturgia breve” (sintetizzabile in questi termini: durata breve, ma ad alta intensità espressiva), corrisponde egregiamente ai canoni della “nuova esteticità”, propria dei tempi più strettamente odierni e soprattutto quelli della futurità. Pertanto, buona fortuna alla formula. Per inciso, si noti come i testi poetici dei Recitals, per cui Cinieri è particolarmente noto, sono già di per sé predisposti, strutturalmente, alla “misura breve”.

Dicendo “breve” non s’intende, però, il da compiersi in un tempo sottoposto a riduzione del tempo dovuto, ma da contenersi nella misura, per l’appunto, del tempo dovuto (né di più né di meno), il che significa in tempo a pieno. Ed ecco individuata, così, una categoria espressiva che caratterizza l’attorialità di Cinieri: la sua pienezza. Pienezza a oltranza, si direbbe. Infatti, le scelte cadono sempre su poesie di pienezza e su musiche di pienezza. È bene tener presente che Cinieri pratica il genere dell’epica, non quello dell’elegia. Per cui, poesie di pienezza e musiche di pienezza, le quali, una volta congiunte nel dispiegamento della spettacolarità, a suo modo di vedere, di concepire e di sentire (quello di Cinieri, ben s’intende), non possono che dar luogo a una specie di teatralità superlativa, chiamiamola pure una teatralità “a esaustività”. Inevitabile, perciò, anche l’esu-beranza.

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E ben venga. È importante che l’esuberanza ci sia. Esuberanza anche a ridon-danza, come effetto voluto e ottenuto per merito della risonanza dei materiali impiegati, sia verbali, sia gestuali e sia soprattutto musicali. Questi ultimi, infatti, “reperiti” e utilizzati in particolare per la loro imponenza primordiale come lo sono, già di per sé, i suoni alti, vasti e del tutto aperti, della musica per banda. Il ricorso alla musica per banda è la vera “trovata” di Cosimo Cinieri. Non c’è niente di più adatto, infatti, della musica per banda per esibire la prova del consegui-mento di pienezza della musica stessa, con quel sovrappiù di musica (una musica d’eccesso), che la banda porta con sé come suo stigma d’eccesso straripante, per l’appunto.Niente da eccepire a proposito di esiti di questo tipo che si otten-gono, in virtù del ricorso alla musica per banda, col massimo della semplicità, dell’immediatezza, della piena percettibilità e del massimo della voluminosità dei suoni “musicati”, anzi da diapason del vertice di questi suoni: uno squillare a stormo, dimensione, pertanto, nella quale tutte le altre musiche, senz’altro anche più dotte e più artisticizzate, non osano avventurarsi. E per lo più in contesto del massimo della efficacia emotiva, quasi un ricorso all’elementarità, tanto da poter trarne il massimo del diapason dei suoni: lo squillare a stormo, dimensione nella quale le altre arti musicali, più dotte e più artisticizzate, non osano avventurarsi (e, in effetti, non lo possono e non lo devono). Mentre Cosimo Cinieri, uomo-attore attratto dagli “strani attrattori” dell’epico, invece, vi si avventura imperter-rito. Quello squillare a stormo, lui lo fa diventare il suo podio.

È un podio da capopopolo, dall’alto del quale egli, diventando, fantasmati-camente s’intende, ma anche, sia pure sempre fantasmaticamente, la personifi-cazione della sua stessa interpretazione (Gustav Jung spiegherebbe benissimo questo processo di traslazione metamorfica dell’identificazione). È a questo punto che Cinieri mette a punto l’incontro con il suo pubblico particolare. Un pubblico, che non è soltanto pubblico da teatro, ma anche da raduno di popolo, soprattutto se si tiene presente che i “contenuti” verbali e sonori, che Cinieri espone nella sua assunzione a figura da bardo o banditore di un sentire comune, sono di per sé contenuti corali e collettivi, perciò questo “suo” pubblico li rico-nosce come propri, e pertanto non può non essergli riconoscente. Riconoscente è parola che rinvia, nella sua radice, alla parola riconoscimento. Allora si capisce tutto: quindi, è un cerimoniale del riconoscimento identitario ciò che Cinieri sta mettendo in atto. La sua, pertanto, è cosa ben altra da quella del limitarsi ad alle-stire un evento da intrattenimento. Infatti, se diamo uno sguardo al suo repertorio, si scopre ancora meglio, se così ci si può esprimere, la sua “intenzione d’ambi-zione”: visti e considerati i materiali da lui proposti, interpretati e usati, colpisce l’audacia di quel mettere insieme contenuti alti e contenuti bassi, il presente e il remoto, l’uniforme e il disforme, il sacro e il profano, il casto e il licenzioso, l’austero e il corrivo, sovrapponendo i piani senza paratie da discrimine. Che è quanto basta per avviare una segnalazione censoria di ecletticità e di sincreticità, ma poi si capisce che Cinieri intende andare di là, ambisce a una visione, non

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di confusione, ma di fusione delle disparatezze dei “discorsi del mondo” a giro d’orizzonte totale. Oggi si direbbe globale. Sia quel che sia, l’effetto di stupore censorio, che un simile elaborato suscita in chi se ne sente al di fuori, certamente si avverte. Ma chi “se ne importa” di chi si pone al di fuori! La perplessità si dissolve da sé, se in quell’elaborato si decide di entrarci e di starci, acculturati o sprovveduti, informati o disinformati, intenditori o orecchianti (i meno recettivi compresi) che si sia. Vi si trovano benissimo tutti. E tanto basta.

Sia pure alla rinfusa e nell’incompletezza, aiuta meglio a capire il progetto d’insieme del duo Cinieri-Palazzo, dando una scorsa a due liste di autori: gli autori di parole e gli autori di suoni. Per gli autori di parole: Catullo, Marziale, Aretino, Poe, Verlaine, Swift, Metastasio, Alfieri, Belli, d’Annunzio, Montale, Palazzeschi, Pavese, Lorca, Apollinaire, Miller, Ferlinghetti, Ginsberg, Corso, McClure, Pessoa; e magari Shakespeare al centro… Per gli autori di suoni: Strauss, Manfredini, Borodin, Leoncavallo, Ponchielli, Debussy, Di Candia, Smetana… Insomma, da Bach a Nino Rota. Il catalogo riservato agli autori d’Italia (sia poeti, sia musici) (una cosa tutta di Cinieri, con tanto di occupazione manu militari, poiché si avvale anche delle bande dell’Esercito e dei Carabinieri) fa capitolo a parte. Si va da Francesco d’Assisi a Pasolini, con Dante “Viandante”, Leopardi cosmico, Foscolo eroico, Rossini fastoso e festoso, Verdi patriottico. Ma vi compaiono anche poeti viventi, purché “nazionali”. Visti gli elenchi si ha così l’impressione che Cinieri stia dando di piglio, per spirito di ludicità, a un caleidoscopio gigante, per ricavarne effetti da planetario celebrativo delle sacre glorie. Il genere epico stesso non consente che, con simili materiali, si proceda con ritenutezza, meglio, anzi, se si deborda.

Ed è, senz’altro, per questa tendenza che “esorta” al debordare, che Cosimo Cinieri, ligio a una simile precettistica (non ha motivi per esserne contrario), si avvale, con felice intuizione, del medium che la comprova: la musica per banda, la musica più a ”cielo aperto” che ci sia, contando su un effetto d’emozione, che “in natura” non ha l’eguale, se non nel suono delle campane, con il potere, che è loro proprio, di suscitare l’insorgenza, a intreccio, di due sentimenti contrastanti: felicità e tristezza, allegria e malinconia, festa e nostalgia. Due sentimenti di per sé contrari e letterariamente “ingenui”, che considerati separati si connotano per la loro semplicità, ma che percepiti fusi e intrecciati sono generativi di un’in-sorgenza emotiva quanto mai densa di complessità, sia formale e sia contenuti-stica. Una complessità ad alta valenza rievocativa di una totalità d’ideazione e di sentimentalità, che si addensa intorno a un bisogno-abbandono di reminiscenza, per cui, giustamente, Maurizio Grande, parlando dell’operare teatrale di Cosimo Cinieri, lo aveva individuato come uno “scavo nella periferia della memoria”. Più che ben detto, perché detto in sintesi: il teatro di Cinieri, essenzialmente è un fatto di rammemorazione.

Scavo di rammemorazione, che significa anche scavo al centro dei testi. Ed è in questo scavo da ricerca e ricomposizione dei testi, come si è già detto, che Irma

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Immacolata Palazzo svolge il suo ruolo interno, con l’occhio del rigore. Tanto che, a testo configurato e approntato per essere posto “in vivo”, da parte di Cosimo (e occorre dire che si tratta sempre di un testo sottoposto, in sede di laboratorio, alle eccedenze, ai travisamenti, ai ribaltamenti e alle deformazioni di senso del caso, per vizio-virtù d’eredità che viene dalle avanguardie, sia pure d’antan), si deve supporre che Irma Immacolata si pronunci in questa maniera (d’altronde sono parole sue): “Questo è il testo. È anche concesso di andare di là di esso, tuttavia senza toccarne la stesura.” Con quest’aggiunta in più: “Ma anche di là, cioè al di fuori, di ogni didascalia e di ogni ideologia.” Impeccabile, questa Irma.

Cinieri, in tutto ciò, si dichiara ovviamente assenziente, ma sulla scena lui è Cinieri-Cinieri: il suo modo di andare al di là del testo, pur “rispettandone la stesura”, è tutto da motu proprio, per estro, autoctonia e maestria d’attore, virtuosismo compreso (quia nominor leo). Peraltro, il virtuosismo, nell’arte del teatro, è indispensabile alla performatività richiesta dal genere. Guai se questo fattore d’impertinenza non ci fosse. Il vero attore, l’attore di natura (e Cinieri lo è), è designato a dover agire con questa impertinenza pertinente, perché, se questa non c’è, ne va della sua auctoritas con il suo stesso pubblico. È il varco dell’applauso che lo comprova. E va detto che, in quanto a possesso di questo tipo di virtuosità, Cinieri non viene certo meno per difetto. Un dato, questo, che fa di lui, quando sale sul suo podio, qualcosa di più di un attore che interpreta gli autori di cui recita i testi, alla sua maniera, con un che da mistagogo e da sciamano (che è ciò che fa di lui un attore-personaggio), incline a profondere la seduttività dei contenuti che espone. Tra questi, quelli appositamente prescelti per gli argomenti seducenti per loro stessa definizione, ad argomento libero e libertino, anzi scopertamente e compiacentemente erotico. Diamine, si tratta pur sempre di “classici”!

Qui, i “classici” sembrano, invece, una scusa. In realtà si ha l’impressione che si tratti piuttosto di una propensione per una certa paganità da sottofondo, che Cinieri, nel suo panteismo spontaneistico, estende anche a tematiche “cristianiz-zate”, giacché a lui, rifacendosi a Terenzio, tutto ciò che ha anche fare con l’umano gli va bene: lui, il degno, il bello e il sacro, lo trova sia nel carpe diem (in jazz) di Orazio (2011), sia nel carpe Deum di san Francesco (quando capita, sempre), e sia nel Cherchez la femme (1981-1982) di un Aretino, di un d’Annunzio, di un Miller… Non c’è da meravigliarsi se i critici hanno riscontrato in lui, per questo suo indifferenziato compiacimento nel mettere tutto in una stessa commistione, che comprende pariteticamente tutto, un guizzo di “perfidità”, che induce alla sospet-tosità che vi sia dietro il ricorso, voluto e “intenzionato” a una simulazione che allude, in qualche modo, alla figurazione del demonico. Caso e natura vogliono che Cosimo Cinieri abbia la facies del ruolo, anche se messa al servizio del suo panteismo rassicurante e beneficamente esaltante, come la vita richiede.

Cesare Milanese

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Il romanzo dello scarto: la «Funzione Beckett» nel romanzo sperimentale italianodi Fabiana Cecamore

Il richiamo a Samuel Beckett e alle opere della Trilogia è tappa obbligata per ogni lettura critica che voglia confrontarsi con la portata internazionale del discorso letterario in cui si inscrivono i romanzi della neoavanguardia. Si tratta di una specifica importante non solamente a livello metadiscorsivo, laddove i frequenti richiami all’opera di Beckett permettono di identificare nei romanzi traits d’union molto utili alla comprensione di tali opere, ma anche e soprattutto dal punto di vista della ricognizione delle ragioni sperimentali che presiedono alla scrittura di esse, data l’importanza dei riferimenti alla Trilogia nel contesto critico da cui queste provengono. Nella varietà dei modelli internazionali sele-zionati dagli animatori del dibattito neoavanguardistico, l’assunzione del Beckett di Molloy, Malone meurt e L’Innommable dipende dalla sua importanza come apripista di una deviazione dalle strade maggioritarie dell’antinaturalismo, di cui l’Ulisse di James Joyce è il più illustre esempio. Se l’aspirazione del romanzo joyciano è l’apertura del testo alla totalità e all’illimitatezza del reale, la narrativa di Beckett prende forma a partire dal riconoscimento, dietro quell’istinto di «concupiscenza conoscitiva»1, di una visione ancora legata alla lezione del natu-ralismo e alla sua egemonia. L’indomita proliferazione linguistica che anima e caratterizza l’Ulisse rappresenta infatti un diverso modo di interpretare la mede-sima ambizione enciclopedica ravvisabile nel romanzo ottocentesco, di cui viene in effetti riproposta la tensione all’integralità – rappresentata allora dall’onni-scienza tipica del narratore ‒, sebbene rimodulata in chiave coscienziale. Una ancor più radicale idiosincrasia verso il romanzo borghese e i suoi retaggi si delinea invece nei primi romanzi di Beckett attraverso un linguaggio che, consa-pevole della sua limitatezza, della sua parzialità, della sua impossibilità di espri-mere a pieno il caos e lo smarrimento vigenti nel reale, esaspera questa sua irrevocabile condizione operando sulla riduzione all’osso della verbosità tipica dei «romanzi dell’integrazione»2. Nell’intento programmaticamente dichiarato di «liberarsi di Joyce»3 affondano dunque le radici di una parole letteraria che licenzia ogni «norma» linguistica e narratologica comunemente accordata al romanzo, e che si oppone alla letteratura del «tutto» di cui è figlia la proposizione «esplosa»4 dell’Ulisse, collocandosi dalla parte del «vuoto». Ciò che interessa

1 F. Jameson, Esperimenti col tempo: realismo e provvidenza, in Il romanzo, F. Moretti, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 183.

2 G. Gramigna, La menzogna del romanzo, Milano, Garzanti, 1980, p. 12.3 J. Knowlson, Samuel Beckett. Damned to Fame, London, Bloomsbury, 1996, p. 189.4 S. Agosti, Frasi, «il verri», n. 6, 1998, pp. 11-16.

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buona parte degli sperimentatori è il costante gioco di provocazione linguistica con cui Beckett interviene, appunto, nel «vuoto», ricavandone la risorsa primaria per la costruzione del mondo narrativo della Trilogia, oltre che uno strumento per la definitiva smentita della necessità del carattere conoscitivo del testo. La possibilità di individuare una «funzione Beckett»5 nei romanzi della neoavan-guardia dipende perciò dall’influenza esercitata dal linguaggio elaborato da Beckett e dalla sua coerenza con gli intenti della neoavanguardia di restituire al romanzo la sua autonomia di oggetto artistico. Occorre dunque individuare in quali aspetti costitutivi di questa «parole del vuoto» risiedono i principali luoghi d’interesse per uno studio comparativo che abbia appunto come oggetto la «funzione Beckett». L’attenzione nei confronti della Trilogia dipende senz’altro dall’interpretazione offerta da Beckett circa l’autonomia del romanzo, impostata sul recupero dei suoi valori a partire, appunto, dal «vuoto» comunicativo gene-rato dal costante conflitto dell’individuo con il linguaggio. La sconfitta dell’io contro l’irrimediabile limitatezza dello strumento linguistico è infatti la protago-nista di una rappresentazione che, giocata tutta sull’esibizione di un’innaturale esclusione del soggetto dal suo armamentario espressivo, restituisce tale idea di «vuoto» attraverso un linguaggio estremamente impoverito. La «povertà» è infatti tratto specifico dell’enunciazione castrata, «implosa»6, del monologo deli-rante su cui si sorregge la narrazione della Trilogia; risultata dal progressivo meccanismo «del sottrarre piuttosto che dell’aggiungere», essa si configura tanto a livello grammaticale, nell’elementarità dell’espressione, tanto a livello lessi-cale, nella sua ristrettezza, quanto a livello sintattico, nel suo dissesto generale. Nell’allucinata erosione e scabrezza del «parlato» beckettiano, il problema del «vuoto» si fa dunque segno linguistico, trasferendosi nel discorso come cifra portante della sua alienazione. Chiave principale di questo lavoro di straniamento della parola è l’opzione per il francese, lingua non materna, scelta in virtù della sua attitudine ad una scrittura «senza stile»7, in conformità con l’intento di mani-festare prima facie il dissidio vissuto dal soggetto nei confronti del mondo e di sé stesso, tramite un’espressione non naturale. Altro importante elemento di linguisticizzazione del «vuoto» riguarda l’andamento singhiozzante del racconto del protagonista, colui il quale, pur nell’incapacità di attribuire un ordine razio-nale alla narrazione – che infatti si disintegra, perde di ogni linearità e logica, e viene condannata ad auto-invalidarsi continuamente –, è convocato a rappresen-tare sé stesso enunciandosi, a dar prova del suo smarrimento col suo parlato «ronzante». La sua «parola ossessiva»8, disgregata e distorta, torna infatti conti-nuamente su sé stessa, costringendo il suo discorso entro un circuito chiuso sul quale egli dimostra di non avere alcun potere. Egli, d’altra parte, non presenta

5 L. Weber, Con onesto amore di degradazione, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 11.6 S. Agosti, Frasi, «il verri», n. 6, 1998, pp. 11-16.7 Come Beckett dichiara in un’intervista del 1957, citata da A. Serpieri in Storia della letteratura

inglese, a cura di F. Marenco, Torino, Utet, 1996, pp. 733-763.8 L. Weber, Con onesto amore di degradazione, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 25.

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altri attributi che la sua parola; è un essere informe, «costruito» anch’esso per sottrazione, ridotto ad un corpuscolo in decomposizione, ad una semplice «presenza vocale» capace solo di manifestare tutte le insufficienze del non-knower e non-caner, simile, più che al topico «personaggio uomo», ad un «mormorio molecolare»9. Ulteriore particolarità della zoppicante parlantina del protagonista, infine, è la manifesta provenienza dei suoi referenti principali dalle zone del recesso psichico. Matrice fondamentale del linguaggio, nonché radice della stessa narratività del testo, è infatti il nugolo di significati altri, non deco-dificabili nella comunicazione convenzionale, contenuto nel buio dello «scarto» dal linguaggio dell’ordine. In quel buio il linguaggio si immerge per recuperare i segni del patologico e dell’impotenza, dell’ignoranza e della passività, di ciò che, strozzato dai «sani principi del vivere»10 del mondo borghese, si combina e si scompone nella sconnessa «antilingua dell’antipensiero»11. Compaiono così gli abietti «detriti del mondo»12, dagli escrementi alle perversioni, i contenuti «spuri» implicitamente compresi nel reale, legati all’angoscia e all’inazione, trasformati nel materiale d’impasto delle forme volgari, contraddittorie e defor-manti che dilaniano l’espressione del protagonista. In conclusione, il «vuoto» che nella Trilogia viene problematizzato a tutti i livelli della parola genera un distacco tale dalla ricchezza, dalla linearità e dall’ordine rappresentate dal linguaggio comune, che l’intero racconto-delirio del personaggio finisce per proporsi come voce dell’esatto rovescio del «mondo emerso» ‒ il reale in cui si collocherebbero le forme di comunicazione «normali». Simile fuga dai rapporti di referenzialità e di organicità con il reale si realizza in una «parole del vuoto» che è un «negativo» del linguaggio, che è sede dell’alternativa più radicale alla realtà, e nella costruzione di un mondo votato al non-sense, nel completo isola-mento di quel non-sense entro una realtà dunque autosufficiente, in grado di offrire una sede all’indicibile, di renderlo «qualcosa». Risulta dunque evidente a quale molteplicità di livelli il problema linguistico del «vuoto» sia posto in stretta correlazione con le qualità dell’autonomia del testo. È infatti nell’autonomia dal reale, nel rifiuto di ogni «senso» che non abbia a che fare con l’afasia di cui si costituisce il linguaggio, che si compie la rappresentazione beckettiana dell’emar-ginazione dell’individuo - escluso, oltre che dal contatto con l’Altro, dalla propria vicenda personale. Ed è pur sempre nell’autonomia che tale rappresentazione può conferire al «vuoto» valore di dimensione eterotopica, di nuovo «mondo possibile», parallelo al reale, cui ricondurre il superamento del Fantastico e l’As-surdo: un mondo in cui la stessa idea di separazione fra realtà e finzione viene invalidata nella costruzione di una «lingua dell’inesprimibile» capace di acco-gliere tutto ciò che nel reale è innominabile. Nel ritorno al «vuoto» come ritorno

9 G. Gramigna, La menzogna del romanzo, Milano, Garzanti, 1980, p. 28.10 R. Barilli, cit. da N. Balestrini, A. Cortellessa, Gruppo 63. Il romanzo sperimentale / Col senno di

poi, Roma, L’orma, 2013 p. 13.11 L. Weber, Con onesto amore di degradazione, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 13.12 G. Cauteruccio, Samuel Beckett Nel buio del teatro accecante, Firenze, Edizioni Clichy, 2016.

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all’isolamento delle qualità autonome del linguaggio, nell’utilizzo di queste fina-lizzato alla costruzione di mondi interamente sorretti da congegni verbali a sé stanti, e soprattutto nel rinvigorimento dell’autonomia nel segno del disvalore, risiedono dunque gli aspetti della «parole del vuoto» destinati a definire i princi-pali tratti ereditari che legano la neoavanguardia all’opera di Beckett. Tale rapporto di continuità si rivela innanzitutto dal punto di vista teorico nella comune partecipazione alla rivendicazione dell’autonomia del romanzo, la quale costitu-isce un assunto fondamentale di tutte le ipotesi del Gruppo 63 circa il correlato romanzesco dell’«ideologia dell’aperto»13. Nell’ottica neoavanguardistica, in particolare, il motivo dell’autonomia del romanzo viene declinato soprattutto nei termini del riconoscimento e della valorizzazione dell’essenza puramente artifi-ciale del romanzo, cui consegue automaticamente il deciso rifiuto di ogni aspira-zione conoscitiva e mimetica. Un’artificialità interpretata in chiave «negativa» quale discrimine dell’«inutilità», quale fattore di disconoscimento del potere edificante e quale origine del romanzo inteso come «meccanismo puramente verbale»14, ora visto come mero costrutto retorico, alieno dagli orizzonti della fedele rappresentazione del reale. Elemento di spiccata consonanza con l’auto-nomia intesa in senso beckettiano è infatti l’idea del romanzo come «organo linguastico», secondo una definizione, proposta nell’ambito del dibattito del 1965, legata per un verso al riscatto della potenza creatrice della parola – la capa-cità non solo di attribuire un nuovo ordine ai materiali del reale, ma persino di dar vita a nuovi universi, alternativi ad esso ‒, per altro verso al «guasto», al corto circuito con il reale dal quale prende forma l’opera. Alla concezione del romanzo come «artificio inutile» è d’altra parte legata l’idea, particolarmente rilevante all’interno delle teorie neoavanguardistiche, della «letteratura come menzogna» esposta da Giorgio Manganelli, con la quale il passo verso la Trilogia si fa ancora più breve. Connotando l’idea di autonomia in maniera ancora più spiccatamente «negativa», tramite il ricorso ai caratteri di mistificazione e di inganno quali proprietà specifiche del linguaggio della finzione, Manganelli torna infatti sul legame del testo letterario con la «vocazione» dell’uomo «dell’an-dare all’ingiù»15, verso il mondo dello «scarto» dal reale. Associando metafori-camente la creazione letteraria alla «menzogna» di un «buffone», il quale, «coinvolto in una situazione di provocazione linguistica»16, vive il linguaggio come «magma», come «coacervo di impossibili, falsi, menzogne, illusionismi, giochi e cerimonie», Manganelli parla di una letteratura che è attività «immo-rale», che è un atto di diserzione «da ogni ubbidienza solidale, ogni assenso alla propria o altrui buona coscienza, ogni socievole comandamento». Parla, cioè,

13 L. Anceschi, cit. da R. Barilli, A. Guglielmi, Gruppo 63. Critica e teoria, Torino, Testo & Immagine, 2003, p. 30.

14 N. Balestrini, cit. da N. Balestrini, A. Cortellessa, Gruppo 63. Il romanzo sperimentale / Col senno di poi, cit., p. 133.

15 G. Manganelli, Hilarotragoedia, Milano, Adelphi, 1964, p. 11.16 G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi, 1967.

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dell’autonomia e dell’illimitata capacità creativa del linguaggio letterario come forme «velenose» d’indifferenza nei confronti del senso dominante, laddove il rifiuto dello scopo sociale non è semplicemente una noncuranza pacifica, ma una forma di radicale antagonismo. E parla dell’antagonismo della letteratura al contempo come dell’«insolenza», dell’«industriosa pazienza [con cui] essa fruga e cerca e cava fuori affanni, malattie e morti»: la letteratura è infatti quel «commento» infinto in cui «una piaga purulenta si gonfia in una metafora, una strage non è che un’iperbole, la follia un’arguzia per deformare irreparabilmente il linguaggio, scoprirgli moti, gesti, esiti imprevedibili». L’autonomia del testo viene così ricondotta, oltre che all’indipendenza da scopi conoscitivi, mimetici o ideologici, alla possibilità di tornare a tutto ciò che la tradizione letteraria ha progressivamente espulso, emarginato, bollato come «blasfemo», dunque, appunto, allo «scarto». Uno «scarto» che si apre nella narrativa neoavanguardi-stica ad una molteplicità di interpretazioni e di prassi letterarie, molte delle quali improntate all’ipertrofia e alla dilatazione, ad un certo gusto per la deformazione. È possibile perciò ricondurre per filiazione alla Trilogia i romanzi dello speri-mentalismo che condividono con Beckett l’opzione per una narratività e per un linguaggio strettamente connessi all’insignificanza, all’ossessione, alle manife-stazioni di spaesamento causate dall’esclusione dell’individuo dal «contesto univoco della storia»17. Si tratta di testi collegati fra loro da un’imagerie e un linguaggio di tipo «Barocco», e dove l’interesse, da un lato, per le zone «proi-bite» della psiche, dall’altro, per una prassi mitopoietica di matrice interamente linguistica, fa riprendere terreno all’universo onirico, alla deformazione comica o grottesca, all’allegoria e alla metafora. Esemplari, in questo senso, tanto le opere di Manganelli, nelle quali la forma romanzo lascia completamente spazio al «trattatello», alla chiosa interminabile, ad un linguaggio, proveniente da un infernale «buco nero», dispiegato in tutte le sue più oscure tortuosità, quanto i romanzi di Edoardo Sanguineti, dal combinatorismo di Il giuoco dell’ocaall’apertura al mondo del sogno di Capriccio italiano. Si delinea in queste opere una dimensione che prosegue l’eterotopia del «vuoto» beckettiana, un immagi-nario «parasurreale»18 a stretto contatto con l’interiorità e i recessi psichici, nel quale «un filamento di parole, una ragnatela, un deposito, un gomitolo»19 sposta l’asse del «reale» da ciò che è presente nel mondo visibile a ciò che il linguaggio – così inteso quasi in funzione pittorica ‒ può creare come oggetto inedito, come finzione. Si inscrivono in questo solco altre opere sperimentali in cui la relazione con l’opera di Beckett si stabilisce anche in termini di altro tipo, in maniera anche più evidente, a partire, cioè, dal richiamo ad alcuni specifici caratteri del linguaggio «minimale» della Trilogia, nonché ad alcune tecniche espressive, prima fra tutte, quella del monologo. Con la forma del monologo, infatti, il testo

17 G. Celati, Finzioni occidentali, Torino, Einaudi, 2003 (1975), p. 206.18 N. Balestrini, A. Cortellessa, Gruppo 63. Il romanzo sperimentale / Col senno di poi, cit., p. 110.19 G. Manganelli, Pinocchio. Un libro parallelo, Milano, Adelphi, 2002, pp. 43-44.

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invera la propria autonomia giocando con quella di cui si costituisce l’io (auten-tico o finzionale), portando all’estremo il proprio ripiegamento autoreferenziale, e creando un mondo coerente e a sé stante. Una coerenza che, d’altra parte, nel richiamo del monologo della neoavanguardia a Beckett, può legittimamente invalidare tutte le funzioni narrative legate all’io, la cui presenza si riduce a semplice marca deittica del discorso, ad oggetto simbolico, ad un attante della narrazione. In questa chiave, anche il romanzo sperimentale interviene sulla finedell’illusione di un rapporto «normale» con la realtà, sottoponendo al suo vaglio il ruolo dell’impotenza e dell’insignificanza, del «patologico» emerso dalla modernità quale sintomo della rottura dell’unità del reale. Mettendo alla prova la capacità del testo di tradurre il non-pensiero, dunque giocando con la «stra-nezza», con l’inaccettabilità semantica, con gli universi linguistici connessi al disturbo coscienziale, il romanzo sperimentale cerca il proprio tramite per la restituzione dell’esperienza del limite, di un mondo deviato sorretto dalla disso-nanza cognitiva. È l’esperienza degli idioti, dei personaggi nevrotici di Luigi Malerba, degli individui dall’identità incerta o dalla limitata disponibilità lingui-stica, come i personaggi di Gianni Celati, Franco Lucentini e Nanni Balestrini, dei girovaghi senza meta di Settembre di Enrico Filippini. Il testo simula le loro «paludi mentali», dispiegate su un impianto drammatico dalla sintassi ormai crollata, lasciandosi attraversare dai segni della fantasia, della follia, dell’insania, del trauma, portando al culmine estremo di quella tendenza al monologo già agita da Zeno Cosini, da Giovanni Episcopo, dall’Uomo del Sottosuolo dostoe-vskijano, facendola cioè collassare. Elemento particolarmente caratterizzante del monologo delirante d’ambito italiano è la forte stilizzazione orale del testo, la quale, nel definitivo trascendimento dei linguaggi letterariamente formalizzati, permette all’assenza di senso di imprimere ulteriormente il suo stigma. Concor-rono all’implemento di tale funzione le numerose tendenze dissocianti che premono sull’italiano, dalla grande disponibilità di registri di discorso alla ricchezza delle variazioni diastratiche, strumenti di un significativo ampliamento del campo del dicibile, nonché della registrazione dell’«abbassamento» di situa-zione nelle strutture testuali, consentita dal ricorso ai gerghi, ai linguaggi tecni-co-scientifici, alle parlate regionali. Vengono integrati al parlato dei personaggi i linguaggi dei media, le loro innovazioni e le loro devianze linguistiche, che ingi-gantiscono il senso di smarrimento del personaggio all’interno della sua stessa lingua, mettendo in scena l’avvento della nuova dimensione in cui sondare le ragioni dell’indicibile, dell’altrove, dell’«assurdo». La sostanza vocale è dunque la funzione testuale massimamente implicata con lo sconvolgimento del testo, agente, inoltre, al livello del movimento del testo, infondendovi l’irrazionalità del delirio tramite i continui salti sintattici e deittici. Il discorso, che risulta inte-ramente dominato dalla divagazione, dalla perdita del filo del discorso, dalla dilatazione del minimo pretesto giunto a turbare il procedere del racconto, è un discorso menomato, in cui l’afasica restituzione dell’esperienza, spezzata e

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continuamente interrotta, fa deflagrare il senso della narrazione. La ricostruzione del «fatto», della trama, è infatti impossibile al di fuori della ricognizione delle equivalenze simboliche sparse nel linguaggio, provenienti dall’universo precate-goriale di cui si costituisce il serbatoio espressivo dei personaggi, e afferenti, cioè, ai più diversi, illogici, paradossali, deformi concetti di temporalità, di spazio, di realtà. Spesso, anzi, la ricerca della trama risulta improduttiva, desti-nata a veder smentita l’idea stessa di trama, se, come ad esempio in Il serpente di Malerba, il delirio del personaggio può investire la narrazione fino a confondere ogni confine fra ciò che è davvero accaduto ‒ l’ipotetico crimine confessato ‒, e ciò che potrebbe essere stato soltanto immaginato. L’azione della «funzione Beckett» nel romanzo sperimentale italiano si lega dunque a quegli aspetti della narrativa neoavanguardistica che la critica tradizionale tende a classificare come atti di deliberato rifiuto della forma romanzesca, e costituisce un appiglio fonda-mentale per il riconoscimento di un discorso intertestuale in grado di fornire categorie di lettura utili alla contestualizzazione di tali opere nel dominio del romanzesco tout-court. L’adesione al «modernismo più austero»20 à la Beckettsancisce infatti l’ingresso del romanzo sperimentale entro un discorso più orga-nico (nella sua inorganicità) all’avventura nello scollamento fra la realtà e la letteratura, presso il quale i valori legati all’autonomia del romanzo giocano un ruolo fondamentale in diverse direzioni. In primo luogo, nella misura in cui la fondazione di mondi possibili e autonomi, in cui vige la deviazione dell’espe-rienza dai binari della normalità, consente un’esplorazione della «disfunzione» nella sua «coerenza specifica»21 attraverso il potenziale di «realismo critico»22

insito nel linguaggio. Laddove, infatti, il linguaggio può costruire una realtà a sé stante, l’ostentazione delle sue disfunzioni si trasforma nell’ostentazione delle disfunzioni della realtà che esso descrive. In secondo luogo, nella misura in cui la costruzione di tali mondi possibili con i materiali dello scarto e della soggetti-vità autre introduce nel romanzo lo spazio dell’«ambivalenza cognitiva»23 che caratterizza il pensiero moderno, proposto come spazio dell’alternativa polemica ad ogni aspirazione di totalità. Infine, dal momento che la riscoperta dell’auto-nomia del romanzo coincide con la valorizzazione del potere performativo del linguaggio, con la rivendicazione della sua forza creatrice, l’importanza dell’ope-razione culturale dello sperimentalismo riguarda anche la rilettura dell’auto-nomia del romanzo come «autonomia dal fine», come virtù specifica dell’artificioretorico che «se ne infischia dell’intelligenza»24, che esibisce spavaldamente il proprio essere frutto del desiderio di un «qualcosa da fare»25, e che riscopre la sua libertà da confini e bisogni, da convenzioni e imposizioni di funzione. Il

20 M. Fludernik, Towards a ‘natural’ narratology, London, Routledge, 1996.21 J. Ricardou, L’Ordine e la disfatta, Roma, Lerici, 1976, pp. 61-62.22 E. Sanguineti, cit. da R. Barilli, A. Guglielmi, Gruppo 63. Critica e teoria, cit., p. 245.23 Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Milano, Mondadori, 2002, p. 21.24 G. Gramigna, La menzogna del romanzo, Milano, Garzanti, 1980, pp. 29-30.25 N. Balestrini, A. Cortellessa, Gruppo 63. Il romanzo sperimentale / Col senno di poi, cit., p. 110.

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romanzo sperimentale, nel suo slancio interculturale, si inserisce dunque nel discorso del romanzo del Novecento non soltanto condividendo l’interesse per le sue tematiche fondamentali, ma partecipando attivamente alla sperimentazione delle nuove categorie di narratività e di letterarietà con cui estendere e rinvigo-rire il potenziale della forma romanzo. Tornando al discorso dell’assurdo, trasfor-mandolo in problematica linguistica, e facendo del linguaggio la sede metacritica del suo discorso, il romanzo sperimentale si apre ad un rapporto di comunica-zione e di interscambio con le letterature internazionali nel quale vengono poste le basi per la transizione del romanzo verso il postmoderno.

Fabiana Cecamore

Riferimenti bibliografici

S. Agosti, Frasi, «il verri», n. 6, 1998.N. Balestrini, A. Cortellessa, Gruppo 63. Il romanzo sperimentale / Col senno di poi, Roma, L’orma, 2013.R. Barilli, A. Guglielmi, Gruppo 63. Critica e teoria, Torino, Testo & Immagine, 2003.Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Milano, Mondadori, 2002.G. Cauteruccio, Samuel Beckett – Nel buio del teatro accecante, Firenze, Edizioni Clichy, 2016.G. Celati, Finzioni occidentali, Torino, Einaudi, 2003.G. Gramigna, La menzogna del romanzo, Milano, Garzanti, 1980.J. Knowlson, Samuel Beckett. Damned to Fame, London, Bloomsbury, 1996.G. Manganelli, Hilarotragoedia, Milano, Adelphi, 1964.G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi, 1967.G. Manganelli, Pinocchio. Un libro parallelo, Milano, Adelphi, 2002.F. Marenco, Storia della letteratura inglese, Torino, Utet, 1996.F. Moretti, Il romanzo, Torino, Einaudi, 2003.J. Ricardou, L’Ordine e la disfatta, Roma, Lerici, 1976.L. Weber, Con onesto amore di degradazione, Bologna, Il Mulino, 2007.

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Poesia sperimentale del xx secoloManifesti e testi teorici

di Giovanni Fontana

Rivoluzione a parole è il titolo del volume di Patrizio Peterlini, pubblicato da Danilo Montanari [Ravenna, 2019], tra i più interessanti editori di arte contemporanea, le cui scelte originali, lo hanno condotto ad includere in catalogo preziosi libri d’artista a tiratura limitata. Peterlini si occupa da anni di poesia sperimentale. Attualmente direttore della Fondazione Bonotto, per la quale ha curato mostre ed eventi, tra cui è sufficientericordare Fluxbooks (2015), Sense Sound / Sound Sense (2016) e La voix libérée (2019),è un profondo conoscitore delle forme verbo-visive e sonore. Si è occupato da vicino di autori come Sarenco e Arrigo Lora Totino e di argomenti come l’esoeditoria o le riviste d’avanguardia. Proprio da queste specificheesperienze scaturisce l’idea di questo libro, che raccoglie manifesti e documenti teorici prodotti dai movimenti d’avan-guardia dal 1946 ad oggi.

I pregi del volume sono molti, ma il fatto che metta insieme per la prima volta documenti così rari lo rende un utilissimo strumento di studio e di ricerca.

La dimensione è quella internazionale. Del resto non sarebbe potuto essere altrimenti, visto che tutti i movimenti coinvolti sono stati caratterizzati da istanze internazionaliste, che contavano tra gli obiettivi l’abbattimento delle barriere linguistiche o addirittura la creazione di lingue sovranazionali, basti pensare a Pierre Garnier, a Seiichi Niikuni e Fujitomi Yasuo, al signalismo di Miroljub Todorovič, o all’idea di “poesia universale” espressa da Eugen Gomringer.

Le correnti considerate da Peterlini sono il Lettrismo di Isidore Isou, la Poesia Concreta, la Poesia Visiva, la Poesia Sonora, che costituiscono quattro ambiti tecnici, variamente connessi, a cui fanno riferimento, con mille sfumature diverse, i principi teorici elaborati da gruppi o da singoli artisti, anche quando sembrano esprimere la più ampia originalità di percorso.

Parlavo di ambiti tecnici perché queste correnti creative (veri e propri cardini operativi), nonostante tutte le avversità interposte sul loro cammino da incom-prensioni, fraintendimenti e conflitti di vario genere, e malgrado la disattenzione

Copertina del volume Rivoluzione a paroledi Patrizio Peterlini, Montanari Editore, 2019.

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della critica e il relativo mancato sostegno ai fini della promozione culturale, sono riusciti ad incidere in maniera molto significativa sul quadro generale della comunicazione mediatica, incuriosendo e sorprendendo per la varietà e la novità delle proposte sul piano pragmatico e metodologico. È evidente, e piuttosto consistente, per esempio, il debito che il mondo della pubblicità dovrebbe pagare alla sperimentazione verbo-visiva e sonora. Basti pensare alle nuove tipologie di rapporto tra testo e immagine, alla varietà delle strutture grafiche e tipografiche,ai fonosimbolismi, alla retorica visiva, alle suggestioni sinestetiche, all’uso di valori tonali spinti, alle strategie compositive per sollecitare l’attenzione del frui-tore, all’adozione di temi non convenzionali, all’uso di mood eccentrici, all’am-biguità espressiva, al nonsense, ecc. Tutto ciò tenendo conto che, specialmente nell’era del boom economico, l’influenza della cultura di massa sulla poesia sperimentale è stata molto forte. Da segnalare almeno l’adozione dell’icono-grafia dei prodotti di consumo, la decontestualizzazione di stampe pubblicitarie o di titoli di quotidiani o periodici e il fumetto.

Si diceva della disatten-zione da parte della critica. Il fenomeno meriterebbe apposite indagini, ma, in linea di massima, si può affermare che l’insufficienzadegli strumenti a disposi-zione degli studiosi di fronte a fenomeni assolutamente fuori dai canali istituzionali ha svolto un ruolo decisa-mente negativo. Per troppo tempo non ci sono stati sistemi di interpretazione specialistica: la loro indivi-duazione avrebbe richiesto un impegno che non avrebbe avuto riscontro sul mercato. Trattandosi di forme che si sono sempre collocate, anche polemicamente, in aree di contaminazione linguistica – tra parola, immagine, suono, gesto – la critica ha fatto leva su tale specifica questione per disimpegnarsi e non assumersi responsabilità. Si trattava di letteratura o arte visiva, di musica o di teatro?

A correre ai ripari sono stati gli stessi artisti, che si sono fatti carico anche del ruolo storico-critico e teorico, come dimostra questo libro e come è documentato nelle centinaia di riviste del settore.

Ma, nonostante tali difficoltà, come sottolinea Patrizio Peterlini nell’intro-duzione al volume, “[…] è innegabile che queste ricerche poetiche, attraverso l’approfondimento delle possibilità espressive del linguaggio e le sperimenta-zioni di nuove modalità di comunicazione, hanno supportato spesso in modo

Roma, presentazione del volume al Palazzo delle Esposizioni, nell’ambito di Poesia espansa. Nella foto: Patrizio Peterlini, Lamberto Pignotti e Giovanni Fontana

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trasversale e poco riconoscibile, ma di fatto in maniera determinante, le ricerche sulla linguistica e la semiotica che hanno così profondamente segnato il secolo scorso”.

Ecco allora che si profila tutto il peso di queste sperimentazioni, anche al di fuori del loro specifico, che, in ogni modo, costituisce in questa sede il principale oggetto d’interesse.

Il volume si pone come prezioso strumento di conoscenza perché raccoglie documenti rari, pubblicati negli ambiti più disparati, talvolta in riviste a tiratura molto limitata, talaltra addirittura su bollettini ciclostilati o su volantini. Il tutto disseminato in ogni angolo del pianeta.

Peterlini introduce il volume tracciando utili coordinate di riferimento ed evidenziando, in particolare, le tappe fondamentali del rinnovamento letterario che si colloca alla fine dell’Ottocento, a partire dalle correspondences di Baude-laire, passando per il famoso “Io è un altro” di Rimbaud, considerando il passo fondamentale di Mallarmé, che nel suo “Coup de dés” gestisce lo spazio della pagina come componente del testo e offre al lettore la composizione poetica come se si trattasse di una partitura, dove il bianco rappresenta pause e silenzi; e citando infine quanto realizzato dalle avanguardie storiche (Futurismo e Dada in primis) e passando per lo snodo di Apollinaire, che nel calligramma, sia pure innovativo in quello squarcio di tempo, va a mio parere ad inciampare sull’ana-logia e il mimetismo.

Il confronto diretto dei documenti (posti da Peterlini in ordine alfabetico per autore) mette bene in risalto il fatto che tra una corrente e l’altra, tra un metodo e l’altro, esistono sempre punti di confluenza, nodi e cerniere, nonostante l’osti-nazione degli artisti a sottolineare differenze. Del resto Adriano Spatola, che fu tra i primi osservatori del fenomeno in un’ottica globale, nel suo fondamentale saggio del 1969, sottolineava che “le numerose forme in cui si attua la poesia sperimentale non sono altro che le varie facce di uno stesso problema” e nello stesso tempo notava che, in realtà, le divergenze scaturivano “dallo spirito pole-mico e, perché no, narcisistico caratteristico dei protagonisti di queste ricerche più che alle differenze vere e sostanziali”.1

Il Lettrismo è il movimento che precede gli altri di qualche anno. Nelle inten-zioni del suo creatore Isidore Isou, prima di ogni altra cosa, c’è da considerare “la distruzione delle parole attraverso le lettere”. Il primo manifesto è del 1942. Isou propone provocatoriamente una sorta di atomizzazione del linguaggio nei diversi settori creativi, ponendo le singole lettere alla base di ogni tipo di compo-sizione, sia essa letteraria, plastica o sonora, e teorizza una ipergrafia generaliz-zante dove ogni gesto, ogni oggetto, ogni segno viene ricondotto ad un sistema di elementi che si fa alfabeto di una nuova scrittura. Ciò vale per la poesia o la pittura, come per il teatro o la danza, come per l’architettura o la fotografia.Molto significativi, tanto da imprimere tracce profonde nella successiva speri-mentazione videografica, fino ai nostri anni, sono i principi innovativi dedicati

1 Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Rumma, Salerno, 1969.

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al cinema, come l’antisincronismo, il montaggio “discrepante”, l’isolamento dei fotogrammi, il loro deterioramento, la loro sovrapposizione, fino alle paradossali (trattandosi di cinema) realizzazioni a-ottiche.

Sviluppatosi prevalentemente in Francia, il Lettrismo contò nella compagine degli artisti nomi di rilievo che avviarono successivamente, al di fuori del movi-mento, iniziative importanti, come Guy Débord, a cui si deve il Situazionismo, o François Dufrêne, tra i primi a lavorare sulla voce in maniera del tutto innovativa.

Forse un respiro più ampio lo ha la Poesia concreta, che si configura già alle prime battute come un movimento internazionale. Qui la parola si carica del peso della propria rappresentazione; diventa oggetto grafico-tipografico che impone i suoi valori formali, anche al di là di quelli strettamente semantici; la configurazione bidimensionale o tridimensionale delle parole determina il senso dell’opera; la sintassi tradizionale è sostituita da un sistema strutturale di matrice geometrica (spaziale); la nozione di sequenza lineare è sostituita da quella di campo morfologico. La lettura scandita per gradi deve iscriversi nella visione simultanea della pagina di mallarmeana memoria.

Secondo il gruppo brasiliano Noigandres, composto in prima battuta da Augusto e Haroldo De Campos e da Decio Pignatari, “La poesia concreta comu-nica la propria struttura: struttura-contenuto”. E proprio a proposito della struttura del poema concreto, Arrigo Lora Totino conia il termine “verbotettura” esaltan-done il dato costruttivo, così come accade, per esempio, nelle “costellazioni” di Gomringer o nei poemi spaziali di Ilse e Pierre Garnier. Con evidente riferi-mento all’architettura di parole, Lora Totino, in sintonia con i brasiliani, dichiara che nella poesia concreta la struttura è di per sé “significativa” e che la lingua deve essere “oggettivamente considerata come universo autonomo e materia”. Dunque, “L’arte concreta va intesa come arte materiale. La poesia concreta è un ideogramma ovvero un campo strutturato di funzioni che si relazionano in ogni sua parte: funzioni grafico-spaziali, acustico-orali, contenutistiche”. Sicché per Lora Totino il principio essenziale da tenere in considerazione è la materialità del linguaggio, in accordo con le enunciazioni del manifesto di Theo Van Doesburg in “Art concret” (aprile 1930), dove, tra l’altro, si legge che “Un élément pictural n’a pas d’autre signification que ‘lui-même’, en conséquence le tableau n’a pas d’autre signification que ‘lui-même’”.

Inventare forme, pertanto, significa produrre elementi concreti, poiché il processo creativo avviene al di fuori di qualsiasi ordine imitativo, a differenza dell’astrazione che ha sempre un referente in natura. Del resto il termine astra-zione segna un distacco, una derivazione [abs-trahere] da qualcosa che appar-tiene al mondo reale; mentre l’opera concreta è assolutamente autoreferenziale.

Addirittura, con Garnier, si arriva a considerare la “distruzione dell’idea stessa d’opera in favore di quella di energia trasmessa”. Per Bob Cobbing “la poesia è da cercare altrove”.

Un discorso a parte va fatto per la Poesia Visiva di Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini e tutto il Gruppo 70, che si internazionalizza rapidamente conservando,

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tuttavia, un carattere di specificità, che direi tutta italiana, che la distingue dal gene-ralistico quadro della “Poesia Visuale”, diffusa nel mondo come “Visual Poetry”.

Scriveva Pignotti in un testo del 1965 che la Poesia visiva “è una forma di espressione che sperimenta a vari livelli dei rapporti tra parole e immagini figu-rali, perseguendo finalità e fondendo risultati in un contesto unico. Almeno da un punto di vista teorico essa rappresenta un’estensione delle possibilità della poesia, che istituzionalmente si affida al solo materiale verbale e alle sue proprietà combinatorie, significative e comunicative (cioè: sintattiche, semantiche e prag-matiche), perché si pone anche dei problemi che fino ad oggi sono stati ascoltati dalle arti visive e specialmente dalla pittura. / Tuttavia la poesia visiva non è una pittura con le parole, né una poesia con le figure.

In termini simili si esprimeva Pierre Garnier quando scriveva che “la Poesia Fonica non è unione tra poesia e musica. La Poesia Visiva non è unione tra poesia e pittura”.

In ogni modo, ciò che emerge da questa raccolta di manifesti è che tutte le discipline artistiche vengono più o meno tirate in ballo, e che fin dalla prima ora un denominatore comune è costituito dall’intreccio dei linguaggi: vale a dire da quella che, sommariamente chiamata contaminazione e riferita al territorio dell’interdisciplinarità, sarà teorizzata da Dick Higgins come “intermedialità”.

Così come nota Adriano Spatola “Il teatro si fonde con la scultura, la poesia diventa azione, la musica si fa gesto e nello stesso tempo usa, nella notazione, procedimenti di tipo pittorico: termini come ‘happening’, ‘environment’, ‘mixed media’, ‘assemblage’ sono indicativi di questa situazione culturale”.2 Egli mette inoltre bene in evidenza il fatto che i fenomeni di “confusione” delle arti non

2 Adriano Spatola, Cit.

Roma, Poesia espansa, Palazzo delle Esposizioni. Annuncio su tessuto prodotto dalla Fondazione Bonotto. Hanno preso parte alla manifestazione P. Peterlini, L. Pignotti, G. Fontana, E. Macali, S. Ventroni, Pameta Z.

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rappresentano pure sommatorie, ma costituiscono eventi dinamici, interattivi, altamente imprevedibili: non si tratta di sovrapposizione inerte, bensì di simul-taneità produttiva. Le operazioni interattive provocano infinite modificazioninegli elementi, spesso inafferrabili, mentre si affacciano all’orizzonte nuove forme artistiche, pienamente autonome, anche se ampi settori dell’arte e della critica ancora arroccati su categorie aristoteliche oppongono una dura resistenza; mentre gli artisti (che rivestono spesso i ruoli di storici, teorici, critici, editori, organizzatori, ecc.) spendono energie per sottolineare differenze, in molti casi del tutto apparenti.

Ecco allora l’obiezione di Carlo Belloli nei confronti della denominazione “poesia concreta”, a favore del più generale appellativo di “poesia visuale”, e la contestazione per la trasposizione del predicato di “concreta” dall’ambito plastico a quello letterario; ecco Julien Blaine che con il manifesto della poesia “Due punti” rigetta, con la poesia lineare, anche quella spaziale, concreta, visuale, ottico-cinetica, lettrista e fonetica; ecco Henri Chopin che giudica insufficientela poesia concreta per andare al di là dell’alfabetismo, a favore dell’azione “attraverso il cinetismo, attraverso la musica elettronica, attraverso il poema-macchina (permutazioni, urloritmi, audio-poemi, poemi-partiture), attraverso le macchine infine trascurate dai lettristi e dai poeti concreti”; c’è chi assegna alla “poesia concreta” un valore anche dal punto di vista sonoro, in quanto leggi-bile eseguibile, interpretabile, come Arrigo Lora Totino o il Gruppo Noigan-dres, e chi invece lo nega, come Ian Hamilton Finlay che afferma che “Il poema concreto vuole smettere di suonare”, mentre un autore come Öyvind Fahlström lega l’aggettivo “concreto” più all’ambito della musica concreta che a quello delle arti plastiche; c’è chi pratica la Poesia sonora “oltre la scrittura”, con la creazione diretta al magnetofono, affermando che nessuno spartito è possibile, come François Dufrêne, e chi sostiene che è possibile “scrivere sulla bobina”, come Pierre Garnier, o, al contrario, chi crede ancora nella scrittura (sia pure sui generis) come Bernard Heidsieck, che teorizza il suo tramplin e il poema-partitura. E poi ci sono tutti i termini e le locuzioni che dovrebbero distinguere il carattere specifico delle ricerche in atto: un po’ alla rinfusa, ricordo la poesia plastica di Kitasono Katué, la poesia evidente di Jiří Kolař, la poesia ginnica di Lora Totino, il “public poem” di Alain Arias Misson, la verbofonia di Arthur Pétronio, lo Spazialismo di Pierre e Ilse Garnier, l’Epistaltismo di Mimmo Rotella, la Poesia Simbiotica o la Poesia materica di Ugo Carrega; il quale, quando formulava le sue Dieci proposizioni per la poesia materica, poneva in testa all’elenco l’asser-zione che “tutto è linguaggio”. Al secondo punto affermava: “Non vedo quindi perché la poesia debba continuare a servirsi soltanto di parole”.

Più che pensare la poesia come un ipotetico mezzo di comunicazione di massa (per dirla con Pignotti) o come una specie di cavallo di Troia (per dirla con Miccini), con preciso atteggiamento di politica culturale, tendente a farsi largo progressivamente nel linguaggio comune mediante l’adozione di quello tecnolo-gico, in Carrega prevale il tratto filosofico autoriflessivo, il pensiero-azione che si

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rapporta alla materia e che fa della sperimentazione il contenuto stesso dell’opera. Jochen Gerz, per esempio, parla di un “linguaggio del fare”. Pierre Garnier scrive che “il processo di creazione della poesia è divenuto la poesia stessa”.

Il poeta è, in realtà, colui che fa. E con questa convinzione, riferendoci alle categorie estetiche di un filosofo come Luigi Pareyson, possiamo ben condividere il suo concetto di formatività, che “è nesso inseparabile di invenzione e produ-zione: formare significa fare, ma un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare: eseguire, realizzare, poiein, ma non qualcosa di predeterminato secondo una regola predisposta, bensì qualcosa che si inventa facendolo, secondo una regola che si scopre nel corso del fare”. Una nozione dove, per dirla con Benjamin, “il concetto di tecnica offre il punto di attacco dialettico che consente di superare la sterile antitesi di forma e contenuto”.

In ciò è tutta la ricchezza di questa fase storica della poesia sperimentale, che, senza ombra di dubbio, ancora oggi resiste costituendo la chiave della sperimenta-zione poetica sulla strada di quella che Spatola aveva definito Poesia totale, dove “totale” potrebbe forse essere l’aggettivo più giusto per definire, almeno sul piano tecnico e metodologico, anche il carattere delle più avanzate ricerche nel settore.

Giovanni Fontana

9 Antologia Nuovi Fermenti PoesiaDentro spazi di raritàAutori: G. Alvino, D. Cara, B. Conte, S. D’Amaro, G. Fontana, G. Forti, P. Ikonòmu, U. Piersanti, L. Riommi,I. Scotti, V. Verzieri.

10 Antologia Nuovi Fermenti NarrativaIl quasi nulla, il praticamente tuttoAutori: G. Baldaccini, V. Carra-toni, B. Conte, G. Di Stefano,E. Dzieduszycka, M. Furia, P. Guzzi,A. Papp, A. Pasterius, V. Verzieri.

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Giacinto Spagnoletti, cent’anni di un maestro di letteratura1

di Sergio D’Amaro

A Taranto hanno intitolato una piazza a Giacinto Spagnoletti. Non è certo una grande location, spartita com’è con quartieri non centrali della città da cui prove-niva. Forse il suo nome verrà scambiato oggi con qualche illustre sconosciuto, ma occorre sapere che per tutta la seconda metà del Novecento quello di Spagno-letti è stato al vertice della saggistica e della critica letteraria italiana. Nato giusto un secolo fa, l’8 febbraio del 1920, nel capoluogo jonico, si ritrovò nel bel mezzo della guerra a comporre le ultime cartelle della sua tesi di laurea sull’Esamedi coscienza di un letterato di Renato Serra, discussa a Roma con Natalino Sapegno. Come se non bastasse, già erano pronte le bozze dell’Antologia della poesia italiana contemporanea messe a frutto solo nel ’46 da Vallecchi dopo aver rimosso le macerie della Firenze bombardata. Qui Spagnoletti propose una nuova periodizzazione, cominciando la sua analisi da Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale.

Il giovanissimo antologista, che aveva esordito anche come poeta, ebbe favorevole accoglienza e si spostò a Parma presso l’editore Guanda, attorno a cui orbitavano Attilio Bertolucci, Mario Luzi e Oreste Macrì. Da quel momento iniziava una lunghissima attività di consulente editoriale che avrebbe sostenuto il cammino di altri editori, tra cui il milanese Rizzoli. Spagnoletti era insaziabile non solo coi libri, ma anche con le amicizie e i rapporti stabiliti con tutti i più illustri rappresentanti della letteratura del tempo. Amava incontrarli di persona per conoscerne lo spessore umano ed esserne a sua volta arricchito e indirizzato. Passando a Milano lavorò per la Schwarz e la Garzanti, facendo sorprendenti scoperte come una giovanissima Alda Merini restatagli amica per sempre anche per via del marito, lo scrittore pugliese Michele Pierri sposato dopo la morte della prima moglie. La sua idea di letteratura andò da subito oltre le resistenze ermetiche e si aprì totalmente all’ansia di sperimentazione che investiva gli anni ’50 e ’60. Un amico speciale fu per lui Pier Paolo Pasolini, che era approdato a Roma costretto ad una specie di esilio dopo i noti fatti di Casarsa. Anche in questo caso seppe intuire la forza dirompente di quella tormentata personalità e molto più tardi, nel 1998, pubblicò per l’editore siciliano Sciascia un diario che lo scrittore gli aveva consegnato in quei primi anni relativo al periodo tra il ’45

1 Oltre ai numerosi libri citati nel testo, è utile ricordare di Giacinto Spagnoletti (1920-2003) le sue opere di poesia (almeno Poesie raccolte, Garzanti, 1990) e di narrativa, Tenerezza (Vallecchi, 1946), Leorecchie del diavolo (Sansoni, 1953) e Il fiato materno (Longanesi, 1971), da integrare con due piacevoli narrazioni autobiografiche, I nostri contemporanei (Spirali, 1997) e Il teatro della memoria, Riflessioniagrodolci di fine secolo (Edizioni dell’Altana, 1999). Sulla sua attività si possono consultare due miscel-lanee a lui dedicate come l’Omaggio a Spagnoletti, curato da G. Mercogliano (Lacaita, 1987) e lo speciale della rivista ‘’Filologia antica e moderna’’, curato da Carmela Reale (Anno 2000, N. 18).

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e il ’49, L’impura giovinezza di Pasolini. Lo fece per ristabilire qualche punto di verità su un personaggio che era diventato pietra dello scandalo e un termometro arroventato di polemiche e di equivoci.

Intanto la biblioteca di Spagnoletti cresceva ogni giorno di più a dismisura, accolta benevolmente nella sua casa romana di Viale Regina Margherita tra la Sapienza e Villa Borghese. Una ‘’nave’’ la chiama qualcuno. Le pareti dello studio erano soffocate dai libri e i pochi spazi trapunti delle opere pittoriche e grafiche degli artisti famosi che il Nostro aveva frequentato. Il furore del siste-matore critico culminò nel 1985 con i tre volumi de La letteratura italiana del nostro secolo ospitati negli Oscar Mondadori. Rifusi in altra forma usciranno con qualche aggiornamento, nel 1994, nei Mammut supereconomici della Newton Compton, accanto all’antologia dello stesso editore intitolata Otto secoli di poesia italiana da S. Francesco a Pasolini dell’anno precedente. Ma gli inte-ressi di Spagnoletti s’erano allargati già dagli anni ’60 al fecondo filone della psicoanalisi sulle orme del suo ideale maestro Giacomo Debenedetti, col quale condividerà la paradossale esclusione dalla titolarità di una cattedra universi-taria (Spagnoletti finirà la sua carriera a Chieti come associato). Uno dei frutti migliori della sua psicocritica fu ‘’La coscienza di Zeno’’ di Italo Svevo (Rizzoli,1979) in cui culmina la passione per i sondaggi profondi dell’io. Altra attenzione egli riserverà anche a talune personalità di larga risonanza, come Giacomo Casa-nova, Giuseppe G. Belli e Restif de la Bretonne, allargando così lo sguardo ai due secoli precedenti che non erano stati avari di sorprese.

Le nuove tendenze culturali portarono poi Spagnoletti a mettere sotto osser-vazione la poesia dialettale. Fu un’altra straordinaria immersione in un campo che era stato dissodato per la prima volta in modo originale proprio dall’amico Pasolini, coadiuvato da Mario dell’Arco, con la sua Poesia dialettale del Nove-cento (Guanda, 1952). Con la collaborazione di Cesare Vivaldi, il Nostro varò per Garzanti nel 1991 i due grossi volumi di Poesia dialettale dal Rinasci-mento a oggi, comprendendovi non poche voci appartenenti al Sud o anche valorizzandone di trascurate come quella del garganico Francesco P. Borazio. Dal 1988 al 2000 fu alla guida della Fondazione romana dedicata a Marino Piazzolla, lo scrittore e critico nativo di San Ferdinando di Puglia diventato francese per quasi dieci anni, di cui oggi è assicurata la memoria anche grazie alle Edizioni Fermenti di Velio Carratoni che ne continua a proporre l’opera. Spagnoletti fu amico personale di decine di scrittori che oggi hanno il loro posto nella letteratura italiana ed europea. Serve sottolineare la sua tenacia nel porre in evidenza le opere anche di coloro che non rientrano facilmente in un comodo canone, come Stefano D’Arrigo, Lorenzo Calogero, Angelo M. Ripel-lino, Marcello Venturi, Emilio Villa, Salvatore Satta e il nostro e suo molto vicino Giuseppe Cassieri, nativo di Rodi Garganico, singolare penna satirica e irriverente.

Il Fondo Spagnoletti istituito presso l’Università Tor Vergata di Roma nel 2017 assume ormai la dimensione piena di un punto di riferimento per chi voglia

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navigare, con le robuste mappe di una volta, verso i più lontani e affascinanti lidi della fantasia e dell’eccellenza letteraria.

Jack Kerouac: sulle strade d’America ho cercato la felicità2

Niente doveva essere prestabilito, niente doveva essere impossibile, bisognava trovare la felicità e la libertà. Fu per Jack Kerouac, nato Jean Louis Kerouack a Lowell vicino a Boston, come inseguire per tutti i suoi tormentati 47 anni di vita il paese di Eldorado. Nella sua ribellione ad ogni compromesso con la normalità borghese, Jack incarna l’America che fugge da sé stessa, dall’assordante bugia di essere il modello di ogni gratificazione sociale e umana.

I primi vent’anni, dal 1922 al 1942, non sarebbero stati male. Kerouac arriva ad iscriversi alla Columbia University di New York a colpi di foot-ball, in cui è un vero campione per forza e velocità. Ha imparato l’inglese stando in una famiglia franco-canadese e ha assorbito presto la voglia di distinguersi anche in campo letterario. I sogni crescono floridi se vieni a contatto col Greenwich Village e conosci un sacco di gente tra cui Allen Ginsberg, William Burroughs e Lucien Carr. E mentre l’America entra in guerra, anche Kerouac accorcia le distanze col suo vero sé diventando un bohémien assetato di esperienze e di viaggi. Negli anni a venire farà disparati mestieri, tutti assolutamente precari, lo sguattero, il cuoco, il marinaio, il frenatore in uno scalo merci, convincendosi che nessuno è pari all’azzardo della scrittura della propria anima.

Tra il 1947 e il 1950 Kerouac, insieme all’inseparabile Neal Cassady, disegna sulla cartina d’America innumerevoli spostamenti da est a ovest e ritorno. Sotto le armi gli hanno diagnosticato una personalità schizoide che lo spinge ad uscire dalla realtà in compagnia di droga e alcol. La sete di esperienze forti fa tutt’uno con certe pagine lette sui libri di Joseph Conrad e di Jack London, ma ora le barriere da abbattere sono diventate anche i foschi fantasmi evocati nella ‘’caccia alle streghe’’ del senatore Joseph McCarty. Essere beat (e la Beat Generation è un’espressione usata per la prima volta da John Clellon Holmes in un articolo del 1952 sul New York Times) vuol dire essere ‘’beati’’ e ‘’battuti’’, cioè emarginati, perdenti, anticonvenzionali, ribelli. Il sogno di Kerouac è arrivare ad una ‘’prosa spontanea’’, ovvero abbandonarsi ad un flusso linguistico senza punteggiatura o scansioni sintattiche ed obbediente soltanto ad un ritmo prevalentemente jazz,

2 Le opere di Jack Kerouac (1922-1969) si possono leggere comodamente nel Meridiano Mondadori del 2001 curato da Mario Corona, da affiancare magari a I capolavori (ivi, 2004). Per approfondire la conoscenza dell’autore sono utili i diari col titolo Un mondo battuto dal vento (ivi, 2006) e la biografia di Ann Charters, Vita di Jack Kerouac (ivi, 2003). Per un panorama della cultura beat è da leggere il sempre-verde C’era una volta un beat. 10 anni di ricerca alternativa dell’impagabile Nanda Pivano (Arcana, 1976). A disposizione di chi conosce l’inglese il sito dedicato all’autore www.jackkerouac.com.

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costruito come un tracciato elettrocardiografico, la mano che segna febbrilmente il succedersi dei ricordi e delle sensazioni.

Niente si deve opporre a questa urgenza di scrivere, neanche il supporto cartaceo da cambiare sul rullo della macchina dattilografica: perché non incol-lare decine di fogli per il telex in una striscia continua lunga 36 metri? Ne esce un’opera mai tentata neanche dalla più spinta delle avanguardie, così come potranno constatare nel 2007 i visitatori sbigottiti di fronte al manoscritto esposto alla Public Library di New York, che in un’asta pubblica sarà valutato ben 2 milioni e 400 mila dollari. Da New York a San Francisco, da El Paso a Seattle, da Detroit a New Orleans, in bus in auto in autostop, per carpire più che per capire l’America con la folle speranza di esorcizzare il disagio di una condizione alienata.

Molti altri viaggi porteranno Kerouac in cerca di sé stesso, ma puntualmente dovrà affogare la sua disperazione in bagni di alcol e di amori mercenari. Un carattere come il suo fu costituzionalmente l’antitesi della stabilità, prima con Edith Parker, poi con Joan Haverty, infine con la salvifica Stella Sampas. Si sposò tre volte, con Joan ebbe la figlia Michelle mai riconosciuta e finita anche lei nelle braccia letali della droga. Quando finalmente uscì nel 1957 da Viking Press On the road, Kerouac aveva già scritto undici altri romanzi e numerosi testi di poesia, tra cui Mexico city blues, e aveva attraversato una crisi mistica saldando il suo antico cattolicesimo repressivo al buddismo caldeggiato dall’amico Gary Snyder e restando per due mesi solo sul Picco della Desolazione nello stato di Washington. Dopo l’Urlo di Allen Ginsberg (pubblicato nel 1955) arrivò lo scalpore del capo-lavoro di Kerouac, con la conseguente fama esposta alle stroncature della stampa culturale americana, tra cui quella particolarmente feroce di Truman Capote. Arri-varono anche le collaborazioni a Playboy, Holiday Magazine, Esquire, e sembrò arrivato il benessere. Ma Kerouac non era fatto per piacere all’establishment né avrebbe mai rinunciato alle sirene della sua mente visionaria.

Nel 1966, invitato dalla Mondadori, arrivò a Milano e si prestò completa-mente ubriaco davanti alle telecamere ad un’intervista di Nanda Pivano (docu-mento ancora consultabile nelle Teche Rai). Lei gli chiese perché fosse infelice, ma ricevette solo un gesto di diniego dall’autore. ‘’Oltre le strade sfavillanti c’era il buio e oltre il buio il West. Dovevo andare’’. Certi destini non si possono fermare, né è più possibile recuperare l’età dell’innocenza e le scorribande felici dell’infanzia. Vanità di Duluoz, nel 1968, arriva come l’estrema confessione di ciò che è ormai passato prima che ci si calasse nell’inferno: in sottofondo sembra di ascoltare tutto lo struggimento di un blues che accompagna l’illusione di fermare il tempo. Arriveranno le ultime sbronze e le ultime risse al bar per mettere ko un fegato massacrato dalla cirrosi, il 21 ottobre del 1969, a 47 anni. (S. D’ A.)

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Alcuni giudizi critici sulla poesia di Dante Maffia

“Spesso, prima delle feste di Natale, andavo a passeggio con Baldini per Piazza Navona e guardavo con curiosità quelli che imbracciano un fucile e sparano alle bambole di pezza e alle bottigline di liquori senza mai fare centro. Tu invece fai centro spesso già con questo tuo primo volume che Palazzeschi ha prefato così bene. Un miracolo oggi che la poesia sta diventando gioco arido e gratuito. Ringrazia Giorgio Petrocchi”.

Mario Praz

“Grazie del libro prezioso che Ricci non mi aveva fatto ancora avere… Maria Esther Vasquez e Horacio Armani mi hanno riferito che hai un bagno nella tua casa con le tigri sulle mattonelle. Un omaggio a me. Maria afferma che tu sei il Borges europeo. Non so se augurartelo”.

J. L. Borges

“La tua poesia sa di conoscenza, ha il sapore della Calabria antica e Dario fa bene a parlarne con entusiasmo, ammirato anche dalla tua cultura che gli sembra smisurata, anche se lui esagera sempre”.

Pier Paolo Pasolini

“Ti ho letto con piacere scoprendo via via un poeta che sa essere elegante e forbito”.

Italo Calvino

“Ho parlato con Leonardo Sciascia per vedere di creare il caso Dante Maffia,anche con l’aiuto di Giampaolo Rugarli che ha proposto l’idea. Non so se riusci-remo a farti amare e leggere, come sarebbe giusto, so però che vali davvero, se questo può consolarti”.

Gesualdo Bufalino

“Mi fa piacere che tu abbia apprezzato i miei scritti sui poeti dialettali. Cose di gioventù… Per la tua poesia prima o poi verrà fuori qualcosa di buono, abbi fiducia… io sono convinto che tu sei uno dei grandi poeti di cui si parlerà molto; nelle tue parole c’è la carne viva di un Sud che non vuole restare nel guado e vuole liberarsi dalle ombre”.

Leonardo Sciascia

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“Ho letto sul “Corriere” la recensione di Enzo Siciliano sull’Eredità infranta ma non condivido la tua parentela con Scotellaro. La tua non è rivendicazione che nasce dalla condizione contadina, ma indignazione civile con quel giusto di liricità che occorre perché la parola quotidiana diventi parola di poesia. Grazie della dedica, dell’attenzione che mi hai dato”.

Primo Levi

“Condivido il giudizio del tutto positivo di Giuseppe Pontiggia che ha letto La castità del male con competenza e partecipazione, anche se lontano dal mio modo di entrare in un testo.

Sì, c’è anche “Una sorta di esegesi interna alla poesia” che però si fa essa stessa poesia, com’è accaduto, e non sempre, nelle liriche illuminate di Jimenez o di Eliot.

Insomma, con gli anni lei ha raggiunto caparbiamente una maturità che fa respirare la parola a pieni polmoni.

Come vede ho letto con attenzione la sua raccolta”.Oreste Macrì

“Mio nonno era calabrese come te, io dunque sono in parte calabrese, sono tuo parente, e ne sono orgoglioso. La generosità dei calabresi è famosa. Nella tua poesia leggo un pizzico d’anarchia che mi fa pensare che tu sei sulla strada giusta, anche se ti consiglio di uccidere i residui fantasmi del passato che di tanto in tanto ti preparano degli agguati, perché sono prepotenti e non ammettono le ragioni del rischio”.

Gregory Corso

“Il tuo dialetto è stato una sorpresa: così inusuale, così estraneo all’uniformità dell’italiano… Mi convinci di più quando non sei troppo polemico e irruento, quando riesci a raccontare come se fossi con la gente del tuo paese. Allora gli esiti diventano alti, altissimi”.

Natalia Ginzburg

“Bellissimo il viaggio in Sicilia, ho potuto apprezzare la tua capacità di saperti orientare in varie letterature con molta disinvoltura. Ormai, in genere, si vive isolati in piccoli mondi e tu invece spazi senza sosta...”.

Mario Vargas Llosa

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L’inconsistenza indefinita ovvero Il poeta e la farfalla

Dice una poesia di Fernando Pessoa: “Intorno al lume desolato / il cui petrolio m’illumina la vita, / aleggia una farfalla, per ordine / della sua inconsistenza indefinita”.

Io ho letto Il poeta e la farfalla di Dante Maffiafacendomi guidare da questi versi del poeta portoghese, non per partito preso, ma perché andando avanti nella lettura mi sono reso conto che la donna di cui si parla nei versi, nonostante la dolcezza con cui Maffia l’ha avvolta, nonostante le metafore scintillanti e superbe, non è in grado di comprendere ciò che ha ricevuto. Non ne so esattamente il motivo, diciamo che è intuito di donna, ma spiritualmente parlando Maffia fa di una ranocchia una regina.

Voi dite, che differenza fa se lei si è accorta o meno della bellezza dei versi che le sono stati dedicati, se ha sentito il brivido di bellezza e di grandezza che il poeta le ha regalato, se ha capito d’essere diventata icona a cui le generazioni future guarderanno per trarne esempio d’amore. Io dico invece che se lei si fosse resa conto di tutto non ci sarebbero stati i versi finali della sezione Limbo, che sono belli, sono soprattutto un cumulo di silenzioso strazio giocato sui parametri del dolore sotteso, non dichiarato apertamente.

Evidente che sto sbagliando la lettura del libro, i libri si dovrebbero leggere per quel che sono, non viverli come un fatto personale, come una ingerenza, positiva o negativa, dentro la nostra quotidianità.

Bene. Ricomincio a leggere restando al balcone, guardando fluire i versi e anche in questo caso però sento che molta vita se ne va con la corrente del fiumee non ha una vera direzione, ma un subbuglio di colori e di bagliori, una inquietu-dine funesta. La farfalla è sempre più “inconsistenza indefinita”, pretesto, ecco, adesso lo capisco, per scrivere un libro, appropriazione di un simbolo per entrare follemente nella psiche di una donna e cercare di vederne le trame infinite.

Mi piace che Maffia in molte delle poesie si soffermi a considerare la condi-zione della donna nel rapportarsi con l’uomo. Sento il rispetto di antiche regole che egli non intende spezzare se non con il dono degli abbracci. Perciò si leggono inviti, promesse, ragionamenti che aprono l’anima. Un modo garbato e direi eter-namente virile di dire il proprio stato di sognatore cercando il coinvolgimento nei sogni. Ma la donna? All’inizio sembra stare al gioco, anzi ne è imbrigliata, non le pare quasi vero che abbia ottenuto l’attenzione della poesia, che susciti ardore e frenesia. Sono piccoli spazi a dircelo, piccole insinuazioni di parole appena pronunciate, schermaglie che però il poeta non ci fa distinguere da dove partono e dove arrivano, fa un tutt’uno delle azioni e dei pensieri. Ma c’è qualcosa che sfugge, che si distacca dal corpo vivo del senso e si fa inerzia in un comportamento che manca poco e non è progetto d’ipocrisia, secondo fine, astuzia per ricevere il

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calore di un amore che probabilmente non ha mai provato. “Donna, mistero senza fine e bello”. Diceva Guido Gozzano, io dico, “Donna mistero che non riconosce il bello” quando ha le ali, quando è disinteressato, quando è pienezza.

Eppure, come accade a molti poeti che subiscono la violenza degli addii, Maffia non entra nella crisi dell’angoscia e della solitudine, mostra una tristezza senza limiti, fa sentire nostalgia di tenerezza ma va avanti, incontro alla vita consapevole di non avere sbagliato, d’essere stato sincero, d’essere stato uomo fino in fondo. Non gli sorge nemmeno il dubbio che forse la donna ha barato, è stata al gioco per vantare il trofeo della poesia, per sentirsi importante e ispira-trice. E’ donna giovane ma scaltra ed esperta, ha avuto prima di questo amore molti altri, e ciò dovrebbe farle comprendere la preziosità di quel che possiede… Invece si fa prendere dall’egoismo, sbanda, o fa finta di sbandare, s’allontana senza una ragione. E il poeta, invece di apparecchiare un dramma, scioglie il canto verso le illusioni e la consapevolezza: “Ed è giusto che paghi? / Dunque Topolski ha ragione: / l’amore è un mostro. / E tu?”.

E’ una domanda, non un’accusa. “Io parlo una lingua sconosciuta, / dovevo saperlo che non potevi / percepire fino in fondo la mia anima, / che amare un poeta può soltanto / una farfalla vera”. “Lei non ha perduto l’anima, vero?”, “Amiamola così com’è / perché anche lei adesso ha il cuore malato”.

Che dolcezza, che incantevole tenerezza nelle osservazioni del poeta, che candore e che amore infinito. Niente recriminazioni, niente accuse, semmai comprensione senza limiti… Ecco, questo è l’amore, comprensione senza limiti, anche quando ci si rende conto che uno dei due è un arido pretesto. Mi viene in mente Un amore di Dino Buzzati, la giovane prostituta amata dall’architetto. La condizione è quella, ma mi pare che questa delle poesie di Maffia non facesse il mestiere.

Elena Clementelli

Profumo di Murgia

L’amore è profumo, la Murgia è profumo, Matera è profumo, le parole sono profumo, cioè essenza imponderabile, ricchezza che però non ha forma, non è possibile individuare precisamente dove si nasconde e che cosa sarà nelle varie ore della giornata.

Titolo affascinante, “Profumo di Murgia”, per indicare che la natura è diven-tata abbraccio dolce e convincente con l’uomo, per indicare che la donna (Maffiaè autore di un volume di oltre quattrocento pagine che si intitola “Matera e una donna”) è diventa il pulviscolo che vaga per la Murgia e affascina, riempie di sé perfino le forre, le grotte, i Sassi.

Ma nel profumo c’è anche l’indicazione di una irrealtà che potrebbe sfumare e sparire per sempre, c’è il pericolo della perdita (“Matera brucia. Il rogo mi fa seme / del tuo fiorire”), e c’è una sorta di nota petulante, come altrimenti chiamarla, che ha sapore esoterico, comunque metafisico, come se la Murgia fosse appena un

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luogo ideale inventato dal poeta e che non ha corresponsioni con la realtà.Ma questo è l’impatto con il titolo. Le poesie però prorompono di voci che

palpitano, l’umanità proverbiale di Dante Maffia si sente camminare, vivere, libera e solida, come una folata di vento caldo che vuole accarezzare il mondo e comunque portarlo all’ascolto delle sue gioie d’amore.

E devo dire che queste gioie arrivano fino al cuore del lettore per merito di un linguaggio senza orpelli, di un vocabolario che sembra addirittura elementare (come non pensare alle cose leggere e vaganti di Umberto Saba?) e che proprio per questo diventa imperioso, e resta in chi legge come un scommessa da portarsi dentro per forgiare un rapporto con la quotidianità.

Maffia è ormai conosciuto come il poeta delle città, come il cantore di Matera e “Profumo di Murgia” infatti fa parte di un progetto che dura da anni pe evidenziare le bellezze di una terra che fu sempre trascurata e di cui parlarono Rocco Scotellaro e Carlo Levi ma in maniera diversa.

Nelle poesie di Maffia non c’è lamento, non c’è rivendicazione, non c’è la promessa della ”renovatio” sociale, ma il canto pieno del cuore che però non cede mai al patetismo, al sentimentalismo e alle sdolcinatezze. Come abbia fatto, dopo tanto scrivere, a restare fuori dalle tentazioni dolciastre e romantiche è un fatto che però si spiega con la sua fermezza poetica. Egli infatti tiene il senti-mento sempre sull’orlo, in bilico, ed evita le stravaganze, le esagerazioni, in modo che la parola dia da sé le ragioni sottili del suo “messaggio” e la reden-zione del dettato sia affidata a suggerimenti, a soffi, al fiato delle metafore però anche questa scelte con cura.

Siamo al cospetto di un poeta che alla raffinatezza espressiva unisce la misura. L’ha imparata dai classici che ha distillato e, come gli piace dire, “vissuto e violentati” per poi renderli pane.

Ma sono cose che ormai sanno tutti i critici di Maffia e quindi la mia nota non vuole ripercorrere quel che è già conosciuto, ma indicare che questo libro ha pregi enormi, anche se non è possibile fare una graduatoria delle varie opere dedicate a Matera, perché in ognuna c’è l’anima del poeta che si dibatte in fermenti inenarrabili, addirittura in contorsioni pacate che però aprono squarci verso l’imponderabile.

Il pregio però di questo libro, e direi di tutta la poesia di Dante Maffia, sta soprattutto nella prensilità con cui egli sa cogliere le piccole cose del vivere giornaliero. Si comporta come un cane molecolare, pare che così si chiamino i nuovi cani poliziotto, e non trascura nulla, perché sa che la vita e l’amore non sono montagne, ma azioni che si legano, che si serrano in vicende e in conside-razioni dell’altro. Direi che si tratta di una sorta di filosofia che trova la genui-nità di riscontri nel vocabolario più usuale ma portato a dire il sublime e a volte

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l’inarrivabile.Un poeta di questa statura oggi vive fuori da regole e da gruppi e non è appa-

rentabile a nessuna consorteria. Forse per questo è molto amato e molto odiato, come tutti i grandi. Forse il guaio è che i nemici di Dante non hanno mai letto una sua poesia. Se lo facessero cambierebbero idea. La poesia non dovrebbe avere nemici.

Sebastiano Martelli

Su Io, poema totale della dissolvenza

Non è tempo di poemi, siamo nella civiltà della fretta, della rapidità dei computer, dei traguardi che vengono bruciati attimo dopo attimo. Ciò che un giorno fa era un approdo definitivo risulta superato e sorpas-sato e la corsa si fa sempre più sfrenata. Di questo clima ha risentito anche il mondo della poesia ed è davvero una sconfitta, secondo me, perché almeno la poesia doveva restare indenne dalla confusione e dal dissidio che sempre più arriva a valanga perfino nella parola che non riesce ormai a saper dire il senso recondito dell’es-sere e del divenire. Questi ultimi sono concetti mutuati dalla poesia di Dante Maffia che, con Io, poema totale della dissolvenza, sfidale mode e i luoghi comuni e tenta di ribaltare una tendenza, di opporre un freno analizzando, innanzi tutto, quel che è accaduto e sta accadendo nella realtà del quotidiano, e poi insinuando il dubbio che dalla dissolvenza possa nascere la nuova civiltà avviata al futuro.

Una bella sfida, portata avanti con incursioni di straordinario impatto in ogni disciplina, in ogni direzione, servendosi di ciò che la cultura ha affastellato nei secoli, e cercando di sfrondarne l’essenziale, non dimenticando mai che ogni azione culturale, ogni libro, ogni dibattito e ogni presa di posizione ha implica-zioni, oltre che spirituali, anche sociologiche, antropologiche e politiche.

Dante Maffia, per cercare di rendere visibile il percorso, si serve dell’avallo dei grandi del passato e attribuisce addirittura a Dante Alighieri la Prefazione al volume, e ventuno Postfazioni ad Ariosto, Borges, Campana, Canetti, Croce, Cvetaeva, Dickinson, Saffo, Eliot, Esenin, Goethe, Kavafis, Leopardi, Lorca, Montale, Petrarca, Rilke, Shakespeare, Tasso, Valery, Villon

Una finzione che ricorda certe operazioni di Borges, ma qui c’è anche dell’altro, il voler portare sullo stesso piano il Tempo passato, quello presente e quello da venire in modo che ogni cosa, storia e pensiero, sensibilità e progetti si veicolino sullo stesso piano e trovino il raccordo per concimare il senso della vita e della morte, per illuminare al meglio possibile la sostanza della poesia, il suo valore, la sua capacità di interferire nella realtà, nella società, nei comportamenti quotidiani.

Ambizione sfrenata di Dante Maffia, che non sente remore, che non si ferma

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davanti ai muri invalicabili e tenta di assommare mari e monti, l’intero scibile umano, la filosofia e la filologia, la letteratura e la sociologia, la storia e la poli-tica, l’ecologia e la religione. Si dirà, ma Maffia poteva scrivere dei trattatelli e dire la sua e così il suo pensiero sarebbe stato esplicito. Ma Maffia non è un filo-sofo, non ha nessuna intenzione di offrire tesi impeccabili e coerenti: egli è poeta e offre le tesi con tutte le ambiguità possibili e immaginabili, in modo che ogni argomentare arrivi sulle ali del lirismo e della potenza espressiva del canto.

Per non essere monotono, ma credo anche per dimostrare che la tecnica della composizione si impara e può permettere miracolosi approdi se il poeta possiede la sensibilità e vi sa travasare i moti dell’anima, Maffia utilizza tutte le risorse che gli fornisce la metrica con la disinvoltura di un prestigiatore che fa balzare da un fazzoletto una colomba. Eppure non c’è nulla di artificioso in nessuna delle poesie che fanno parte di questa immensa maratona, anzi alcune delle varie suites sono colate laviche, frecce acuminate che vanno dritte al bersaglio e riescono a decifrare mondi sommersi, a guarire ferite inguaribili, a entrare nella dimensione dell’imponderabile.

Non è facile e direi che è impossibile leggere d’un fiato un’opera così corposa e poderosa, bisogna scandagliarla a poco a poco, “gustarla” a dosi omeopatiche se non si vuole cadere a picco nella morsa di una sopraffazione o di una inquieta confusione. Questo poema sembra avere artigli lunghi che affondano nel corpo vivo delle ragioni concrete della poesia diramandosi nel passato remoto e in un futuro senza limiti. Dante Maffia non si è limitato a scrivere sfogliando la realtà, suggendo fior da fiore, come si diceva una volta, ma l’ha vivisezionata e scomposta, rico-struita e seminata a dosi omeopatiche mischiando le carte, dissipando il già acqui-sito e non per mandarlo al macero, ma per rifondarlo con nuove ipotesi, rinverdendo posizioni poetiche che sembravano avvizzite, riproponendo una visione del mondo forse mutuata da Nietzsche, ma senza sconfinamenti immaginifici o irrazionali.

Nonostante la consapevolezza di imbarcarmi in una fatica enorme, io ho voluto leggere l’opera partendo dall’incipit (impareggiabili i versi in corsivo che aprono la porta del poema: “Io scrivo con il cuore e non col petto…”). Ho messo poco più di due settimane per scandagliare e analizzare accuratamente l’intero poema, per coglierne la valenza dell’insieme e cercare di capire fino in fondo che cosa ha mosso il poeta a scomodare filosofi e poeti di tutti i tempi e darli in pasto rinnovandone stilemi e mondi interiori. No, non si tratta di “imitazioni da” (non a caso egli cita Lucrezio all’inizio: “l’universo si rinnova senza posa / e le creature mortali vivono scambievoli vite”), Maffia manda all’aria gli impianti di poeti, per esempio, come Villon, Valery o Eliot per cancellarne la consistenza storica imprimendo ai suoi testi uno spessore che sia rigenerazione di un abba-glio. Difficile comprendere l’operazione nella sua ampiezza e nella sua visiona-rietà, dico soltanto che quando si avverte sul fondo qualcosa che ci appartiene è perché Maffia ha voluto fare affiorare la sintesi del passato per proiettarla oltre se stesso e oltre l’infinito, ribadendo che l’esperienza vale e diventa emblematica se è accompagnata dalla meditazione, dalle analisi ponderate sul senso dell’umano

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e sullo scandaglio sociologico e spirituale.Nel poema ci sono tutti i poeti di sempre e non ce n’è uno solo, le voci si

sono confuse e amalgamate nel canto supremo della verità del dettato alto che ha scardinato gli antichi sensi e gli ha dato una natura nuova, quella di Maffia, del suo mondo etico ed estetico, della sua indignazione e del suo incanto, della sua fede nella poesia che per lui ha sempre le stimmate foscoliane: “l’armonia vince di mille secoli il silenzio”.

Libri di poesia così complessi, così profondi, così totali non ne esistono da almeno cento anni. Maffia giganteggia in maniera possente per il magma che scorre in ogni verso, per la luce abbagliante che spesso diventa saggezza antica, per la forza di urto che spacca le abitudini linguistiche e tematiche e ne rinnova l’andamento, la potenza e la qualità semantica con metafore abbaglianti e capaci di sintetizzare interi mondi.

Il poema analizza la ferocia dell’uomo odierno e la caduta a picco dei valori, ma non chiude gli occhi e non si arrende davanti alle storture, alle deviazioni, agli sconci e al male. Infatti spesso grida come un forsennato che domanda ascolto perché tutto riprenda a muoversi nella direzione della verità. (Si confrontino almeno Calabria in bianco e nero, L’uomo a una dimensione e Orazione campa-nelliana).

“Dicono che dissipare sia la perdita, / io dissipando vivo”; “L’amore in fondo / è questo morire che perpetua il canto”; “E’ tardi, il vertice ha decretato / lo schianto e per primo sarà inghiottito il firmamento”; “Dunque conoscere è morire”, “Volano per mari sbandati gli orli spiumacciati / del dire troppo attorno e non sfiorare / l’osso e la polpa che dan fiato al Verbo”. Versi presi a caso, ma che fanno sentire una tensione e una inquietudine nuove, inedite dando allo sguardo del lettore una sostanza diversa da quella che aveva finora. Ciò significache Maffia ha saputo cogliere, in questa marea di versi, il nettare e la spazzatura del mondo, con un ritmo frenetico che non dà soste, che accompagna ognuno per i meandri intricati e per i connubi che la parola crea per cercare la via di fuga dall’inerzia. Poesia dunque che non resta in superficie, ma entra nel sangue e sconvolge, poesia, ancora una volta, come ebbe a dire Pier Paolo Pasolini di Maffia, che “sa di conoscenza”. Ed è forse questa qualità che ha spinto il Consi-glio Regionale della Calabria, all’unanimità, a porre la candidatura di Dante Maffia al Premio Nobel e a trovare le adesioni di alcune Università e di varie Fondazioni ubicate nelle Marche, in Toscana, nel Lazio e in Calabria. Poi hanno aderito anche alcuni paesi della Calabria.

Lo so, ci sono piccoli uomini che, schiacciati dal peso di libri come Io, poema totale della dissolvenza o come Il poeta e la farfalla, hanno attivato la loro gelosia, la loro invidia e la loro rabbia contro questo poeta che non ha limiti. Si pensi soltanto che si ostinano, dinanzi all’evidenza di un coro ampio di consensi, a dissentire attribuendo la candidatura di Maffia al Nobel al suo paese di origine. Che dire a queste povere creature? Che quando nasce un poeta come Dante Maffia dovrebbero, invece che rodersi dall’invidia e dalla gelosia, fare festa,

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perché il mondo si è arricchito di una nuova dimensione umana e culturale. Ma va bene, non sono nuovi neanche nella loro pochezza: i denigratori di Balzac, di Zola, di Tolstoi, di Dostoievskij, di Simenon, di Yeoshua non li ricorda più nessuno e le stupide accuse imperniate sulla quantità ormai sono acqua sporca finita negli scoli delle fognature. La poesia è un bene, è l’inutile più utile del mondo, e quando c’è, bisogna riconoscerla e abbeverarcisi, altrimenti si rischia di restare aridi ingombri perfino di se stessi.

Giuseppe Trebisacce

L’ossessione nella poesia di Dante Maffìa

Nel curare un’antologia che antologizza l’intera produzione in versi di Dante Maffìa, con esclusione di Io poema totale della dissolvenza, ho scritto un Quasi un profilo di introduzione, nel quale paragonavo la lettura complessiva dell’opera in versi del poeta cala-brese ad un viaggio nella sua casa al mare, qui a Roseto Capo Spulico. In quelle stanze, piene di arte, di libri, delle lettere di tanti rappresentanti della letteratura italiana e straniera, ma anche del calco dei gesti del quotidiano, della visione del mare dell’amata Calabria, della cucina, delle stoviglie, vi trovavo quell’intensità umana, quella voracità di affetti, di passioni, di vita che caratterizza la scrittura di Maffìa. Si tratta di una vora-

cità umana totalizzante che mi ricorda un viaggio compiuto insieme all’amico poeta dalle parti di Novara, per presentare l’appena uscito Milano non esiste(2009); in quell’occasione, guidando sull’autostrada del Sole e discutendo di letteratura, chiesi a Dante come riuscisse a leggere, scrivere e lavorare ad un ritmo così sostenuto. Maffìa mi rispose che affrontava le vicende dell’esistere come un “animale” – era questa la parola usata - con la stessa ferina tenacità, fisica ancora prima che intellettuale, del predatore, con un ossessività febbrile che lo portava a saltare pasti e notti di riposo, per bruciarli nel fuoco della poesia. Annotavo che la stessa frenesia era rinvenibile nel modo in cui Maffìa entrava ed usciva dai temi fondati della propria poetica: si trattava, in effetti, di una smania che imprimeva la carta di una forza peculiare. Parlare della poetica di Dante Maffìa, leggerne i libri cercando di selezionarne i testi più significativi, era come entrare nell’intimo della sua casa partecipando al mondo interiore, ai desideri, alle inquietudini, alle paure, in definitiva alle ossessioni del poeta. L’obiettivo dell’antologia è condurre il lettore nelle ‘stanze’ di Maffìa nelle quali si incon-trano le collezioni di rane, i souvenir dei molti viaggi, i quadri e soprattutto i libri. Si tratta di un viaggio letterario che è anche un viaggio umano e psichico, capace di mettere allo scoperto i nervi, gli argomenti fondanti, gli assilli. Se questo è l’angolo di indagine – una lettura dell’opera poetica a fini antologici – è

Dante Maffia

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da notare come le osservazioni che seguono siano agevolmente applicabili anche all’opera in prosa (alla quale si faranno alcuni accenni) e al poema recentemente pubblicato che, nonostante la sostanziale unicità e discontinuità stilistica rispetto al resto, costituisce una summa dell’intellettuale e dell’uomo Maffìa.

Si accennava innanzi come uno degli elementi caratterizzanti delle ‘stanze’ del poeta siano i libro, ed infatti l’oggetto libro è il primo elemento di ossessione per Dante Maffìa, forse derivato dal fatto che nella sua infanzia, come nella sua prima giovinezza romana, il possesso dei libri era di gran lunga inferiore alla sua sconfinata sete di letture, alla sua bulimia di parole e conoscenza. Con i libri Maffìa ha un rapporto che non è confinato alla sfida dell’intellettuale e del critico militante; il suo essere lettore onnivoro è infatti un continuo corpo a corpo con la parola, una tensione febbricitante e notturna verso la carta che coinvolge il poeta con una fisicità bulimica. Basti osservare come nei suoi racconti i libri vengono arrostiti, bolliti per distillarne il succo, usati come letto per la passione erotica – vi è un rapporto a tratti feroce, di vera e propria sfida, che ricorda Autodafé diElias Canetti. Si veda uno dei racconti de La donna che parlava ai libri (2010),nella quale una donna dialoga con i libri esposti in una vetrina, come se gli autori fossero persone lì presenti, in un crescendo di drammatica intensità, finche la donna si getta schiantandosi sulla vetrina, presa dalla sua stessa follia. Oppure come nel primo racconto, nel quale i due protagonisti finiscono per riuscire a fare all’amore solo sulle pagine di Albert Camus, sparse sul letto.

Ne La biblioteca di Alessandria (2003), uno dei capolavori della produzione poetica di Maffìa, viene data voce a letterati e poeti la cui memoria è stata cancel-lata dall’incendio della famosa biblioteca, il quale ha impedito che anche il nome, e non solo la scrittura, arri-vasse ai moderni. Sorta di ‘spoon river’ dell’antichità, in questo libro viene data un’ultima possibilità di essere nuovamente parola e gettare il proprio monito alla futi-lità dell’esistenza. È questa l’occasione per Maffìa per riflettere sul rapporto con il linguaggio, immedesiman-dosi in ognuna di quelle voci cancellate per sempre dalle fiamme; ne emerge un poliedro dove ogni faccia ricom-pone, attraverso un’angolatura diversa, la stessa ossessione di Maffìa verso l’es-sere poeta, un’ossessione che si sostanzia ed è questo l’elemento che qui preme rilevare - in un oggetto fisico, il libro, il rotolo, il volume, da leggere e conservare. Ma anche da imparare a memoria, da rileggere attraverso letture notturne, febbrili, nelle quali la carta si incendia, fino all’estenuazione del senso, alla distillazione della parola. Vi è però da evidenziare un aspetto importante: Maffìa, uomo dotto e coltissimo, non è un erudita. La sua poesia non indugia sulla cultura, non cita, semmai vive la parola con quella sensualità che dà fisicità e corpo alla parola stessa. Questo tema affiora in più parti nella produzione del poeta calabrese ed in particolare ne Il corpo della parola (2003), dove, ancora una volta (ma siamo

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nello stesso anno di pubblicazione de La biblioteca di Alessandria), la fisicità del linguaggio si impone quasi carnalmente, attraverso desideri e suggestioni di un rapporto intenso e tuttavia incompiuto. Vi è, insomma, un comportamento compul-sivo verso la poesia che costituisce anch’esso oggetto di indagine.

Maffìa è un indagatore profondo dell’animo umano, del pensiero, a partire da se stesso. La sua indagine, che coinvolge spesso altre discipline, la sociologia, la psicologia, la filosofia, si arresta i fronte alla barriera della ‘dissennatezza’. È opportuno evidenziare come nel poeta calabrese, l’indagine ossessiva del sé rischia, in ogni momento, di far perdere breccia sulla cognizione del reale, che si slabbra e cede il passo alla follia. Ne Lo specchio della mente (1999), la voce viene data ai reclusi di tre cliniche psichiatriche del Sud della penisola. A Maffìa interessa quella perdita di aderenza verso la realtà, l’attimo nel quale la confusione dell’intelletto si sostitu-isce al reale, sovrapponendo piani, sensazioni, immagini e metafore. Si tratta di una continua tensione all’eccesso che, lungi dall’essere anestetizzante, surriscalda la trama dell’esistenza fino a slabbrarne i nessi. Vi è qui tutta l’abilità di Maffìa di giocare con le metafore e le immagini, costruendo similitudini nelle quali il vissuto si infiamma di toni surreali, violenti e dolci a un tempo. Il tema dell’ossessione, sia essa riferita alla poesia, alla malattia mentale, alla pulsione erotica o all’amore, è una costante di questo scrittore, che non esita a mettersi a nudo, a mostrare gli strappi, le idiosincrasie, le (com)pulsioni quoti-diane ed esistenziali. Si leggano Possibili errori (2000) e Ucciso dentro il virgulto (2001), ma anche gli affioramenti in Al macero dell’invisibile (2006) e La strada sconnessa (2011), nei quali il tema della morte si salda agli affetti familiari, alle speranze deluse, ai compimenti, al transito delle generazioni nello specchio degli occhi delle nipoti appena nate. In questi due cicli, alle quali si potrebbero aggiun-gere Abitare la cecità (2011) e Sbarco clandestino (2011), Dante Maffìa fa i conti con se stesso, con le difficoltà (i pruni e le spine) dell’infanzia, con la maturità di uomo, con i successi letterari e con la loro futilità; guarda in faccia la morte con la consapevolezza di chi l’ha già sfidata vincendo la malattia.

Giova qui ricordare uno dei testi maggior successo di Dante Maffìa, il romanzo di Tommaso campanella del 1996. Il romanzo nasce da una delle ossessioni del Maffìa accademico, quella per il grandissimo filosofo calabrese, al quale il nostro poeta ha dedicato studi matti e disperatissimi, oltre che ad edizioni critiche (l’altra figura alla quale Maffìa ha dedicato anni di studi è Torquato Tasso, del quale fra l’altro non si possono non ricordare la malattia mentale, l’ossessione per la riscrittura delle proprie opere, le turbolente vicende biografiche, elementi oggetto di attenta analisi da parte del nostro autore e coerenti con le tematiche che qui si vanno esponendo). Da questo libro ci si aspetterebbe un testo biografico, distac-cato, asettico, erudito, ed invece Maffìa preferisce avventurarsi in una scrittura

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densa ed emotiva, dalle connotazioni psicologiche e poetiche, nella quale raccon-tare la propria disperata umanità come in uno specchio, attraverso la feroce rievo-cazione delle vicende di Campanella. Un genio del quale si mettono in evidenza la seta di cultura dell’infanzia a Stilo, la lunga prigionia, i processi, le ossessioni, le paure, la fede incrollabile nella parola e nella poesia. In questa prigionia, così sottilmente rievocata e della quale si sottolinea la privazione materiale della possi-bilità di scrivere (Campanella scriveva i libri dettandoseli nella mente), non può non ravvisarsi il disagio esistenziale del poeta Maffia verso una realtà contempo-ranea che ne fiacca lo spirito allo stesso tempo lo accende fino alla follia.

La riflessione di Maffìa sul sé, per la verità, parte da lontano, dagli esordi: se si leggono i libri di poesia degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta si osserva come questi siano orientati verso una dolente ed inquieta autoanalisi. Tale impietosa capacità di osservazione del sé e di mettersi a nudo è riscontrabile già in Passeggiate romane (1979), anche se si tratta di un testo ancora pervaso di languori, di passioni e titubanze laceranti, di un culto per la bellezza senza difese, per una classicità implosa ma ancora vibrante; ma è in Caro Baudelaire (1983)e in Il ritorno di Omero (1984), che la poesia di Maffìa si fa irta di punti inter-rogativi, di questioni irrisolte attraverso un confronto serrato con la tradizione e con se stesso. Si tratta di un’indagine fatta di dubbi sul proprio rapporto con la realtà, di continue interrogazioni nei confronti di un’esistenza che si percepisce minata dalla caduta, dalla morte, da un senso di vana caducità di ogni cosa. Sono temi rinvenibili già in L’eredità infranta (1981), un libro importante, di cesura rispetto alle movenze degli esordi, che fin dal titolo ci racconta di una disincan-tata esperienza del mondo nel quale compare una poesia politica e civile, dedicata alla Calabria, alla sua durezza, all’emigrazione, alla nostalgia di un impossibile ritorno. Ecco, allora, che l’analisi del sé diventa occasione di indagare le storture della vita, le sottrazioni, con una tensione verso una poesia universale, civile nel senso più alto, che si abbevera all’esperienza di Mario Luzi e di Pier Paolo Paso-lini, e che rimanda alla stagione ultima de La strada sconnessa e dello Sbarco clandestino. Nei libri successivi al testo del 1981, L’educazione permanente (1992) e La castità del male (1993), il poeta si rivolge verso una quotidianità nella quale costruire un microcosmo domestico, proiezione delle temperie personali e del mondo circostante. Non vi è alcuna costruzione di un’etica del quotidiano, né la creazione di alterità che vogliano rappresentare (o al limite ridicolizzare) un assetto sociale (le esperienze di Giovanni Giudici ed Elio Pagliarani sono distan-tissime nel tempo e nelle intenzioni); la casa di Maffìa, piena di odori, di sapori di cucina, di gatti, dei rumori e dei ronzii di televisori ed elettrodomestici, è il luogo dell’implosione dell’io, incapace di trovare ipotesi di senso oltre una realtà frammentata, dove è impossibile tracciare una linea fra bene e male, fra senno e follia: “La castità del male, il seme/ che s’unisce all’ibrido richiamo/ della luce e ansando/ arriva a distruggere il calvario/ della sterilità, il morbo/ indolore e sfuggente./ Sospetti, sintomi, accenti d’una fioritura/ subito spenta in un divario,/ in una intravista coloritura/ di sudario”.

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Maffìa è poeta dell’eros e dell’amore. La pulsione erotica, come si notava innanzi, è spesso legata ad una fisicità del linguaggio, ma non solo: il viaggio, la terra, l’origine, la nostalgia, tutto sembra marcato, impregnato di una tensione all’eros che (s)travolge i sensi ed infiamma la realtà. Vi è in Maffìa un profondo, consapevole abban-dono all’eccitazione, che proprio come l’ispirazione poetica non può che essere sfogata fino all’estenuazione del languore e dell’abbandono. Si leggano le raccolte Canzoni d’amore, di passione e di gelosia (2002) e Ultimi versi d’amore (2004), ma si leggano tutte quelle poesie d’amore che in ogni raccolta ci narrano di una pienezza dell’eros vissuto nella sua totalità. Credo vi siano pochi poeti, non solo contemporanei, che abbiano dedicato tanta parte della propria produzione all’amore coniugale come Dante Maffìa. Il matrimonio è il luogo privilegiato dell’esperienza erotica e sentimentale, in esso si compie la scoperta della bellezza, in un gioco di metafore che affon-dano nella tradizione letteraria e poetica. Bisogna rilevare come l’eros familiare, carico di abbandono e passione, si distanzi sorprendentemente dalla quotidianità domestica ed asfittica de L’educazione permanente e La castità del male. Si tratta effettivamente di due mondi separati, perché diverse sono le finalità e l’oggetto di analisi, ed in effetti l’eros coniugale (ed anche questa se vogliamo è una sorpresa) esplode negli anni Duemila, nella maturità umana e letteraria del poeta, quando già si riflette sui destini di una famiglia. La raccolta Di Rosa e di rose (2004) è giocata sulla metafora letteraria della rosa e sulla continua trasposizione di senso fra la moglie, di nome Rosa, e il fiore principe simbolo dell’eros; ne emerge un canzoniere fatto di mistero, di improvvise folate di vento, di risvegli, svelamenti, arcani. Il matrimonio di Maffìa non è, dunque, il porto sicuro, l’approdo, il riparo delle mura domestiche, esso è invece continua sfida, accensione, scoperta, enigma. Altrove, come in La strada sconnessa (2011), esso si fa occasione di riflessione per indagare sensi di colpa, occasioni perdute, sbagli, storture, anche oltre il rapporto di coppia stesso, per diventare il luogo entro il quale indagare l’essenza di un progetto di vita più ampio, fatto di crescita interiore e poesia.

La parola, l’essere poeta, la follia, la passione erotica: Dante Maffìa entra ed esce dalle vicende umane, dalle storie, dalle case e dalle città, lo fa con una legge-rezza ed un’abilità sorprendenti, spalancando abissi per subito richiudergli di fronte all’occhio attonito di chi legge, sempre però lasciando vedere, in ogni poesia, in ogni verso, quel nocciolo incandescente delle proprie ossessioni, sempre tenendo alto il calore, un sobbollire instancabile nel crogiuolo della parola. In questo l’autore cala-brese si mostra poeta vero, accorcia le distanze fra vita e letteratura, fra il sublime e il brulicare dei vermi, fra le stelle e le miserie umane, fra la prigione umida e ripu-gnante di Campanella e le vertigini del suo pensiero. Ogni parola di Maffìa finisce per bruciare con una tensione continua, febbrile, incredibilmente vicina alla verità.

Luca Benassi

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Su Matera e una donna

Non sono un letterato, anche se mi piace scrivere romanzi e racconti per avere le pause dall’archeologia, ma ogni volta che Dante Maffia mi manda un suo libro sento quasi un obbligo di fargli avere il mio parere, perché la sua scrittura mi coinvolge e mi dà emozioni di rara profondità.

Credo che ciò sia dovuto alle esperienze comuni, alle consonanze di intenti umani e culturali che ci hanno educato nei rispettivi paesi dandoci un punto di vista molto particolare, spesso lontano da quelli per esempio che sono nati e cresciuti nelle grandi città.

Matera e una donna è stato una sorpresa straordinaria, già l’idea di parago-nare la donna (madre, sposa, figlia, amante) alla città dei Sassi mi ha coinvolto, perché i Sassi rappresentano qualcosa di miracolosamente salvatasi dalla incuria dell’uomo.

Mi è piaciuta la furia, come altrimenti chiamarla, con cui Dante plasma i versi cogliendoli dalle antiche pietre, dalle atmosfere di un luogo affascinante e carico di storia.

Sono versi d’amore così intensi e così densamente universali che riescono a suscitare entusiasmo, a far toccare quasi con mano le sensazioni che si provano, a rivivere dentro le emozioni che chiese rupestri, piazze, strade, scorci particolari accendono in maniera diretta, evitando assolutamente il filtro della cultura.

Credo che Dante Maffia in questo libro abbia compiuto una sorta di miracolo: ogni poesia è densamente carica di tensioni umane e storiche, di accensioni este-tiche e perfino filosofiche eppure non gronda mai di sofisticazioni linguistiche, non si adorna mai di fronzoli e di superfluo. Tutto è come estratto da un cumulo immenso di esperienze e di letture immense, ma niente ha sapore libresco. E’ come se l’anima di Maffia, liberatasi di ogni sovrastruttura e di ogni riferimento, riesca a vivere e a farci vivere un rapporto diretto con Matera e quindi con la donna che è Matera stessa.

Ecco perché gli esiti poetici sono assolutamente freschi e direi zampillanti, fuori dai canoni, lontani dalle mode. Insomma, leggere questo libro è come riconquistare il mondo greco, la semplicità dei grandi lirici, quel tocco magico che con una parola, una immagine è riuscito a fermare lo stupore, l’incanto, la dolcezza di un rapporto che il tempo non potrà scalfire.

Giuseppe Roma

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Oreste Macrì poetadi Maurizio Nocera

È risaputo quanto sterminata sia la bibliografia scientifico-letterariadi Oreste Macrì (Maglie, 10 febbraio 1913 - Firenze, 15 febbraio 1998). Gaetano Chiappini, suo discepolo e successore sulla sua stessa cattedra nell’Università di Firenze, pubblicò un poderoso volume intitolato Biblio-grafia degli scritti di Oreste Macrì(Opuslibri, 1989), oggi, invece, su internet è disponibile il volume Lettere a Oreste Macrì. Schedatura e regesto di un fondo con un’appendice di testi epistolari inediti, a cura di Dario Collini (Firenze University Press, 2018).

Secondo Wikipedia egli è stato un critico letterario, filologo, linguista ispa-nista e comparatista, poeta. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che qui ci inte-ressa. Intanto perché non sono molte le riflessioni critiche fatte a tale proposito, e poi anche perché la poesia era per lui l’empireo della letterarietà.

Il suo amore per la poesia è testimoniato dalla sua adesione sin da giovane agli eventi e ai sodalizi poetici. Oreste Macrì voleva scrivere poesie. E le scrisse, almeno nel tempo fra le due guerre ed anche subito dopo la fine dell’ultima. Fino al giugno 1999 (un anno dopo la morte) le sue poesie erano del tutto inedite e sconosciute. È stato grazie ad una sua nipote, Albarosa Macrì Tronci, che è stato possibile leggerle in un libro (Scritti Salentini, Capone Editore, Cavallino di Lecce, 1999), da lei curato e introdotto da Donato Valli, che scrive:

le poesie [di Oreste Macrì] sono tutte raccolte negli anni dell’apprendistato letterario, allorché il giovane scrittore non si era ancora determinato per una scelta definitiva e nella sua onnivora ansia di abbracciare il mondo faceva coesi-stere critica e poesia, racconto e milizia giornalistica, saggistica e prosa creativa. A questa sorta di poligrafismo letterario egli, in effetti, non ha mai rinunciato, se non, forse, per la sola poesia, che risulta sperimentata solo negli anni della giovinezza (p. 5-6).

La Macrì Tronci aggiunge che forse quelle poesie dello zio sono:

cadute dalla memoria dello scrittore fino a quando, nel 1994, sono venute alla luce nella biblioteca di famiglia, a Maglie. Sono complessivamente 2000 versi circa, per oltre 100 pezzi di varia lunghezza, sparsi o raccolti, quasi sempre datati, spesso firmati - talvolta con l’eteronimo Simeone -, manoscritti o dattilo-scritti (p. 17).

Da destra, Oreste Macrì e Antonio Verri (Foto F. Bevi-lacqua)

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Oreste Macrì, come scrive Valli e come testimonia la nipote, scrisse questi testi dal 1936 al 1946. Molti di essi il poeta li ha scritti a Firenze. Qualcuno, forse nel Caffè San Marco, luogo di incontro degli ermetici e del gruppo delle “Giubbe Rosse”, forse gli disse che quei suoi versi non valessero molto. Questo dato è confermato anche dal Valli il quale, sempre nella introduzione citata, scrive:

egli riconosceva di non poter essere del tutto poeta (p. 7).

Tuttavia, pur attribuendogli la consapevolezza di sapere di “non” poter essere poeta, Macrì, che da quel momento (siamo nell’immediato dopoguerra) smise di scrivere poesia, non cestinò i suoi versi, anzi li assicurò in un posto dimenticato da dio e dagli uomini, nel Salento. Li riprese nel 1994 e, come oggi è testimo-niato da varie fonti, li tirò fuori dal cassetto cominciando, già vecchio di anni, a dare loro una propria dignità poetica.

Leggendo oggi questa parziale raccolta del 1999, ci si accorge subito di quanto egli amasse il fare poesia. Tuttavia, non potendola scrivere direttamente - abbiamo visto il perché - egli dedicò tutta la vita ai poeti, molti dei quali devono la propria gloria a lui nell’averli antologizzati, commentanti e recensiti su riviste importanti dell’epoca.

La vita scientifico-letteraria di Oreste Macrì si è svolta tra Firenze, Parma e Salento, questo sua patria mai negata. Dagli anni ‘30 in poi, e fino alla morte, egli non ha mai fatto passare una stagione senza ritornare nella sua piccola patria, dove continuava a svolgere l’attività non di operatore culturale, ma di produttore letterario.

Ciò è provato dalla sua partecipazione all’Accademia Salentina di Lucu-gnano (Lecce), fondata come Ente morale dal poeta Girolamo Comi, della quale anche il Macrì ne fu partecipe sin dalla fondazione, avvenuta il 3 gennaio 1948 assieme allo stesso Comi (poeta), Vincenzo Ciardo (pittore), Michele Pierri (poeta), Ferruccio Ferrazzi (pittore). Subito dopo la costituzione si aggiunsero al sodalizio Maria Corti, Mario Marti, Vittorio Pagano, Piero Bigongiari, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Alessandro Parronchi, Carlo Betocchi, molti altri ancora con presenze di Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo e Giuseppe Ungaretti.

E qui, in questo sodalizio, in un territorio definibile come «la fine del mondo» (Neruda), nel settembre 1952, Oreste Macrì scrisse sul quaderno dell’Accademia questi suoi versi siglandoli O. M.:

Notturno sul fondo “Frasca”Altra notte. Veloce, la pianuraha spento le cicale. Un seme argutofiorisce nell’inane onda maturadei grani gialli, e cala il gregge muto delle nubi di Puglia, e già s’indurala collina ferace e il cielo astuto,

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vanissimo nel giro senza mura. Un corvo dai pagliai sibila acuto[“non solo dai pagliai sibila il corvo”, aggiunta di Comi (n. n.)]. Ma sentirai, fra tanto esiguo lume,quant’arde nelle crete di Messapia,l’elemento del male domo al gioco delle squallide conche, delle dune,dei greti, onde è palese quanto sappiatoccare questo lungo canto roco».

Questa poesia, a quel che sappiamo oggi, dovrebbe essere la sua ultima, successiva al 1946, allorquando decise di non scriverne più. Sono versi che hanno ancora il sapore dell’ermetismo e, come scrive Valli, si tratta di una poesia (il riferimento è all’intero corpus lirico):

tutta contesta di oggetti, per così dire, ontologizzati, costretti ad avvolgersi nella loro radice archetipica e a costituirsi come simboli astrusi di una realtà completamente metamorfizzata. Rimangono sulla pagina l’eco di remote musicalità campaniane, di suggestioni rimbaudiane, la rarefazione di atmosfere tra surreali e oniriche, la fatalità di un espressionismo elementare, congenito perché non riconducibile a modelli di scuola o di poetica. È la parola che, deter-minandosi in quanto pronunciata, svela i segni spesso cosmici o ancestrali di una vita tutta intellettuale che rimane preclusa ai varchi della ordinarietà e della razionalità (p. 7).

Mario Marti, altro vate salentino della critica letteraria e delle belle lettere, scrive che per Macrì:

vera realtà [è] quella della rivalsa e della compensazione, cioè quella della fantasia e della poesia verso i lontani approdi della saggezza e dell’amore; non idillica evasione o calligrafico decorativismo, ma recupero di sé, nella totalità della propria libertà, conquistata attraverso la gagliarda compensazione della realtà fantastica. [... Quella sua è stata] un’anima simbolista e divinatrice, tanto più suggestiva dell’altra, tanto più aggressiva, stimolante, coinvolgente; e per la quale, infine, Macrì è diventato veramente Macrì (p. 254).

Macrì dunque, “non” potendo fare il poeta, divenne uno dei critici più importanti del movimento dell’Ermetismo. Ancora oggi chi volesse approfon-dire tale stagione letteraria non può eludere i suoi saggi: Esemplari del senti-mento poetico contemporaneo (1941), Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea (Firenze 1956), Realtà del simbolo. Poeti e critici del Novecento italiano (1968).

Per sua stessa ammissione la sua patria d’adozione fu Firenze, dove si laureò in Filosofia (1934) e dove, assieme all’immancabile moglie Albertina Baldo, visse

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fino alla morte. Sempre a Firenze, si legò al gruppo di poeti e artisti delle “Giubbe Rosse”, di cui facevano parte Eugenio Montale, Arturo Loria, Carlo Emilio Gadda, Sebastiano Timpanaro, Gianfranco Contini, Carlo Bo, altri ancora. Fu scrittore precoce scrivendo, ancor prima della seconda guerra mondiale, su perio-dici prestigiosi come «Il Frontespizio», «Campo di Marte», «Voce», «Leonardo», «Letteratura», «Quartiere», altri ancora. E non meno importanti sono stati i suoi studi su Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, Gabriele D’Annunzio, Arturo Onofri, Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora, Eugenio Montale, Carlo Betocchi, Alfonso Gatto, Tommaso Landolfi, Piero Bigongiari, Vasco Pratolini, Luigi Fallacara, Salvatore Quasimodo, col quale ebbe un lungo rapporto epistolare (La poesia di Quasimodo. Studi e carteggio con il poeta, Palermo 1986). In quanto filologo e francesista non mancò di interessarsi anche di Paul Valéry, il cui poema Il Cimi-tero marino egli tradusse e commentò nel 1947.

Sempre a Firenze fondò l’Istituto ispanico e, attraverso le attività del soda-lizio, iniziò quel lungo impegno ispanista che lo portò ad essere riconosciuto come uno dei più attenti critici letterari e un importante traduttore ispanista di livello europeo. Sono sue le prime traduzioni dell’opera di Federico García Lorca (un capolavoro della letteratura europea), di Antonio Machado, di Jorge Guillen, di Juan Ramón Jimènez, di Luis de León, di altri ancora. È pietra miliare il suo testo Poesia spagnola del Novecento (1952). Nota è la sua decennale collabora-zione col Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, istituto presso il quale lasciò in eredità l’archivio e la biblioteca.

Tuttavia, Oreste Macrì, pur vivendo a Firenze, non dimenticò mai il suo territorio di provenienza, il Salento, Maglie e soprattutto Otranto, dove riuscì a tessere rapporti importanti con artisti e poeti come Vincenzo Ciardo, Vittorio Pagano, Vittore Fiore, Salvatore Toma, Antonio L. Verri e Vittorio Bodini, del quale fu amico fin da prima dell’ultima guerra mondiale e del quale introdusse la prima edizione di Poesie 1939-1970 (Lo Specchio, Mondadori 1972, ristampato in fotomeccanica da Congedo Editore nel 1980). La sua amicizia con Bodini non fu sempre lineare, tuttavia egli si dimostrò essere intellettuale onesto e corretto con l’amico, dimostrandogli vera simpatia poetica in occasione della prima edizione delle Prose inedite (in rivista «Suduglia», “Conto aperto” n. 1, Galatina 1985), nella cui introduzione (Due paragrafi per Vittorio Bodini) scrive che

«anche Bodini come Mallarmé e Juan Ramón, Guillén e Montale, aspirava a trascrivere il Libro da donare all’umanità, qui un’umanità minima, misera, acrona, ma graziata nella sua sapienza naturale e nei suoi mestieri quotidiani. Grammaticalmente e metafisicamente il libro della Luna, rappresentativo di tutta l’opera, eccita l’impressione generale di una sostantività che liricamente si densifica in se stessa (vd. Op. cit., p. 5).

Ma qui mi piace chiudere con una nota scritta dallo stesso scrittore, intitolata Sulla mia arte narrativa:

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Non ho alle spalle della mia vita né una “selva oscura” né una “notte di Valpurga” né una balena né imprese cavalleresche di Amadigi o di Orlando. Fin dalle origini ho optato per un complesso di positivi, che io ho immaginato nel contempo archetipi e sociali; cui intenzionalmente mi sono adeguato: rispetto dei padri, l’onestà del mestiere, mantenimento della parola data, fedeltà amicale. Ciò non toglie che abbia commesso degli errori, ingiustizie, tradimenti, scelte irrazionali del miserabile corpo e annessi, tentando sempre di salvare l’anima con rischio d’ipocrisia./ Questo è il motivo per il quale non sono stato un grande: politico o scrittore, poeta o navigatore o pontefice o martire o esploratore o astronauta; tutti questi e altri consimili conquistano oltre positivo e negativo, bene e male, luce e ombra, in quanto affermano e costruiscono alcunché che sarà poi qualificato ed esternato. Forse il motivo consiste nell’essermi formato in piena libertà, affidato solo a me stesso per intuizione e genio educativi del mio buon padre, donde affidato solo a me stesso sono rimasto esente da complessi, nevrosi e altri impedimenti e ostruzioni d’istinti e conati d’ogni specie. Donde mi è stato facile optare per il bene e la luce, ripeto, intenzionalmente. In che sta il limite della mia narrativa, succedanea della critica e della poesia. Io ho finto di consentire, attraverso i miei personaggi apocrifi (per primo Simeone), al Male, al negativo, al demonico, alla catastrofe; il tutto fino alle estreme conseguenze sì da sperare in un ribaltamento, non nel racconto, ma almeno nella testa del mio ipotetico lettore (Op. cit., p. 77).

POESIE DI ORESTE MACRÌ

(tratte dalla prima raccolta pubblicata in Scritti Salentini, a cura di Albarosa Macrì Tronci, Introduzione di Donato Valli, Capone editore, Cavallino, 1999)

Compianto

Che voi siate donnee di voi tutto sia lieve e tangibile,e in voi si possa essere uomini -uomini sempre ovunque siate donne...

Ma tu la debolezza hai d’un tuo nomee vivi del tuo corpo in ariache io respirare non possa, per moto alieno dalla mia pauperie.

È il mattino, il mattino fermo di Puglia,tra l’ombra avara degli ulivie gli orzi di fuliggine cangiante,

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con l’intima bianchezza di stagionedai freddi ostile, amica di chi ama.

Sperando la vita del tuo corpo,odiando il patrio nume funebreche spenga l’amore con l’amore,ascoltando la sera tacitanel disordine di quel bacio eterno:

che riemerga un sorriso conciliato!

Dittico pugliese

I.

Io non credevo, o notte. La tua ombras’è aperta al confluire del bel tempo:innocente, svelata, tutta sgombra,la luna ha fatto d’ogni rosa scempio.

Dietro i cancelli vola la colomba,libera ovunque pieghi il cupo nembod’azzurro; e la memoria non più rombavana nel cielo del mio sangue infermo.

Tutto piove in silenzio e in luce fittaquanto ieri e domani; un vegetalenitore di tessuti esatti è immune

nel contrario meriggio della drittafila di case, ode si riga il maled’un’altra notte desolata e illune.

II.

Altra notte, veloce. La pianuraha spento le cicale. Un seme argutofiorisce nell’inane onda maturadei grani gialli. Cala il gregge muto

delle nubi di Puglia e ormai s’indurala collina ferace e il cielo astuto,

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vanissimo nel giro senza mura:un corno dai pagliai sibila acuto.

Ma sentirai tra tanto esiguo lume,quant’arde nelle crete di Messapia,l’elemento del male domo al giuoco

delle squallide conche, delle dune,dei grati, onde è palese quanto sappia toccare questo lungo canto roco.

Ringraziando Albertina per avermi trovato

Antica luna, travalicando ancora,questa inquieta, vibratiletrama d’aere e di sangue,su Maglie morta sei venuta,tra ombre di te più antiche.Dipinte stanno le case di quel che è lucee non t’appartiene più.

Io che contemplo esaminole forme d’un nome e d’un corpoe un silenzio immune le penetra, le affatica,intatte le ridonaagli dèi che soli non tremano.

Tu che i cortili inombri calcinandosai d’Europa e dei muri uccisi?questo lunare errore non lacrima d’identica lucein te che appari e listianfratti casuali e specchi obliqui?

Ora il paese mi cercanella figura della violenza,m’indica i miti spontanei, l’orme certeche alla casa mi rimenino, a questa casach’è più vasta delle nostre braccia,che la vista oltrepassa sempre e il respiro.

Lotta con te l’amata in cielo ostile,grande demone, Meridione,

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ancorato a un mare di vertiginosi sopori.Che farai, amata, con la punta del bianco piedee i pizzi tremuli

su quest’oscuro volto di paesedai gesti millenari?Nella strada ondulata, nei pianori aderenti,su poveri culminiovunque è oblio e sicuro chiunqueviene alla morte per destinata consuetudine.

Io sono qui vivente, il primo,vivo negli occhi vivi,nel mare inanimato sepolto,pazientissimo nel vano turbine delle linfe vive,a udire il sobbalzo identico di lei che danzaper un’estrema animula...

Il nome mi consola;valica in ozio la tua luce, o luna,si stacca dalle fila inanimate.È la leggenda ultima di leiche rimirata il mio paese illude.

Ricordi d’infanzia

Alle quattro sul ponte mi batto col più scaltro.Compagno, tenteròd’ucciderti senz’altro.

Sai come m’arde il sangue;appena sospirandoallenterem la strettaa quando a quando.

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AppendicePiccola corrispondenza tra Oreste Macrì e Antonio L. Verri e M. Nocera

1979.Da Firenze (lettera ms.) 2 febbraio 1979

Caro amico [Antonio L. Verri],vivamente la ringrazio dell’invito e formulo i più calorosi auguri per il «Caffè

Greco». Purtroppo sono impegnato in lavori urgenti e debbo partecipare ad alcuni congressi (due foscoliani).

Non ho un minuto di tempo, l’età avanza...D’altra parte, è bene che voi giovani facciate tutto da voi, in modo autonomo

e originale, e solo su una base affermata intervengano gli anziani.Plaudo ad una pagina dedicata a Bodini, interprete del nostro Sud miserabile

e sublime. Posso solo autorizzarvi ad estrarre qualche brano della mia introdu-zione alle Poesie pubblicate da Mondadori. Ancora grazie e cordiali saluti.

Oreste Macrì

1980.Da Firenze (lettera ms.) 3 gennaio 1980

Rivista «Caffè Greco», Gallipoli [Maurizio Nocera],Cari amici,vivamente vi ringrazio del dono del vostro nuovo fascicolo che ho letto con

piacere e interesse, lamentando anch’io la confezione esterna cartacea e tipogra-fica, piuttosto difettosa. La linea sperimentale realistica (in senso lato), che avete intrapresa, mi pare giusta e seria negl’intenti, se non in tutte le manifestazioni della vostra produzione in poesia e prosa. Qualche provincialismo andrebbe bruciato. Sarebbe necessaria una integrazione da altre dimensioni ed esperienze della letteratura italiana ed europea. Vedo con piacere alcuni nomi direttivi ed esemplari, come quelli di Bodini e Pagano, la collaborazione della Durante [Rina], la rievocazione e la rielaborazione artistica della storia e geografia della nostra “patria chica”. Vi porgo il più cordiale augurio e saluto.

Oreste Macrì

1983.Da Firenze (lettera ms.) 4 maggio 1983

Caro amico [Antonio L. Verri]La ringrazio del «Salento Domani», compiacendomi del suo zelo in favore di

una nuova cultura salentina. Molto brava la De Lorentiis, che io ho sempre stimato. Quanto alla sua lettera del 26 aprile chiarisco - ma non ce ne sarebbe bisogno - che

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il mio anti-neoavanguardismo non era rivolto direttamente contro di “voi”, dico “voi” perché Lei assume le intese con un “noi”. Sulla neoavanguardia ho scritto varie pagine su «Realtà del simbolo» e nello stesso «Albero». Dall’altra parte il tradizionalismo, provincialismo, ecc., peggio! Si combatte su due fronti. La mia polemica non si dirige alla forma espressiva neoavanguardista in prima istanza, ma allo spirito reazionario e trasformistico di fondo. Nulla da obiettare sul candore e ingenuità del Suo foglio “saraceno”, che guardo e leggo con simpatia in cerca di qualche voce emergente fra tanta generosità ospitale. Ma a lungo andare la forma trascina seco ed altrove i contenuti etici, religiosi, politici, donde il ludismo, dilet-tantismo, coperture, ecc. Curiosi i ritorni storici. Il futurismo arrivò a Lecce dopo 20 anni, entusiasta Bodini 18nne, che poi obliò del tutto tale esperienza. Dopo 20 anni dal gruppo ‘63 arriva a Lecce la neoavanguardia, preceduta dalla colonizza-zione della poesia visiva. Credo che potrebbe bastare. Grazie della Sua lettera. Le è uscita dal cuore e l’ho letta dietro le parole. Auguri e cordialità.

Oreste Macrì

1984.Da Firenze (lettera ms.) 4 agosto 1984

Caro Verri,vivamente La ringrazio del dono dei due nuovi libri del «Pensionante de’ Sara-

ceni», con i quali degnamente la Sua collana si arricchisce e acquista coerenza di intenti poetici e umani. Plaudo ai disegni di Conversano, e anche di Toma. Mi ha molto impressionato Folstizio di Augieri, estremamente umano attraverso l’infraumano, solidamente costruito, non ludico né sperimentale. O meglio lo sperimentalismo è strumentalizzato, come anche nella sua poesia; per quanto vi desidererei liberati dal [...] manieristico-linguistico.

Spero di rivederla a settembre. Ancora grazie. Auguri e cordialità.Oreste Macrì

1985.Da Firenze (lettera ms.) 11 dicembre 1985

Caro Verri,vivamente La ringrazio dell’invito al «Pensionante de’ Saraceni». Mi

compiaccio del numero doppio che sarà dedicato a Vittorio Pagano. Anche Valli ed io avevamo preventivato un numero consimile de «l’Albero»; qualche dì dovrò riflettere. Per il numero a Valli, se crede, può riprodurre lo scritto che è uscito sul «Quotidiano» (27 novembre) trattandosi, appunto, di un quotidiano. L’aspettavo a settembre, ma non si è fatto vivo. La seguo sempre come posso (verso il 73° anno) con interesse e stima.

Auguri e cordialitàOreste Macrì

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1986.Da Firenze (lettera ms.)

Caro Verri,vivamente La ringrazio del «Pensionante de’ Saraceni» dedicato a Vittorio

Pagano. Un bel numero, organico e criticamente positivo, oltre qualche effusione sentimentale (che, infine, non guasta).

Sia di fondamenta e sprone e augurio a un riconoscimento pieno, nazionale e anche europeo, popolare, dell’alta e umana poesia del più sfortunato dei nostri poeti avendo tutto donato di sé. Sto leggendo col rimorso di non aver partecipato (ma non ho potuto...). Spero che «l’Albero» segua questo suo esempio di intelli-genza e generosità. Grazie ancora, e il più cordiale saluto.

Oreste Macrì

1987.Da Firenze (lettera ms.) 2 novembre 1987

Caro Verri,ho ricevuto i due “quaderni”, rattristato dalla cessione dell’attività del suo

centro Culturale così fervido e vivo. Ricevetti la sua Betissa, ammirato dal suo immaginario linguistico. Non sono stato bene e non mi sono ancora rimesso. Sia certo della mia stima. Cordialmente

Oreste Macrì

1988.Da Firenze (lettera ms.) 7 settembre 1988

Caro Verri,la cartella estrosa, imprevedibile, saporosa e tangibile, per Salvatore Toma,

ce lo restituisce vivo com’era e come sarà per sempre; documento emotivo, ma anche di acute impressioni critiche; il tutto - naturalmente - riflesso insieme con il suo collaboratore Maurizio Nocera. E grazie della visita, anche da parte di Albertina. Suo affezionatissimo

Oreste Macri

Per Oreste Macrì per le cose non dette - fuggite e sfuggite di Maurizio Nocera

Oreste!, e il pensiero mi va ad Euripide alla tragica Micenemondo lontano da te da meeppure tonante come esplosione di supernove.

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I tuoi occhi roteano ancoranell’assurdo obliquo della Messapiapur sempre positivaanche se sconosciuta ai più.

Non ci sono più padri men che meno madrii mestieri si sono fusi in un monitordove la “parola data” se n’è andata a quel paese.

Sei stato grandein quel tuo corpo minuto e stringatofino alla pelle. Non c’era bisogno che altrilo dicessero.

Hai amato la libertàconquistata nello scolodel sudore della frontesulle minute carteper amore di poesia.

Hai cercato la lucepoi l’hai trovata.Hai cercato la bontàpoi l’hai trovata.Solo i poeti sanno farlo.

Oreste!, non ce bisogno che te lo dicasei stato poeta.Anche.

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Cinque pezzi facilidi Alberto Artosi

Esistenza e perfezione

Trovo in uno degli innumerevoli repertori di frasi famose che girano nella rete la seguente citazione attribuita a Baudelaire: “Dio è il solo essere che, per esistere, non abbia neppure bisogno di esistere”. Riemerge a un tratto la memoria di una citazione analoga che a suo tempo mi aveva molto colpito. Vi risparmio i dettagli della lunga e affannosa ricerca per ritrovarla. Si tratta di una nota a piè pagina di uno splendido saggio di Robert Nozick (proprio lui, autore di Anarchia, stato e utopia) intitolato Perché c’è qualcosa anziché niente? (il titolo dà una idea della profondità dell’argomento trattato): “Sidney Morgenbesser mi dice che in un romanzo di Peter DeVries un parrocchiano angosciato chiede a un ministro del culto se Dio esiste, e il ministro risponde ‘Dio è talmente perfetto che non ha bisogno di esistere’”. Sidney Morgenbesser è stato uno stimato filosofo analitico americano (è morto nel 2004). Peter DeVries è uno scrittore, anch’esso americano (morto nel 1993), che qualcuno ha definito come “probabilmente il più divertente scrittore di religione mai esistito”. Divertente o no, DeVries esprime un concetto teologico-metafisico che va ben oltre il provocatorio (si noti l’ironico “neppure”) apoftegma baudeleriano: e se dopo tutto Dio fosse veramente così perfetto da non aver affatto bisogno di esistere? Già porsi la domanda significa rompere con tutta la tradizione filosofica occidentale. Come scrive Nozick (la frase appena citata ricorre come nota a quella che segue): “La tradizione filosofica occidentale tende a considerare l’esistenza migliore, o più perfetta, della non esistenza”. L’estrinse-cazione più impressionante di questa tendenza è quella sublime petitio principii– Dio è l’essere perfettissimo; l’esistenza è una perfezione, quindi è impossi-bile pensare che Dio non esista – in cui intelletti tra i più sottili hanno visto una prova dell’esistenza di Dio. Il grande Leibniz, che aveva qualche dubbio su questa prova, non ne nutriva alcuno sui motivi per considerare l’esistenza migliore della non esistenza. “È certamente vero”, scriveva, “che ciò che esiste è più perfetto di ciò che non esiste”, anche se, aggiungeva, l’esistenza non può essere conside-rata una perfezione in se stessa, “essendo soltanto una certa comparazione delle perfezioni tra loro”. In pratica, l’esistenza premia sempre ciò che è comparativa-mente più perfetto – che è poi la ragione per cui c’è qualcosa anziché niente. Idea grandiosa. Eppure, la risposta del degno ministro la contraddice. Essa suggerisce un punto di vista totalmente diverso: e se l’esistenza fosse inversamente propor-zionale alla perfezione? Se fosse vero, cioè, che quanto più “si esiste” tanto più ci si allontana dalla perfezione, così che il massimo di perfezione coincide con il minimo di esistenza (col non esistere affatto, il non essere, il niente, il nulla)? Non sarebbe vero, allora, che l’essere perfettissimo, proprio perché perfettissimo, non

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ha bisogno di esistere? Anzi, che esistere comporterebbe una diminuzione intol-lerabile della sua perfezione. Non sarebbe in questo caso impossibile pensare che Dio, in quanto essere perfettissimo, esista? Quale rovesciamento di prospettiva! L’aver profuso tesori di ingegno intorno all’idea di un Dio che esiste altro non sarebbe che il risultato del nostro disperato tentativo di comprendere Dio dentro l’orizzonte “umano, troppo umano” della nostra misera esistenza. O, se vogliamo rendere più drammatica la cosa, il risultato di aver impresso su Dio il marchio stesso della nostra imperfezione. O non è stato invece l’atto di una suprema arro-ganza? Abbassare Dio, intendo, a quell’“esser lì, semplicemente” in cui, secondo l’eroe sartriano Roquentin, consiste tutto il mistero (e l’essenza) dell’esistere?

L’imperativo è: differenziare

L’imperativo è: differenziare. Differenziare, sì. Ma cosa? I rifiuti, che altro! In un mondo in corsa sfrenata verso l’omologazione totale, l’unica cosa che – ci viene detto – abbiamo il dovere di differenziare sono i rifiuti. Differenziare, infatti, è diventano l’imperativo categorico della nostra epoca. Trasgredirlo non è negligenza: è una colpa morale. Ed ecco diffondersi intorno, subito colta da un lieve arricciare delle nostre delicatissime nari, la “puzza di crudeltà” (a dirla con il Nietzsche della Genealogia della morale) che sempre emana da simili impe-rativi. Perché è così che il tardo capitalismo scarica sull’ultimo anellino della più impressionante catena di produzione-consumo che si sia mai vista dall’inizio dell’era volgare la responsabilità di riciclare le sue deiezioni. Se è vero (ed è vero) che, come rifletteva Walter Benjamin, il capitalismo “è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito”, allora non si può che prendere atto che il suo tardo erede ha imparato bene la lezione risolvendosi in un culto totalizzante della colpevolizzazione e dell’indebitamento: dobbiamo sentirci tutti in colpa e in debito (in senso figurato; in senso stretto abbiamo già tutti la nostra quota di finanziamenti, rate, mutui, ipoteche, ecc.) per non essere abbastanza efficienti, abbastanza competitivi, abbastanza ricchi, abba-stanza realizzati, abbastanza trendy, abbastanza magri, abbastanza sani – tornando al nostro imperativo: per non differenziare abbastanza. Come possiamo sottrarci a questo perverso meccanismo di colpevolizzazione? Rifiutandoci di differen-ziare? No: servirebbe solo a farci sentire più in colpa. E allora come? Secondo il sensato consiglio di Campbell Jones, autore di quello che credo sia l’unico saggio che tratta del riciclo dei rifiuti in chiave filosofica, dobbiamo rimandare colpa e responsabilità al mittente. Il problema è che non è facile dire chi, o forse meglio cosa, sia questo mittente. Secondo Mark Fisher (nel suo libro di culto Realismocapitalista), si tratta di “una struttura impersonale che, nonostante sia capace di produrre effetti di tutti i tipi, non è un soggetto capace di esercitare responsabi-lità”, e dunque la scarica bellamente sulle spalle dei consumatori riservando a se stesso il ruolo dell’Altro invisibile. E noi veramente crediamo che a questa struttura quasi metafisica importi realmente qualcosa della raccolta differenziata?

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Ma andiamo! Ciò che davvero le importa è di continuare a martellarci il senso di colpa nelle coscienze mentre noi fingiamo di credere che questo mondo che sta andando a rotoli verrà salvato dai ragazzini.

La fine del mondo

Suona come invito a una prudente discrezione la frase di Stanislaw J. Lec posta da Umberto Eco in epigrafe al capitolo 7 de Il pendolo di Foucault: “Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo”. Ma il rapper Anastasio non raccoglie (forse, oltre a non aver mai visto il Napoli di Maradona, non ha neanche mai letto il libro di Eco). Per lui la fine del mondo dev’essere un fantasmagorico raduno rave trasmesso in diretta mondovisione da San Pietro, con “i led e i riflettori alla Cappella Sistina/... un impianto con bassi pazzeschi/... Fino a spaccare i marmi, fino a crepare gli affreschi” e “una folla danzante di vandali” che si esalta a vedere “il giudizio universale sgretolarsi e cadere in coriandoli”. Kant, chia-mato opportunamente in causa a questo riguardo (vedi L’essere umano propende naturalmente per la fine del mondo: parola di Kant ed Anastasio)1, si esprime, ovviamente, con tutt’altro stile, ma anche lui la prende molto sul serio. Nel suo importante saggio La fine di tutte le cose si chiede, tra le molte e profondissime considerazioni, perché tutti gli uomini aspettino la fine del mondo e la aspettino con terrore. Beh, che cosa direste di un’opera teatrale priva di finale? Che è senza scopo, naturalmente, e senza ragione (teatro dell’assurdo a parte: guardate Aspettando Godot di Beckett e poi sappiatemi dire). Dunque anche la creazione, per avere il suo scopo e la sua ragione, deve avere un finale. Ma poiché il genere umano sa di essere irrimediabilmente corrotto cosa può aspettarsi da Dio come punizione per le sue colpe se non la fine che si merita, diciamo una bella Apoca-lisse con conseguente Giudizio universale. Ne sono segni premonitori ogni sorta di catastrofi naturali e, per buona giunta, “l’ingiustizia, l’oppressione dei poveri a causa della smodata tracotanza dei ricchi e la generale perdita di lealtà e fiducia”.Elio e le Storie Tese cercano di esorcizzare lo spettro della fine del mondo scher-zandoci sopra: ammettono di avere una tremenda paura, ma di essere preoccupati di che cosa mettersi al momento opportuno perché, si sa, “la catastrofe finaleimpone/di indossare un vestitino che sia la fine del mondo”. Una volta trovata la mise adatta non resta che organizzare una bella festa in qualche esclusivo locale della Costa Smeralda e la fine del mondo non solo non fa più paura, ma addirit-tura “piace tantissimo”. E allora “Apocalisse, dimmi dimmi chi sei/Sei forse il congiuntivo del verbo apocalire?”. Carina, questa. Fa venire voglia di scherzare anche a me. Allora scherzo: -- Come vi sentite? – Come i musicisti che hanno suonato fino all’ultimo sul ponte del Titanic. – Allora speriamo di poter dire anche noi alla fine: “Signori, è stato un onore suonare con voi stasera”.

1 https://www.ilsuperuovo.it/la-propensione-per-la-fine-del-mondo-in-kant-ed-anastasio.

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Lettera ai Rettori delle Università Italiane (con echi da Artaud)

Magnifico Rettore,mentre scrivo, efficienti agenzie, diretta emanazione del dominante potere

burocratico, sono intente a misurare, calcolare, classificare, elaborare diagrammi, grafici, tabelle al precipuo scopo di ridurre gli individui a meri dati quantificati e standardizzati. E, va detto, ci stanno riuscendo. A forza di vedersi “oggettivati” in quella che, in effetti, altro non è che una nuda valutazione della loro confor-mità alle direttive del sistema, gli individui stanno gradualmente perdendo le loro caratteristiche più salienti nello sforzo di riprodurre il tipo di “soggettività” che viene loro imposto come termine ultimo di identificazione. Accade così che anche chi svolge professioni un tempo sinonimo di esemplari caratteristiche (e qualità) personali come la nostra venga via via sempre più indotto a offrire al sistema quello che il sistema vuole, e non solo per le pressioni esterne, ma anche (e soprattutto) accettando di vedere la sua attività e le sue competenze – in una parola la sua stessa esistenza professionale – valutate non per ciò che effettiva-mente sono, ma per il contributo che esse forniscono alla soddisfazione di certi standard – standard di “qualità” della ricerca, della didattica, ecc. – e impegnan-dosi con tutte le sue energie a massimizzare il suo adattamento agli standard fissati. Questo risultato è in gran parte dovuto al fatto che la conformità agli standard viene fatta percepire come l’adeguamento a un “paradigma di norma-lità” (per dirla con il solito, ma sempre utile, Foucault) rispetto al quale “grati-ficazioni” e “afflizioni” (o incentivi positivi e negativi, se preferisce) operano come meccanismi, rispettivamente, di inclusione ed esclusione. Ma Lei, Magni-fico Rettore, lo sa fin troppo bene: i professori che non si qualificano in base ai “parametri di conformità” prescritti dagli indicatori dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione della Ricerca (ANVUR) sono esclusi dalla partecipazione alle commissioni nazionali per l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASA), dai collegi dei docenti dei dottorati, o subiscono altre forme di esclusione come sanzione per il loro basso indice di compliance. Gli stessi strumenti tradizionali di garanzia della comunità scientifica sono stati piegati a queste logiche. È il caso della peer review, originariamente introdotta per esercitare un controllo sulla pubblicazione dei prodotti della ricerca, e diventata uno strumento di controllo istituzionale e di rafforzamento del relativo “sistema di inclusione ed esclu-sione” (parole di Gerard Raunig nel suo Factories of Knowledge: l’ha letto?). E, in effetti, il sistema funziona: non solo nuove identità professionali (e umane) vengono forgiate sulla base unicamente di quegli aspetti che trovano corrispon-denza nella forma quantificata e standardizzata che consente di utilizzarli come criteri di misurazione e di valutazione, ma gli stessi processi di produzione della conoscenza vengono riplasmati – incasellati in programmi di ricerca minuziosa-mente articolati, pianificati in progetti di ricerca dettagliatamente formalizzati e sottoposti a selezioni selvaggiamente competitive e a spietate procedure di veri-fica dei risultati (e, soprattutto, dei finanziamenti). Magnifico Rettore, non dovrei

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essere io a richiamare la Sua attenzione su quello che sta accadendo in conse-guenza di questo stato di cose. Canalizzata nel rigido alveo tracciato da un’ottusa burocrazia, l’intelligenza si smarrisce e si soffoca; il pensiero si irrigidisce e si paralizza; la cultura si isterilisce e si mummifica. Magnifico Rettore, non mi dica che non vede gli effetti di questa ossessione per la performance continua. Che non vede i risultati di questo asservimento della ricerca a logiche che nulla hanno a che vedere con la ricerca stessa. Che non vede a cosa sta portando questa foga di conferire brevetti allo Spirito. Che non vede – ed è questa la cosa forse più dolorosa – che attraverso il setaccio delle nostre lauree passa una gioventù sfiancata e perduta. Magnifico Rettore, non posso credere che Lei non veda tutto questo. Ed è per questo che, con inconcussa fiducia, faccio appello a Lei come alla più alta Autorità Accademica perché metta un freno alla pietrificazione della conoscenza, alla imbalsamazione della creatività, al dominio disumanizzante degli algoritmi per riportarci in quella Repubblica delle menti che è la nostra vera patria. Rispettosamente, suo...

Fancip

Simon Springer è uno dei più risoluti e tenaci critici del sistema di potere neoliberale. Nel 2016 ha pubblicato un breve articolo intitolato Fuck Neolibera-lism. La ragione del titolo (e dell’articolo) è dichiarata in apertura dall’autore: da un lato il timore che continuare a criticare il neoliberalismo possa servire soltanto a perpetuare la sua presa; dall’altro, la consapevolezza che ignorarlo non sia la cosa giusta da fare. E allora mandiamolo semplicemente a fanc... Semplicemente per dire, dato che in realtà dietro a questo mandare a fanc... il sistema di potere dominante c’è tutta una interessante riflessione. Innanzitutto, fanc... risponde perfettamente all’idea che “è precisamente nel quotidiano, nell’ordinario, nell’ir-rilevante e nel banale che... deve essere situata una politica del rifiuto”. Ma soprattutto che termine magnificamente colorito e versatile! “Può essere usato per esprimere rabbia, disprezzo, fastidio, indifferenza, sorpresa, impazienza, o addirittura come un’enfasi priva di significato poiché rotola semplicemente dalla bocca”. Vero. Purtroppo, il termine in questione non è tra i meno volgari. Anzi. Come trarre vantaggio, allora, dalla sua variegata espressività senza offendere gli animi più sensibili? Propongo di sostituirlo con un termine che ha la stessa radice, ma una diversa desinenza: il delicato, lieve, tenero, cinguettante “fancip”. E ora sono pronto a darvi un saggio di cose (persone, ma non solo) da mandare a fancip. Dal momento che mi sono proposto di essere assolutamente imparziale comincerò col mandare a fancip quasi tutte le cose di cui ho trattato qui. Dunque, fancip i teologi che hanno profuso tesori di ingegno per dimostrare che in Dio essenza ed esistenza coincidono. Fancip Leibniz e la ragione per cui c’è qual-cosa anziché niente (a mandarlo a fancip per la faccenda del migliore dei mondi possibili ci aveva già pensato Voltaire nel Candide). Fancip la raccolta differen-ziata, il tardo capitalismo e il suo perverso meccanismo di responsabilizzazione-

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colpevolizzazione (colgo l’occasione per mandare a fancip anche il principio responsabilità di Jonas). Fancip la struttura impersonale e invisibile che, se pur invisibile, ci fa sentire i suoi effetti (eccome che ce li fa sentire!). Fancip la finedel mondo, Anastasio, quel noioso vecchio rompiballe di Kant e pure quegli spiritosoni di Elio e le Storie Tese (l’apocalisse è il congiuntivo di apocalire, ah, ah, ah). Fancip i rettori delle università italiane, l’ANVUR, l’ASA e compagnia cantando. Fancip la peer review, il Programma Quadro europeo per la Ricerca e l’Innovazione Horizon 2020 e tutti i progetti di ricerca europei. Ed ora qualche fancip random tanto per dar sfogo ai miei mali umori. Fancip il D’Annunzio di Ro Vittoriale Sgarbi. Fancip Ilaria Cucchi che partita alla ricerca della verità è stata morsa per strada dalla tarantola dell’ambizione mediatica. Fancip Ferrajoli, Magistratura Democratica e la teoria assiomatizzata del diritto (vedi Fermenti,n. 246, 2017, pp.151-59). Fancip tutta la politica e i politici italiani. E per finireFancip anche me (anzi: soprattutto me). Au revoir.

Alberto Artosi

11 Antologia Nuovi Fermenti PoesiaInquiete indolenzeAutori: G. Baldaccini, F. Celenza, B. Conte, A. Contiliano, G. Di Stefano, E. Dziedu-szycka, M. Furia, M. Lenti, L.M. Marchetti,D. Pasero, A. Pasterius, P. Salmoiraghi, I. Scotti, A. Spagnuolo, L. Ugolini, S. Venuti, V. Verzieri, G. Vetromile.

12 Antologia Nuovi Fermenti NarrativaIl mantello apertoAutori: F. Araniti, M. Buzzi Maresca, G. Colletti, G. Di Stefano, P. Minnucci, M. Pesarini, L. Rogo-zinski, A. Roncarolo, M. Rondi, I. Scotti.

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Autori del Centro Italia:La poesia di Rodolfo Di Biasio

di Antonella Calzolari

Deprivazione e dispersione costituiscono due movimenti mentali, ed etici direi, che guidano e conducono l’esperienza poetica di Rodolfo Di Biasio. A dircelo è egli stesso, con parole dallo stile antico e dal ritmo musicale che affol-lano i suoi componimenti profondamente legati al “rumore di fondo” del cosmo e della vicenda umana universale.

I Poeti del Centro Italia, curato da Bonifacio Vincenzi, è un’opera antologica in 20 volumi. Nel primo, uscito per i tipi di Macabor, la parte monografica è dedicata a Rodolfo Di Biasio, per la cui poesia possiamo senza dubbio riferirci al concetto di “essenza”.

Nel volume si alternano testi di Domenico Adriano, Franco Borrelli, Barbara Carle, Marcello Carlino, Sergio D’Amaro, Francesco De Nicola, Luigi Fonta-nella, Vincenzo Guarracino, Paolo Leoncini, Silverio Novelli, Raffaele Pellec-chia, Marco Vitale. Questi contributi stilisticamente raffinati e criticamente puntuali definiscono il percorso poetico di Di Biasio.

A proposito della sua poesia afferma Domenico Adriano: “È possibile tradurre in parole la natura delle cose, una pianta, il volo di un uccello, il vento, il senti-mento dell’uomo? I primi componimenti di Di Biasio, a scorrerli sembrano chie-dersi proprio questo nel loro lento scavo e ricerca, appunto, di una lingua della poesia”.

Dunque siamo in presenza di una lingua originale e propria del poeta, cui non è sufficiente l’apparato linguistico della lingua cosiddetta “madre” in quanto la sua esperienza attinge anche ad un corredo linguistico fatto di contributi classici, dialettali e interiori precipui.

Assecondando tale modalità espressiva il poeta incontra una delle massime voci poetiche italiane, ma non solo, ovvero “il recanatese”. Scrive Adriano:“Per il tempo che vedeva fuggire, non aveva immaginato Leopardi addirittura un possibile ritorno alla scrittura geroglifica? Ecco ora in Di Biasio la grande necessaria semplice essenzialità (…) il poeta crede più all’invisibile che al visibile.”

A sottolineare il gusto classico di Di Biasio c’è anche Franco Borrelli: “Poeta odisseico è Rodolfo Di Biasio, di viaggi e di ritorni” il quale calca la mano sull’esperienza bellica, vissuta nella verde età dal poeta, rispetto alla quale dichiara:

“La condanna del poeta è anche quella di chiudersi nella memoria del sé, di (con)dividere col suo verso il dolore di quanti con lui han subito la pena della guerra e l’orrore della morte”.

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Tale orrore imbastisce la trama del sotteso nella poetica di Di Biasio, intrec-ciandosi con una sorta di religiosità fatta di piccole cose, riscoperte nella loro laicità e grandiosità intrinseca. Borrelli pone in evidenza come in I ritorni si possa individuare che la “poesia non è solo musica della parola (…) è soffe-renza, è ricerca di sé e degli altri e dell’Altro, è fede che qualcosa di là da noi e dalla nostra vita debba pur esserci, è guardarsi negli occhi, in silenzio (…) è sorpresa dei piccoli innocenti dinanzi al miracolo dei fili d’erba che poche gocce di pioggia partoriscono dalla terra, anche la più arida” o ancora come in Poemettielementari “ La vita (…) è un continuo, lento, inesorabile scorrere d’acque e di fiume, ora limpide quali stelle per scintillii e riverberi, ora più cupe e medita-bonde; i destini dell’uomo s’uniscono, in questo cantare libero e assorto, con misura e sofferta circospezione, alle ragioni del cuore che socraticamente cerca dentro di sé la misteriosa magica ragione del suo essere”.

Nell’antologia, a seguire, troviamo l’intervento di Roberta Carle che si sofferma sullo “stile del ritorno”. La critica ci invita a notare il verbo “ritornare” che svolge una funzione chiave nell’opera di Di Biasio. Il suo quarto libro si inti-tolava I ritorni (1986) e si concludeva con una poesia intitolata I nostoi.

Nel suo intervento la Carle riflette a lungo anche sulla questione linguistica di Di Biasio in modo molto interessante: “Nel contesto di un altro dibattito sulla lingua lanciato da Pier Paolo Pasolini negli anni settanta, Italo Calvino fece due interventi intitolati L’italiano, una lingua tra le altre e L’antilingua. Nel primo Calvino indica le qualità per la sopravvivenza di un testo. Deve possedere una certa traducibilità e lo scrittore deve sapersi rileggere e invece: “(…) ci sono tanti, anche tra gli scrittori, che non sono capaci di leggersi, né mentre scrivono né dopo; vedono sul foglio una nuvoletta coi loro pensieri dentro, non le parole scritte (…) Perché cito questo passo di Calvino per parlare dell’ultima opera di Di Biasio Mute voci mute? Perché questo poemetto ci dimostra che l’autore ha saputo rileggersi benissimo e non solo. Ha saputo riprendere, distillare, raffinare,scegliere l’essenza di alcune sue poesie anteriori, riordinarle in un altro testo dove inserisce nuovi passi e rivede quelli usati per rimescolare e rinnovare in un discorso più incisivo, più ristretto, di maggior forza. Tale operazione è molto rara nel panorama della poesia italiana contemporanea. Di Biasio riprende la lezione dei greci e di Kierkegaard:

Come i Greci insegnavano che conoscenza è reminiscenza, così la filosofiamoderna dirà che tutta la vita è una ripresa (…) Ripresa e reminiscenza rappre-sentano lo stesso movimento ma in direzione opposta, perché ciò che si ricorda è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare procedendo (S. Kierkegaard La ripresa).

Il teorema della laicità di Di Biasio è totalmente ripreso da Marcello Carlino che con la sua solita lucidità ci propone un’analisi del poeta a tutto tondo: “Appare evidente che Rodolfo Di Biasio lavora le sue pagine con un rigore assoluto (…)

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e non si sbaglia a riconoscere il silenzio quale spazio che consegue alla rinuncia di qualunque ridondanza.

Secondo Carlino per Di Biasio possiamo parlare di “religione laica”ovvero si legge: “Rodolfo di Biasio si pone nel solco della tradizione (…)immune da qual-siasi corrività. Non vi ha corso il genere lirico (…) È epico il registro dominante (…) la consapevolezza della insufficienza del dire (…) In un quadro siffatto- scrive Carlino - gli oggetti mostrano valori di realtà mentre pure si accendono di prospezioni simboliche; e il resto accoglie compunto e dolente le intermittenze della memoria, frattanto aprendosi a toni di testimonianza di un comune sentire, la cui offerta sbalza in contro piano la figura cangiante, incipitaria e provvisoria, di un corifeo e disegna l’effetto slontanante di una sentenziosità oracolare assot-tigliatasi in nuance”.

Ma come si insinua la memoria ammaliante del poeta nel suo prodotto arti-stico? Ci dice il critico che “Canti di memoria, versi e prose rivanno per rifra-zioni a spazi e tempi di un mondo “infante”, ad una geografia inscritta dentro una civiltà contadina (...) La verità e la storicità di un mondo povero e offeso e tuttavia provvisto di una identità in cui esso si qualifica e che quindi ne segna i caratteri salienti…”.

Nel bell’intervento di Carlino ad apparire è anche una tavolozza di sensa-zioni di principi che caratterizzerebbero il mondo poetico di Di Biasio: “(…) così un chiarore albescente viene sprigionato nei versi che si tingono di bianco accogliendo la luce di un mondo che inizia, sul principio di una storia univer-sale, mentre l’intenzione dell’opera convoca di sfondo alla rappresentazione e poi elegge a sua nota dominante una limpidezza mediterranea presto vestita di classicità greca – giusto all’oriente dell’Occidente – e parlata dal mito, che pure è posto agli albori e precede ogni racconto”.

Anche se in quel continuo errare che sembra essere il panorama dell’autore a dominare sembra essere “Una poesia che non smette di sperimentare la perfet-tibilità della parola”.

Del resto anche Sergio D’Amaro raccoglie le sue riflessioni sul tema della “lunga fedeltà ai valori dell’uomo” di Di Biasio.

A colpire in particolare la fantasia critica di Francesco De Nicola è il contrasto campagna-città del nostro poeta. Egli scrive: “Così in quest’alternarsi di memoria del passato e di testimonianza e riflessione sul presente – a suo tempo ben sottoli-neato da Giuliano Manacorda nella sua fondamentale Letteratura italiana d’oggi. 1965-1985 del 1987 – Di Biasio ha costruito il suo più maturo percorso poetico, ribadito dalla successiva silloge I ritorni (1986), anch’essa come la precedente leggibile nella forma più articolata del poemetto, che si arricchisce di un nuovo motivo, peraltro già adombrato dal titolo, e cioè quello del viaggio: viaggio reale (e dall’autore vissuto come esperienza totalizzante al tempo della sua breve emigrazione nel Nord America), ma ancor più viaggio esistenziale che, avviato dai luoghi e dai tempi delle sue radici contadine, gradualmente lo conduce, anche

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se non necessariamente coprendo distanze illimitate ma fors’anche all’interno della ristretta cerchia della sua vita di insegnante a Formia sia pure con vaste frequentazioni anche internazionali, a nutrirsi di luoghi e personaggi dell’anima che, passo dopo passo, lo spingono verso una luminosa e utopistica nuova città del sole, un “ritorno” appunto che si richiama, inutile forse sottolinearlo, al grande mito ulisside. Il viaggio in versi…”.

Del resto De Nicola estende il discorso del viaggio oltre quello reale e dell’anima per arrivare ad indagare nel viaggio esistenziale frequentato dal poeta: “(…) il senso del viaggio esistenziale, della ricerca di una perduta età dell’oro e del rifiuto disincantato per il nostro presente che si manifesta come sempre più arido e selvaggio dietro l’ingannatore progresso; e allora ecco la ricerca di una solitudine che non sia, come troppo spesso è oggi, l’esclusione dietro al montaliano invalicabile “muro d’orto”, ma invece ci aiuti a ritrovarci al di là e al di fuori delle tante parole ingannatrici per assaporare il silenzio (non quello imposto dalle troppe voci che strepitano e soffocano la parola pura) e per cercare di cogliere negli accadimenti non solo “il bordo delle cose”, ma per riuscire invece a penetrarle. E allora si manifesta anche la dimensione onirica del viaggio e del ritorno…”.

Per quanto concerne il gusto stilistico di Di Biasio esemplare è il contributo di Luigi Fontanella che afferma: “(…) il poemetto è la misura più congeniale all’espressività del Nostro”. E poi: “Una volontà , insomma, da parte dell’autore, di richiamare il carattere fluido della poesia, manifestato attraverso una versi-ficazione scarna, rastremata, polita, essenziale. Sta anche in questo il carattere generale di discrezione che se ne ricava.

Fontanella pone l’accento anche sulle “figure” utilizzate dal Nostro. “Vorrei insistere su questa figura della “discrezione” versus quella dell’ “esagerazione” o dell’eccesso, e tuttavia ridando alla voce discrezione il significato originale dell’etimo, ovvero dal latino discernere e perciò considerando questo lemma come capacità, da parte dell’autore, di valutare, di distinguere di vedere chia-ramente, ché è questo il significato profondo del “discernere” e il uso amore complessivo verso i classici. Distinguere vorrà dire allora “separare”, “sfron-dare”. Si sarà capito, a questo punto,che la metodologia pojetica del Di Biasio non è quella dell’arricchire e dell’aggiungere, ma, piuttosto, quella del levare e del secernere, fino ad arrivare a quella scarnita essenzialità che è la caratteristica precipua del suo stile”.

Sotto il profilo contenutistico Fontanella intravede come topos di Di Biasio il concetto della perdita, considerata sia nel suo versante naturale anche come perdita della condizione mitica infantile che come perdita di convinzioni sociali e politiche in senso lato.“Di Biasio canta una perdita forse irreparabile; ovvero la coscienza non solo della fatale finitezza dell’essere, ma anche dei limiti stessi della forza espressiva che dovrebbe rappresentarla, incapace di farsi vera rivela-zione, essenzializzata al rango di meditazione interiore”.

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Tale stilema si ripercuote, secondo Fontanella, sulla rappresentazione lingui-stica di Di Biasio:“Da qui parte e si sviluppa l’incessante auto-riflessione del Nostro, il suo rimuginio, il ritornare sui propri passi; l’aspetto, insomma, spesso iterativo della sua versificazione, che vuole essere principalmente una sorta di ripresa del discorso ragionativo (…) Questo aspetto intellettivo il Leopardi l’avrebbe chiamato “il pensiero poetante”.

Di nuovo troviamo la citazione del poeta recanatese, quale alter ego del Nostro, a lui avvicinabile dal punto di vista filosofico: “(…) mi pare che in questa felice mescolanza di aspirazione cosmologica a farsi tutt’uno col “respiro della terra” e la luce del mare e, al contempo, l’aspirazione a coglierne il battito più segreto, la pulsazione minima e circostanziata, quella che Di Biasio chiama struggentemente “la regione inarrivabile del puro”…

Dalla filosofia arriviamo poi alla storia, vissuta da Di Biasio come qualcosa di fondamentale, nei confronti della quale portare il massimo rispetto. Afferma Vincenzo Guarracino a proposito dell’atteggiamento morale del poeta: “(…) sguardo severo e sereno sulle cose della vita e sul mondo circostante…” . E poi: “( …) all’alba dei suoi ottant’anni: “Ho insegnato storia per tanti anni ed ho cercato di far cogliere ai miei allievi il dolore della storia…”.

Del resto anche nell’elegante contributo di Silverio Novelli leggiamo: “I versi di Di Biasio, giunti con Mute voci mute al vertice di una ininterrotta ascesa laica ai monti di Ventosa, hanno saputo (ed eroso) le ideologie, hanno saputo (e attraversato) la storia”.

E Marco Vitale scrive: “È che la storia si presentava precocemente a un bambino di sette anni con le devastazioni della “linea di Cassino”, tra i fronti più sanguinosi dell’ultima Guerra”.

La selezione di interventi critici tocca anche l’aspetto più prettamente della letterarietà di Di Biasio nella relazione di Paolo Leoncini che intravede nella sua poesia “(…) un immaginario che non cerca la forma letteraria, la “protezione” istituzionale del “letterario”, ma che è imbevuto di vissuto che diventa germe sensibile-percettivo (…) parola che vuol far consuonare l’esterno, il mondo umano e fisico con ciò che è eterno in noi; parola che vuol trafiggere; parola che vuol essere “luce”.

Il conflitto, caratterizzante l’intera esperienza poetica del poeta (tra interno ed esterno, tra luci ed ombre, tra l’immaginario e la realtà, tra la pace e la sempli-cità personali e la devastazione e la complessità del mondo) ritornano prepoten-temente nel profilo critico tracciato da Raffaele Pellecchia, il quale accenna all’ “…imprinting (…) rinvia alle dolorose esperienze di guerra (…) In realtà, Di Biasio uomo non è mai riuscito a liberarsi completamente dalla “ragnatela di morte” che la “Guerra” gli ha depositato addosso, velando il suo sguardo con l’ombra tenue e insieme tenace di una ineliminabile e persistente malinconia che ha insidiato e depauperato anche i momenti felici della sua vita, ridimensionati, seppur goduti, nel chiuso spazio del privato, ma, ahimé quanto lontani dall’”inar-

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rivabile” splendore del sole e dalla gratuita ed elementare purezza del cielo!”Attraverso le parole di Pellecchia abbiamo l’occasione di scoprire un poeta

che fa una “(…) poesia altamente civile ed eticamente energica, che parla alla nostra coscienza di uomini del XXI secolo con la forza e l’angoscia di chi assiste ad un irresistibile e sempre più rovinoso movimento di deriva storico, e, tuttavia, ancora arginabile”. Pellecchia parla di “(…) comune e angosciata consapevo-lezza della natura occasionale e transitoria del nostro “esserci” (…) e (leopardia-namente) nella concorde residua volontà di resistenza e di renitenza di fronte alla ridicola presunzione di chi continua ad esaltare “le magnifiche sorti e progres-sive!”.

La seconda parte del volume I poeti del centro Italia, curato da Bonifacio Vincenzi, dopo una antologia della poesia di Rodolfo Di Biasio, che comprende testi dal 1977 al 2018 con testi poetici dalle raccolte Le sorti tentate (1977), I ritorni (1986), Patmos (1995), Poemetti elementari (2008), Mute voci mute(2017), si intitola sintomaticamente Voci dal silenzi. Poeti del Centro Italia scomparsi e da non dimenticare. Qui trovano luogo contributi biografici e critici (oltre che testi) relativi ) ad autori rappresentativi della poesia del novecento italiano come Renzo Nanni, Antonio Santori, Margherita Guidacci, Vincenzo Cardarelli, Libero De Libero, Leone D’Ambrosio, Fabio Strinati, Claudio Alvi-gini, Lucianna Argentino, Evaristo Seghetta Andreoli.

Antonella Calzolari

Le code del dragodi Marco Buzzi Maresca

I fantasmi di Flaubertdi Patrizio Minnucci

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Nicolò Tommaseo, Alessandro Manzoni, Giulio Bonola e il giallo del manoscritto sottratto

di Eleonora Bellini

“È lecito sottrarre a uno studioso un docu-mento di una Biblioteca pubblica, specialmente se interessante per la cultura e la storia, quando esso non è più in attuale lettura di un altro studioso, al solo scopo di non essere prevenuti nella pubblicazione? È lecito, a maggior ragione, fare ciò per parte di un impiegato di quella biblio-teca pubblica; e far durare questo preteso diritto per anni, a volontà; e contro quello studioso che è stato all’impiegato stesso occasione del ritro-vamento di quelle carte importanti?” si chiedeva Augusto Vicinelli, letterato e giornalista, su “La Fiera letteraria” del 10 febbraio 1929.

A che proposito poneva a se stesso e ai suoi lettori queste domande? A propo-sito di una contesa editoriale e letteraria che aveva visto coinvolti un manoscritto del Tommaseo, due edizioni dello stesso uscite a pochi mesi l’una dall’altra, Giulio Bonola Lorella, avvocato, storico, letterato1, e Teresa Lodi, impiegata presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. Il manoscritto risaliva al periodo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre dell’anno 1855 quando Nicolò Tommaseo, ospite a Lesa del Manzoni, si intrattenne a lungo in dialogo con lui e, essendo già molto debole di vista, fece annotare diligentemente - da chi non sappiamo - temi e contenuto delle conversazioni.

Nel 1899, venticinque anni dopo la morte del Tommaseo, gli appunti rela-tivi al dialogo furono donati dalla di lui figlia Caterina, monaca col nome di suor Chiara, alla Biblioteca Nazionale di Firenze insieme ad altre carte mano-scritte e a stampa raccolte in una serie di pacchi e faldoni. Caterina/Chiara pose il

1 Giulio Bonola Lorella (Luino 25 gennaio 1865 – Borgomanero 25 gennaio 1936), discendente dell’antica famiglia Bonola di Corconio sul lago d’Orta, studiò presso gli istituti Rosminiani di Stresa e Domodossola, si laureò in legge a Roma nel 1889 e compì studi di approfondimento giuridico a Strasburgo, Berlino e Oxford. Esercitò a Roma e a Milano la professione forense soprattutto nel campo del diritto amministrativo. Coltivò con studi e ricerche, rimasti in gran parte inediti, molteplici interessi come l’agio-grafia, la storia dell’arte, la letteratura e perfino l’agricoltura e l’apicoltura. Pubblicò i saggi: Il Trittico di Borgomanero (1896) e La Ferrovia del Sempione (1895 e 1900); il Carteggio fra Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini (1901); l’opuscolo del Tommaseo Venti ore con Alessandro Manzoni (1928) di cui qui si traccia brevemente la vicenda. Dal 1925 fu corrispondente dell’Accademia Roveretana degli Agiati, che costituiva uno dei luoghi privilegiati per la mediazione culturale e linguistica tra cultura italiana e tedesca. A Borgomanero Giulio risiedeva nell’antica Villa Bonola (oggi sede della Fondazione Biblioteca Pubblica voluta da Achille Marazza, figlio di sua sorella Delia, formato alla stessa – se non maggiore – passione culturale e civile dello zio) già ricca ai suoi tempi di una considerevole biblioteca.

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vincolo che quei documenti non venissero consultati prima che fossero trascorsi cinquant’anni dalla morte del padre, probabilmente per i molti riferimenti a contemporanei in essi presenti.

Nei primi mesi del 1925, scaduti appunto i cinquant’anni che vincolavano la libera consultazione di quelle carte, Giulio Bonola Lorella richiese in visione alla Nazionale di Firenze il manoscritto inerente i colloqui tra Tommaseo e Manzoni. Gli fu risposto che esso era oggetto di studio da parte del professor Pistelli2,in vista, forse, di una pubblicazione. Però qualche mese dopo dalla biblioteca stessa gli giunse la notizia che, di quel fondo, il prof. Pistelli non intendeva più occuparsi.

Il Bonola tornò dunque a richiedere la consultazione del manoscritto. “Iomandai - scrisse in una memoria indirizzata al Ministero dell’Istruzione - e tenni in Firenze per circa un mese e a tutte mie spese un mio giovane collaboratore per far ricerche nelle carte del Tommaseo prefiggendogli specialmente di cercare in esse quanto vi si trovasse circa i colloqui col Manzoni. Il mio collaboratore dott. Gioacchino Malavasi mi segnalò infatti l’esistenza di un fascicolo intito-lato appunto Colloqui con Manzoni; ma nel piacere del rinvenirlo lo segnalò anche all’impiegata che presiedeva alla sala Signora Teresa Lodi. Questa, che ne ignorava l’esistenza, invece di congratularsi, gli tolse il fascicolo di mano e ponendolo sul proprio tavolo disse: “Questo lo lasci qui” in modo che il mio collaboratore non poté più vederlo. Pregai allora un mio amico che abitava in Firenze di presentarsi alla Biblioteca per chiedere di copiare il fascicolo. La signora Lodi rispose che ciò non poteva essere concesso perché il fascicolo era presso uno studioso e in corso di pubblicazione”.

La giustificazione si rivelò poi menzognera. Infatti, a una nuova lettera del Bonola che, trascorsi alcuni mesi, richiedeva di nuovo alla Biblioteca la possi-bilità di consultare il manoscritto, il direttore della stessa, conte Gnoli, rispon-deva semplicemente trasmettendo una comunicazione di Teresa Lodi “dallaquale appariva che lo studioso di cui aveva parlato al mio amico non esisteva affatto ma che il manoscritto era stato invece da lei stessa sottratto all’uso degli studiosi per pubblicarlo a proprio nome valendosi della scoperta fatta dal mio collaboratore a mie spese e dietro le mie indicazioni” prosegue il Bonola nella medesima memoria.

Gioacchino Malavasi, da parte sua, confermava le rimostranze di Bonola in una lettera a La Fiera Letteraria3 così riassumendo la vicenda della scoperta del manoscritto da parte sua: “Nel giugno-luglio 1925 si fecero le prime ricerche; nel dicembre dello stesso anno mi recai espressamente a Firenze per proseguirle. Mi feci aprire diversi pacchi che erano ancora suggellati. In quello segnato col numero 99 rinvenni lo scritto solo ora pubblicato. Non potendo immediatamente copiarlo per altri impegni, lasciai Firenze (verso la metà del gennaio 1926)

2 Ermenegildo Pistelli, filologo e letterato (1862-1927) ne scrisse un articolo su “Il Corriere della Sera”.

3 “La Fiera Letteraria”, 3 marzo 1929, p. 2.

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dopo avere parlato del contenuto dello scritto coll’impiegata preposta alla sala di lettura, la quale dimostrò di ignorarne l’esistenza.”

Trascorsi ancora due lunghi anni, nel 1927 il Ministero dell’Istruzione, al quale il Bonola aveva fatto ricorso, ordinò che il manoscritto venisse inviato a Milano, per poter essere ivi consultato dal Bonola stesso o dal suo collaboratore, entro il 30 settembre. La Nazionale di Firenze tuttavia ritardò ancora la consegna fino all’ottobre 1928. Il ritardo, venne poi spiegato, fu causato dal fatto che sul faldone contenente il nostro manoscritto campeggiava da tempo un foglio con la perentoria scritta “Riservato alla signorina Lodi”.

“Così avvenne che il pubblico italiano rimanesse senza conoscere l’impor-tante scritto per ben quattro anni; e che importanti lavori biografici, usciti nel frattempo, non abbiano potuto tenerne conto”, concluse il Malavasi.

L’edizione delle Venti ore curata dal Bonola uscì finalmente sulla rivista di letteratura e arte Il Convegno, nel n. 11-12 del 25 dicembre 19284, dopo essere stata presentata in forma ancora inedita durante una pubblica lettura nell’omo-nimo circolo culturale milanese il 1 dicembre. Una trascrizione veloce davvero, ma estrememente precisa e rigorosa, come traspare da alcune annotazioni dello stesso Bonola, per formazione e per studio appassionato cultore del pensiero e dell’opera del Rosmini e del Manzoni, il cui carteggio aveva pubblicato nel 1901.

Le Venti ore a cura di Teresa Lodi furono invece pubblicate dall’Editore Sansoni poche settimane dopo, all’inizio dell’anno 19295.

Il dibattito proseguì soprattutto perché Giulio Bonola riteneva l’edizione della Lodi filologicamente scorretta, in quanto non rispettosa del manoscritto originale. Osservava appunto in una memoria successiva all’edizione Lodi6: “Lacasa Sansoni di Firenze esce con un volume intitolato “Tommaseo. Colloqui col Manzoni” pubblicati per la prima volta da T. L. In realtà non si tratta che dello scritto già pubblicato dal Convegno col titolo “Niccolò Tommaseo. Venti ore con Alessandro Manzoni”. Il volume del Sansoni si presenta così fin dal fronte-spizio come alieno da quella esattezza di notizie che è pur essenziale a tal genere di pubblicazioni”.

Prosegue poi rilevando diverse ulteriori inesattezze “per tutto il volume, ove vediamo completati i versi che il Tommaseo scrisse a metà; ove vediamo intro-dotta una punteggiatura che il Tommaseo non solo non avrebbe mai usata, ma che ne falsa tutto lo stile. Ove vediamo ad ogni piccolo tratto intercalati dei titoli e titoletti quali solo un giornalista di provincia avrebbe potuto immaginare”.

Giulio Bonola, preciso e documentato, aveva introdotto l’edizione da lui curata trascrivendo due lettere, una del Manzoni al Tommaseo, l’altra del

4 L’opuscolo, estratto dalla rivista “Il Convegno” del 1° dicembre 1928, è di 120 pagine, dalla 325 alla 648 della rivista stessa.

5 Colloquii col Manzoni di Niccolò Tommaseo; pubblicati per la prima volta e annotati da Teresa Lodi, Firenze, Sansoni, stampa 1928. Sulla copertina anno di edizione 1929.

6 Copia nel Fondo archivistico Famiglia Bonola, Borgomanero Fondazione Achille Marazza

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Tommaseo all’Abate Paoli7, missive che erano state unite, dal Tommaseo stesso, al manoscritto dei colloqui.

Nella prima Alessandro Manzoni scriveva da Lesa il 23 ottobre 1855:“Carissimo Tommaseo, [...] la casa dove mi trovo è appigionata i tre quarti, e

nel rimanente, di cui mi fanno padrone, non c’è in libertà nemmeno una camera. Però dal 5 al 10 del mese venturo (tempo fissato al nostro ritorno in Milano) rimarranno vote due camerucce poco comode e disadorne, in una specie di solajo, quali insomma si possono offrire a un antico amico, cioè a una di quelle persone a cui si vorrebbe riservare il meglio, e s’ha insieme il coraggio d’of-frire ciò che non è neppure passabile. [...] Il desiderio di intrattenermi con Lei è almeno tanto vivo in me, quanto quello ch’Ella mostra così amichevolmente a mio riguardo. Di quante cose dobbiamo parlare insieme!, e principalmente della dolorosa e gloriosa memoria di quel sommo nostro amico e maestro”.

Nella seconda Tommaseo si scusa con l’abate Paoli di non essere potuto andare fino a Stresa ad incontrarlo in occasione di questo suo viaggio sul Lago Maggiore, in parte a causa della pioggia, in parte perché “domani alle due me ne vo; e nella mattinata debbo ripigliare col Manzoni un discorso incominciato, il quale lasciare a mezzo per non lo riprendere forse più mai, non è bene”.

Bonola proseguiva poi ricordando che il Tommaseo era giunto a Lesa già molto provato nella vista e, per questo, desideroso di ascoltare attentamente e di far annotare minuziosamente ogni concetto, ogni parola, di quelle pronunciate da Manzoni, quasi che, insieme alla vista, potesse forse un giorno fargli difetto anche la memoria. Inoltre, legando la visita al ricordo di Antonio Rosmini al cui capezzale entrambi si erano ritrovati alcuni mesi prima, osservava che il Manzoni in alcune pagine “aveva in fatto composto il miglior ritratto che di quel sommo amico e maestro sia a noi pervenuto”.

Aggiungeva infine che del fatto che Tommaseo avesse dettato e non scritto di proprio pugno queste memorie aveva avuto notizia dal lessicografo Vincenzo De Vit8, rosminiano, che aveva incontrato sul lago Maggiore e con cui poi era rimasto in contatto. Sempre De Vit gli aveva riferito - prosegue Bonola nella sua introduzione - che numerose note scritte dal Tommaseo durante i suoi incontri con Manzoni avvenuti in anni precedenti il 1855, e precisamente tra il 1824 e il 1827, “gli andarono prutroppo perdute; non senza tuttavia che molti ricordi di quei primi colloqui non siano passati ad arricchire questo scritto”.

Le Venti ore dell’edizione Bonola sono suddivise in XLVII capitoli brevi, che trattano di numerosi argomenti, tra i quali ricordi e giudizi sulle opere di antichi

7 Francesco Paoli (1808-1891), nell’agosto 1839 seguì Rosmini ed entrò nell’Istituto della Carità. Fu segretario e primo biografo di Rosmini.

8 De Vit (1811 – 1892), lessicografo e latinista, scrisse anche opere di interesse per il Piemonte orientale, come Notizie storiche di Stresa colle vite dei santi e beati principali del Lago Maggiore,1854; Memorie storiche di Borgomanero e del suo mandamento, corredate queste anche di un cospicuo materiale epigrafico, 1859; Il Lago Maggiore, Stresa e le Isole Borromee, 1875-78; La Provincia romana dell’Ossola, ossia delle Alpi Atrezziane, in Opere varie, XI, 1892. È autore anche di un Elogio funebre di Antonio Rosmini, 1857.

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e di contemporanei, dal Cuoco al Monti, dal Niccolini al Rosini, dal Fauriel al Pope, all’amato Virgilio. E, a proposito del poeta latino e della considerazione massima in cui Manzoni lo teneva, vi leggiamo che Manzoni “nel latino più che nell’italiano, apprese egli a scrivere italiano, e lo studio di grandi scrittori francesi che per una parte gli giovò, gli sarebbe per l’altra assai più nociuto se non era il senso di italianità infusogli da Virgilio principalmente, ch’egli venera e ama...”.

Alcune significative parti dei colloqui sono dedicate alla “questione della lingua”, questione per Manzoni di tutta la vita e di tutta l’opera sua, e all’unità d’Italia.

Concludiamo con due curiosità relative alla fortuna delle Venti ore nelle biblioteche italiane. L’edizione curata da Giulio Bonola, nel momento in cui scrivo, risulta presente (OPAC SBN) in 14 biblioteche italiane, quella curata da Teresa Lodi in 106. Gli studi critici sui rapporti Tommaseo – Manzoni citano sempre, per evidente maggior reperibilità e diffusione, l’edizione della Lodi.

Questi dati suggeriscono qualche minuta, dolceamara, considerazione: l’edi-tore conferisce peso e autorevolezza all’opera indipendentemente dal contenuto della stessa; come le ciliegie, una citazione tira l’altra; lo studioso indipendente e appartato può facilmente essere penalizzato. Come a dire che il tempo non sempre è galantuomo.

Eleonora Bellini

Dee ideedi Italo Scotti

Sotto il peso leggiadro dell’andaredi Marina Rezzonico

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Bloc notesdi Gualberto Alvino

CélineDedicata a uno dei pochi grandi autori del primo Novecento ancora in attesa

di studio e sistemazione critica, l’opera dello storico dell’arte Marco Fagioli e del saggista Stefano Lanuzza (Marginalia intorno a Louis-Ferdinand Céline,Firenze, Aión, 2018) colma in gran parte la scandalosa lacuna affrontando con persuasività dimostrativa e spessore euristico più d’un nodo cruciale della poetica di Céline: anzitutto, il rapporto tra il suo pensiero antisemita e la tradi-zione antiebraica francese — Édouard Drumont, Charles Maurras, Léon Daudet, Henry Béraud, Paul Morand, Henry de Montherlant —, concludendo (Fagioli) che, se si ignora la radice dell’antisemitismo novecentesco, ossia la crisi econo-mico-culturale della democrazia al principio del secolo, è impossibile cogliere la complessità del fenomeno antisemita «e si finisce per vedere i deliri delle Bagatelles céliniane come […] il frutto malato di un razzismo congenito dello scrittore, con il risultato di confondere la letteratura e la storia culturale con uno schema ideologico, con una scelta politica che anticipa ed è pregiudiziale all’analisi dei testi».

Céline, secondo Fagioli, identifica gli ebrei con la plutocrazia economica internazionale (una sorta di razzismo degli emarginati contro i potenti dell’eco-nomia e della finanza), quindi con la ricca borghesia e l’oligopolio: «idee queste, si dirà, tutte tipiche anche dell’antisemitismo nazista e del populismo fascista, ma che pure avevano attecchito in alcuni settori della sinistra e in ampi strati delle classi lavoratrici. Altrimenti non si spiegherebbero le basi di massa del fascismo in Italia e del nazismo in Germania».

Ma, ecco il punto essenziale, quand’anche Céline fosse stato un ignobile collaborazionista e un delatore responsabile dei più turpi assassinî, il giudizio sulla sua opera letteraria non potrebbe in nessun modo risentirne, poiché «la letteratura si costituisce prima di tutto come scrittura e non come ideologia: il valore d’arte di un testo non dipende dalle idee e dai contenuti espressi, o perlo-meno non solo, bensì da quanto il linguaggio letterario adoperato sappia raggiun-gere il proprio fine espressivo».

Non meno convincente l’analisi di Lanuzza, secondo il quale sarebbe del tutto insensato «collocare a destra» il candido idealismo di un Céline che in Les beaux draps preconizza la divisione egualitaria dei beni, il salario nazionale unico, la nazionalizzazione di banche miniere ferrovie assicurazioni grandi magazzini, ammonendo: «Delle élite così divoranti, degli sbafatori, degli accaparratori, non abbiamo proprio bisogno […]. Uguaglianza davanti alla fame, per tutti i viventi la stessa cosa, le 3.000 calorie standard per il genio, Beethoven, come per Putois

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Jules, sterratore. L’uguaglianza fisiologica, l’uguaglianza davanti al bisogno, la dannata materia essenziale, una volta per tutte, il tetto, la tavola, le babbucce, il letto dei bambini, il pasto unico, se è necessario, ma la stessa cucina, lo stesso calore per tutti, niente più pezzenti, niente panzoni, gente che salta i pasti, altri che si strafogano, che se ne esca, che non se ne parli più, che la faccenda sia regolata una volta per tutte… [Il Borghese] se ne frega, quel che vuole è conser-vare la sua grana, i suoi “Royal Dutch”, i suoi privilegi, la sua situazione e la Loggia dove si procura relazioni così belle».

Il volume contiene due canzoni “della mala” (À noeud coulant e Réglement)composte da Céline nei modi della tradizione argotico-popolare francese rispet-tivamente nel 1936 e nel 1956, nonché tre interviste — una del 1957, due del 1961 — magistralmente tradotte dallo stesso Lanuzza.

* * * Epigramma

Ogni volta che m’imbatto in un «v’è»(«V’è un altro perché…»)smetto di leggere, veh!È più forte di me.

* * * Sportello grammaticale

Elsa di Vigevano mi scrive:«Le espressioni da quando sono piccolo e settimana prossima, mese scorso

sono corrette?».Cara Elsa, il concetto di correttezza grammaticale è molto complesso e

controverso. In estrema sintesi: tutto dipende dalle circostanze in cui si verifical’atto comunicativo. Le espressioni che lei cita, ormai radicate nell’uso, sono plausibili in contesti colloquiali, familiari, ma sconsiglierei di adibirle nel parlato formale e nella scrittura sorvegliata. Anche perché

a) chi dice Da quando sono piccolo non è più piccolo (ergo, Da quando ero piccolo);

b) Settimana prossima è un calco dell’inglese next week, ma noi siamo italiani, non inglesi, e non abbiamo alcun motivo di rinunziare all’articolo.

Dario F.: «Questa frase di un articolo pubblicato dal “Corriere della Sera” è corretta? Io non avrei messo la virgola: Alla luce di questi dati, è possibile fare alcune considerazioni».

Farei volentieri a meno della virgola, ma non si tratta di errore. In casi come questo la virgola è facoltativa, perché non incide sul significato della frase (lei avrà certo notato che qui, dopo «In casi come questo», anch’io ho rinunciato alla virgola).

Proviamo a fare un’inversione: È possibile fare alcune considerazioni alla

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luce di questi dati: si avverte forse il bisogno di una pausa dopo «considera-zioni»?

Ferdinando Z.: «Leggo nella “Repubblica” del 23 dicembre 2019: “Nessuna regione è immune alle mafie” (Gianluca Di Feo). Ero convinto si dicesse immuneda, non a. Mi può dare un lume? E, se avessi ragione, mi potrebbe anche spiegare come è possibile che un giornalista commetta simili strafalcioni?».

Caro Ferdinando, anche per me resta un mistero.

Francesca C.: «Sento dire Sotto all’albero, Come al solito, Non guardo in faccia a nessuno. Sono espressioni corrette?».

No, Francesca, sono scorrette, e resteranno tali fino a quando non entreranno nell’uso dei parlanti/scriventi cólti. Ora si dice sotto l’albero, come il solito o al solito, non guardo in faccia nessuno (accusativo preposizionale, fenomeno proprio del parlato informale). E aggiungerei vicino a casa mia, non vicino casa mia, ecc.

Daria E. chiede “per quale motivo ‘allarme’ è maschile e ‘allerta’ è femmi-nile. Eppure la struttura delle due parole è identica. Non lo trova illogico?”.

Gentile Daria, sarà pure illogico, ma la grammatica e la logica fanno spesso a pugni. Tenga presente che l’unica bussola è l’uso. Quale uso? Ovviamente quello dei parlanti/scriventi cólti.

* * * Ogni limite ha una pazienza

Questa faccenda delle riviste accademiche non può continuare: abstract in italiano, abstract in inglese. Ora pretendono perfino le keywords. Noioso. Scoraggiante.

* * * L’avanguardia napoletana

Poeta visuale e critico letterario (ricordiamo almeno Un vibrato continuo e Con occhio allegorico, rispettivamente del 2002 e del 2005), in questo libro (Da«Documento-Sud» a «Oltranza». Tendenze di alcune riviste e poeti a Napoli 1958-1995, Salerno-Milano, Oèdipus, 2019) Giorgio Moio traccia — col suo linguaggio «battagliero e arcigno», facile al risentimento e persino all’ira — una storia delle riviste di ricerca e d’avanguardia pubblicate nel secondo Novecento a Napoli, «centro di un lungo dibattito di cultura sperimentale già a partire dagli anni ‘60», corredandola di documenti e dati preziosi, spesso di primissima mano, essendo egli stato fondatore e redattore di alcune di esse.

«Documento-Sud, Rassegna di arti e di cultura d’avanguardia» (1959-1961) e «Linea Sud» (1963-1967) rappresentano i primi documenti dell’esistenza, nel capoluogo campano, di un’avanguardia e di una cultura antagonista che tentano

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di superare «il vuoto e il deserto» del folclore neorealistico, da un lato, e d’un astrattismo ridotto a vacuo neoplatonismo, dall’altro. In particolare «Documen-to-Sud» (che conta tra i suoi numerosissimi collaboratori nomi prestigiosi come Emilio Villa, Enrico Baj, Edoardo Sanguineti e Stelio Maria Martini) svolge un ruolo fondamentale per la storia della poesia verbovisiva italiana e per l’analisi dei rapporti tra arte e comunicazione e tra arte e tecnologia, trasformando in linguaggio artistico i sottocodici prodotti dalla »civiltà delle macchine».

È «Uomini e idee. Rivista di letteratura, estetica, psicologia e arte contempo-ranea» a ereditare, nel 1958, le principali tendenze delle due testate storiche: «Uno dei punti fermi […] è dato dal colloquio con la realtà (non nell’accezione zdano-vistica del termine) che dev’essere senza mistificazioni, dove il rapporto arte-vita si situi al centro della poesia e sia portatore di un’utopia del nuovo». Forte di una redazione composta da Giorgio Bàrberi Squarotti, Pietro Aldo Buttitta, Piero Chiara, Enrico Crispolti, Giuliano Gramigna, Alberto Mario Moriconi e Adriano Spatola, la rivista diviene organo di stampa del gruppo Continuum, la punta più avanzata dell’avanguardia partenopea, che prende le distanze dal Gruppo 63 e dalla sua «professata volontà di inserirsi nel potere economico dell’indu-stria culturale», per aprirsi a un realismo originale e raffinatissimo: alle poetiche neopascoliane e agli epigoni d’un crepuscolarismo fuori stagione si preferisce «il fuori dall’autobiografia e dalla cronaca, ovvero dal luogo comune (il mondo) che ha deteriorato l’oggetto estetico», non ponendo alcun limite al linguaggio e ripudiando la logica del mercato in favore del «laboratorio dell’antiscrittura e dell’antifilosofia».

Fondata e diretta, a partire dal 1972, da Franco Cavallo, con il contributo di Felice Piemontese, «Altri termini» riscopre nel surrealismo le ragioni di una letteratura altra e sperimentale. Non si vuole più cedere «alla facile tentazione di un settarismo di maniera che, con il falso obiettivo della distruzione del museo e dell’accademia, in realtà mira proprio a questo: al museo e all’accademia», scrive Cavallo nel primo numero. Polemiche interne alla redazione determinano la chiusura della rivista, ma tra il ‘79 e l’80 vengono pubblicati, per iniziativa e sotto la direzione dello stesso Cavallo, come supplementi di «Altri termini», quattro numeri di «Colibrì», quaderni di poesia verbovisiva, che ospiterà — oltre a poeti lineari ma di ricerca, come Flavio Ermini, Octavio Paz, Paolo Badini e Franco Mogni — alcuni dei maggiori protagonisti della poesia visuale, tra i quali Lamberto Pignotti. Nel 1985 la rivista riprende le pubblicazioni, sotto la spinta di Felice Piemontese e di Antonio Spagnuolo, ricominciando dalla prosa (senza trascurare la poesia sperimentale), con interventi di Stefano Lanuzza, Marcello Carlino, Stefano Docimo, Giovanni Fontana, e dei napoletani Mariano Baino, Biagio Cepollaro e Lello Voce.

Nel 1974 nasce «ES. Rivista quadrimestrale di teoria e critica delle avan-guardie», fondata da Sergio Lambiase e Gian Battista Nazzaro e diretta da Glauco Viazzi, nella quale fin dai primi fascicoli si propone, con un taglio scien-tifico secondo Moio troppo accademico, la rivalutazione dei poeti e dei narratori

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delle avanguardie storiche più negletti dalla critica ufficiale, pur dedicando un congruo spazio alla poesia visiva.

Nell’aprile del 1985 nasce «Terra del Fuoco», diretta da Carmine Lubrano con la collaborazione di Mimmo Grasso e di Umberto Attardi, la cui peculiarità è il confronto tra le più diverse discipline (poesia lineare e visuale italiana e stra-niera, fotografia, pittura): vi collaborano tra gli altri Mario Lunetta, Toti Scialoja, Andrea Zanzotto, Emilio Villa, Alfredo Giuliani, Corrado Costa, Giulia Niccolai e Gio Ferri.

L’ultima rivista schedata è «Oltranza» (titolo suggerito dallo stesso Moio, che fu tra i redattori), fondata negli anni Novanta da Ciro Vitiello e da lui stesso diretta, alla quale hanno collaborato poeti e artisti sperimentali e in cui si sono formati molti giovani autori non solo napoletani.

* * * Giornalisti

Non c’è programma televisivo in cui non compaia come opinionista il giovane Tommaso Labate. Non sembra, ma dev’essere un bell’ingegno giorna-listico per essere così conteso. Sì, ogni tanto scivola su qualche sfondone («Che io dèstini…»), ma che importa? Forse che un giornalista è obbligato a conoscere la lingua italiana?

* * * (In)credibile!

Tutti conoscono Guido Davico Bonino, critico letterario, docente di Storia del teatro all’università di Torino, responsabile dell’ufficio stampa della Einaudi dal 1961 al 1978...

Secondo lui, il povero Ungaretti avrebbe intitolato la sua celebre raccolta Allegria di nàufragi.

* * * Tempi remoti

Roma, 20 ottobre 1941Caro Savinio, ho ricevuta la vostra del 14 corr. e con mio grande rammarico

vedo che insistete nel vostro proposito di ritirare il manoscritto. Non mi resta perciò che consentire al vostro desiderio e ve lo rimando. Rimango in attesa del contratto, mentre alla presente allego quello da voi firmato. Quanto alle duemila lire anticipatevi, fate come meglio credete. Se volete trattenerle quale anticipo sul nuovo lavoro di cui mi parlate, fatelo pure, comunicandomi il titolo dell’opera e l’epoca alla quale pensate di potermelo presentare.

Aldo Garzanti

* * *

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Bene, ma con una precisazione«Dovrebbero critica e satira, senza riguardo e pietà, flagellare i poeti mediocri,

fin quando essi fossero, pel loro meglio, ridotti a tale da impiegar più volentieri i loro ozii a legger cose buone, che a scriverne di cattive» (A. Schopenhauer).

Preciserei: i poeti mediocri ingiustamente incensati, perché turbano la tavola dei valori. I mediocri reputati tali non fan male a nessuno, ergo vanno trattati con riguardo e pietà o non trattati affatto.

* * * Riflessioncina natalizia

Di ogni parola che ho scritto, e scrivo parecchio, ricordo perfettamente il quando, il come e il dove. Perfino il profumo, il sapore, l’umore. Un formalista si riconosce anche da questo.

* * * Un libro…

… merita il titolo di libro se stordisce, confonde, spiazza, semina il nuovo misto a dubbî. Modifica.

* * * Il Papa

si era già liberato: che bisogno c’era di colpirla? Si tratta del papa, non di un prete di campagna. Altro è liberarsi “cristianamente” dalla stretta di una fedele, ben altro è reagire in modo violento per liberarsi. Io, non credente, non mi sognerei mai di colpire una donna che, per giunta, mi tira a sé per dimostrarmi affetto e ammirazione. Certi scatti di rabbia rivelano l’indole della persona.

* * * Gadda

«Precipita, nella pagina gaddiana, — scrive l’autore nell’Introduzione dall’al-lusivo titolo continiano Perché non possiamo non dirci gaddiani — il passaggio istituzionalizzato tra i due secoli: tra l’Ottocento tradizionale, ma pure dinamico nella progressiva trasformazione culturale e sociale, tra Manzoni, gli Scapigliati, Verga e Carducci; e il Novecento, nominato nella mescolanza dei linguaggi e nel senso tragico — ma pure intrecciato, innovativamente, al comico — che si svela nei meccanismi della conoscenza e dell’espressione. […] Perché centro dei movimenti che hanno segnato i momenti più difficili e complessi del Novecento, l’opera di Gadda si offre come testo che produce altri testi, altre scritture, con una prolificità che ha solo pochi altri eguali nella nostra storia letteraria».

Una sfida ardua se altre mai, che Patrizi vince su ogni fronte nel suo Gadda(Roma, Salerno Editrice, 2017). Non c’è infatti dato biografico, bibliograficoed estetico che egli non sondi esaustivamente con acume e competenza, dalle origini dell’espressionismo gaddiano, con Giornale di guerra e di prigionia, a Retica, il primissimo cimento narrativo col quale lo scrittore tenta di costruire

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una forma compiuta e non più caotica di narrazione, «un’architettura complessa che esplicita la volontà di elaborare un affresco a tutto campo della società e degli individui, delle relazioni tra paesi e culture diverse»; dai testi divulgativi di materia scientifica e tecnica dedicati al proprio mestiere di «ingegnere elet-tricista» (tutt’altro che asettici e referenziali, anzi rigoglianti di citazioni culte, spesso latine, e perfino di sapide macchie dialettali) alla speculazione filosoficadi Meditazione milanese, un trattato organico in cui il gran lombardo mette a punto gli strumenti di scavo e di comprensione del mondo; dalle riflessioni sul romanzo contenute in Racconto italiano di ignoto del Novecento, fondamentali per penetrare nell’officina gaddiana, alle considerazioni sul linguaggio macaro-nico («la maccheronea costituisce limite, e siepe, e rete, che ricinge ed assiepa e delimita l’imbecillità del concetto, e con lei quella di chi ridice, nell’ecolalia d’un ebefrenico, varie glomerazioni di parole»); dalle prove di narrazione rimaste allo stato d’abbozzo (La Meccanica, racconti, frammenti, memorie) alle favole e alle traduzioni; dalle sillogi di prose d’arte e saggistiche (Le meraviglie d’Italia,Verso la certosa) al pamphlet sull’ascesa e caduta di Mussolini e «sulla natura narcissica e alienante del rapporto tra masse e “tiranno”» Eros e Priapo (l’«ine-dito da distruggere», il «vecchio relitto sgradevole e rozzo», il «poco giudi-zioso libello» «enfatico, involuto, barocco, maccheronico» intinto nell’«odio» e nella «rancura», improntato a «un’intrepidità realistica non arretrante innanzi ad alcuna risorsa scatologica od oscena» [Contini], più volte respinto da editori e riviste per la sua inaudita trivialità), della cui complessa storia compositiva e vicenda editoriale l’autore offre una descrizione ragionata e puntuale; da I viaggi la morte, capitale raccolta di scritti teorico-critici e di riflessioni metaletterarie (centrale il problema del linguaggio come mediazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto) alla produzione poetica (25 testi sparsi nelle pagine e negli appunti), il cui motivo conduttore è rappresentato dallo spazio della natura «osservato come teatro di eventi che disegnano un universo ora di pacata ora di drammatica mestizia», fino alle «grandi narrazioni»: La cognizione del dolore(esemplare il commento della altrettanto magistrale edizione critica allestita da Emilio Manzotti nel 1987) e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.

Chiude il volume una bibliografia «essenziale» nella quale non compare — ed è motivo di rammarico — nessuno dei contributi d’uno dei nostri più finigaddisti, Luigi Matt, in particolare Nascita di uno scrittore: note linguistico-stili-stiche sul «Giornale di guerra e di prigionia» di Carlo Emilio Gadda, Fiorentino antico e vernacolo moderno in «Eros e Priapo», Invenzioni lessicali gaddiane,Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Glossario romanesco.

* * * Solo quella

In un’opera letteraria esiste anche un’intelligenza grammaticale.Anzi, a ben vedere, esiste solo quella.

* * *

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AvvisoQuando capisco che il poeta vuole “comunicarmi qualcosa” chiudo il libro a

tripla mandata.* * *

Leggiadri parlari (oh, Calvino!)— Scusi, dovrebbe prima effettuare lo scontrino.— Lo effettuo subito.

* * * L’immondo sciocchezzaio

del Grande fratello!In sé non sarebbe affatto una brutta idea, ma i concorrenti dovrebbero essere

selezionati in modo meno quadrupede.Se il prossimo anno sarò richiesto di dirigere la baracca, e se cedessi alla

tentazione di accettare, sceglierei come concorrenti- Luca Serianni, Raffaele Simone, Claudio Giovanardi e Pier Vincenzo

Mengaldo, quattro linguisti di diversa estrazione e competenza;- i filosofi Emanuele Severino e Massimo Cacciari;- il genetista Edoardo Boncinelli;- l’astronauta Samantha Cristoforetti;- la direttrice generale del CERN di Ginevra Fabiola Gianotti;- i poeti Giulia Niccolai, Lamberto Pignotti, Giovanni Fontana e Valerio

Magrelli;- i direttori d’orchestra Beatrice Venezi e Riccardo Muti;- i filologi Pasquale Stoppelli e Alfredo Stussi;- il drammaturgo-attore Giuseppe Manfridie via spigolando tra i nostri migliori cervelli.Chi dice che il pubblico televisivo italiano preferisce ciance e liti da trivio?

* * * Non è vero ma ci credo

Dice: «Non è vero che il 3 sia il numero perfetto. Credenze destituite d’ogni fondamento scientifico».

Allora perché ciascuno di noi, nessuno escluso, indulge naturalmente e irresisti-bilmente alle strutture ternarie («Servono dati, fatti, argomenti»; «Non si parla abba-stanza di droga, immigrazione, educazione»; «Era alta, formosa, elegante»…)?

* * * Cose di lingua

Le espressioni «Si dice così» e «Non si dice così» non significano ‘Si deve dire così’ e ‘Non si deve dire così’, ma ‘Si usa dir così’, ‘La maggioranza della comunità dei parlanti dice [non dice] così, ergo la forma è corretta [scorretta]’.

E che significa «corretta»?Significa, in soldoni, che quella forma è condivisa dalla maggioranza dei

parlanti, quindi la comunicazione è garantita.

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Trama o non trama?Non ho mai condiviso una sola parola di Angelo Guglielmi critico letterario,

ma sottoscrivo in toto quanto dichiara nel suo ultimo libro (Sfido a riconoscermi,Milano, La Nave di Teseo, 2019), ossia l’esatto contrario di quanto prèdicano editor e editori, sempre in cerca di storie, intrecci, linee narrative ben definite(quello che Pizzuto chiamava «i fatterelli»), ignorando che il vero valore risiede nella struttura, nel linguaggio, nello stile:

«Ho sempre saputo e non ho aspettato di diventare lettore e critico di profes-sione per capire che non è la trama a dare valore a un romanzo, dal quale (valore) la trama (spesso anzi quasi sempre) lo allontana (…). Sì, è per questo che io dimentico le trame (dandole per scontate)».

* * * Tassonomie

Raffaele Simone, un maestro cui mi stringe una devozione infinita afferma che il linguista è lo studioso non di una sola lingua (la sua), ma di più lingue. Lo specialista di una sola lingua merita il titolo di grammatico, di storico della lingua, non quello di linguista.

Più tempo passa, più non riesco a dargli torto.

* * * Avvertenza

Nessuna poesia piana a intenderenon più che un valloncello amenopuò dirsi veramente poesia

[«Se la poesia è decifrabile nel modo più elementare non è più poesia» (Giuseppe Ungaretti in una intervista televisiva del 1961).]

* * * Anglofilia o colonizzazione?

«Australian Open, Caroline Wozniacki perde e si ritira in lacrime: il tributo dello stadio» («la Repubblica», 26 gennaio 2020).

L’italiano tributo è «qualsiasi prestazione in denaro dovuta dai cittadini allo Stato e agli altri enti pubblici» (Vocabolario Treccani), con le relative metaforiz-zazioni, mentre in inglese tribute vale ‘omaggio del pubblico al suo beniamino, applauso riconoscente’.

Avviso i lessicografi che da qualche decennio tributo ha preso il significatodi tribute (dicasi calco semantico).

* * * Sempreverdi

«Il mondo è pieno di libri ma privo di letteratura» (Enrico Filippini, 1987).Gualberto Alvino

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Andante e trobadoricodi Luciana Rogozinski

DILUVIO UNIVERSALE

Vedesi nel primo letto a sinistra effigie di vecchio di espression truce posare allo modo che fusse decapitata tra lenzuola fino all’orlo imboccate e il ridondante cuscino, e null’altra parte del di lui corpo emergere e una piega amarissima rivol-gere le di lui labbra verso il basso e lui medesimo osservare con sdegno e disprezzo l’ambiente intorno e a diseguale ritmo commentare incollerito le infernalia. Vedesi nel secondo letto a sinistra testa di vecchio ossutissima posare il dì tutto e l’in-quieta notte nella medesima posizione sull’istesso cuscino bianchissimo, alla maniera dei morti, e nulla voce emettere, a somiglianza che domandar dovesse quell’immoto il senso dell’intero mondo. Vedesi nel terzo letto a sinistra poggiare fra tubi e alambicchi su rivoltato più volte giaciglio capo con faccia in mille specie contorta, di bocca scompostamente aperta sibilante, di occhi in contrarie vie diva-ricati e appena in atto d’uscir fuori dall’orbite, di capelli irritati ispidi, e questa faccia uscir di respiro e grufolare e rantolare come le bisogna secondo l’ora del giorno. Opposto vedi sopra letto sconquassato ventre gonfissimo agitarsi per scan-sare lenzuola arti frattaglie ordigno di tribolazione urinaria e più in alto la grande faccia che grida piange e minaccia vendette a bocca sdentata e colpe e rapine ai propri danni nomina e gravi maledizioni lancia agli assenti che lo minacciano e su di sé dipoi quello vedi furioso imbambolato crolla. Vedesi nel centro della destra parte pensatore indomito seduto a metà del letto fra lenzuola di ricovero sempre tenersi la testa fra le mani e nulla sentire nulla vedere delle circostanze e in ciò ricavare sereno stupore nel trascorrere del giorno. Vedesi nel primo letto a destra fra lenzuola candide rassettate lunghissimo nero corpo di africano di capelli grigi, albino di un occhio, di gamba e braccio paralizzati per tutt’un lato, muoversi con destrezza con l’altra parte sana per sua civile sopravvivenza, mantenendo tuttavia sempre chinata la testa sul destino, alzando quella medesima e la voce nel momento della protesta se l’inserviente assegnato cura o non cura ciò che legge li impone : giustizia e ingiustizia guatando senza fallire con l’occhio sano e con quello albino, un registro scrivendo nella memoria per il tribunale che un giorno, prima o poi, con il più sacro dei diritti aprirà le porte, dirà il nome, farà ragione.

Raduno mobile

E quando vedrai alcuno ammiccare a te presso che l’altro che sta parlando ne li vostri dintorni, gesticolando invasato o sorridente o cupissimo, è pazzo, statim domandati se l’appetto a te ha ragione o non sia lui medesimo fuori di

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senno. Perché è norma assai volte sperimentata che li pazzi tutti insieme se ne stanno in unico loco tramando fra di loro contro il restante mondo che tra le sbarre intraposte li osserva, e fra sé medesimi quelli strani perfettissimamente si comprendono nelle loro varie lingue ma di fronte al comune nemico alzano la maschera e ognuno per sé medesimo rotto pare in ogni particulare suo. Etiam domandati chi tu sia infra quelli tutti adunati, e dove sia la porta che ti paia aver incontrato passando per approdare nel sopra detto loco nel quale l’appetto a te indica che furiosamente o amabilmente pazzi sono quelli che senza nulla saper di sé vi circondano. Corridoio lunghissimo pare quello mondo così abitato, ma sempre intermedio, perché porta dopo porta sempre altro mondo a modo di quello si riconosce e nuove figure dentro del nuovo si sporgono, indicando pazzi quelli diversi che tra pareti e centro si muovono, e in specie figure e figure risal-gono da corridoi laterali nominati col nome proprio del capostirpe a cui quelli disdegnosi si appellano per riconosciuta teoria la più perfetta onde dividere i pazzi secondo ragione. Ora che tutti stiamo ammassati in codesto caleidoscopio che mai s’arresta di girare e tutti prima o dopo cadiamo dalla parte opposta dopo esser stati alcuno tempo penduli, dimmi prima di sparire dalle mie viste chi è quel pazzo retro a te che di te vorticante vorticando ride e sarà con te per breve nella massa splendente che nel fondo rotola. Perché io medesimo similemente a voi mi stacco e cado e nel precipizio lucente voglio essere.

Le stralune Vista una volta, seduta tutta sola sul prato sotto la salita dei Cappuccini, una

donna anziana, di capelli grigi sconquassati e abiti ordinari, spalancare la bocca e gridare davanti a sé spiritatamente con grande passione: “PERCHE’ L’HAI FATTO?”

Vista una volta, sul lungo Dora, una donna che camminava ieraticamente a braccia aperte, su cui portava in fila spiegata molti tipi di uccelli tranquillissi-mamente a spasso così insieme e in bel modo, seguita a terra da un altro grande dispendio di uccelli di varia specie e grandezza che dietro al suo nobilissimo passo facevano mobile e colorato mantello, ordinatamente avanzante zampa dopo zampa sul ritmo di lei. Questa processione, che nella luce del mattino andava in perfetto silenzio verso una meta sconosciuta, fu interrotta e scompi-gliata tutta dall’abbaiare improvviso di un cane, che nella sua compiuta raziona-lità e senso del diritto non poté sopportare che sul lungofiume di città si desse e durasse quella manifesta mancanza di senso.

Vista una volta, in una vacanza di studio in Normandia, una donna del gruppo, di parlata francese e fattezze e pettinatura mascoline, usante sempiternamente pantaloni di fustagno alla zuava, durante una visita a una fattoria locale per impa-rarne i costumi precipitarsi improvvisamente sotto il ventre di una vacca e allat-tarsi a tutta bocca senz’alcun preavviso dalle mammelle gonfie di quella poderosa. La pazienza di cotale nutrice durante l’atto, nel sole di mezzogiorno, fu annotata da tutti i presenti come segno della grandissima civiltà che distingue la verace

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razza franca dalle altre, più sanguigne e irascibili, di comune origine latina.Vista una volta, nella scura bottega di un tabaccaio di Genova, una donna

sigillare con il miele la busta della lettera destinata al figlio lontano. Vista una volta sul treno una donna porgere a conca le mani al figlio adole-

scente perché ci sputasse dentro la parte di cibo che quello non voleva più.Vista una volta sull’autobus una donna di espressione impenetrabile non

pagare il biglietto e venire saltata come figura totalmente invisibile dal control-lore.

Vista una volta nel corridoio di un reparto psichiatrico camminare avanti e indietro una ragazza sui sedici anni in perfetto mutismo, che irradiava una terri-bile aura di vendetta, e come da una dea accesa sulla soglia e che tuttavia non entra, tutto lo spazio era trascinato avanti e indietro da un’ardente violenza: non la parola ma la fiamma.

Vista una volta seduta sul tram in pieno giorno una donna araba, completa-mente ricoperta testa e corpo del velo islamico secondo la norma, da quello stesso indumento ermeticamente chiuso far sgusciare in un solo attimo una grande chiara mammella ben gonfia e con quella allattare il neonato che aveva seco, e questo con grande naturalezza e destrezza fare a luce trionfante e davanti a tutti.

Ho visto tutte le donne del mondo guardando una treccia: la sapienza che per amore di grazia riavvolge in ordine triadico la grande vampa del cosmo.

ErbivoriEra una persona erbivora: di occhi dunque grandi e stupefatti, pronta a trasa-

lire al minimo refolo, incapace di far del male e silenziosissima, quasi immobile per lunghe pause nella stessa espressione, se si esclude un leggero incontenibile movimento della mascella, dietro la quale i denti si ricomponevano grano su grano, vertice su vertice, ricorrendo all’alveolo più segreto non senza sincopati rintocchi. Fra le persone di specie erbivora, alcune soggiacciono al destino senza opporre resistenza, attraversate soltanto da qualche nervoso brivido negli arti; altre devono la propria apparente trasognatezza alla ripetizione infinita, dietro i loro sguardi vitrei, dell’offesa ricevuta un giorno e alla memorabile risposta che avrebbero in realtà dovuto dare prontamente, di cui ora per ora viceversa perfezionano i nobili particolari: quest’attività, che sfiora le vette dell’artigianato illustre, può durare tutta la vita, a partire dal trauma originario: lode dunque ai “ruminanti”.

TrenitaliaAvanzi di comete, oggetti dislocati: arabeschi di tappeti esiliati in magazzini

funebri, dentro sale profane, amuleti travolti, squarci di stoffe da telai remoti, da mani irraccontabili, esotismi sparpagliati, bambole perse.

Quando un bazar perviene al centro?Questo capogomitolo: e garbuglio e intrico si aprono e si richiudono a filo-

tronco, in sintagmi straniati, e vai per nodi e gole dove il percorso s’imbuia. Ora ecco il nero, col suo corpo di nero travestito all’occidentale, con i suoi

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occhi di nero che hanno veduto le savane enormi, il gran sesso dominatore misu-rato su leoni elefanti baobab solitari ora stemma incancellabile sotto la stoffa rigida imposta dal macchinario perché nessun vento la agiti. Seduto composto nel sedile n. 24 della carrozza 7 seconda classe del treno R.-T., fra il romeno che dorme incappucciato con le stelle USA il marchio MAR/SHALL divisi dalla zip della corazza e il medio animale italico brevilineo, di pettinatura incrinata, accuratamente composta e untuosa, stilisticamente derivata, senza sguardo rico-noscibile dietro il buio notturno da cui ogni luna è fuggita: elmo di fosche lenti a visiera abbassata, tisica vedetta del nulla: dietro di lui impettiti in piccoli imper-meabili schiere e schiere di fanti del marenostrum a battaglia differita.

ORA È MERCATO ORA SCEGLI

Luogo di maschere immobili trascinate: site 28 of the Kingdom, dark blue high column, mineralwatercarrying: il turco inesorabile. Il rapace sotto condi-zione, lo scranno stretto, il corpo tumultuoso smanioso malsedato. Muraglia di ostinato furore compromessa, dictator immalinconito nelle crepe, turris fessurata sgretolata da abluzioni sacrali rimandate, da sonni invìgili.

Il pasto impuro inquina il testimone: alta luce del Bosforo, sfavillante Bisanzio sui due mari porti, a cappotto inoltrato, la mezzaluna che ancora ti divide: lo sguardo da sparviero, il corpo in furia, il trono miserabile. Iconoclasta con figura.

ATTI DI SCOMPIGLIO

M o s t r o s o v r a n o

Giona, quando entrasti sotto la grande volta e uno dopo l’altro vedesti le arcate le navate e gli antri che dal giorno traevano l’ultima luce, mentre traspor-tato dalla corrente di una sola sorsata rotolavi nel gorgo e un’unica onda lucida si chiudeva come un cristallo su te estatico, tu Giona che folle scompigliate di uccelli reclamavano con gridi e stridi dall’altra parte dell’aria, mentre abbando-nate dal tuo sguardo molto più indietro dell’orizzonte sprofondavano le rive e un universo di passi si frantumava sopra orme confuse in assenza di te, te perduto, quale intanto tra vuoto e vuoto andavi navigando, marinaio imperfetto, quale che noi non sapessimo, sagittatori di domande, dal momento che esse rimbal-zavano via dalla massa gommosa, stillante, si spaccavano contro la voragine ormai chiusa sullo schianto delle mandibole, serrata nell’indifferenza sovrana, un attimo prima di conficcarsi nella schiuma fragorosa, tranciando l’aria da una parte all’altra nell’avvento dell’immersione abissale, e ne rimbombano i cieli e quale eco a Giona ne giungerà, si domandano le ere.

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E non è tenebra in questo navigare, verso il banchetto corro, pesce d’oro: mi aspettano nella sala imbandita a festa preda che irrompe dal fronte del giornodi scaglie e lampi sono rivestito il cuore che il coltello taglia è il mio (i miei rubini, come brillano! le mie pietre d’ombra, come scivolan via!) In gocce e stille si sparge l’annuncio tutto di rosso l’Oriente si macchia mostro il sigillo, traverso il guadoSi alza la coppa sul dolce pesce: e dentro il cerchio della luce cado

Il mangiatore di rondini Appena inghiottita, la rondine allargò le ali dentro di me: affacciato alla torre,

di fronte a un cielo altissimo, fra le strida che accompagnavano i vortici dei voli, fui invaso dalla mia preda: mia era la notte in cui si dibatteva ma suo lo sguardo vagante in quel notturno.

Io ero il paesaggio, io le strade, i ruscelli, i canali, i gonfi pinnacoli, le catte-drali, le fabbriche fra cui passava la visitatrice, ma in un secondo tutto diventava angusto per lei e il volo che non tocca terra trascinava i confini, li disperdeva dentro mari impropri, sgorganti in dense onde dall’inciso graffio di un’unghia. Isole risorgevano, burroni ed accesi vulcani, dovunque l’agitazione palpitante del corpo della mia preda volgesse la sua inquietudine.

Io ero solo un momento del suo Oriente: la sua notte d’Africa, la sua giungla amerinda, i colori nascosti nel più segreto intrico di liane che un colpo di machete illumina per un attimo, e meraviglia appare dal taglio catastrofico.

Perché viva l’ho inghiottita, vivo devo morire. Questo era il patto: barattai la divina simmetria per il luogo incessante delle Primavere: perciò il mio corpo si separa dalla propria grazia e alla deriva se ne vanno i frammenti su cui stampa il messaggio la migrante, con un colpo d’ala o un artiglio fuggitivo.

Ed ora Bianco e Nero sono i signori della mia reggia, cavalcano le sue stanze travolte dalle acque: come il mar Rosso si dividono i bordi del mio sangue e la passante percorre tra le schiume scarlatte tutto il varco, incoronata di mobile furia.

MIDONS MIDONS

(occhi non ho per guardarti e il tempo trascorre)

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È PAESAGGIO D’AMORE E’ DURA PIETRA ERBARIO E SEMI E LIMO E NIDO PER UCCELLI E ONDA

Signora per te mi disfo e in gocce rotolo in parole e aperto sono in luminosa rovinain respiri - fiori orbitanti nelle rapide e derivo e declino eper amore vado in scomposte mappe

Tigri ed Eufrate hai mescolato e Gange e oradalle porte d’Egitto risali, dalla bocca,come dolce serpente nella linguascivoli - e sorgi al giorno eper amore dell’alba strazio porti nell’ultima isola

PERCHÉ DAL CRATERE RISALE L’OCCHIO ED IN VESTE DI FIAMMA APPARE

astro di piume e lampi,insieme sbocci alla fonte e alla foce come gonfia vendetta riconquisti l’aria

Avido Osiride giace tra i germogli - E sono la tua laguna il tuopaesaggio desertoe nel mattino tremo fra i papaveri

(A DAMA HO GIOCATO E PERDUTO IN ASSOLATO GIORNO)

Spine e more toccai passando e bacche d’ombra rondine di cielo diverso

Si stacca dall’avvinto amante e ascendeai fasti della torre la ReginaNero e bianco riscrivesopra i mondi il Crocifisso in rivolta

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Trobar vert

Il giorno della Festa dimora in me, un giorno perenne. I secoli diretti al Nord hanno guidato il mio sguardo; ora, rivestito di manto regale, mi affaccio a questo intricato giardino come da un istante del viaggio: si scostano le trame delle leggiadre cortine e intorno, in rotte ineguali, si alzano fiori da cespugli aridi, si accavallano tempeste di pietra. Da sempre questa scena mi attende: io le sono destinato. Qui, dove continua-mente approdo al transito, appaio all’inizio e al termine del viaggio e porto su di me, impressa, la grazia che proviene dall’assenza di Sole. Ciò che sentivo come confusa promessa, quando così tenacemente, nella vita terrena,contrastavo l’Oriente, si rinnova ogni giorno: su di me, effigie pietrifi-cata, rigoglia la vita che, andando il tempo, il Vertice Ulteriore proietta, come prova della vocazione, nel corpo dell’adepto. Eletto portatore del dono, avanzo nello splendore: il segno del Nord, la veste preziosa che proviene dalla tenebra dei secoli, mi assegna nello spazio, fra i crinali dei geroglifici, un solitario cammino astrale: sempre più smagliante, durando il viaggio, diventa il suo tessuto, più tenera e densa la materia, più brillanti gli strati del colore intorno alla sagoma di chi, esploratore notturno, si mantiene fedele al Polo.Così appaio, estatico, trasfigurato nel Verde, attraversato dall’imperio del Nord: su di me la scrittura si compone, trascinata dal tempo, come vivente germoglio: di giorno in giorno in gonfie minuscole gemme avanza nella cornice. A me solo è dato, fra i marosi di pietra che mi circondano, spalancare questo mantello di aperta vittoria. Intorno, a fronte nudo, travolte da convulsa ebbrezza diurna, s’inclinano in versi diversi la pietre iscritte: invano cercano, di frammento in frammento, la rosa dei venti: essa appare, caduca, in ogni angolo. Fra di loro, nel territorio destinato alla luce, dove più agitata infuria la tempesta, dove, fra ingorghi, implacato fra le insegne di gloria divampa il conflitto fra i monumenti, voci si sgretolano nei grevi macigni, trafitte dentro mappe solari, sprofondano in fessure: là, in nome della durata, tra polvere e superficie scorrono i segni fra le rive di pietra, ripetono l’identico flusso, increduli, secolo dopo secolo. Ma io visitato dalla Meta, risplendo come vivente sigillo: sopra e dentro di me, dalle radici nascoste

mas mi ten vert e jauzen joys

nella pietra, sempre più fitta riemerge la scrittura, lungo i segni tracciati nella roccia profonda si

er quan vey secx los dolens croys

accalcano, nell’ordine governato dai venti, le piccole foglie - su di me, insaziato d’ombra, scrive la pianta.

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È APPARSO LO STRANIERO, IL SEMPREVERDE !

(l’Ombra rende l’annuncio)

(attendevi la messe, Proserpina)

Ar resplan la flors enversa pels trecans rancx e pels tertres. Cals flors?

Cals flors? (si chiede: e si arresta, la strada interrotta, le braccia colme di fiori)

Senza scala raggiunge l’evento (mentre toglie materia, aggiunge il Vuoto)

Spalancata sul mondo ulteriore, porta di muschio rivolta alla Tenebra: qui torna e dimora l’eletto al cospetto dell’Astrazione; qui, dalle lontananze del trono di ghiaccio, approda il raggio che quotidianamente rinnova l’investitura all’errante approdato al Termine: il vivido marchio impresso dal Polo oscuro sulla veste del testimone, l’opulenza assegnata intorno al nome di chi, trasognato, ancora e sempre si sposta, nei secoli oltremondani, al di là delle rotte diurne.

Quar enaissi mi-i o enverse que bel plan mi semblon tertre, e tenc per flor lo conglapi, e-l cautz m’es vis que-l freit trenque, e-l tro mi son chant e siscle,e paro-m fulhat li gliscle

(Avanza con spighe nere, tramonta nello specchio)

E tu la segui, copri di ghirlande la traccia

Mon vers an – qu’aissi l’enverse, que no-l tenhon bosch ni tertre – lai on hom non sen conglapi, ni a freitz poder que y trenque. A midons lo chant e l siscle,

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clar, qu’el cor l’en intro l giscle, selh que sap gen chantar ab joy que no tanh a chantador croy

CALS FLORS ?

CALS FLORS ?

(senz’Ombra Proserpina, senza Eco)

CALS JOCGLAR ?

* * *Note a Trobar verd

Il luogo da cui si alza la voce dell’Io narrante, nel TROBAR VERT, è una singolare tomba visibile nel cimitero ebraico di Praga.

E’ noto che le sepolture, in tale cimitero, si sovrappongono a strati le une sopra le altre, per cui le lapidi, che appartengono a situazioni e secoli molto diversi e lontani, accavallandosi creano alla vista un vorticoso e caotico effetto di moltiplicazione prospettica.

In tale maremoto di monumenti è possibile individuare, fra le altre tombe spoglie, una lapide verdeggiante di muschio, che nel corso dei secoli è cresciuto direttamente, in vegetazione perenne, nei solchi della scrittura incisa sulla super-ficie della pietra: col tempo il muschio ha lentamente occupato l’intaglio cavo dei segni, venendo così a coincidere esattamente con la forma e il contenuto del messaggio inciso sulla tomba.

In questo senso l’iscrizione su questa lapide di Praga rinnova ogni giorno, verdeggiando, l’evento della propria trasformazione in Natura e si mostra, in tale arduo paesaggio, come scrittura vivente.

In questo fenomeno singolare, che si produce nel luogo stesso della Morte, convergono due scelte per così dire “polari”: la collocazione della lapide, la cui iscrizione risulta da secoli rivolta verso il Nord, e la caratteristica naturale del muschio, che cresce di preferenza nelle zone esposte a settentrione. Entrambi rivolgono la loro costanza erotica al Polo che presiede allo sguardo radicale: il paradosso della Resurrezione si attua, come restituzione dello sguardo, in questa sfera.

Le strofe in lingua d’oc che attraversano il testo del TROBAR VERT sono tratte da LA FLOS ENVERSA di Raimbaud d’Aurenga, la Canzone in trobar clus in cui il movimento d’Amore vaga e arde in assenza di Sole.

La lingua trobadorica e quella che parla nel TROBAR VERT spuntano qui intrecciate dalle fessure della medesima pietra.

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Fermenti 120

D e r b l a u e r e i t e r

le Ofelie le Ofelie le sull’acqua (il fiore dei capelli sparso)

le accanto all’ostacolo

l’alga la rocciala vischiosa

su cui mai il piede della folle si posa

Tremano le Ofelie dentro gusci d’onda senza peso posate sul riflesso

acqua che acqua che

fra mille Ofelie si sposta alla foce

Vanno le Ofelie senza raccontare Sugli anelli si spaccano le nuvole

ciglio che unghia che

L E ( I N )

rotte corolle su franti filari

S’apre il vestito al labirinto d’acqua spingono dita gonfi corridoi

SPLENDENTE OFELIA CHE LENTA SI SPOGLIA

( in grumo avanzi in petali )

le su foglia di fiume

( in mille )

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Tessitrice di onde, Penelope notturna diurna

alba che verso che

Dai fiumi salgono le inesorabili Ofelie gorgo d’occhi sul punto del confineERANO I CAPEI D’ORO A L’ACQUA SPARSI monili erranti sull’onda di foce

( a che porta ti affacci, a quale sorso )

e in sogno andando muovi la tempesta

T U sguardo d’acqua

T U dal profondo, come

stella di nozze

Entra fra le Regine, in maschio manto fra le gemme e le trecce, entra nel sonno, scompiglialo con vele alte, con schiume d’abbagliante trionfo, mostra quanto d’azzurro imperio l’abisso contiene ( TU tra Meduse insegui la sposa )

I N D A C O

D R A G O

S I GN O R E D E L C O N T R A R I O

sfolgora dentro il fluido silenzio, guida il tuono che trascina le Orche dietro azzurre comete e la trama si spezza

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e s’apre il vuoto al suono ( canne traversi, bolle ) non ha riva la reggia, fra le spine cerchi,fra rovi si addensa l’Indiviso

e il Cobalto è in incendio e il Turchese arde

e fiammeggiando chiami nelle tenebre

smisurato Ippocampo su onda smisurata (sigla che per i chiari oceani erra )

finchè la vergine Ofelia è violata

e fragore e splendore e tumulto di marea

alba che occhio che

in stupore si schiude l’istante rivelato

T U sul confine

e trema l’oro, tremano le scaglie del pesce

( fuochi traversi, macchie )

scintillante Tritone

azzurra bolla

SI GONFIA L’ONDAin luce si riversa

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Fermenti 123

CONFINE AFRICANO1

Okavango

L’acqua dell’Okavango è un prato verdissimo che s’inclina e si sposta con le sue erbe docili e filose al tocco del mokoro che lo fende navigando: al passaggio tremano i piumaggi dei canneti e respirano una dopo l’altra le ninfee, così pros-sime alla mano. Da ninfea a ninfea il mokoro scivola lentamente come fra le rotte di una costellazione: una sagoma lievissima che l’alta verticale del bastone spinge in avanti e che lascia dietro di sé un’altra linea, liquida, e questa subito scompare sotto la finzione dell’erba.

Tutto quel che si svolge sulle rive e la superficie del Delta ha natura doppia, tutto è dunque una prova di teatro, tutto è ma potrebbe essere altro: verde fioritagermogliante prateria che si divide si divide in labirinti di canali, e di sorriso in sorriso va tremando sopra insidie e insidie che avanzano con lei senza meta visibile: palpitante maschera di vita in sboccio sopra il gorgo che scorre sotto di lei, fra tenebre e licheni. Il Delta è senza riva di mare, scompare all’infinito con piccole parole nelle sabbie che si congiungono scivolose alla savana: incerti i bordi d’avvio, incerto il termine. Lunga carezzante sirena, questo mantello d’erba liquida si slarga in macchie diseguali nella sua vastità ondeggiante, tempestato di piccole isole senza nome, di canneti, di gonfiori di giungla, di sguardi fulminei di anfibi nello scatto, e in perfetta sapienza appena lo increspano di una piccola onda coccodrilli impercettibili, uccelli in fiore.

Pietra preziosa che navighi sul filo d’acque invisibili, non è tuo l’incantesimo che credi di governare raggiando.

Pittore in Africa

C’è un passaggio obbligato, in casa, che dal corridoio scuro porta alla stanza vetrata sul giardino: lì, fra le due pareti che lo costeggiano e poi si aprono a foce, scorre invisibile l’Okavango.

Due grandi fotografie, una a destra e una a sinistra del varco, segnano le opposte rive: un uomo e una donna vi stanno uno di fronte all’altra e si guardano a distanza, ciascuno dal suo regno.

La figura femminile, seduta sola all’interno di un mokoro, sorride all’invisi-bile che preme lo scatto: davanti a lei la punta anteriore della barca ancora sfioral’incerta riva di sabbia della partenza; alle sue spalle il mokoro già entra nel celeste delle acque, e più distante ancora, indietro, si apre il verde-giallo della prateria emersa: fili e fili d’erba alta e inclinazioni di canneti pronti a schiudersi al transito che li accosta. C’è una linea più scura che attraversa il giallo luminoso di cui, andando e andando sempre più oltre nella prateria, l’orizzonte dietro la

1 Testi selezionati da un’opera ancora inedita che s’intitola Bushman. Una guida africana.

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figura si colma: una specie di ombra nel colore, una linea più riconoscibile, un sentiero che, in prospettiva nella fotografia, sembra portare quel sottile cammino all’interno della vegetazione palustre, ma verso l’alto. Ma nessun cielo sopra-stante è visibile in questo paesaggio, dunque il cammino verso cui sembra diri-gersi il mokoro non esce dal governo dell’oro, del giallo erboso frusciante che lo attende. Vincent del grano in tempesta sa che il nero dei corvi può interrompere l’azzurro del suo cielo ma non la pittura; qui, in questo paesaggio che squarcia l’angolo di casa, è la promessa senza fine dell’Okavango a prendere gloria: un manto regale imprecisabile invade il destino di questa immagine con la marea di un colore dorato che si dilata, diventa aureola, e lo invade per sempre.

Ma sulla riva opposta l’altro orizzonte porta sulla figura che vi dimora un cielo aperto. Un corteggio di papiri levati verso l’alto, corone di fili e fili oscillanti contro l’aria celeste, e davanti alla reggia del canneto, in primo piano controluce, il guidatore in piedi sul mokoro invisibile, con la mano sull’asta di navigazione che lo sopravanza in altezza, la faccia di tre quarti, in ombra sotto il grande cappello, l’espressione intenta appena indovinabile, concentrata sull’oscurità che la nasconde. Una piccola curva di ciglia arcuate – che il bambino africano non perde mai nell’adulto che diventa – segna visibilmente, nel profilo dell’im-magine, il confine tra la figura e il cielo: è il nome proprio della creatura irripe-tibile, il respiro che sorge e tramonta su quell’unico corpo, la piccola palma che trema sotto una piccola falce di luna.

Vanno e vanno le acque tra le due rive. Navigante di sogni: notte e giorno un’immagine, dal suo bordo di sabbia, salpa verso il cammino d’oro, notte e giorno dal fronte dei papiri l’altra immagine, incoronata, la guida.

Sempreverde del Vuoto.Se si osserva attentamente, la faccia del pittore s’intravede nel punto più

lontano della prospettiva, dentro l’oscurità mobile della parete di fondo, riflessonello specchio in posizione centrale, dietro il Re e la Regina.

Paradise tree

C’è una sintassi che lega cause ad effetti e dispone un vertice che muove tutte le conseguenze intorno e più avanti ancora e allarga i rami dal grande tronco e riconosce un’unica stessa linfa scorrere dalla terra scura fin nell’ultima foglia: si chiama COLPA.

Dunque ogni narrazione che si disponga seguendo l’albero dalle radici lungo la corteccia fino ai particolari dei rami, delle muffe che si nascondono nelle cavità buie, sporgendosi fino all’oscillazione del seccume e alla punta della gemma nuova nata obbedisce a un verdetto già dato: il crimine è commesso o in atto. Il racconto che incatena l’origine alle sue ultime rive nel tempo non è dunque se non trascrizione dello svolgimento delittuoso secondo ragione.

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Delta

E ora procederò come l’Okavango, che si divide e si divide in sentieri spec-chianti in cui tremano cieli e nuvole fra isolotti senza nome, e porterò sotto le verdi parole di superficie il muschio che si contorce nei fondali, e sulla corrente che avanza e sembra immobile farò andare i miracoli: la ninfea aperta e l’evane-scente zanzara. Perché il Delta non ha inizio né termine né causa prima né conse-guenza probabile, ma solo rami rotti o infiniti di ogni spessore, la cui somma segreta è calcolata ad arte per dare aria allo smisurato ventaglio. Solo il dio che lo guarda dall’alto può riconoscerlo: intricata immensa pianta Gorgonia che trascinata all’aperto mostra solo le spine e tutta una scura frastagliata secchezza ma nell’acqua che le ha dato la vita si ridesta si veste e riprende a fluttuare.

Sliping land

I fatti.Ora per me da sola attraversare questo guado, questo fango antichissimo

dove si affonda senza appigli, questo silenzio irreale che circonda l’avanza-mento, e poi superare l’altura sdrucciolevole da cui si scivola indietro e sempre di nuovo si scivola e nessuna mano interviene per sollevarti al di là dell’osta-colo, e quand’anche dal terreno rovinoso sporgesse un arbusto più solido a cui aggrapparsi e da lì si raggiungesse il vertice della muraglia di sabbia dura che impedisce il passo, la presa, la vista, ecco al di là della cima polverosa riapparire la vasta savana onnipotente, col suo infinito intoccabile: questa, mi dici, è la terra dei ricordi

Lake

La savana. L’orizzonte smisurato, da cui nient’altro che il puro giorno e la pura notte arriva.

In questa voragine enorme, hai detto, c’era una volta un grande lago.Ma tutto è ritornato terra, pietrame, fango disseccato su vicende di orme, di

sterpi, di piccole paglie.La grande grande circonferenza imperfetta declinando e dirupando tra polveri

discende in se stessa da tutti i lati: mai il vuoto si ripete.Là dove non è più acqua dovrai bere.Ancora una volta cammini su questo margine in cima alla lacuna, del grande

scomparso testimoni il nome, m’insegni la parola.

Leopard

Lo vedi là? Là dietro.In mezzo ai cespugli devi guardare, dov’è quella linea più scura.

Là. Lo vedi? Segui la mia mano. Proprio lì.

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Fermenti 126

Il leopardo. Lo vedi? Ora lo vedi.Nel regno incantato i punti cardinali, nell’intrico di rami senza storia il luogo

glorioso: una mappa m’insegni, gli splendori intoccabili delle costellazioni.Dove guardano gli astri, signori di se stessi? Oltre la soglia che non si attra-

versa fa luce la nudità del Principe.Cacciatore di segreti: per indizi ti muovi, accosti la sosta di una stella in terra.

La preda che insegui è il miracolo di un solo attimo.

C o m p i u t a d o n z e l l a (KGALAGADI)

Come al mio amore piace questa compiuta donzella? Questa di seni di rovidi ventre di sterpaglie? Questa di vene di sabbia di bocca di bacche aride?

Come al mio amore piace questo colore che di poco tono si sposta, di metro in metro uguale, questa disperazione di rami, questo secco tumulto delle paglie, quest’impervi filidi capelli intricati?

Come al mio amore piace questa fanciulla di silenzi queste risate di scherno nella sera, questo lamento di preda senza fieradi fiera senza preda queste unghie di rapace?

( Cespugli senza Dafne, qui - nascondersi vuol dire ORIZZONTE )

E al mio amore piace – strano! – questa landa notturna, questo sorriso ruvido che apre fuochi al fuoco

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Fermenti 127

quest’ansia d’occhi di sentinelle da spinose quinte, da rive desolate - questo incenso di barriti .

Perché confini non vede – dice – alla fanciulla distesa Perché non è un giardino perché parla di fiori precedenti nella desolazione perché di geometrie lasciate da notturni migranti è fioritala sua veste al mattino E stelle vi ritrovi e principi trinari quaternari e sbiaditi imperfetti cerchi:concetti generati sotto il peso dei corpi.

KGALAGADI! KGALAGADI!

Solo nel vento s’alza la Sirena

Scalza dentro il niente cammina

Senza parole si piega Senza parole sta distesa

Senza parole è senza fine eppure

come fremente accoglie lo stellato notturno!

Al mio amore piace – vedo - quest’abisso di rovi e mai si sazia:“Di vuoto arde – dice – la fanciulla”.

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L’ ippo

L’ultimo ippo che esce dal fango,quello tieni a memoria, quello su cui piove dimenticata la poca acqua. Oscuro finoalla fine del tempo, crosta di miasmi, tra cielo e acqua globo d’infette cicatrici, d’inesausta putredine.Il gonfio ippo che veglia nel gorgo non lasciare di attenderedalla viscida riva, mostro enorme in abisso flatulenta vescica delle origini. Feto che alla grande Madre si allatta e quasi cieco di lei dense parole ritraduce in bolle.

L’ippo segreto bevi goccia a goccia, macchia che in limo ascende in superficie, il lento occhioche al confine risale e fra la melma spessa insondabile e la vasta aria del giorno una fessura aprecome scrigno.

Luciana Rogozinski

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Percorsi letterari nella critica musicaleD’Annunzio Montale Zanzotto

di Giovanni Inzerillo

Tramite la musica, comprendiamomeglio il Testo come significanza.(Roland Barthes)

La verità è che la parola veramente poeticacontiene già la propria musicae non ne tollera un’altra.(Eugenio Montale)

La produzione saggistica di letterati che si fanno critici musicali costituisce sì una testimonianza delle loro conoscenze teoriche, ma non solo. La scrittura critica dimostra, al di là dei contenuti in essa espressi (spesso giudizi di valore di significativo spessore), differenti sensibilità e modalità di approccio alla musica e alla letteratura più in generale. D’Annunzio, Montale e Zanzotto scrivono di musica ma, indipendentemente da gusti ed epoche differenti che certamente condizionano le loro conclusioni, lo fanno in modi diversissimi che vale la pena esaminare. Per far questo ci si avvalga, prima di tutto, di qualche riflessioneteorica.

Come Roland Barthes ci ricorda, la lingua, secondo Émile Benveniste, contrappone due sistemi di significazione: il semiotico, basato sui segni articolati forniti di senso autonomo e il semantico, ossia l’ordine del discorso, in cui solo l’insieme è dotato di significanza ma non le singole unità. La musica, secondo Benveniste, appartiene al sistema semantico perché i suoni non sono segni e non sono dotati di senso autonomo. La musica ha così una sintassi ma non una semiotica1. La lingua, inoltre, «è il solo sistema semiotico in grado di interpre-tare un altro sistema semiotico»2. Attraverso l’uso della parola scritta o parlata è

1 Cfr. Émile Benveniste, Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 2010. Scrive lo studioso:

«Si possono dunque concepire vari tipi di descrizione e vari tipi di formalizzazione, ma devono tutti necessariamente presupporre che il loro oggetto, la lingua, è ‘informato’ di significato, che proprio per questo è strutturato e che tale condizione è essenziale al funzionamento della lingua fra gli altri sistemi di segni. […] Ecco ciò che fa sì che la lingua sia un sistema in cui nulla significa in sé e per vocazione naturale, ma in cui tutto significa in funzione dell’insieme; la struttura conferisce alle parti il loro ‘significato’ o la loro funzione. […] Posta la lingua come sistema, si tratta dunque di analizzarne la struttura. Poiché ogni sistema è formato da unità che si condizionano reciprocamente, si distingue dagli altri sistemi per l’assetto interno di queste unità, assetto che ne costituisce la struttura.» (pp. 20, 32, 115).

2 Roland Barthes, La grana della voce, in L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2004, p. 257. Il corsivo è nel testo. Per indagini comparatistiche è indispensabile la lettura di: CALVIN S. BROWN, Musica e letteratura. Una comparazione delle arti, Lithos, Roma 1996; Steven Paul Scher, Word and Music Studies. Essays on Literature and Music, Rodopi, Amsterdam-New York 2004; Bertrand H. Bronson, Literature and Music, in The relations of literary study: Essays on interdisciplinary contributions, ed. James Thorpe, New York 1967.

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possibile discutere, sia con competenza critica sia con oggettivismo descrittivo, di un dipinto, di una scultura, di una composizione musicale e di qualsiasi altra creazione che si avvale di linguaggi diversi, di differenti apparati semiotici. Tale felice intercomunicabilità tra le arti può, però, nascondere pericolose insidie e l’esito comunicativo, espressivo e formale, può non risultare così efficace.

L’indagine musicale condotta da Barthes è presa qui a modello sia per la sua duplice direzione, da una parte teorico-argomentativa dall’altra critico-espressiva, sia perché si avvicina, ancor più della critica musicale operata da un musicologo, a quei propositi comparatistici a partire dai quali questo studio si muove.

Per lo studioso francese gli esiti negativi della critica musicale, per lo meno sul piano linguistico, sono dovuti non tanto a una inadeguatezza del linguaggio stesso ma, per lo più, a un errore di approccio e di metodo tutto basato sull’in-sistente ricorso alla «categoria linguistica più povera, l’aggettivo». Utilizzare l’epiteto è un passaggio «istintivo», non c’è dubbio, e non solo perché questo, come ribadito da Barthes, è la forma più facile e immediata di espressione, capace di comunicare emozioni e sensibilità, ma anche perché è una delle poche modalità espositive che punta all’immediatezza della comunicazione. Guai se un giudizio critico si limitasse alla semplice e impersonale esposizione di fatti o trame! Scrive Barthes:

Come si comporta dunque la lingua quando deve interpretare la musica? Ahimè, si direbbe molto male. Se si esamina la pratica corrente della critica musicale (o delle conversazioni «sulla» musica: sovente è la stessa cosa), si vede chiaramente che l’opera (o la sua esecuzione) non è mai tradotta se non sotto la categoria linguistica più povera: l’aggettivo. La musica, per sua natura, richiama immediatamente un aggettivo. Certo, quando un’arte diventa un argomento (di un articolo, di una conversazione), è istintivo far uso di definizioni; ma nel caso della musica, la definizione assume fatalmente la forma più facile, più triviale: l’epiteto3.

Nonostante il critico consideri l’aggettivo una vera e propria condanna all’in-terno della critica musicale, pur utilizzando una perifrasi sostantiva e verbale non si può liberare il linguaggio dal suo carattere predicativo. Bisogna modificare,piuttosto, non il linguaggio della musica ma l’oggetto musicale stesso, «spostare la zona di contatto tra la musica e il linguaggio»:

Siamo condannati all’aggettivo? Siamo costretti a questo dilemma? Il predicabile e l’ineffabile? Per sapere se è possibile parlare della musica senza aggettivi, bisognerebbe studiare un po’ meglio la critica musicale, il che, credo, non è mai stato fatto; peraltro non ne ho i mezzi, né l’intenzione di farlo qui. Si può tuttavia osservare quanto segue. Non è opponendosi all’aggettivo (dirigere quell’aggettivo che vi viene in mente verso qualche perifrasi sostantiva e

3 Ibidem.

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verbale) che si ha qualche possibilità di esorcizzare il commento musicale e di liberarlo dalla fatalità predicativa. Invece di cercare di cambiare direttamente il linguaggio relativo alla musica, bisognerebbe cambiare l’oggetto musicale stesso, quale si offre alla parola. Modificare il suo livello di percezione o di intellezione: spostare la zona di contatto tra la musica e il linguaggio4.

Per riuscire in questo intento lo studioso sposta l’attenzione critica sulla produzione musicale cantata in cui, tramite lo stesso mezzo espressivo (la parola), «una lingua incontra una voce» e dove la voce si manifesta nei due esiti di lingua e di musica:

È proprio di questo che vorrei parlare qui, non a proposito di tutta la musica ma solo di una parte della musica cantata (lied o melodia): spazio (genere) in cui precisamente una lingua incontra una voce. Darei subito un nome a questo significante al cui livello, credo, la tentazione dell’ethos può essere evitata - e dunque l’aggettivo congedato: sarà la grana, la grana della voce, quand’essa è in duplice postura, in duplice produzione: di lingua e di musica5.

Prendendo spunto dai concetti di feno-canto e geno-canto teorizzati dalla linguista e filosofa francese Julia Kristeva6, Barthes inizia un discorso critico su due illustri cantanti lirici, Fischer-Dieskau e Panzéra7. Nonostante una dichia-rata predilezione per Panzéra, i giudizi espressi sono squisitamente tecnici: in Dieskau, pur riconoscendo il rigore espressivo, la perfezione di tutti gli apparati fonici e dei mezzi vocali, Barthes biasima uno scarso coinvolgimento emotivo; di Panzéra invece apprezza la «verità della lingua», nonostante la sua non eccel-lente potenzialità espressivo-comunicativa. Attenzione però, i commenti non esaltano uno a discapito dell’altro; per Barthes il canto passa attraverso la lingua indipendentemente dal messaggio espresso. Una critica curiosa la sua, proprio perché basata non sulle regole dell’interpretazione e sul tecnicismo dello stile ma sull’emotività espressiva, sul coinvolgimento fisico e corporeo non solo di chi canta ma persino di chi ascolta, sulle «voci nella voce» e sulla fonetica. Da linguista quale è, il suo giudizio attento alla pronuncia delle vocali chiuse e aperte o al corretto rotacismo consonantico non può certo stupire; è da notare, piuttosto, come le poche forme aggettivali, in un certo senso quasi obbligate in qualsiasi critica, vengano accuratamente spiegate:

4 Ivi, p. 258.5 Ivi, pp. 258-259. I corsivi sono nel testo.6 Famosa per la sua teorizzazione del concetto di “intertestualità”, Julia Kristeva ha collaborato con

Michel Foucault, Roland Barthes e Philippe Sollers. Direttrice del centro “Roland Barthes” nel 2004 ha ricevuto il premio Holberg. Barthes, attingendo dalle teorie della studiosa, cita i concetti di feno-canto,ossia tutto ciò che nell’esecuzione è al servizio della comunicazione e dell’espressione (struttura della lingua cantata, leggi del genere e stile dell’interpretazione) e di geno-canto, tutto ciò che, esterno alla comunicazione e alla rappresentazione , è basato sulla dizione della lingua ed è funzionale in base non a cosa ma a come essa dice. (Cfr. La grana della voce, cit., p. 260).

7 Dietrich Fischer-Dieskau e Charles Panzéra sono due illustri baritoni rispettivamente tedesco e svizzero.

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Fischer Dieskau è, senza dubbio, un artista cui non si può rimproverare nulla; la struttura (semantica e lirica) è pienamente rispettata; e tuttavia nulla seduce, nulla trascina al piacere. È un’arte eccessivamente espressiva (la dizione è drammatica, le cesure, le oppressioni e le liberazioni dal soffio intervengono come seismi passionali) e dunque non eccede mai la cultura: è l’anima che accompagna il canto, non il corpo. [...] In Fischer-Dieskau, mi sembra di sentire i polmoni, e mai la lingua, la glottide, i denti, le pareti, il naso. Tutta l’arte di Panzéra, invece, era nelle lettere, non nel soffio (semplice tratto tecnico: non lo si sentiva respirare, ma solo tagliare la frase). [...] Lì stava la «verità» della lingua, non la sua funzionalità (chiarezza, espressività, comunicazione): e il gioco delle vocali riceveva tutta la significanza (che è il senso in quanto può essere voluttuoso): l’opposizione delle é e delle è (se necessaria nella coniuga-zione), la purezza direi quasi elettronica, tanto il suono era teso, alzato, esposto, tenuto, della più francese delle vocali, la ü, quella che nella nostra lingua non deriva dal latino. Nello stesso modo, Panzéra conduceva le sue r al di là delle norme del cantante - senza rinnegarle -: la sua r era arrotata, certamente, come in ogni arte classica del canto, ma tale arrotamento non aveva nulla di contadino o di canadese; era un arrotamento artificiale, lo stato paradossale di una lettera-suono totalmente astratta (per la brevità metallica della vibrazione) e nello stesso tempo totalmente materiale (per il palese radicarsi nella gola in movimento). Quanta fonetica (sono il solo a percepirla? Sento delle voci nella voce? - Ma la verità della voce non consiste proprio nell’essere allucinata? Lo spazio della voce non è uno spazio infinito?)8.

Senza troppo addentrarsi sulle altre questioni teorizzate dallo studioso che spiega, ad esempio, perché amare e rivalutare un compositore come Schumann troppo poco valorizzato anche per colpa di «una sorta di pregiudizio francese» e che dichiara di preferire la tradizione canora francese al più affermato liedtedesco, la sua voce serve a dimostrare uno dei tanti modi possibili di fare critica musicale. I giudizi espressi sono, inoltre, un chiaro esempio di come, anche un linguista, con le proprie competenze e coi propri mezzi espressivi, possa avvi-cinarsi alla musica e parlare di musica pur non avendo significative competenze tecniche. Dichiara infatti:

Non giudicherò una esecuzione secondo le regole dell’interpretazione, le costrizioni dello stile (per quanto illusorie), che, quasi tutte, appartengono al feno-canto (non andrò in estasi per il «rigore», il «brillante», il «calore», il «rispetto di quanto è scritto», ecc.), ma secondo l’uso del corpo (la figura) che mi è data9.

Per le stesse ragioni, anche uno scrittore, un letterato può scrivere di musica.

Gli scritti di critica musicale di D’Annunzio si collocano nel periodo compreso 8 Roland Barthes, La grana della voce, cit, pp. 260-262. I corsivi sono nel testo.9 Ivi, p. 266.

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tra il 1884 e il 1915. La maggior parte di essi pubblicati sul giornale «La Tribuna» dove apparve pure il celebre Caso Wagner, l’unico testo ad avere avuto, rispetto agli altri, una maggiore risonanza da parte della critica letteraria10.

Già il primo articolo, datato 29 docembre 1884, sebbene scritto come accom-pagnamento a un altro articolo, più lungo e importante, stampato a fianco, è inte-ressante per il suo curioso sviluppo. Concepito come Intermezzo, esso descrive la prima del Lohengrin di Wagner al «Teatro Apollo» di Roma. D’Annunzio esordisce con una forte tensione emotiva: non parla dell’opera in sé ma del teatro da poco riaperto. Il pathos tocca subito livelli alti, misto della «curiosità», dell’«aspettazione», «indolenza» e «severità» del pubblico in procinto di assi-stere alla rappresentazione. L’inzio dell’opera attenua la tensione dell’attesa, il pubblico approva e gradisce:

L’aspettazione era immensa. [...] Inoltre, questa volta nuovissime attrattive concorrevano a destare la curiosità nell’indolente spirito romanesco; poiché si trattava di giudicare un impresario e un maestro non noti nell’Urbe e quindi non insigniti della sacra forza della romanità. [...] E, in vero, da principio un certo rigore di severità faceva fredda la sala dolcemente illuminata. Poi, a poco a poco, il rigore andò dileguandosi, per virtù dei cantori, per virtù dell’orchestra, per virtù degli scenari, delle comparse, dei cori. Lo spettacolo, subito parve degno di Roma, allestito con una certa larghezza insolita e con un certo buon gusto aristocratico. Li artisti parvero eccellenti; le masse corali parvero intonate11.

A parte l’abuso degli aggettivi, che di certo Barthes non apprezzerebbe, la prosa di D’Annunzio appare più descrittiva e romanzesca che critica. Come nei suoi romanzi, i giudizi tecnici sono assai limitati e riduttivi («Li artisti parvero eccellenti; le masse corali parvero intonate»). I suoi unici commenti tecnici in merito alla realizzazione dell’opera lirica si rivolgono solo alla cantante tedesca encomiata più per la sua bellezza che per la sua bravura, la cui graziosa femmini-lità garantiva, in un certo modo, la «morbida pienezza della voce», e al commen-datore Stagno, un Lohengrin non ideale, capace di alternare momenti di grazia espressiva a momenti di altrettanto cattivo gusto («Ha nondimeno una squisi-tissima arte di modulazione nel canto: ha momenti altissimi; e, in mezzo alle svenevolezze di cattivo gusto, ha non di rado finezze incomparabili»).

Dopo appena poche righe di apertura lo scrittore cambia l’oggetto della sua 10 Sui rapporti tra D’Annunzio e la musica e più in particolare sul caso Wagner si leggano rispetti-

vamente: Rubens Tedeschi, D’Annunzio e la musica, La Nuova Italia, Firenze 1988; Giovanni Inzerillo, «Il barbaro è vinto». D’Annunzio contra Wagner. Dal sinfonismo tedesco alla musica del silenzio nei romanzi di Gabriele D’Annunzio, in «Toruńskie studia polsko-włoskie VIII» (Studi polacco-italiani di Toruń, vol. VIII), Wydawnictwo Naukowe Uniwersytetu Mikolaja Kopernika, Toruń (Polonia) 2012, pp. 79-96. Sui rapporti tra letteratura e musica nel Novecento si consiglia: Giovanni Inzerillo, Letteratura e musica nel Novecento. D’Annunzio, Montale, Zanzotto, in AA.VV., Letteratura, musica e arti figurativetra Settecento e Novecento, Atti del XX Congresso AIPI “L’Italia e le arti”, Salisburgo 5-8 settembre 2012, Cesati, Firenze 2014, pp. 35-47.

11 Gabriele D’Annunzio, La Prima del Lohengrin al Teatro Apollo, in «La Tribuna», 24 dicembre 1884, ora in Rubens Tedeschi, cit., p. 141.

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discussione: «Io ora voglio occuparmi dei palchi che erano tutti gremiti, fino al sesto ordine, di signore, di signori e di signorine». La critica musicale (almeno così sarebbe dovuta essere in partenza) cede il passo a una prolissa divagazione letteraria; la critica sul teatro diventa essa stessa una sceneggiatura o una raffinatapagina di romanzo. D’Annunzio osserva i palchi e la platea, non il palcoscenico. Qui si affollano personaggi (in netta prevalenza donne) non più aristocratici, come sarebbe da aspettarsi in una prima, ma alto borghesi eleganti nell’aspetto ma volgari nei modi. La raffinatezza delle prime rappresentazioni, un tempo garantita dalla sola presenza di dame e signori di alto rango, va esaurendosi:

[...] le dame della nobiltà andranno a poco a poco ritraendosi dall’uso e lascie-ranno nelle prime rappresentazioni libero campo alle bellezze borghesi. Così, le prime rappresentazioni diventeranno una volgarità. E le serate più chic saranno forse quelle delle seconde rappresentazioni: serate più quiete, più raccolte, più serie, più sicure12.

I personaggi che dominano e animano le pagine critiche di D’Annunzio, almeno in questa prima fase, non sono quindi i cantanti, gli attori di scena e i musicisti bensì quelli del pubblico teatrale. Con dovizia di dettagli lo scrittore descrive, ad esempio, l’eleganza della principessa di San Faustino seduta in un palco di second’ordine, lo sfarzo dei suoi abiti, lo splendore dei suoi gioielli, la «grazia strana» del suo aspetto e dei suoi modi e, insieme a lei, numerose altre donne, signore e signorine, contesse e principesse, accuratamente imbellet-tate; sino all’apparizione finale della donna più bella di tutte, della Regina, più semplice delle altre ma più aggraziata e superba: «In quella semplicità le regali grazie luminavano più vive. [...] Guardandola, io mai come ieri sera sentii il fascino dell’eterno femminino regale».

La critica musicale dello scrittore abruzzese è interessante non soltanto per la divagazione letteraria che allontana la focalizzazione concettuale dalla musica vera e propria, ma anche per una costante, certo inusuale per la scrittura critica, dose di autobiografismo. Le sue pagine ripercorrono episodi di vita a Roma, scandiscono i momenti della giornata trascorsi tra concerti e carnevali, messe e balli. Il pretesto per scrivere una critica spesso scaturisce da un’occasione, quale può essere la riapertura o l’inaugurazione di un teatro, una ultima rappresenta-zione o, più semplicemente, dall’insistenza di un io che irrompe maestoso e fiero.Significativo, in tal senso, è l’articolo del 23 gennaio 1885 in cui viene descritto il primo concerto visto a Roma. Questo si apre con un eccesso di lirismo e di autoesaltazione; dietro la voluttà e la mollezza della giornata, D’Annunzio è mosso da un irrefrenabile desiderio di musica, da una vibrazione così intensa da farlo suonare come fosse egli stesso uno strumento:

Ieri fu una giornata voluttuaria. In quell’immensa mollezza pomeridiana, in 12 Ivi, p. 142. «lascieranno» è una forma dannunziana. I corsivi sono nel testo.

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quella blandizia della luce velata di vapori, in quell’aria fresca attraversata qua e là dal sole e come da lunghe vene di tepore, io mi sentii tutto invadere da uno spirito musicale, mi sentii tutto vibrare come uno stromento; e non so proprio quante reminescenze di minuetti settecenteschi e di romanze schubertiane mi pullulassero nella fantasia, mentre andavo girovagando per le piazze urbane, nell’aspettazione dell’ora13.

Nella seconda parte inizia la descrizione del concerto presso la sala barocca del palazzo Doria-Pamphyli, al solito affollata da signore e signorine aristocra-tiche e borghesi. Dopo l’esecuzione delle melodie, appena accennate, dalle Nozzedi Figaro e dall’Eroica di Beethoven, appaiono due illustri Maestri, Franz Listz e Giovanni Sgambati. I giudizi critici sulla musica ascoltata sono pressochè inesi-stenti, solo un brevissimo e poco incisivo commento («l’Angelus fu eseguito con un calore stupendo»). Piuttosto (e sembra quasi paradossale) le annotazioni, talvolta arricchite di tensione lirico-emotiva, si sprecano nella descrizione delle folte capigliature dei due Maestri capaci di attrarre, al loro seguito, folle di fanciulle invaghite e deliranti di ammirazione:

Appena cessò l’ultima battuta della Marcia funebre, comparve nella sala Franz Listz in compagnia di Giovanni Sgambati. I due ben chiomati maestri attraversarono la folla tra un mormorio di curiosità e di ammirazione. La capelliera metallica di Franz Listz era più lucida e più rigida che mai. La molle capelliera oleosa di Giovanni Sgambati tremolava commossa intorno alla tonda faccia. Listz sedette vicino all’orchestra, in un’attitudine raccolta, per ascoltare il suo andante religioso o forse per assaporare quel trionfo così dolce della sua vecchiezza. [...] Una banda di Lisztiani, alla fine, si levò in piedi per applaudire il maestro. E il maestro ringraziò chinando la gran testa olimpica. [...] Giovanni Sgambati somigliava a una qualche figura seicentista di Eolo nell’esercizio delle sue funzioni14.

L’articolo del 15 maggio 1885, sul secondo atto dell’Ebrea15, è, invece, un suggestivo esempio di come uno scritto di critica musicale possa valicare i confinidella critica stessa e possa assumere forme e caratteri di una vera e propria sceneg-giatura teatrale. L’espisodio raccontato da D’Annunzio non riguarda l’effettiva esecuzione del secondo atto dell’opera lirica ma insiste su un singolo episodio, la stonatura del secondo tenore, avvenuto nel corso del primo atto. Durante l’in-tervallo subito si scatena aria di tempesta, «le teste degli spettatori s’erano riscal-date. Si sentiva che la burrasca stava per prorompere. Fuguratevi! Il primo atto

13 Gabriele D’Annunzio, Il primo concerto, in «La Tribuna», 23 gennaio 1885, ora in Rubens Tedeschi, cit., pp. 150-151. «voluttuaria» e «stromento» sono termini dannunziani.

14 Ivi, p. 152.15 La Juive (it. L’ebrea), su libretto di Eugène Scribe, è una delle opere più rappresentative del

“Grand Opéra à la française”. In cinque atti, venne rappresentata per la prima volta all’«Opéra» di Parigi il 23 febbraio 1835; la prima rappresentazione italiana avvenne il 6 marzo 1858 al Teatro «Carlo Felice» di Genova.

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era andato benissimo, [...] Ma, ohimè! Il secondo tenore aveva stonato»16. Un mormorio minaccioso irrompe nella sala, sale l’agitazione nei palchi.

D’Annunzio tesse un vero e proprio dialogo tra molteplici voci e mette in scena, con non celata ironia, la polifonia dei personaggi che prendono parte all’acceso dibattito. Solo alla fine la folla si placa, l’opera ricomincia con il nuovo atto; il secondo tenore, nelle vesti del Principe Leopoldo, ritorna in scena comunque destinato, per la parte impersonata, ad essere lapidato se non dal pubblico inferocito di spettatori, quanto meno nella finzione della scena. Ecco un estratto:

Ed egli fece un segno a Leopoldo che scappò in furia tra le quinte, con un movimento delle gambe e delle braccia grottesco. I latrati ricominciarono. Ora la platea e la piccionaia, collegate, pretendevano che il secondo tenore tornasse sul palco scenico a ringraziare.

- Fuori! Fuori! Bau, bau, bau![...]- Io son venuto qui per sentire l’Ebrea e non una conferenza.- Ah, lei parla bene, lei - rispose l’abbonato della platea. - Lei è di passaggio,

qui; ma noi ci restiamo, e noi quel tenore non lo vogliamo!- Bravo! Bravo!- Alla porta! Alla porta!- Abbasso il tenore!17

Nonostante la forte presenza di prolisse divagazioni e di effetti scenici validi più come esempi di genialità creativa che come tecnici giudizi di valore, D’An-nunzio critico musicale si spinge oltre il piano dell’estetica letteraria quando affronta, con apparente disinvoltura e con dovizie di dettagli, specifiche questioni inerenti all’ambito musicale vero e proprio. Significativi sono i giudizi espressi in merito ai libretti d’opera e al melodramma.

Nell’articolo datato 28 giugno 1886, prendendo spunto dall’opera di Amil-care Ponchielli Marion Delorme, lo scrittore prende delle precise posizioni e si scaglia, con una forte carica di invettiva, contro la «meravigliosa volgarità del melodramma» determinata, a suo modo di intendere, non tanto dalla forma del genere musicale in sé, quanto dalla scarsa validità letteraria del testo lirico di cui necessariamente si avvale:

Io credo che la povertà della musica ponchelliana in questa Marion derivi per grandissima parte dalla meravigliosa volgarità del melodramma; e non capisco come mai l’autore della Gioconda abbia potuto con tanta noncuranza mettersi a coprire di note una rimeria di quella specie. Non aveva egli capito che un nesso strettissimo corre tra il poema lirico e la musica, nelle opere moderne, e che

16 Gabriele D’Annunzio, Il II atto dell’Ebrea, in «La Tribuna», 15 maggio 1885, ora in Rubens Tedeschi, cit., pp. 159-160.

17 Ivi, p. 162. «palco scenico» è una forma dannunziana.

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oramai non è più possibile trascurare il poema se si vuol produrre musicalmente un vitale organismo d’arte?18

La crisi del genere musicale è dunque imputabile a una ragione squisitamente letteraria, all’inadeguatezza del librettista incapace di scrivere un testo lirico di significativo spessore. Se comunque non può pretendersi che il musicista faccia a meno del librettista o che, come Wagner o Boito, nella duplice veste di compo-sitore e letterato, sappia pure comporre «rime rare», la soluzione è quella o di attingere dai testi di illustri scrittori come Shakespeare19 o, ipotesi più auspica-bile, avvalendosi di un bravo librettista, di affidare l’opera a un testo non più in poesia, come da consuetudine, bensì in «prosa poetica»:

Io son di parere, e forse ritornerò sull’argomento, che oramai i libretti si debbano fare in prosa, in una prosa poetica, fluida, senza ritmo e rima, agile tanto da piegarsi a tutti i variissimi movimenti musicali. L’inutilità del ritmo e della rima, specialmente nell’opera moderna, è manifesta20.

Ancora una volta però, anche quando D’Annunzio sembra finalmente essersi concentrato a far critica musicale vera e propria, le attese sono disilluse. Nel proporre come validissimo librettista il nome di Carmelo Errico, lo scrittore inizia una ampia divagazione (più dei due terzi dell’intero articolo) sulla poesia dell’autore da lui preso a modello: la critica musicale si trasforma così in critica letteraria.

I giudizi sul melodramma si fanno ancora più dettagliati e categorici nell’ar-ticolo intitolato A proposito della «Giuditta» e pubblicato in due parti, rispetti-vamente il 14 e il 15 marzo del 1887. Il proposito iniziale di recensire l’opera lirica in quattro atti di Stanislao Falchi su libretto di Romolo Brigiuti e Francesco Mancini viene subito assunto a pretesto per portare avanti un lungo discorso sulla «vacuità» e sull’«inutilità» del dramma musicale moderno. Lo scrittore continua a ribadire che la scarsa validità dell’opera lirica è motivata principal-mente da uno scadente libretto.

Facendo forza su un reiterato io, che irrompe maestoso e fiero, e assurgendo quasi al ruolo di musicista anche lui, D’Annunzio accusa il dramma moderno di essere eccessivamente «libero», «vasto» e «indefinito». Egli propone un ritorno all’antico, all’opera seria sapientemente rimodernata e il nome di Wagner, ancora una volta, viene assunto come modello perfetto di magistrale rigore formale e sapienza espressiva (si ricordi che pochi anni dopo, nel 1893, appare il CasoWagner):

18 Gabriele D’Annunzio, Un poeta mèlico, in «La Tribuna», 28 giugno 1886, ora in Rubens Tedeschi, cit., pp. 165-166.

19 Ivi, p. 169: «Io non capisco come finora nessun maestro e nessun librettista si sia lasciato tentare da qualcuno di quei mirabili drammi di Shakespeare, che sono così armoniosi e così imaginosi. Non ride Titania alla mente dei poeti della Luna?» “Imaginosi” è una forma dannunziana.

20 Ivi, p. 166.

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IO SONO, IN ARTE, PARTIGIANO DELLA TRADIZIONE E DELLE FORME STABILITE, DELLE

FORME CH’IO CHIAMEREI FISSE. Nel caso speciale della musica, io, per esempio, sto per l’antica opera seria italiana e per l’antica burletta contro il cosidetto dramma musicale moderno che è TROPPO LIBERO, TROPPO VASTO, TROPPO INDEFINITO. O meglio: io, che credo completamente esaurita e morta, come forma d’arte, l’opera lirica, preferirei piuttosto un ritorno all’antico che questa pazza ed illogica innovazione per cui Riccardo Wagner ha INVANO profusi con abbondanza veramente mirabile, tanti tesori d’ispirazione e di scienza. Vero è che Riccardo Wagner, avendo un concetto assai chiaro e preciso delle riforme ch’egli intendeva attuare, riuscì nelle ultime sue opere a dare alla nuova forma d’arte certi limiti e certe regole esatte e a stabilire certe leggi fisse che dovevano presiedere alla composizione e, dirò così, all’architettura del dramma21.

E a conclusione di questa prima parte D’Annunzio stupisce per la sua carica invettiva al punto da sembrare indossare (caso raro) a pieno titolo i panni del critico musicale:

Questa Giuditta è un bellissimo saggio di codesta musica oziosa e copiosa, piena di pretensione, nella sua vacuità, senza colore, senza vita, senza una sola idea originale, senza un solo soffio di vera e profonda inspirazione, senza un solo movimento che accenni ad una ricerca qualsiasi di novità. La ricerca è tutta degli «effetti». A nessuno dei vecchi e volgari artifici del teatro lirico il maestro Falchi ha voluto rinunziare, dalle voci lontane dei cori interni, fino agli squilli di tromba dei finali romorosi. La sua musica scorre, scorre, scorre all’infinito;potrebbe durare un’ora, potrebbe durar cinque ore, come in fatti è durata; e potrebbe durare un giorno intiero, una settimana, per sempre. Non ha ragion di fine né ragion di principio. È una cosa vana. Il maestro Falchi con questa Giuditta non ha fatto un’opera d’arte; ha fatto un’opera industriale22.

Parlare della Giuditta di Falchi è, così, un ottimo pretesto per estendere le riflessioni teoriche a contesti più ampi. Nella seconda parte dell’articolo quei tentativi di rinnovamento dell’opera lirica, inizialmente auspicati dallo scrittore, sembrano però non poter essere destinati al melodramma che, pure nella sua forma moderna, «è destinato fatalmente a perdersi»:

Il melodramma è, senza dubbio, una forma esaurita. Per una legge naturale, avendo prodotto a bastanza, deve cessare di esistere. Cosicché, qualunque tentativo per vivificare codesta forma già morta è inutile ed illogico; e qualunque melodramma moderno, anche segnato dall’impronta del genio, non ha ragione di vita, è destinato fatalmente a perdersi23.

21 Gabriele D’Annunzio, A proposito della «Giuditta», in «La Tribuna» 14-15 marzo 1887, ora in Rubens Tedeschi, cit., pp. 170-171. I maiuscoletti e i corsivi sono nel testo.

22 Ivi, p. 171. I termini «inspirazione», «romorosi» e «intiero» sono dannunziani.23 Ivi, p. 172. Il corsivo è nel testo. «a bastanza» è forma dannunziana.

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La morte del melodramma non sancisce però la fine dell’opera lirica. I teatri continueranno sempre ad esistere come anche il pubblico numeroso che del diletto ricevuto dalle rappresentazioni, per tradizione e per consuetudine, non riesce a fare a meno; l’opera lirica riuscirà a preservarsi dalla definitiva «degra-dazione» allontanando una volta per tutte la sola funzione di intrattenimento a cui sembra essere stata, in un certo qual modo, condannata:

Il melodramma è morto; ma per tradizione e per consuetudine il popolo ama ancora il diletto musicale in teatro [...] Scopo dei teatri lirici è quello di dilettare il popolo, e per popolo intendo la varia moltitudine degli spettatori, il cosidetto pubblico in somma. Or dunque, scrivere un’opera per il teatro lirico, mentre già la coscienza di tutti i veri artisti ha condannato cotesto genere di lavoro, e scriverla senza alcun altro intendimento che quello di trattenere per quattro o cinque ore il pubblico in un luogo chiuso, è un’industria, è un abbassamento dell’arte, è una degradazione24.

E ribadendo, ancora una volta, un ritorno all’antico, all’opera seria e burletta, D’Annunzio traccia di seguito un dettagliato ritratto sul teatro del diciottesimo secolo in cui il pubblico, più raffinato ed esperto, «non chiedeva che sola musica» e in cui la musica da sola dominava lo scenario perché «il libretto non aveva importanza alcuna; la musica era tutto».

Anche Montale più tardi si esprime in merito alla cattiva qualità dei libretti d’opera e scrive:

In molte, in troppe altre opere moderne la musica non fa che aggravare la scelta di un libretto o di un dramma inesistente. [...] I musicisti che devono appoggiarsi alla parola si servono quasi sempre di parole brutte. [...] Poiché nel campo dell’opera in musica si parla a ogni secolo di riforma, anche questa dei parolieri è una riforma bell’e buona, ma attuata al più basso dei livelli. Non si potrà scendere più in giù25.

Tale giudizio è uno dei pochissimi esempi che permettono di accostare autori così diversi come Montale e D’Annunzio, i cui modi di fare critica musicale e i giudizi in essa espressi seguono strade completamente differenti. Sulla musi-calità della poesia dello scrittore genovese si è già detto e c’è tanto da dire sui suoi interessi musicali. Eppure, ancora una volta, la critica letteraria ha poco discusso su un aspetto di primaria rilevanza necessario per comprendere a pieno la poetica dell’autore, su quell’«interesse extraletterario - a detta di Mengaldo - più profondo del compiantissimo poeta» utile pure a «misurare la qualità altis-sima della sua competenza in materia»26.

24 Ivi, pp. 172-173. «in somma» e «cotesto» sono forme dannunziane. Sulla storia del melodramma si leggano: Carlotta Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, Il Mulino, Bologna, 2001; Lorenzo Bianconi, Il teatro d’opera in Italia: geografia, caratteri, storia, Il Mulino, Bologna 1993.

25 Eugenio Montale, Prime alla Scala, a cura di Gianfranca Lavezzi, Leonardo, Milano 1995, pp. 19, 27.26 Pier Vincenzo Mengaldo, Montale critico musicale, in La tradizione del Novecento, Einaudi,

Torino 2003, p. 209.

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Giulio Nascimbeni, con una scrittura quasi aneddotica legata alla biografia,ripercorre le tappe più interessanti di Montale critico musicale presso il «Corriere»: dall’esordio del 2 gennaio 1946, con la recensione pubblicata in prima pagina a un libro di Elena Croce dal titolo Teatro italiano della seconda metà dell’Ottocento, all’assunzione definitiva presso il giornale in qualità di redattore ordinario, avvenuta pochi giorni dopo, il 29 gennaio 1948, agli incontri con Montanelli, Baldacci e Missiroli e persino ai suoi servizi da inviato speciale, nel ’48, in Inghilterra per una parata aviatoria e, nel ’50, negli Stati Uniti in occa-sione del volo inaugurale della linea Roma-New York27.

Il drammaturgo e regista teatrale Luigi Squarzina, indagando più nel detta-glio sulla indiscutibile «competenza teatrale» di Montale e sulla sua «invidiabile scorrevolezza del parlato», afferma che «la partecipazione del poeta ai fatti di teatro non è per nulla casuale o accessoria» e riconosce in questa tracce di quello «spettacolo della vita» che il teatro si sforza in ogni modo di rappresentare:

C’era un senso della spettacolarità, ma come spettacolo della vita: quando gli piaceva qualcosa, forse il teatro, era perché c’era della vita, perché c’era la vita. [...] Se riflettiamo oggi sulla sua competenza teatrale è perché siamo fieri che uno dei maggiori letterati, oltre che grande poeta, fosse vicino al nostro mestiere. [...] Montale stesso era il famoso spettatore di cui parla Amleto quando dice pressappoco: “Dovete recitare bene. Perché c’è sempre uno del pubblico che se ne intende”28.

Esattamente come per D’Annunzio, anche in Montale l’interesse per la musica si lega a un importante dato biografico e trova nel vissuto la propria fonte di ispirazione. Tra il 1915 e il 1923 il baritono Ernesto Sivori aveva aperto la strada a una feconda carriera di cantante lirico all’ancora non illustre poeta29.Montale prendeva lezioni di musica, dunque, ma fu egli stesso a rinunciare alla carriera da artista preferendo la strada della poesia e a vestire i panni, per utiliz-zare una suggestiva metafora di Piero Gelli, di un «rinnegato baritono che giace accanto al poeta»30. Un percorso simile, ma del tutto opposto, a quello del Vate abruzzese che, se solo avesse disposto del talento necessario, avrebbe certamente preferito la carriera di musicista a quella di scrittore.

Suggestivi sono inoltre i profili montaliani che Carlo Emilio Gadda ritrae in alcuni articoli pubblicati su «Il Tempo» e che mettono ben a fuoco la forte passione musicale del poeta. In essi si spiega come il passaggio dalla musica alla poesia sia stato una sorta di tappa obbligata, una «evoluzione fisiologica» e una «metamorfosi» necessaria:

27 Cfr. Giulio Nascimbeni, Introduzione a AA.VV., Montale a teatro, Bulzoni, Roma 1999, pp. 19-25.28 Luigi Squarzina, Montale a teatro, in Montale a teatro, cit., p. 48.29 Giulio Nascimbeni, cit., p. 20: «Prendeva lezioni dal maestro Ernesto Sivori, un anziano ex

baritono, che gorgheggiava “come un usignolo centenario”. Montale riteneva di avere la voce da basso e già si vedeva sul palcoscenico come Boris, Filippo II, Don Basilio, ma Sivori invece lo volle impostare da baritono e lo avviò verso altri personaggi. La passione per il canto non si spense mai. La voce fu bella e profonda anche fra i tremiti della vecchiaia ma la ipotetica carriera di basso e baritono rimase una specie di frammento lontano di vita».

30 Piero Gelli, Il “rinnegato” baritono che giace accanto al poeta, in Montale a teatro, cit., pp. 75-86.

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Il Boris è il suo sogno, sembra fatta apposta per lui, Montale che è basso-cantante. Ma il maestro lo lega al di qua della cancellata, alle dolcezze del bel canto, Favorite e Lucie. [...] La transizione dal canto alla lirica si manifesta in lui come un passaggio spontaneo: evoluzione fisiologica, felice ed ingenua metamorfosi dell’urgenza espressiva. [...] Montale attinge i valori più puri, i segni più felici di nostra lingua, in una specie idiomatica inusitata, ch’è insieme colta e fraterna, fulgida e dolorosamente opaca, personale ed eucaristica31.

L’attività critica di Montale copre un periodo compreso tra il 1945 e il 1967: dal 1945 al 1946 presso la «Nazione del Popolo» di Firenze in qualità di critico teatrale e successivamente, dal 1954 al 1967, come critico musicale presso il «Corriere d’Informazione» e il «Corriere della Sera». Le recensioni e le corri-spondenze per il «Corriere d’Informazione», che occupano un periodo di circa tredici anni, costituiscono la maggior parte degli scritti raccolti in Prime alla Scala. Quest’opera, pubblicata per la prima volta nel 1981 e organizzata dallo stesso autore, si articola in cinque sezioni: la prima (Sulla musica) contiene scritti di natura prevalentemente teorica; nella seconda (Ritratti) vengono discussi cinque importanti protagonisti della vita musicale del ’900: Stravinskij, Gavazzeni, Toscanini, Titta Ruffo e la Callas; la terza (I Festival di Spoleto e di Venezia) raccoglie varie recensioni, scritte nelle occasioni dei due Festival (come il titolo stesso suggerisce), di alcune opere di musicisti più e meno noti, da Britten a Donizetti, da Puccini a Berio; la quarta (Le prime alla Scala e alla piccola Scala) è la più cospicua del volume e la più ricca di notizie musicali e raccoglie recensioni delle opere dei più illustri compositori di ogni epoca come Mozart, Wagner, Rossini e Bellini, solo per citarne una minima parte; nell’ul-tima infine (E in altri teatri) sono contenute cronache dei teatri minori, tra cui la recensione dal titolo La prima del «Mameli» di Leoncavallo al Carlo Felice di Genova (firmato «Vittorio Guerriero»), in assoluto la prima recensione musicale di Montale, apparsa su «Il Piccolo» e datata addittura 28 aprile 1916, «autentica ghiottoneria del libro» per Mengaldo32.

Le dichiarazioni di carattere più generale sulla musica sono quelle contenute nella prima sezione.

Nel celebre Paradosso della cattiva musica, apparso per la prima volta su «La Rassegna d’Italia» nel novembre 1946, Montale, nei panni di un «onesto ignorante» e con saccente ironia, cerca di stabilire una distinzione, se mai fosse davvero così facile farla!, tra buona e cattiva musica. Questa non va ricercata nei contenuti, nello stile, nell’esecuzione di un’opera musicale ma in ben altri fattori che hanno da sempre influenzato, e pure a torto, i giudizi del pubblico che ascolta. Ha finito col diventare buona musica quella «istituzionalizzata» non

31 Rosita Tordi Castria, Presentazione a Montale a teatro, cit., p. 10.32 Mengaldo informa inoltre che per la quarta sezione, come riferito nella Nota al testo della prima

edizione a cura della Lavezzi, data l’esistenza di più testi e cronache della stessa opera musicale, il più delle volte si è scelto «l’articolo cronologicamente primo, quasi sempre più ampio». Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Montale critico musicale, cit., pp. 210-211.

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tanto nelle forme di cui questa si avvale quanto nei modi di esecuzione. La buona musica ha bisogno di teatri, di sale da concerto, di interpreti d’eccezione, di un pubblico di abbonati, di «organizzazione» e di «ritualità». In poche parole, «ha bisogno insomma di una straordinaria montatura musicale» per cui nel pubblico degli assidui ascoltatori non può mai comportare alcuna forma di imprevisto o di sopresa. Ciò spiega pure il perché nelle sale da concerto si ascoltino raramente, per un palesato snobismo, i brani divenuti più popolari ma non per questo meno degni di rilevanza, come ad esempio la Primavera di Grieg, e perché il pubblico non esiti mai ad encomiare un’artista dalla fama illustre anche se la sua esecu-zione non è stata eccellente:

La musica buona o eletta ha bisogno di teatri, di auditorii, di golfi mistici o di sale da concerto in cui i misteri dell’acustica non siano più tali; ha bisogno d’interpreti d’eccezione, possibilmente stranieri, meglio se tedeschi; ha bisogno di guide tematiche, libretti-programma, prefazioni e introduzioni da scodellarsi volta per volta; ha bisogno di abbonati, di clienti e di patiti; ha bisogno insomma di una straordinaria montatura culturale, ed è naturalmente materia di mercato, merce che dà da vivere a tutto un mondo che effettivamente non potrebbe vivere in un’altra maniera. Soprattutto essa ha bisogno di oraganizzazione e di ritualità. [...] si va insomma a sentire la buona musica in condizioni d’animo tali che escludono a priori la sorpresa, l’imprevisto, il caso, che escludono, cioè, quella condizione di passività ricettiva e gratuita che meglio permette di cogliere il segreto della creazione artistica. Un pezzo come la Primavera di Grieg sarebbe forse intollerabile in una sala da concerto, né io ricordo di avervelo mai sentito eseguire33.

Diversamente la cattiva musica, che Montale con non celata ironia e auto-compiacimento dichiara più volte di preferire, è tale non perché eseguita male ma perché affidata al caso. Non ha bisogno di teatri e concerti prefissati, il suo ambiente non può mai essere precisamente definito, in nessun modo è soggetta a canoni interpretativi e non si avvale di alcune «equivalenze algebriche». Questa è la musica che non si impara nei conservatori, che può ascoltarsi per mano di sconosciuti artisti improvvisati, ma non per questo meno validi, nei bar o nelle strade, che più di tutte è capace di esprimere la «realtà compatta che ci presenta la vita». Come la poesia, essa potrà sempre esistere solo se mantererrà solida la capacità di rinnovarsi e di liberarsi dagli angusti confini e dalle limitanti teorie di circoli o scuole:

La cattiva musica, infatti, a differenza della buona, non necessita di ottimi interpreti ma richiede un concorso di circostanze favorevoli che a volte solo il caso mette insieme. [...] Amo la cattiva musica, la musica in cui il destino non batte alle porte e in cui i temi conduttori sono ripetuti trenta e quaranta volte, certo per una immotivata presunzione della nostra sordità; amo la cattiva musica, o meglio la musica che la frateria non sempre disinteressata degli specialisti o dei musicanti di professione proclama pubblicamente tale. [...] Il vantaggio della 33 Eugenio Montale, Paradosso della cattiva musica, in Prime alla Scala, cit., p. 13.

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cattiva musica è infatti ch’essa (piacendo a Dio) ci soccorre a tutte le ore del giorno e della notte. Si giova anch’essa di un ambiente adatto e di un pubblico educato (in questo caso ineducato), ma il suo ambiente non è mai prevedibile né calcolabile, potendo essere il teatro di provincia, il caffè, il baraccone, la nostra stessa stanza invasa dalle onde hertziane o dal canto notturno di un ubriaco. Inoltre la cattiva musica non è soggetta a canoni interpretativi violando i quali si possa passare per grandi restauratori e scopritori. Accetta, sollecita forse, tutti gli arbitrii... [...] E a questo punto l’onesto ignorante, l’amatore della «cattiva» musica, deve concludere che pura o impura, facile o difficile, la musica viva di domani sempre meno ci verrà da musicisti di «clan», da fanatici; così come non ci verrà la poesia di domani dai letterati che frequentano le «case della cultura» e i congressi sulla ricostruzione spirituale dell’Europa34.

Questa volta è la passione per la poesia a farsi sentire. Montale, che ripete con insistenza e orgoglio di amare quella musica libera, come la poesia, da vincoli e schemi stabiliti (da poco aveva pubblicato la raccolta Finisterre e già concepiva i versi della Bufera in cui confluivano tracce di quella “crisi” della poesia, in verità già viva negli Ossi, che la reazione antidannunziana aveva generato sin dai Crepuscolari), veste i panni del poeta più che del critico e consolida quell’indis-solubile rapporto tra musica e poesia senza comprendere il quale sarebbe addirit-tura inutile accostarsi alla sua opera.

Assai efficace, in tal senso, è il giudizio di Piero Gelli che scrive:

Elogio dell’indifferenza dei valori, rifiuto di ogni teleologica certezza, antipatia per le enfiagioni lirico-drammatiche, sono posizioni che si conoscono nel Montale, sempre in bilico tra ironia e ritrosia [...] Montale del resto è arrivato a quelle conclusioni per una via solare: la pratica del canto e della poesia; una poesia, la sua, che è sempre stata, fin dall’inizio, veicolo di mediazione, di transfert, tra la musica lirica e la sua traslazione testuale. Gli sta a cuore la ricerca di una connessione tra il carattere sostanzialmente asemantico della musica e quello di semanticità ambigua e fortemente connotativa della poesia: “la verità è che la parola veramente poetica contiene già la propria musica e non ne tollera un’altra”35.

La passione per il melodramma e lo scetticismo verso le forme sperimentali della musica contemporanea sono inoltre costanti assai importanti della critica montaliana. Ai «critici di gusto sottile», vedi D’Annunzio, i quali «affermano che il melodramma tradizionale è morto senza speranze di resurrezione», il poeta risponde con giudizi fiduciosi. Alle teorie del critico e filosofo Gillo Dorfles36

che riscontrava in Verdi «l’ultima e giustificata stagione» e che ipotizzava la possibile rinascita di un melodramma moderno dove a prevalere fosse «la voce

34 Ivi, pp. 11-15.35 Piero Gelli, Il “rinnegato” baritono che giace intorno al poeta, cit., p. 83.36 Il testo a cui Montale fa riferimento è: Gillo Dorfles, Il divenire delle arti, Einaudi, Torino 1981.

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dell’uomo» e la musica fosse sempre associata a un recitativo, alla voce di un coro parlato o a una voce cantante, Montale replica ipotizzando ancora l’esistenza di un «melodramma concepito secondo i vecchi schemi» e per nulla artificioso in cui il canto abbia la sua priorità come elemento distintivo dei personaggi e in cui la voce si faccia strumento di lingua e di musica, lontana dal «belcantismo» e dal «recitar cantando». La soluzione ipotizzata non è dunque un ritorno all’antico o addirittura a un diverso genere, come auspicato da D’Annunzio:

Se abbiamo ben compreso si avrebbe un dramma parlato in cui la musica dovrebbe ancora aver funzione d’atmosfera, e il canto, anche se monodico, avrebbe compiti di commento e di rafforzamento ma assai difficilmente potrebbe essere espressione diretta dei personaggi. [...] Eppure il potere d’attrazione del melodramma (quando non esistevano né radio né cinema né TV) fu sempre dato dal fatto che i personaggi cantavano i loro sentimenti in melodie riconoscibili, anche se non sempre facilmente orecchiabili. Un’opera musicale in cui i perso-naggi non cantano non sarebbe più attraente di quelle in cui essi cantano in modo orridamente antivocale. [...] Anche il melodramma concepito secondo i vecchi schemi può avere ancora una lunga, e forse non del tutto artificiosa, durata37.

E nei confronti della musica contemporanea, Montale non nasconde un certo scetticismo. Di essa non contesta la vena dissacratoria, in antitesi al «carattere sensuale e ornamentale» dell’antica cultura musicale, bensì l’eccessiva auto-nomia compositiva. Non contestandone quindi il «carattere prevalentemente asemantico», biasima piuttosto l’«eccessiva impurità» del genere. Ancora una volta, però, lo scrittore non può fare a meno di creare un legame con la poesia di cui la musica, questa volta e addirittura in difetto, riveste il ruolo secondario di «tardiva ancella». Ma, come suggerito da Rosita Tordi Castria, la dedica che in Prime alla Scala Montale rivolge all’amico Massimo Mila, uno tra i più illustri musicologi del Novecento e difensore della musica contemporanea, può indurre a ipotizzare un possibile «tardivo ripensamento»:

Quanto alla cosiddetta impasse della musica modernissima, è probabile che questa abbia ecceduto nell’opporsi al carattere sensuale e ornamentale che civiltà altamente intellettuali attribuivano alla musica. Si è forse andati troppo oltre nella concezione dell’autonomia del fatto musicale. [...] Il mio amico Massimo Mila pensa che con tentativi del genere la musica cerchi di uscire dal proprio isolamento - ma non direi che ne sia proprio convinto. Il carattere sostenzial-mente asemantico della musica rappresenta una grande conquista della cultura 37 Eugenio Montale, Come sarà la musica dell’avvenire, in Prime alla Scala, cit., pp. 19-20.

Sulla passione di Montale per il melodramma scrive Piero Gelli, cit., p. 83: «In definitiva per Montale il melodramma è un miracoloso connubio di suoni e di vocalità, in cui si consuma ogni impurezza: è un regno di fuochi fatui e cartapesta dove, per miracolo dell’arte, scoppia la scintilla dell’emozione poetica […] Montale auspica una parola bruciata nella musica, che resti come una traccia mnestica per la comprensione degli eventi, misteriosi e lontani o quotidiani e vicini, che agitano i sensi e l’anima dello spettatore: la voce umana sembra uno strumento insuperabile solo nel caso che le parole restino un mero fantasma sonoro.»

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moderna. [...] Molta musica d’oggi è nella sua intima essenza una tardiva ancella della poesia moderna, senza però possederne la duttilità e la ricchezza musicale. E non c’è nulla di male in questo, purché non si parli davvero di vie nuove da percorrere38.

Apprezzare con entusiasmo Mozart a discapito, ad esempio, di Beethoven e Wagner biasimati, ma solo in parte e neppure con eccessiva veemenza, per il fatto di voler sempre giustificare le intenzioni che muovono la stesura delle loro opere (ricordiamo che Nietzsche, non a caso citato da Montale, aveva accusato Wagner di eccessivo moralismo e di bigotto spirito cristiano), non esprime certo il proposito di volere riattualizzare la sua musica. Così nella suggestiva recen-sione a Così fan tutte39, «l’opera mozartiana in cui domina la Ragione» ma in cui non eccedono mai punte di intellettualismo e in cui «la ragione non sconfinavamai», Montale apprezza la spontaneità e il carattere giovane dell’opera, in netta antitesi rispetto al Parsifal40 wagneriano (solo per volere citare un esempio dei tanti riscontrabili), «dramma mistico» per eccellenza, «opera di religiosità e non di religione», in cui la sacralità non può certo limitarsi a una dimensione pura-mente ed esclusivamente cristiana.

Tra le opere più moderne vale la pena citare più dettagliatamente la recen-sione a Allez-hop di Berio-Calvino.

A una breve sintesi dell’opera segue un ampio commento. Come tanti altri critici, anche Montale interpreta la pulce come simbolo o dell’«attivismo contem-poraneo» o della «cattiva coscienza dell’uomo alienato». Nella musica di Berio ben a ragione riconosce (forse perché già informato dal programma di sala) l’as-semblamento di parti in precedenza composte singolarmente e poi assimilate; e nel complesso orchestrale riscontra tracce di sonorità jazz e non di dodecafonia, a cui però il compositore proprio in quegli anni aveva cominciato ad accostarsi. Ad ogni modo, il giudizio su Berio non è poi del tutto lusinghiero: egli è ritenuto

38 Eugenio Montale, Capire la musica d’oggi e Parole in musica, in ivi, pp. 22, 26. Scrive Rosita Tordi Castria, cit., pp. 9-10: «C’è da chiedersi tuttavia se l’aver Montale stesso predisposto l’apertura del volume Prime alla Scala con un omaggio a Massimo Mila, il musicologo amico di una vita dal quale lo ha sempre diviso il giudizio sulla musica contemporanea, non sia stato un escamotage per confessare un tardivo ripensamento».

39 Cfr. Eugenio Montale, «Così fan tutte» di Mozart, in «Corriere d’Informazione», 28-29 gennaio 1956, poi in Prime alla Scala, cit., pp. 181-182: «Così fan tutte è giudicata da alcuni l’opera mozartiana in cui domina la Ragione; qui sarebbe nascosto il segreto dell’incorruttibile giovinezza di questo spartito, al quale dovrebbero andare, e andranno probabilmente in avvenire, le preferenze di tutti gli spiriti liberi, quelli che vedono nella musica - come vedeva il Nietzsche - un’arte di catarsi capace di giocare con le forze del Cosmo. […] Il fatto è che i preromantici (e anche alcuni moderni) non sentirono mai il bisogno di attaccare alle loro opere il cartellino segnaletico delle loro intenzioni. Beethoven e Wagner si auto commentano continuamente, non fanno che ripeterci: “Avete capito? Ci siamo espressi a sufficienza?”.Mozart non era affatto un pur musicien, il suo cervello era completo, ma egli non supponeva ancora che l’artista dovesse predicare. È curioso di notare che l’età dei lumi producesse un’arte in cui la ragione non sconfinava mai».

40 «Parsifal» di Wagner, in «Corriere d’Informazione», 3-4 maggio 1960, poi in Prime alla Scala,cit., pp. 312: «Parsifal è un dramma mistico, un’opera di religiosità non di religione: è l’approdo di Wagner a quel cristianesimo orfico e terrestre, fatto di compassione e di rinunzia, di pietà e di distacco, ch’era anche l’unico accessibile all’autore del Tristano».

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quasi incapace di comprendere fino in fondo, «prendere sul serio» per usare l’eu-femismo montaliano, la sua opera declassata come «alto spettacolo di varietà».

C’è poco da stupirsi, considerata la diffidenza di Montale verso la musica contemporanea. Nella seconda parte compaiono invece i nomi dei protagonisti apparsi sulla scena, dal regista al coreografo e ad alcuni cantanti:

Certo qui la pulce è simbolo di qualche cosa: forse dell’attivismo contem-poraneo, forse di uno stato generale di cattiva coscienza del cosiddetto uomo alienato. Ma è inutile indagare: un simbolo veramente comprensibile perde ogni vera forza di suggestione. La musica scritta dal Berio ha molti elementi di collage sonoro, e vi sono inserite anche due canzoni per voce di soprano. L’organico orchestrale è quello della Grande orchestra jazz, e la musica alterna momenti appassionati a brani autonomi o anche semplicemente descrittivi. E in sostanza siamo forse (ma è una semplice ipotesi) di fronte a una musica di alto spettacolo di varietà scritta da un compositore ultra aggiornato che cerca di lasciarsi alle spalle la dodecafonia, utilizzandone i ritrovati e le formule. Ma a quale scopo? Un’analisi di tale musica, che ha due costanti, una ritmica (la rumba) e una armonico-timbrica, porterebbe molto lontani. Basterà dire che il limite di quest’opera sapientemente organizzata, rigorosamente inconseguente, come è proprio del sistema a cui appartiene, è che nessuno, forse nemmeno il Berio stesso, potrà dire fino a che punto l’autore abbia preso sul serio la sua materia. [...] Ha diretto con autorità Nino Sonzogno. Sono piaciute le scene e la coreografia di Jacques Lecoq. Ottimi tutti i mimi, lodevoli anche Bona De Mandriargues che esegue un mezzo strip-tease e il soprano Cathy Barberian. Il pubblico ha applaudito cordialmente il racconto mimico di Berio e Calvino. Autori e artisti sono apparsi più volte alla ribalta41.

La critica di Montale, come è facile constatare, è estremamente colta; la sua competenza giunge a toccare livelli altissimi quando cita nomi di musicisti e musicologi, anche tra i meno noti; discute su teorie proprie della critica musi-cale e ne controbatte spesso alcune; propone modelli e chiavi interpretative del tutto originali; si muove con assoluta padronanza nello sconfinato territorio della letteratura musicale e in oltre quattrocento anni di storia. Siamo ben lontani dall’estetismo letterario dannunziano. Le sue recensioni, ricche di contenuti e di informazioni specifiche e non di contorni o abbellimenti, specie quelle più dettagliate della terza e della quarta sezione, si articolano in una precisa strut-tura. Ciascuna, infatti, è divisa in due parti: la prima, sempre più lunga, contiene ampie divagazioni sull’opera in questione; la seconda si presenta invece come dettagliato resoconto della rappresentazione teatrale a cui il poeta aveva assi-stito.

Preso a modello di letteratura nella musica anche Andrea Zanzotto, per

41 «Allez-hop» di Berio e Calvino, in «Corriere d’Informazione», 22-23 settembre 1959, poi in Primealla Scala, cit., pp. 99-100. Cfr. inoltre GIOVANNI INZERILLO, La “pulce” musicale di Italo Calvino. Canzoni e Allez-hop, Cesati, Firenze 2015.

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vie comunque diametralmente opposte a quelle di D’Annunzio e di Montale, si dimostra essere un esperto musicofilo. La sua critica, che qui limitiamo alla conversazione col musicologo veneziano Paolo Cattelan pubblicata per i tipi della Marsilio con il titolo di Viaggio musicale cui faremo qualche accenno, è un ulteriore esempio di come un letterato possa accostarsi a una disciplina di non propria competenza. Il poeta parla di musica raccontando, innanzi tutto, episodi e trascorsi della sua vita. Se pure passivamente, il piccolo Andrea si è nutrito di musica. Nella chiesa di Vidor ascoltava opere organistiche di Bach eseguite dal maestro Voltolin e in collegio prendeva le lezioni di canto obbligatorie del maestro Fontebasso.

La musica da lui ascoltata e assimilata sin da bambino è quella che il folclore ha tramandato integra, anche a distanza di decenni: è «la presenza scanzonata delle canzoni», «un bel canto popolare», una giocosa filastrocca di intratteni-mento e le canzonette di protesta e di impegno politico-civile, spesso celate da parole sottilmente ironiche, come quelle cantate dal trio Lescano. Essa è inoltre la lirica, cantata da tutti, persino dai preti. Anche questo genere musicale, pur se più austero e difficile da approcciare, è divenuto canto popolare grazie alla fama del soprano Toti Dal Monte, la cui arte ha tramandato nei cuori di tutti una irre-frenata passione per il canto:

Per me la musica cosa è stata? È stata, prima di tutto, un bel canto popolare. Tutti, una volta, cantavano. Sopravvivevano, infatti, negli anni della mia prima giovinezza, i residui folcroristici del vecchio canto popolare, che i contadini erano soliti intonare da ubriachi, la sera: un canto, probabilmente, non così dissimile da quello che Leopardi avvertiva svanire a poco a poco e che da queste parti era innanzi tutto rappresentato dalla vecchia tiritera: «din din, din don, din don, dindela / l’é la figlia del caro papà». Si sentiva questo «carò papà» risuonare all’infinito. [...] Ma alla musica pervenivo anche attraverso l’opera e la sua indiscussa autorità ottocentesca, corroborata per di più dal fatto che qui a Pieve c’era la Toti...[...] E Norma, per esempio, torna spesso nel mio Galateo in bosco anche in quanto musica «popolare», dato che la si sentiva cantare continuamente. [...] Ma ricordo anche, a questo proposito, la presenza delle canzonette, che comunicavano in un modo particolare, sottilmente contra-stante. Per esempio, Faccetta nera esprimeva la presenza di un modo di pensare popolare che, a ben vedere, non si poneva in linea con la dittatura42.

Tracciato un variegato percorso biografico ispirato ai ricordi legati alla sua giovinezza e alla sua gente, le riflessioni zanzottiane si allargano a temi più generali e alla poesia. Partendo dalla distinzione tra musica vera e propria e musica interna alla parola, il poeta cita numerosi nomi e illustra esempi attinti dalla storia e dalla tradizione musico-letteraria, dai Greci agli Chansonniers francesi, da Paolo Conte ai Beatles, da Prévert alla Callas, da Fellini a Rota. Per Zanzotto i grandi artisti

42 Andrea Zanzotto, Viaggio musicale, Marsilio, Venezia 2008, pp. 8, 16,18.

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della storia esprimono, ciascuno a proprio modo, originali e profondi legami con la musica, con particolari e ben specifiche sensibilità musicali. Schubert conce-piva una musica profondamente collegata al dolore e al lutto; Mozart vedeva in essa l’unica possibilità di espressione a lui congeniale, il «gigante» Bach scriveva la sua musica per scalate, dal piccolo al grande, e componeva Corali il cui titolo spesso inganna suggerendo emozioni e stati d’animo differenti da quelli che in effetti comunica l’ascolto e infine Metastasio, amato dai musicisti ma visto con diffidenza dai letterati, verso cui il poeta non nasconde una predilezione. La musi-calità intrinseca dei versi metastasiani ha addirittura permesso al poeta di reinven-tarlo, di lasciarsi andare a modifiche e a giochi letterari:

Metastasio, si potrebbe dire, è dotato di una lactea ubertas, come è stato detto di Tito Livio, mi pare. Comunque, è in grado di rinvenire rime con abbondanza, con ricchezza, e non è mai scarso di soluzioni. Nello stesso tempo, quando si abbandona a questa sua creatività, che è molto più bizzarra di quanto si creda, non lavora più «a mente fredda», ma a mente musicale. A ben vedere, le strofette delle sue arie sono come un refrain immerso nel testo drammatico quasi per riassumervi il concetto, fungendo da polo di condensazione di temi dispersi dentro l’opera. Tali strofette rappresentano dunque, in perfetta sintesi, le famose «ariette di Metastasio». [...] E, in ogni caso, (Metastasio) ha costituito proprio un baluardo di italianità nel cuore dell’impero: tanto da poter essere interpretato come una testimonianza fortemente patriottica che continua una tradizione già veneziana. Devo dire che anch’io ho subìto l’influenza di Metastasio fin da ragazzo, perché è uno degli autori che spinge più a essere imitato. Nell’universo poetico-musicale di Metastasio, le vocali si attraggono l’una con l’altra. Aveva la certa sensazione dell’opportunità dell’uso di determinate vocali (e di deter-minate consonanti) a dispetto di altre. Per questo Metastasio si presta moltissimo a ritocchi. E parecchi ne ho fatti anch’io...43

Il poeta, inoltre, volge la sua attenzione persino verso le forme musicali contemporanee; valuta l’improvvisazione del rap come espressione perfetta della fretta e del caos del mondo moderno, convulso «cardiogramma» dell’«aritmia» del mondo moderno tachicardico:

Per quanto concerne il rap, c’è qualcuno che quasi corre via da qualche cosa; deve scappare, crede di andare verso una gioia e scappare da un pericolo. Io lo sento così, può darsi che mi sbagli e può darsi che ci siano dentro dei motivi musicali degni di nota che corrispondono a una verità... ma qui entriamo nel gioco delle varie funzionalità... di tante musiche che accompagnano momenti 43 Ivi, pp. 75-77. Zanzotto accenna ai ritocchi relativi alle strofette dell’azione sacra intitolata La

Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, composta da Metastasio nel 1730 e divenuta uno degli oratori più musicati nel XVIII secolo. I versi metastasiani «Dovunque il guardo giro / immenso Dio, ti vedo; / nell’opre tue ti ammiro, / ti riconosco in me. / La terra, il mar, le sfere / parlan del tuo potere: / tu sei per tutto, e noi / tutti viviamo in te.» sono stati così modificati: «Dovunque il guardo giro / immenso caos ti vedo / per l’opere tue mi adiro / ti riconosco in me! / Il ciel la terra il mare / parlan del tuo strafare / del tuo globalizzare / ma chi, perché, ma che?».

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della vita comunitaria di oggi. L’idea di rap richiama immediatamente non tanto quella che poteva essere la fretta gioiosa di un mondo preistorico che si lasciava trascinare da una specie di delirio; ma è la fretta, piuttosto, di quello che deve stare a bestemmiare in una capsula di automobile e che anela ad arrivare per uscir fuori un momento. E quindi certi tipi di musica o di realizzazione musicale andrebbero registrati proprio sull’elettrocardiogramma. Prima vi potevano essere aritmie che filtravano all’interno e che potevano essere pericolosissime; ma che il rap possa rappresentare la tachicardia parossistica è altrettanto vero: e quella nessuno la può fermare44.

Come ho già avuto modo di affermare in altre occasioni45 l’interesse verso la comtemporaneità, anche musicale, di certo non stupisce. Eremita solitario, nel suo “paesaggio” in ombra Zanzotto ha, forse più di tutti, profondamente indagato la disarmonia del mondo, le contraddittorietà umane, la poliedricità dell’esistenza. Nella sua non sofferta solitudine ha studiato il presente attraverso la storia nella continua ed esasperata ricerca di un linguaggio effettivamente in grado di espri-merlo. La sua letteratura ha “resistito” alla deriva del presente e delle ideologie, buone o cattive non importa, a quel pullulare disordinato e confuso di linguaggi corrotti non soltanto dall’uso comune ma, soprattutto, dai moderni meccanismi di comunicazione, a quel “progresso scorsoio” divenuto oramai inarrestabile e inestricabile.

Certo, tentare di resistere non significa quasi mai vincere. Nella migliore delle ipotesi scopo è sopravvivere nella speranza che il disordinato mondo “esista buonamente” senza “accartocciarsi” (cfr. La beltà) in singole ed egoistiche indi-vidualità. E non importa se questa lotta per la sopravvivenza, impari dinanzi ad un mondo nemico che è insieme tutto e niente, porti alla totale disgregazione dell’io, del soggetto vivente e pensante.

Sentimento, questo, che si trasforma in parola poetica con il tramite di una musicalità non facilmente percepibile se non da orecchie esperte, insita all’interno del linguaggio stesso e di parole semplicemente pronunciate (e non cantate).

44 Ivi, pp. 45-46. Anche Edoardo Sanguineti, collaborando col compositore Andrea Liberovici, ha mostrato un particolare interesse per questo genere musicale. In una conversazione con Anna Frabetti, poi pubblicata su «Bollettino 900» col titolo di Rap e poesia, il poeta dichiara: «Quando sottoposi a Liberovici alcuni dei miei materiali, ero mosso dall’idea, che lui del resto condivideva, che il rap fosse prima di tutto una tecnica evidentemente ritmica e musicale, ma anche una tecnica del discorso verbale, un modo paradossale per “recitar cantando”, in cui l’importanza del testo è molto forte e permette di utilizzare anche dei componimenti che non abbiano una preordinata struttura ritmica, ma che si costru-iscono attraverso giochi verbali. Io ho fatto uso, almeno in molti dei miei testi, dell’allitterazione, della rima ribattuta e questo si prestava bene ad essere trasformato in rap, con poche modifiche di replica, di iterazione, di variazione. […] Io tendo sempre più ad insistere sul momento anarchico come momento di pulsione della grande arte critica del Novecento. Se questo momento ha trovato incarnazione, non è stato tanto nella forma della canzone “all’italiana”, quanto piuttosto nelle esperienze di certo rock violento e oggi, semmai, del rap e di altre espressioni di questo genere.», in «Bollettino ’900», 4-5 maggio 1996, pp. 9-11, oppure in: http://www.comune.bologna.it/iperbole/boll900/sanguin.htm.Si consiglia inoltre: Baiardo Enrico; De Lucis Fulvio, Shakespeare e il rap. I “sonetti” secondo Liberovici e Sanguineti, Ferrari, Genova 1998.

45 Giovanni Inzerillo, Ricordo di Zanzotto e resistenza della poesia, in «Incroci. Semestrale di letteratura e altre scritture», XV, 29, Adda editore, Bari 2014, pp. 70-80.

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L’esempio di Zanzotto serve inoltre per concludere il nostro viaggio musi-cale. Le esperienze letterarie di scrittori come D’Annunzio, Montale, Calvino e Zanzotto, così differenti tra di loro ma ciascuno esemplare indiscusso di un momento chiave del secolo scorso, sono state poste in relazione alla forte sensibi-lità musicale che ne motiva la più intima essenza. Continuando uno studio sui tre autori già intrapreso, le cui tesi sono confluite nel saggio Letteratura e musica nel Novecento prima citato, ho voluto allargare alla critica musicale il campo di inda-gine e dimostrare come la musica non sia soltanto una costante letteraria, tecnica compositiva e forma espressiva. Le voci critiche hanno dimostrato la forte matrice biografica che ha indubbiamente condizionato un dialogo musico-letterario.

Musica e letteratura nascono come forme espressive, è chiaro; che la vita sia il tema da esprimere, è altrettanto evidente. Il senso della letteratura e della musica è la costante ricerca di un senso nel disordine delle parole e dei suoni del mondo. Ogni artista lo fa nel modo a lui più congeniale: se per Mozart non era possibile esprimere sentimenti e pensieri con linguaggi non musicali, Zanzotto sembra districarsi facilmente nel «nodo scorsoio» della modernità, anche lingui-stica, e D’Annunzio, addirittura, opta per una contaminazione, quasi totale, tra i due generi, facendo della musica, dei suoi contenuti e persino dei suoi protago-nisti, i soggetti della sua letteratura.

Forti della loro «intrinseca necessità di essere insieme, perché all’origine erano un insieme inscindibile» musica e poesia, musica e letteratura in generale, sono espressioni dell’unico dettato della vita.

Giovanni Inzerillo

Passive PerlustrazioniRaccontidi Velio Carratoni

Paura della bellezzaAforismidi Velio Carratoni

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Sospinto da un arcano poterUn ritratto di Leoncavallo in due schizzi

di Marzio e Bernardo Pieri

Il 2019 è trascorso, quasi inosservato, il centenario della morte di Ruggero (o Ruggiero [Giacomo Maria Giuseppe Emmanuele Raffaele Domenico Vincenzo Francesco Donato] come vorrebbero i puristi partenopefili)Leoncavallo. Ignorato dai teatri e snobbato dalle case discografiche (salvo la pubblicazione dei primi Pagliacci di Muti a Firenze – 2 gennaio 1971, vuol dire cosa di cinquant’anni fa —, l’ultimo disco prodotto appositamente in studio è stata la Zazà del 2016 per Opera Rara: non uno degli esiti più memorabili della leggendaria label inglese), a ricordare il padre del verismo musicale, del quale Leoncavallo dichiarò gl’intenti nel celebre o famigerato prologo dei Pagliacci, sua opera prima (e, per i detrattori del musicista, anche ultima) – “L’autore ha cercato invece pingervi/ uno squarcio di vita. Egli ha per massima/ sol che l’artista è un uomo e che per gli uomini/ scrivere ei deve. Ed al vero ispiravasi” —, a ricordare il padre del verismo musicale è stata, dicevamo, Denia Mazzola Gavazzeni, attraverso la sua associazione “Ab Harmoniae onlus”. La solita, generosa, instancabile artista che, “con l’ali aperte sa tutto sfidar”, per dirla con la Nedda dei Pagliacci, inseguendo non chimerici sogni di riscoperta, ha dedicato la sua riproposizione annuale di rarità operistiche a Zingari (Londra, 1912), ultima opera del facondo cantore napoletano. S’intende ultima opera-opera, ché la vena melodica del cinquan-tacinquenne compositore non s’era affatto inaridita, solo che – per ragioni che proveremo a giustificare più avanti – egli preferì dirottarla sull’operetta, un genere più leggero e forse meno esposto alle esigenze dei tempi in continuo, mai lineare e non sempre prevedibile, rinnovamento dell’arte: la sua ancor oggi più famosa, La reginetta delle rose, aveva preceduto di meno che tre mesi l’andata in scena degli Zingari, con una prima in contemporanea a Roma (Teatro Costanzi) e a Napoli (Politeama Giacosa). Sedi importanti, a fugar da sùbito il sospetto che la scelta leoncavalliana fosse un mero ripiego.

La rappresentazione degli Zingari secondo Denia Mazzola (Sala Grande del Conservatorio “Verdi” di Milano, 4 novembre 2019, coprotagonisti i fedeli partners artistici del soprano, Giuseppe Veneziano, tenore, Armando Likaj, baritono, Giorgio Valerio, basso, diretti da Daniele Agiman) è stata, come di consueto, preceduta da un seminario, al quale avrei dovuto intervenire anch’io per leggere l’invio che mio padre Marzio aveva voluto spedire – quasi commento al comune sentire – all’amica Denia, dettandomi le sue ultime, brucianti righe, da porre in appendice alla ricostruzione di un anno qualsiasi, quale fu il 1912 degli Zingari, che avevo abbozzato per l’occasione. Non fu possibile essere là.

Affido a ‘Fermenti’ la messa in forma, dei cui difetti strutturali sono il solo responsabile, di quell’intervento combinato.

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1. «1912» – Zingari a Londra, tra Pierrot e il Re delle stelle

Per la storia événementielle, come la chiamano i francesi, l’anno degli Zingarileoncavalleschi fu abbastanza anonimo, anche se non c’è bisogno d’andare a guardar tanto sotto la superficie per avvedersi di come s’andasse già allora prepa-rando il disastro mondiale che sarebbe stato scatenato di lì a due anni. La giovane Italia volle far la voce grossa, schierando le sue pedine corazzate contro i Turchi in Libia (le operazioni navali erano partite a fine settembre 1911, ma gli scontri a terra entrarono nel vivo con l’anno nuovo): un poco, va detto, ce l’avevano tirata per i capelli i rowdy britannici (che occupavano l’Egitto da “protettori”) e i mangiarane francesi; i primi con la loro politica preconcettamente ostile, i galletti con l’allargarsi dall’Algeria alla Tunisia, ove gli italiani avevano da tempo stabilito una nutrita e ben accolta colonia, molto attiva commercialmente, che fungeva un poco da testa di ponte nazionale di là dallo stretto di Sicilia, nodo strategico tornato fondamentale con l’apertura della rotta di Suez, dopo secoli di circumnavigazioni oceaniche. Ma più che i quattromila morti nostrani (la metà per malattia) e i circa ventimila di parte turco-libica (la più parte per fucilazioni e rappresaglie), di quel 1912 si è soliti ricordare i 1.500 affogati del Titanic, l’af-fondamento del quale rimane a tutt’oggi il fatto di cronaca più noto dell’anno, offuscando il dato storico che il “bel suol d’amore” libico aveva ospitato, di fatto, la prima guerra ‘moderna’, con impiego di automobili e motociclette, delle radio da campo e perfino dell’aviazione, che vi ebbe funzioni ricognitive e di… bombardamento a mano. Vero che, in ottica mondiale, quella rimase una guerric-ciola, poco più che un accadimento a margine d’altro che, però, all’epoca andava ancora preparandosi.

Si dice che il giorno si riconosca dal mattino: e la prima luce del 1912 era brillata il 17 gennaio, quando Robert Scott aveva piantato la sua bandiera al Polo Sud… accanto a quella che lì già garriva, ficcata nel ghiaccio 35 giorni prima da Amundsen. Ecco, in questa partenza ‘da secondi’, possiamo un poco trovare il ‘bollo’ della corsività del 1912.

Altrove si ebbero accadimenti più determinanti, certo, ma bisogna guardare alla Cina, dove la Rivoluzione Xinhai mise fine al plurimillenario e non più celeste Impero, con la deposizione dell’ultimo sovrano, Pu Yi. Dalle nostre parti si lavorava sottotraccia, anche se lunghe e profonde crepe s’allargavano sempre più minacciose: dalla neocostituita Lega Balcanica che lanciava anch’essa le sue prime scaramucce contro gli Ottomani, alla rottura tra bolscevichi e mensce-vichi, fino al definitivo saltar dei negoziati tra Germania e Inghilterra, in séguito al quale il cancelliere Bethmann-Hollweg dichiarava pubblicamente doversi preparare alla guerra.

Non bastassero le inquietudini internazionali, anche il tessuto sociale interno alle nazioni cominciava un po’ dovunque a scricchiolare e le sempre più frequenti proteste degli operai sfociarono spesso in scioperi divenuti famosi, come quello generale in Portogallo (ricordato perché fu il primo) o quello lunghissimo ed

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eclatante – anche per le ripercussioni, talora pesantissime, che ebbe anche molto dopo la sua conclusione – dei lavoratori dell’industria tessile a Lawrence (futura città natale di Lennie Bernstein), nel Massachusetts; protesta conosciuta anche per lo slogan “bread and roses”, col quale si simboleggiarono le richieste di paghe più alte per gli operai e condizioni di vita migliori per le loro famiglie.

In letteratura a dettar scandalo è soprattutto Gustav Jung, che mette in piazza la libido, coi suoi simboli e le sue trasformazioni (Wandlungen und Symbole der Libido); in pittura si registra la prima mostra di Kandinskij a Berlino, mentre Braque e Picasso inventano il collage cubista, che rompe ogni prospettiva tradi-zionale. Distruggere l’ordine secolare della musica è, dal canto suo, il compito che si prefigge Francesco Balilla Pratella pubblicando – un anno e mezzo dopo aver lanciato il suo j’accuse nel ‘Manifesto dei Musicisti Futuristi’ (11 ottobre 1910) – la Distruzione della quadratura (18 luglio 1912).

Balilla Pratella era certo furibondo per ragioni personali (soprattutto certe «critiche abbiette e stupide» alla sua opera La Sina d’Vargöun [Bologna 1909]), ma il panorama musicale del 1912 par rispecchiare in maniera talora perfinosorprendente alcune affermazioni del Manifesto: in Francia, ad esempio, Debussy («artista profondamente soggettivo, letterato più che musicista, [il quale] – secondo Pratella – nuota in un lago diafano e tranquillo di armonie tenui, delicate, azzurre e constantemente trasparenti») compone le Images, il poema danzato Jeux e i Preludi per pianoforte. Tutti capolavori – e indubitabilmente capolavori – nei quali è pur lecito ritrovare, però, quel «simbolismo strumentale» e quella «polifonia monotona di sensazioni armoniche sentite attraverso una scala di toni interi – sistema nuovo, ma sempre sistema, e, di conseguenza, volontaria limi-tazione», che vengono contestate a Claude de France dal nostro arrabbiatissimo Balilla.1 Si vuol dire che anche il genio di Debussy pare essersi ormai adeguato ad una maniera, altissima e personale, ma non più innovativa, almeno secondo l’ottica novatrice a ogni costo di un Futurista: d’altronde, anche un debussista a tutta prova come Paolo Castaldi sosteneva che Claude-Achille i pilastri della forma li nascondeva ma non li abbatteva,2 cosa che a nemici d’ogni forma orga-nizzata quali gli adepti dei “futurismi” restava certo indigesta.

In Germania, Richard Strauss – musicista che «sebbene non possa nascon-

1 Il resto del panorama gallico pare guardare soprattutto all’indietro. Il 31 agosto muore il principe degli operisti francesi, Jules Massenet, non senza essere riuscito, in quello stesso anno 1912, a mettere in scena il suo ultimo Grand-Opéra “in forma”, Roma, oltre a concludere una farsa, Panurge, e un’altra opera di più vaste dimensioni, Cléopâtre, che sarebbero state rappresentate postume nei due anni successivi; a dire come la fama di Massenet, la sua intonazione “femminile” e lo stile oramai rétro, continuassero ad attrarre i melomani francesi, a dispetto d’un mondo che guardava altrove (pochi mesi prima di Massenet, il 6 aprile, in Italia, aveva cessato i suoi canti un altro ammirato cantore femmineo e decadente, Giovanni Pascoli). Per avere qualcosa di nuovo, in campo operistico, la Francia avrebbe dovuto attendere la preziosa Pénélope dell’altro grande vecchio, Gabriel Fauré, andata in scena a Montecarlo il 4 marzo 1913, ma con tutte le sue prelibatezze armoniche essa era pur sempre un passo indietro rispetto al Pelléas debussiano di undici anni prima.

2 A Claude Debussy, in All’ombra delle fanciulle in fiore: la musica in Francia nell’età di Proust, a cura di Carlo De Incontrera, I Libri di Monfalcone, 1987.

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dere, con maniere armoniche ed acustiche abili, complicate ed appariscenti, l’aridità, il mercantilismo e la banalità dell’anima sua, nondimeno si sforza di combattere e di superare il passato con un ingegno innovatore» (cito sempre dal Manifesto di Balilla Pratella) – rappresenta quell’anno la prima versione della sua Ariadne auf Naxos, spettacolo nello spettacolo del Bourgeois gentilhommerivisitato da Hofmannstahl; certo non l’opera di Strauss nella quale più si possa vedere elevato il «barocchismo della strumentazione fin quasi a forma vitale d’arte», lodato da Pratella, quanto semmai quel ripiegamento cameristico già sperimentato nel Rosenkavalier e che sarebbe diventato la cifra peculiare delle Kammeropern ‘conversanti’ della tarda età straussiana. Balilla non lo dice, ma di Strauss doveva avergli fatto impressione, soprattutto, l’esasperato clangore di Elektra.

Eppure, anche in questo caso, quando si scatenò la diatriba un tempo famosa tra l’opera di Strauss e la misconosciuta Cassandra messa in musica da Vittorio Gnecchi, facoltoso (oh quanto!) dilettante comasco, Balilla non aveva nascosto le sue simpatie pel musicista italiano, al quale, oltre due decenni dopo, dedicò un pamphlet che rimane a tutt’oggi la fonte principale di riferimento sulla vita e l’arte di Gnecchi3. Cassandra era andata in scena a Bologna (diretta da Toscanini) il 5 decembre 1905, anno della Salome straussiana, in occasione d’una rappresenta-zione della quale a Torino, l’anno dopo, Gnecchi raccontò d’aver avvicinato l’il-lustre collega tedesco offrendogli una copia del suo spartito (un’altra pare gliela avesse già spedita per posta). Passa qualche anno e, nel 1909, Strauss rappre-senta Elektra: Giovanni Tebaldini, musicista Ceciliano, riscopritore del cantar gregoriano di cui infuse la fissazione nel suo allievo più famoso, Ildebrando Pizzetti, nonché critico musicale di diverse testate giornalistiche, immediata-mente fulmina uno scritto ch’ebbe scandolezzata risonanza internazionale, nel quale con capziosa puntualità metteva a nudo le fin troppo numerose (e sospette) “telepatie musicali” tra le due opere.4 Benché una vera e propria accusa di plagio nei confronti di Strauss non venisse mai formalizzata (ed oggi l’ipotesi è defini-tivamente caduta, a dispetto di diverse analogie tra le due opere), l’opposizione tra il gigante tedesco e la formica italiana tenne banco per qualche tempo, poi la formica scomparve sotto terra con la sua opera (una bella edizione discogra-fica di qualche lustro addietro, protagonista Denia Mazzola, è stata recentemente ristampata da una nuova etichetta italiana, NAR Classical)5.

3 Francesco Balilla Pratella, Luci ed ombre – Per un Musicista Italiano ignorato in Italia, De Santis, Roma, 1933.

4 Giovanni Tebaldini, Telepatia musicale. A proposito dell’“Elektra” di Richard Strauss, “Rivista Musicale Italiana”, Anno XVI, n. 2, aprile 1909, pp. 400-412. L’autore ribadì il suo punto di vista in Telepatia musicale? Sempre a proposito dell’“Elektra” di Richard Strauss, “Rivista Musicale Italiana”, Anno XVI, n. 3, luglio 1909, pp. 632-659. Il caso Cassandra è stato più recentemente, e a più riprese, rispolverato dalle indagini di Marco Iannelli: si ricordi almeno Il Caso Cassandra – Vittorio Gnecchi, una storia del Novecento, Bietti, Brescia, 2004.

5 Se ne veda la documentata (benché un poco piemontesemente pedantesca) recensione a firmaGiorgio Rampone su “Musica” n. 309, settembre 2019.

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Meno delle personali antipatie e delle critiche mosse a chicchessia si comprendono le speranze di rivoluzioni formali da Balilla riposte in Elgar – che quell’anno aveva oltretutto sfornato solo pomposi lavori ufficiali per l’incorona-zione di Giorgio V (22 giugno 1911), tra i quali l’Imperial Masque “The Crown of India”, ed era reduce da due Sinfonie e un Concerto per violino di cui tutto si potrà dire salvo che fossero innovativi – e in Sibelius: quest’ultimo, almeno si mostra interessante per le attenzioni al folklore nazionale che il musicista finlan-dese riversava nelle sue opere, anche se più per le tematiche affrontate che per il ricorso ad un vero e proprio patrimonio musicale popolare.

Può semmai un poco stupire la totale mancanza d’attenzione di Balilla per Prokof’ev, all’epoca non lontano – quanto a stile compositivo – dalle correnti artistiche d’avanguardia facenti capo soprattutto a Kandinskij o a Chagall (trovo facilmente paragonabili agli stili di questi due pittori, coloratissimi, superficial-mente sghembi ma solidamente strutturati nella forma e nella sostanza di ciò che rappresentano, sia il Primo Concerto per pianoforte che la Seconda Sonata,entrambi del 1912), ma si sa che Sergej Sergeevič era un tipo prudente e non amava esporsi troppo con dichiarazioni di principio o adesioni potenzialmente pericolose.6

Ma in Italia, intanto, cosa si faceva, quanto a musica? Tra i giovani, Respighi continuava ad ondeggiar soavemente tra la sua musa lirica crepuscolare (Aretusada Shelley, 1911, seconda serie di Sei Liriche, 1912) e la riattualizzazione degli antichi, realizzando il basso cifrato di cinque Antiche Cantate d’Amore(1912); Casella, dopo un’esecuzione parigina della sua Seconda Sinfonia (23 aprile 1909), che egli stesso riconosce debitrice di Mahler e Strauss come di Rimskij e di Balakirev (che a me pare sia un po’ come mettere il rosolio nello stufato, ma dovrei prima ascoltar l’opera) e che non avrebbe dovuto dispiacere al Pratella, se s’accetta il giudizio espresso da Marcel Orban su Le courrier musical – secondo il quale, Casella «in questo lungo e fragoroso poema sinfo-nico che intitola Seconda Sinfonia… abusa delle percussioni e degli ottoni, una sorta di processione elefantiaca e dissonante dove tutti gli strumenti urlano senza quasi respirare, una sorta di apoteosi del rumore che lascia l’ascoltatore incredulo e assordato. Perché chiamare con il nobile nome di sinfonia la musica a programma più fragorosa che mi sia stato dato di ascoltare fino ad oggi? Il Maestro Casella è un più che rimarchevole orchestratore ed un abile musicista, ma mi pare coltivi un amore veramente esagerato per lo stile Rapsodia-Pot-

6 Perdipiù, Prokof’ev s’era già scontrato con la censura del Conservatorio di Pietroburgo che, dopo averla accettata, aveva rifiutato d’allestire la sua prima opera, Maddalena – derivata da A Florentine Tragedy di Oscar Wilde, in anticipo di cinque anni sulla più fortunata versione realizzata da Zemlinsky (Stoccarda, 1917) —, secondo il compositore perché il libretto aveva troppe sfumature balmontiane: e Konstantin Bal’mont – poeta simbolista rimasto anche in séguito caro al musicista ucraino che ne musicò i versi in più occasioni, e specialmente nei Cinque Canti op. 36, pubblicati nel 1923 – era all’epoca (1912) esule volontario in Francia, in quanto malvisto in patria a causa delle sue simpatie per la rivoluzione del 1905.

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Pourri nella sua accezione più volgare»:7 mica lontani dalla noise music dei fratelli Russolo e del loro intonarumori! —; Casella, dicevo, vivacchia scribac-chiando cullanti Berceuses o Barcarole per il piano ed esercitandosi, talvolta con Ravel, à la manière de…

Pizzetti, lui sì, invece, nel 1912 finisce di scrivere la Fedra, con D’Annunzio, ma per vederla rappresentata dovrà aspettare fino al 20 marzo 1915, quando a nessuno poteva ormai interessare più di tanto, visto quel che s’andava preparan-dosi, ineluttabilmente anche per l’Italia (si trattava solo di scegliere, ancora, da che parte stare), sui tavoli della diplomazia belligerante.

Anche i grandi nemici di Pratella sembrano guardarsi un poco d’attorno, in attesa di capir la direzione del vento; così Giordano e Puccini, odiatissimi – le loro opere «basse, rachitiche e volgari» erano imposte «quali modelli da non doversi superare ed insuperabili» dai «grandi editori-mercanti [che] imperano», assegnando «limiti commerciali alle forme melodrammatiche» – tacciono da due anni (Mese mariano e Fanciulla del West, 1910) e sarebbero rimasti silenti finoal 1915 (Madame Sans-Gêne al Metropolitan) e fino alla incerta, affascinante e sfuggente Rondine del ’17 (a Montecarlo). Mascagni – che essendo stato parte della giurìa proclamante vincitrice la citata opera del Pratella era persona grata al ‘manifestante’8 —, anch’esso sembra prendersi un anno sabbatico, tra la neo-romantica Isabeau (1911) e la dannunziana Parisina (1913).9

Questo, a grandi linee, il panorama storico, artistico e musicale nel quale Ruggero Leoncavallo s’inserisce coi suoi Zingari. Anche lui riaffacciandosi alla scena teatrale dopo un biennale silenzio seguìto all’insuccesso romano della sua precedente opera, Maià. La cronaca narra che gli Zingari ebbero un successo, generoso ma non duraturo, a Londra ove furono premiered, mentre in Italia vennero accolti da critiche aspre che mal tolleravano il «doppione inutile dei Pagliacci»,10 come fu scritto. In effetti, si tende in genere a rilevare (in maniera

7 A onor del vero non erano mancate critiche più benevole e la Sinfonia piacque a Willem Mengelberg che volle riproporla, l’anno dopo, al Concertgebouw; ma se l’opera, alla fine, rimase inedita in un cassetto dell’autore, forse il motivo l’aveva visto lui stesso.

8 «Unico Pietro Mascagni, creatura di editore, ha avuto anima e potere di ribellarsi a tradizioni d’arte, a editori, a pubblico ingannato e viziato. Egli, con l’esempio personale, primo e solo in Italia, ha svelato le vergogne dei monopolii editoriali e la venalità della critica, ed ha affrettata l’ora della nostra liberazione dallo czarismo mercantile e dilettantesco nella musica. – Con molta genialità Pietro Mascagni ha avuto dei veri tentativi d’innovazione nella parte armonica e nella parte lirica del melodramma, pur non giungendo ancora a liberarsi dalle forme tradizionali».

9 E certo l’aver voluto concepire, per l’Isabeau, «un tipo di strumentale che lascerà a distanza astronomica tutti i Debussy e gli Strauss di questo mondo», come lo stesso Sor Pietro scrisse senza false modestie a Illica, doveva essergli costato non poca fatica.

10 Nemmeno il tema e la sua fonte letteraria (la novella in versi Cygany di Aleksandr Sergeevič Puškin) erano nuovi per il teatro d’opera. A parte il saggio rachmaninoviano di Aleko (1893), all’epoca conosciuto solo al pubblico delle uniche due rappresentazioni dell’opera al Bol’šoj e al teatro di Kiev, la novella puskiniana – concosciuta in Italia fin dalla pubblicazione dei Racconti poetici di Alessandro Puschin, poeta russo (Firenze, Felice Le Monnier, 1856) nella traduzione di Luigi Delâtre – era stata alla base di almeno altre due trasposizioni operistiche: Gli zingari, melodramma in un atto con musica di Vincenzo Sacchi su libretto di Janthe (rappresentato al Teatro dal Verme di Milano nel Settembre 1899) e La violinata, scene zingaresche in due atti su libretto della famigerata Anita Zappa, per le musiche di Andrea Ferretto. Ne ho trovata attestata una rappresentazione a Bologna, presso il Teatro Verdi, il 13 Maggio 1909.

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più sensibile e intelligente d’altri il francese Yonel Buldrini nella bella recen-sione a un’edizione discografica dell’opera)11 che, pur non mancando spunti ove si riconosce la firma pregiata dell’autore, l’opera mostra soprattutto l’impiego di “ricette” comuni e ben note, d’effetto garantito: solo tratto veramente originale essendo l’impiego, nella Serenata del baritono nel secondo episodio, d’uno stru-mento inusuale come il controviolino (una sorta di ‘violino da gamba’ che trovò nella partitura leoncavalliana l’unica testimonianza della sua esistenza meteorica e unsuccessfull).

Forse il generoso creatore del “verismo” musicale – che non era affatto, anche culturalmente, “il più volgare di tutti”, come pretendeva il D’Amico, la cui bavosa iracondia lo portò una volta di più a mancar la tazza col getto —, sentì che il tempus praesens non era più suo, che la sua vena melodiosa, diretta, genuina e senza orpelli non era più in linea con gli intellettualismi che da ogni parte movevano alla conquista del melodramma, con ogni mezzo tentandolo a nuove esperienze. Sta di fatto che gli Zingari furono la sua ultima opera, fino al tentativo estremo e, forse, non del tutto convinto (tanto che rimase incompiuto), di riallinearsi ai “classicismi dannunziani” di moda con l’Edipo Re12 (andato in scena postumo nel completamento di Giovanni Pennacchio). Dopo gli Zingari il Maestro si dedicò, fin da quello stesso 1912 con La reginetta delle rose, a scri-vere operette, intraprendendo una nuova e piuttosto fortunata carriera (quattro successi in quattro anni, più altri tre titoli rappresentati postumi, ma in breve volger di tempo), seppur, inevitabilmente, meno “gloriosa” della precedente.

Basta questo, per me, ossia l’aver compreso – con intelligenza e umiltà – che le proprie capacità inventive non s’erano esaurite ma dovevano attestarsi – come si sentì in quegli anni guerreschi mille volte ripetere – su posizioni più favore-voli, a fare degli Zingari più che uno stanco rimasticamento, un atto di fedeltà a se stesso, quale congedo sincero (e certo non senza malinconie) da un mondo al quale il musicista aveva dato il suo contributo incancellabile, non solo coi Pagliacci.

Ma le nuove strade della musica – e proprio in quel 1912 apparentemente anonimo – erano ormai tracciate altrove e su sentieri non più percorribili da Leoncavallo, come del resto da quasi tutti i musicisti di casa nostra, tra lo ‘Spre-chgesang’ espressionista del Pierrot lunaire (‘prima’ a Berlino il 16 ottobre) e i cinque minuti stravolti e sconvolgenti di Zvezdolikij, ‘armonia platonica’ – fu Debussy, dedicatario del lavoro, a paragonare questa musica, ch’egli stesso definìstraordinaria, all’armonia delle sfere teorizzata da Platone – su versi simbolisti (del ‘prokofieviano’ Balmont), opera dello Stravinsky più astratto, immaginosa-

11 https://www.forumopera.com/v1/critiques/leoncavallo_zingari.htm (accesso 29.IX.2019, h. 13.23).

12 Il Mameli, rappresentato nel 1916 a Genova, con evidente e perfin dichiarata intenzione naziona-lista di sostegno ai combattenti del Carso (lavoro che qualcuno annovera tra le operette, altri tra le opere vere e proprie), è in realtà una lunga cantata drammatica che – non avendo per forza di cose nessuna pretesa d’originalità o novità di stile – mostra ancora intatta la sapienza drammaturgica e la veracità dell’ispirazione mai banale del musicista napoletano.

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mente iperuranio, deformante e meno afferrabile che si possa immaginare. E prima della scandalo preannunciato (e cercato) del Sacre.

2. I boemi del cielIl critico che abbiamo appena letto, con la sua ricchezza e quasi sovrabbon-

danza di riferimenti storici ai quali non avremmo magari in prima istanza pensato, ci pone al centro di una quistione che probabilmente va ben oltre, e insieme ben di sotto, all’estrosissimo musicista dei Pagliacci. Nella mia attuale condizione di convalescente, mi azzardo ad apporre appena poche chiavi ancor meno risolutive e che tuttavia potrebbero perfino squadernarci certe minori verità sia su Leonca-vallo, sia sulla misura sempre sfuggente ai critici del valore reale della sua opera. Va da sé che pare istantemente da respingersi la violenza del rifiuto del solito irritabilissimo Fedele D’Amico: Leoncavallo, il più volgare di tutti. È necessario distinguere la portata brutale di un argomento, dalla brutalità delle forme nelle quali esso si esprime. I Pagliacci sono in realtà opera composita e stratificata, finda quel prologo, sùbito entrato nella leggenda, che con innegabile carica umana intende primamente rifarsi all’allora celebre prologo del Cossa per propagare un teatro di prosa distinto dalla maniera floreale e quasi, nello stesso modello dannunziano, anti-dannunziana. È un modo diverso, ma non meno gagliardo, di anticipare la stessa Cena delle beffe. Che del resto i Pagliacci si prestassero a ipervalutazioni come quella, molto più tarda, di Leibowitz, resta agli atti, con ogni dubbio suscitabile da Leoncavallo.

Ma vorrei semplicemente investire la materia degli Zingari. Qui la critica ha avuto buon gioco a segnalare una patente e quasi patetica rinuncia del musicista all’espressione, limitandosi a una stanca ripresa del primiero capolavoro. Non è ovvio orientarsi, dall’esterno, su come nel ventennale dei Pagliacci Leoncavallo decise di mettere in musica la ormai sostanzialmente fuori pista novella in versi di Puškin. Né molto si ricava sulle sue relazioni (per allora importanti) coi due libret-tisti dell’opera, il giornalista Guglielmo Emanuel, allora corrispondente da Londra per ‘Il Corriere della Sera’, e il produttivo e variopinto poeta Enrico Cavacchioli. Cavacchioli fu assunto sotto le bandiere di Marinetti prima ancora della sua fase,

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più storicamente segnalata, di militanza futurista. Gli Zingari, nel loro aperto e perfino sfacciato lirismo, appartengono ancora alla sua prima ispirazione che attin-geva naturalmente al più diffuso D’Annunzio lirico (sostanzialmente prima delle Laudi), al campionario naturalistico del Pascoli, e a una passione pre-fumettistica attinta a scrittori allora di primo rango (come bestsellers), quali Guido Da Verona. Nemmeno negli importanti atti leoncavalliani promossi da Casa Sonzogno13 si rintracciano notizie sperabili sulla collaborazione fra il musicista (del resto non digiuno al tutto di poesia) e i due giornalisti sunnominati. Ragioni interne per l’opzione Zingari riescono tuttavia anche più illuminanti, in quanto partecipi della poetica più intima di Leoncavallo. In fondo potremmo cavarcela con una battuta. Zingari è uno specchio dei Pagliacci, di cui protagonista non è tanto l’ormai proverbiale riso/pianto di Canio, quanto il desiderio lirico, fantastico, limpido insieme e come uterino, della zingara Eleana. Si ricordi Nedda: “Ma i boemi – cioè gli zingari – del ciel seguon l’arcano poter che li sospinge…”. Alle origini, per tutte queste donne che la vita non riesce ad appagare convertendosi in desi-derio di catastrofe e morte, sta ovviamente Carmen (“Libre elle est née et libre elle mourra!”), ma una forte novità attingibile in Puškin è quella della identificazionedella libertà, della joie de vivre e della primavera. Soprattutto l’incipit e la prima parte dell’opera tardiva del musicista napoletano sono, più dei Pagliacci (segna-tamente nel fortunato coro delle campane, con greggi e pastori che attraversano il villaggio), quasi inondati di spazî aperti al vento, a voci lontane, a richiami, a una sorta di Sagra della Primavera spogliata di ogni mito o ritualità, ma gonfia di lirismo e di sconfinate potenzialità come un gran getto di sangue.

La realtà a me pare che risieda proprio nel mutamento di valenza di Nedda. A nessuno sfugge che nella voluttuosa e quasi primaverile ballata della sacrifi-cata moglie di Canio, quasi danzino gli spiriti di una volontà di rinascita che, sul momento, è ovviamente riparata dalle furie francamente otellesche di Canio Pagliaccio. ‘Ridi, Pagliaccio’ prevarica sulla melodiosissima fuga verso il ‘lassù’, sulle orme dei (si badi bene) “boemi – ossia zingari – del ciel”. Non mi sento di aggiungere altro, ma fra tanti nomi più illustri o oggi più rivalutati dalle storie, vorrei non sfuggisse che gli Zingari così ricevono un potente spostamento di peso. L’interno della navicella non fa che rovesciarsi da sinistra a destra. Agli ex-Otelli restava libero il campo dei Folco e dei Piccoli Marat, magari recupe-rando il sogno (fra Cossa e lo Heine/Maffei) dell’antico Ratcliff.

Nella mia attuale condizione di iperacusia da ammalato che cerca di guarire, il francesismo di Marinetti o l’imperialismo della Voce, il fracasso e i crolli che vorrebbero essere magici in un Balilla Pratella o l’idea che la storia dell’opera, contro l’intero Ottocento, sia tutta da essere riscritta, casomai in ‘montever-diano’, percepisco una sorta di terremoto in preparazione, che poi donerà ben altri romori.

Marzio e Bernardo Pieri

13 Tendenze della musica teatrale italiana all’inizio del Novecento. Atti del 4° Convegno Interna-zionale “Ruggero Leoncavallo nel suo tempo”, a cura di Lorenza Guiot e Jürgen Maehder, Milano 2005.

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Due per Uno e Tre in DueLe differenti drammaturgie negli universi musicali di Stockhausen e Liberovici

di Bernardo Pieri

A Reggio Emilia non c’è un teatro, ci sono “i Teatri”, tutti insistenti nel breve tratto di due piazze contigue, che a Reggio sono vulgariter unite nel nome di ‘piazza dei teatri’, a certificarne la presenza. È, in effetti, quella dei teatri una realtà tanto addentro alla carne e allo spirito d’una città stata tra le ultime ad arrendersi alla dissoluzione intellettuale dell’intelligenza perpetuata in Italia (alla fine, però, ha ceduto – e di schianto – anche lei), che il semplice dato è diventato il nome stesso della fondazione che li gestisce. Il maggiore di essi, il neoclassico e bellissimo Teatro Municipale, intitolato oggi a Romolo Valli, costruito apposta “per l’opera” a metà Ottocento su disegno di Cesare Costa, è guardato su un fianco dal Teatro Ariosto, amatissimo dai reggiani, ricostruzione tardo-ottocentesca del settecentesco Teatro della Cittadella, distrutto nel 1851 da un incendio, e originariamente progettato, nella sua nuova veste, come poli-teama, destinato cioè a spettacoli varii, di prosa ma anche esibizioni equestri, per le quali era stata appositamente disegnata la cavea semicircolare. Lì accosto sorge la “Cavallerizza”, antico maneggio militare riconvertito alla metà degli Anni Ottanta in spazio teatrale a geometria variabile, particolarmente adatto ad ospitare spettacoli sperimentali.

Sul palcoscenico del Municipale (dove erano seduti anche gli spettatori) e sulla scena della Cavallerizza, lo scorso 19 e 20 ottobre 2019 si è assistito a due rappresentazioni del Festival Aperto (annuale appuntamento reggiano con la contemporaneità dell’arte nelle sue svariate manifestazioni) che, riproponendo due lavori di quello che a tutt’oggi rimane forse il ‘Gigante della Montagna’ delle avanguardie che hanno definito l’arte musicale nell’ultimo scorcio di Ventesimo secolo, ossia Karlheinz Stockhausen, accosto ad una prima nazionale, Trilogy in Two di Andrea Liberovici, hanno rimesso in discussione i concetti stessi di avanguardia, di modernità, di opera.

Son passati giusto quarant’anni da quando Armando Gentilucci pubblicò il suo Oltre l’avanguardia. Premonizione, desiderio, ipotesi, intuizione, avverti-mento, necessità? Fosse quel che fosse nella mente di Gentilucci, oggi ci siamo: ma ciò che il lungimirante musicista esponeva con acutezza ma anche con l’equi-librio della sua intelligenza, ha dovuto affrontare un percorso lungo e tortuoso prima di potersi realizzare. Soprattutto perché, sulle prime, l’indicazione ‘oltre l’avanguardia’ fu usata da molti (da troppi) nel senso stesso in cui era stato letto – ad esempio dal visconte de Bonald – l’andare ‘oltre la Rivoluzione’ (francese), non appena cominciò a spirare un venticello di Reazione: i principî illumini-

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stici sono falliti – si disse –, gli ideali della rivoluzione erano ingannevoli, false promessefinalmente venute alla luce come tali ed implose; si deve, perciò, tornare al bel tempo antico, all’autorità dei regi e della religione (cattolica): questo, tra i reazionarii, significava andare oltre. Allo stesso modo del gambero, molti musi-cisti (o sé pretendenti tali) ricuperarono sic et simpliciter formule d’antan (ri)proponendo un’infinita schiera di “neo-ismi”, tutti nati morti. Altri svicolarono nel facile cross-over, volgare, bieco e senza speranza di futuro. Eppure…

Eppure, anche da quel fin troppo furbesco pastrocchio c’è chi è stato poi capace di cavar l’originalità delle idee. Così come l’avanguardia, data a più riprese per spacciata, continua a mostrare, con buona pace delle anime brutte (penso a un chitarrista frustrato che vomitò pubblicamente la sua ripugnante soddisfazione per la morte – “troppo tardi”, scrisse – di Boulez), vólti molteplici di vitalità: il molteplice, ancora un ‘invito’ gentilucciano, sempre trascurato dai lettori superficiali di quello scritto capitale della modernità in musica.

E questa vitalità la si coglie non solo quando si ascolta – ancora oggi – il genio di Stockhausen: la retrospettiva bolognese di due anni fa (“Stockhausen, dieci anni dopo”, Bologna Festival 2017), proponendo all’ascolto gemme antiche e più recenti, mostrò apertamente la perdurante attualità del musicista Sirioastrale, e così anche – in modi e misure diverse – le due opere sue ascoltate ora a Reggio. Spiral è uno di quei lavori in cui Stockhausen lasciava ampio spazio di libertà ricreatrice all’esecutore, inventando un nuovo tipo di virtuoso, non più alla Liszte alla Kreisler sfavillanti sui tasti del piano o lungo le corde dell’arco, ma uno strambo personaggio armato di cursori e di levette, di computer e di transistor, che smanetta rimbalzando di qua e di là a modificare suoni attraverso i cosid-detti live electronics o su nastri preregistrati o captando onde radio su eteree frequenze. Certo, il Divino Maestro qui sembra lasciarsi un poco prendere la mano dalla vena sperimentatrice tirandola un po’ per le lunghe, vittima d’una qualche sindrome wagnerista alla quale andava, di tanto in tanto, soggetto; ragion per cui questa spirale soffre d’una certa prolissità (e non è dubbio che l’elettro-nica come l’usa, ad esempio, Andrea Liberovici oggi – lo vedremo qui, poco avanti – dia ben altre soddisfazioni d’ascolto, nella sua molto più evoluta e varia capacità d’impiego, ma la sperimentazione comporta di suo qualche concessione all’insuccesso o all’approssimazione). E ancora il Kathinkas Gesang – estratto da Samstag aus Licht –, che alla già nota gestualità dei suoni unisce una per allora più nuova musica del corpo (un poco rigido nelle movenze, non sempre sciolte come gatto vorrebbe, della brava flautista Faoro, attrice a Reggio), l’azione del quale ‘produce’ musica non meno di quanto fa il flauto sonato: era il mistero diStockhausen, che rendeva ‘musica’ tutto ciò che faceva. Che è diverso dal fare musica con tutto ciò che s’impiega. Ed è proprio in questo mistero, e certo non è sfuggito ai musicisti più consapevoli delle nuove generazioni, che l’hanno inda-gato, nuovamente sperimentato e riapplicato ciascuno a modo suo, che si stringe il legame forte tra l’avanguardia ed il suo ‘oltre’.

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A me la cosa è parsa evidente assistendo alla superba messa in scena di Trilogy in Two di Andrea Liberovici (protagonista la giustamente celebre voca-lista Helga Davis e l’ottimo Schallfeld Ensemble diretto comme il faut da Sara Càneva), che lo stesso autore ha definito “opera mosaico”, in riferimento al suo proprio modo di costruire un lavoro, fatto di tasselli in sé non necessariamente omogenei che compongono un insieme complessivo nel quale le singole parti, pur non dissolvendosi, perdono la loro specificità per farsi ‘tutto’. Con Trilogy in Two, Liberovici (un musicista ‘senza gabbie’) s’è dichiaratamente proposto di riconiare i «passaggi del rinnovamento musicale e drammaturgico del 900» (così la locandina dello spettacolo), attraverso un’indagine drammaturgica su tre bellezze in conflitto fra loro: «la bellezza effimera delle illusioni, la bellezza profonda della solidarietà, la bellezza antica dell’ascolto. Personificate rispetti-vamente da tre archetipi europei: Faust come personaggio, Florence Nightingale (fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna) come persona, e Venezia come architettura dell’ascolto. L’egoismo del primo, l’attenzione verso l’altro della seconda (contraltare ai nuovi razzismi), la sintesi di una bellezza ogget-tiva e incontestabile della città lagunare, che preserva nella sua architettura fatta di acqua e mosaici l’attitudine all’ascolto e all’incontro», secondo le parole dell’Autore in persona.

Il sentimento primo che si prova ad ascoltare questa straordinaria polifonia a voce sola è quello d’una lucida, non costringibile libertà mentale, unico rifiutopalese dell’autore essendo quello dell’esclusione a priori.

Il mosaico – che non è “(banale) collage”, s’affretta a puntualizzare Angelo Foletto nell’esemplare saggio di sala – è servito. Il suo collante è l’ironia, che nel testo, nelle immagini, nella musica di Liberovici sorregge ed accompagna l’impegno inaggirabile del contenuto (l’art pour l’art, per lui, non ha senso) – l’opera, sostiene l’artista, «è canto e specchiamento del proprio tempo; non può esistere… priva di una riflessione su ciò che succede al di fuori dei teatri» – ma fa piazza pulita d’ogni retorica. Liberovici non si sottrae, dunque, alla presa di posizione ‘politica’, tanto che il secondo quadro della trilogia è un omaggio allegorico a Florence Nightingale, «esempio di solidarismo verso l’altro». Pochi minuti d’immobilizzazione con cui l’autore esplicita il suo schifo per l’attuale tendenza agli identitarismi nazionalisti e populisti forieri dei nuovi razzismi (parole sue, s’è visto), senza mai scadere in strillate grida d’orrore, la platea-lità delle quali sarebbe sonata assai sospetta: vi è solo (ma proprio questo solodà la misura dell’arte di Liberovici) una straordinaria coerenza di linea. Con Liberovici non si fa più questione di genere, di “bandiera” o d’etichetta, si va dritti al sodo della sostanza; una sostanza che si forma dallo sporco di tutti i materiali reperibili: “sporcarsi le mani” è una necessità prima per Liberovici, e lui stesso afferma di voler lavorare «con elementi ‘bassi’ e ‘sporchi’» (diamine, ero così contento della mia ‘intuizione’ dello sporco, che averlo ritrovato dichia-rato apertis verbis nel libretto mi ha fatto venire il broncio, come a chi s’è fatto

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beccar con le mani nella nutella).Trilogy in Two è espressamente messo in relazione – da Liberovici e da

Foletto – con Four Saints in Three Acts di Virgil Thomson, non solo per l’asso-nanza – let’s say – ‘numerica’ dei titoli, ma per la stessa affinità del libretto con quello di Gertrude Stein, più attento alla giustapposizione di parole per ragioni di suono (delle parole stesse), emotive, suggestive, onomatopeiche, allusive, che mirato alla confezione d’una story. E, naturalmente, ritroviamo in tutti gli autori in questione il fondamento ‘ironico’ del lavoro (e notiamo che Robert Wilson, voce digitalizzata del “narrator in the dark” nel lavoro di Liberovici, è responsa-bile di famosi allestimenti scenici dell’opera di Thomson). Ma Thomson e la Stein sono, a parer mio, presenti nella mente di Liberovici anche con un altro (capo)lavoro d’ironia e di “unorthodox sense” del testo: il graffiante CapitalCapitals, che ritroviamo ‘citato’ nel “Quartetto del fanculo” della Trilogy. La differenza col pezzo di Thomson sta nel trattamento delle voci, che nell’Ameri-cano non si sovrammettono mai, mentre nell’a cappella della Trilogy vanno, invece, a canone: un fuck off canonico, dunque? Certo no; però ricordiamo che se qui si parla liberamente (e s’intende senza velleità di scandalo, nella maniera più naturale, come dev’essere per parole d’uso corrente) di ‘figa’ e di ‘cazzo’, il Busenello (quasi nomen omen) non si peritò di lodar le poppe di Poppea – altra onomatopea, o gioco-di-parle gertrudsteiniano, che piacerebbe, credo, a Libero-vici – per direttissima («Come dolci, signor, come soavi/ rïuscirono a te la notte andata/ […] di questo seno i pomi ?/ – Mertan le mamme tue più dolci nomi!»). E così siam venuti al nodo: l’opera “mosaico” di Liberovici è – nella sua novità – un ritorno alle origini, quando il termine ‘opera’ sonava come plurale del latino ‘opus’, a significar ‘opera di molte opere’, col ché s’intendeva il confluire di tutte le arti in quell’unico “& maraviglioso” spettacolo di sublimi artificî, ove la musica era solo uno dei tanti. Ecco il mosaico, esempio quasi perfetto di ‘molte-plice’. Ed ecco l’opera nuova, oltre l’avanguardia.

Reggio Emilia, Festival Aperto 2019Palcoscenico del Teatro Municipale “Romolo Valli”, 19 ottobre. Karlheinz Stockhausen, Spiral per solista e radio a onde corte ribbon controller ed elettronica dal vivo.

Teatro della Cavallerizza, 20 ottobreAndrea Liberovici, Trilogy in Two (opera mosaico) con Helga Davis, voci registrate Robert Wilson e Ennio Ranaboldo Schallfeld Ensemble, direttore Sara Càneva luci Davide Riccardi, ingegnere del suono Lorenzo Patellani, video e editing Andrea Liberovici

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Tema sulla variazioneL’arte di rimescolar le carte in musica da Schubert a Pat Metheny, e oltre (con un’appendice melanconica)

di Bernardo Pieri

L’idea del variare sta alla base stessa della musica come arte.A parte alcune figure mitologiche dell’Antica Grecia, tali il tracio cantore

Orfeo o il citarista divino Anfione, di cui gran vicende si narrano ma de’ quali nulla ci rimane (sennò la mitologia si sarebbe fatta storia, ma c’è ancora chi lo nega), è noto che i primi musicisti a lasciar traccia scritta di sé furono gli “impie-gati” di Notre-Dame nella seconda metà del XII secolo: tra questi, ancor oggi piuttosto famosi il Magister Leoninus, “optimus organista”, e il suo successore magister Perotinus magnus (al secolo, Léonin e Pérotin). Il primo si mise a riunire le composizioni musicali della scuola per la messa in un Magnus Liber Organi de Gradali et Antiphonario, che fu poi aggiornato ed ampliato dal secondo. Leonino cominciò con l’aggiungere ad antifone e graduali una voce d’organo supplemen-tare (cosiddetto organum duplum), operazione che segna, di fatto, l’inizio della polifonia; Perotino, poi, nelle sue composizioni, aggiunse alla seconda una terza e perfino una quarta voce, meritandosi così l’appellativo di optimus discantor:il suo Viderunt omnes a quattro voci è la prima opera musicale di cui sia stata tramandata la data della prima esecuzione pubblica, nella cattedrale parigina di Notre Dame la sera di Natale 1198.

La musica era nata come arte autonoma, ed i suoi compositori s’erano final-mente affrancati dall’anonimato del semplice addetto al servizio liturgico o dell’intrattenitore ambulante.

Sull’esempio degli organa di Notre Dame, presto si sviluppò il mottetto, ossia una composizione vocale nella quale alla voce principale se ne aggiungono una o due altre che cantano testi differenti dal tenor, invitando in tal modo a sperimentare nuove tecniche compositive per gestire la complessità strutturale del lavoro e consentire la non facile comprensione del testo: tanto che si vedrà in questo la nascita di una Ars Nova Musicae (da distinguersi da quella Antiqua dei sù ricordati maestri), teorizzata da Philippe de Vitry (1291-1361), che ne fu uno dei maggiori rappresentanti insieme a Guillaume de Machault (1300-1377), al quale si deve la famosa Messe de Notre-Dame, prima opera liturgica conosciuta scritta da una sola mano.

Non c’è bisogno di dire che le spesse mura delle chiese non eran bastate a tenervi rinchiusa la nuova arte, sicché, mentre Adam de la Halle – il “gobbo d’Arras” (1237-1288), una sorta di Rigoletto avanti lettera, che servì come poeta e cantore il conte d’Artois e poi Carlo d’Angiò – rappresentava i primi saggi di quella che tre secoli dopo, evolvendosi, sarebbe diventata l’opera lirica, si

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sviluppava la caccia, sorta di madrigale precursore della fuga (che era eminen-temente strumentale, ma si sa: dove c’è un cacciatore che insegue, c’è una preda che fugge), nel quale il tenor non cantava un testo ma solo supportava l’armonia, mentre le altre due voci si inseguivano con effetti d’eco, ripetizioni di note, intrecci, imitazioni ravvicinate.

Il Quattrocento – secolo dell’Umanesimo letterario iniziato sotto il segno del Grande Scisma ecclesiastico, la formale composizione del quale, nel Concilio di Costanza (1414-18), non poté evitare la fine irreversibile delle certezze medie-vali, franate sotto l’umana vanità del sedicente infallibile Vicario di Cristo e sotto i colpi delle nuove monarchie nazionali che sbriciolarono l’impero, non più romano da quasi mill’anni, se non nell’ideale che ancora lo sorreggeva al principio di quel secolo scriminante – portò la ‘speculazione’ contrappuntistica a raffina-tezze arditissime, come emerge, ad esempio, dalle trame composite di Guillaume Dufay (1397c. – 1474), forse il più rappresentativo musicista dell’epoca. Chi a cotanti artificî non cedette, metti ad esempio Gilles Binchois (c.1400–1460) che mantenne nelle proprie composizioni una linearità quasi ascetica (come è stato scritto), fu ben presto oggetto di diminuzioni. Che non eran motti di scherno ma l’arte d’un nuovo virtuosismo nel sonar gl’istromenti musicali, per primo teorizzata da Sylvestro Ganassi (1492-1565), suggestivamente nato l’anno della scoperta colombiana del Nuovo Mondo, il quale Sylvestro, col trattato La Fonte-gara, apriva a sua volta la via a un mondo nuovo della musica.

Inutile aggiungere, a questo punto, come alle variazioni su un tema siano legati i più rappresentativi capolavori della musica moderna, dalle “Goldberg” di Giovanni Sebastiano – la stessa Kunst der Fuge, col suo séguito di canoni che s’inversano o si cancrizzano, o si moltiplicano e di contrappunti bestiali (Contra-ponto bestiale a la mente è il titolo d’una celebre parodia musicata dal maestro dello spasso musicale, don Adriano Banchieri) può considerarsi un inno sacro alla variazione –, alle “Diabelli” di Beethoven e degli altri cinquanta che lo affianca-rono nella celebre pubblicazione dell’editore Anton Diabelli, alle monumentali Händel-Variationen di Brahms, ai diversi e severissimi cicli di Max Reger, al Don Quixote di Strauss, variazioni fantastiche sopra un tema cavalleresco.

A The Art of Variation s’intitola un recente e bel disco del pianista Massimo Giuseppe Bianchi, il quale arricchisce il tema di intriganti aspettative con l’ar-ticolare ulteriormente le sue variazioni su un solo compositore, attorno al quale ruota tutto il programma, ossia Franz Schubert. Introdotto dal medesimo Valzerdi Diabelli che ispirò le celebri 33 Veränderungen beethoveniane e dalla Varia-tion che Schubert – uno dei cinquanta+1 campioni iscritti all’agone – compose su quello, l’elaborato di Bianchi si svolge attraverso percorsi schubertiani origi-nali (le 10 Variazioni in fa o il terzo Impromptu della seconda raccolta, composto per l’appunto in forma di variazioni) o reimmaginati da altri: nella forma della trascrizione da Tausig (l’Andantino varié originariamente per pianoforte a 4 mani) o dell’ispirazione da un tema del compositore viennese. Ascoltiamo così

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le variazioni sur une valse favorite di Carl Czerny, allievo di Beethoven, quelle (tema ancora un Valzer) di Helmut Lachenmann e le gigantesche Quarantaquattro(inquadrate da una Passacaglia e una Fuga) realizzate da Leopold Godowsky su l’inizio dell’Incompiuta. Sono un compositore-pianista contemporaneo di Schubert, Czerny (nato nel 1791, sei anni prima del Grande di Lichtenthal), un pianista-compositore del pieno Ottocento Romantico (Tausig, 1941-1971) ed un altro vissuto a cavaliere di due secoli (1870-1938), Godowsky (polacco-tedesco il primo, russo-lituano, poi naturalizzato americano, il secondo), infine uno dei massimi esponenti delle avanguardie novecentesche che hanno determinato il corso della musica negli ultimi settant’anni, Lachenmann (nato nel 1935).

Basterebbe questo a mostrare come Schubert racchiuda segreti capaci di ispi-rare le estetiche e gli artisti più disparati per epoca, per estrazione e per stile. Ma più interessa scoprire come l’intima melanconia früh-Romantik di Schubert, la sua classica semplicità formale che non cessa di far pensare alle bianco-dorate architetture del tardo rococò o del neo-classicismo viennese – esterna quadratura delle strutture, internamente mosse nella traslucida sovrabbondanza decorativa –, possa dar vita al barocco delirante (parole dello stesso Bianchi) di Godowsky o piegarsi a una sofisticata poesia dei timbri, come nella rivisitazione lachen-manniana.

Bianchi è neo-classico nel tocco sempre nitido, nella lucente contenutezza cromatica dei suoni, moderno nella vitalità mai illanguidente delle letture, pronte a cogliere le sfumature stilistiche di ciascun musicista, sì che il disco è una continua variazione su variazioni, quasi una matrëška a rovescio, che dal “seme” apre sulle bambole più grandi, con la sensazione di un’apertura senza fine. Un laico senso del divino e dell’infinito che mi sembra sia una delle più calzanti raffigurazioni di Schubert che si possano proporre.

A un tipo diverso di variazione è ispirato il vivace e intelligente Vis-à-vis(sottotitolato Cello & Piano crossing over) di Mattia Zappa e Ivo Kova: un violoncellista “classico” col pop nel suo dna (Mattia è figlio del poeta cantautore Marco Zappa, uno che piacerebbe al bluesman Clint Eastwood, ma ascoltare anche la sua interpretazione della beatlesiana Eleanor Rigby), e un pianista che, senza nulla trascurare, s’è fatto un nome soprattutto nel campo del jazz, essendo figlio di cantanti d’opera.

Il felice incontro tra Zappa e Kova porta ad esiti molto interessanti che, forse, vanno anche al dilà delle loro intenzioni originali, di riavvicinare due generi di musica – la culta e la ‘popolare’ – che nel corso dei secoli si sono sempre più allontanate l’una dall’altra fino a dividersi i pubblici, i luoghi di fruizione, le tecniche esecutive e le finalità stesse del loro prodursi. Già la tâche originaria non era semplice, come ahimè testimoniano i terrificanti “vincerò!” di Zucchero e simili saccarine, o le improbabili riproposizioni tenorili di Yesterday o di Caruso(ma perché, non era già brutta abbastanza di suo?), ma Kova e Zappa hanno altre stoffe d’artisti e meno si preoccupano di contaminare che di riunire.

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Zappa riesce, arrangiando brani di Pat Metheny, a trasportare sul violoncello la nota inventiva sonora del grande chitarrista, arrotondata senza esagerati turgori nella cantabilità dello strumento ad arco, salva la sprezzatura originaria delle corde pizzicate. Dal canto suo, Ivo Kova provvede quattro suoi pezzi originali di ricca complessità ritmica e grande fascino melodico, capaci di trasportare in una vertigine emotiva anche l’ascoltatore più riottoso (leggi il sottoscritto). Entrambi i musicisti aggiungono un virtuosismo strumentale che è pura gioia, senza mai parere fine a se stesso, brillante ma fedele servo del melos.

Ed è proprio questa combinazione di fattori a ridurre al minimo l’aspetto che a parer mio rimane il punto più debole della musica pop: ossia il non potere fare a meno (o non riuscire a fare a meno) di fondarsi sempre sulla formula ‘melodia con accompagnamento’, e dunque sulla ripetitività dei giri armonici ‘tonali’ (per quanto arditi e non-convenzionali) da gran tempo superati dalla musica altra. Ma se, per i miei gusti, Pat Metheny si conferma soprattutto un mago dello stru-mento, il bellissimo Three views of a secret di Jaco Pastorius o i gioielli di Kova, col loro turbinìo ritmico, coinvolgono in un universo di musica assoluta, abbat-tuto ogni steccato di genere. Si respira un senso di libertà, che tanto più ci è grato quanto più è diventato raro, in musica come in qualsiasi altro negozio umano.

Ed è quello che soprattutto manca ad un altro disco capitatoci tra le mani nei mesi scorsi – ecco l’appendice melanconica –, del quale mi sfuggono i criterî che hanno presieduto alla pubblicazione: a che tipo di pubblico si pensava di rivol-gersi e quale riscontro, anche economico, si attendesse la casa editrice. Quanto i dischi di Zappa&Kova o di Bianchi sono anche nella confezione eleganti, con grafiche di copertina attrattive e, soprattutto The Art of Variation, fantasiose, nel suggerire possibili variazioni su un tema, la grafica del disco Da Vinci è lugubre priva di lusinghe o di seduzioni che richiamino un qualche interesse sull’oggetto. Se uno, poi, guarda la costa del disco lo scambia per il prodotto d’una nota e squalificata etichetta budget price, ‘brillante’ solo nel nome (il layout è iden-tico); il fascicolo illustrativo è pressoché inesistente – mentre Bianchi si scrive da sé impegnate note di presentazione e Vis-à-vis si affida soprattutto a belle fotografie colorate (anche quelle in un bellissimo bianco-e-nero), che sono un valore aggiunto –, con un articolino didascalico impaginato fitto fitto per spara-gnar carta a scàpito del gusto (e della comodità di lettura); saggetto informato ma di tono assai generico, ciò che esclude l’ipotesi d’una stretta connessione tra scrittura ed esecuzione musicale, come qualche label più intelligente si prova ogni tanto a fare. Inoltre il testo è scritto solo in inglese, oltretutto in una tradu-zione dall’italiano anche cattiva, con errori materiali di comprensione del testo: io non son di quei maniaci che si senton offesi se manca la lingua “di Dante” in un booklet, ma che un’etichetta italiana (o mezzo italiana come Da Vinci, la cui base logistica è in Giappone), pubblicando un saggio firmato da una autrice italiana, lo faccia solo in traduzione, mi pare un controsenso. L’esclusività della lingua inglese indica con pochi dubbî che, con la presente pubblicazione, non si

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pensava al pubblico italiano (d’altronde, ormai poco più che mera teoria, quasi un dinosauro nel tardo Cretaceo). Né il programma eseguito – non nuovo e già ampiamente disponibile sul mercato discografico, anche con interpreti d’imme-diata suggestione o nomi di pronto richiamo – appare in sé bastante a prevedere, o anche solo sperare, un appealing internazionale del disco. E una volta che uno si fosse ritrovato il dischetto Da Vinci per le mani e lo avesse inserito nel lettore dei compact disc, non vi potrebbe ascoltare un’interpretazione rivelatrice, particolarmente originale o fondata su un’idea precisa che possa caratterizzarla in un senso piuttosto che in un altro, e dunque tale da imporsi su altre: abbiamo soltanto due esecutori corretti, i quali si fanno notare soprattutto per la prudenza del violinista, che a tratti si direbbe quasi timorosa (l’avessero pari gli auto-mobilisti, la ‘stradale’ rimarrebbe inoccupata!), e per il ritegno espressivo del pianista. Adepto, quest’ultimo, del principio “primo: non rompere”, al quale non fa séguito – a parziale correzione del primo – un ‘principio secondo’: accom-pagna, civilmente (il tappeto sonoro sotto la linea violinistica è sempre ‘giusto’, ma viva quelli che sanno sbagliare!) e impersonalmente, il violinista. Che però tutto è fuorché un mattatore, per poter reggere la ribalta da solo.

La musica è una brutta bestia, per ‘essere’ le serve un intermediario, e per essere anche ‘fatta bene’ bisogna che questi sia fornito di autorevolezza più ancora che di perizia tecnica: innegabile, questa, ai due probi sonatori, ahimè poco forniti, però, quanto al resto. Le note ci son tutte, ma “The Note Is Not Enough”, o nota non sufficit, come diceva quel tale.

Mattia Zappa, Ivo Kova e Massimo Giuseppe Bianchi lo sanno bene e lo cantano chiaro, per altri la lettera rimane, purtroppo, ancora un cappio soffo-cante.

Ma – per parafrasare Montale – troppo lungo è stato il nostro breve viaggio.

The Art of VariationMusiche di Diabelli, Schubert, Czerny, Schubert/Tausig, Godowsky e Lachenmannpianoforte M. G. BianchiDECCA 481 8602

Vis-à-visArrangiamenti di Metheny, Pastorius, Rodgers, musiche originali di Kovavioloncello Mattia Zappa, pianoforte Ivo KovaDECCA 481 8619

Robert Schumann, Violin Sonatas op. 105 & op. 121 violino Emmanuele Baldini, pianoforte Luca Delle DonneDa Vinci Classics C00136

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Il parlar francoa cura di Gualtiero De Santi

L’estremo Rosato

Jurne e jurne, così si denomina l’ultima raccolta di Giuseppe Rosato, un titolo che però non viene tradotto dal suo autore né in copertina né sul fronte-spizio interno, dove invece compare la scritta “versi in dialetto abruzzese”. Chi non legga e non parli nella quotidianità il dialetto di Lanciano, lo stesso che Rosato utilizza, può per un lato immaginare il significato di quel titolo ma ancor più viene spinto a supporre una sorta di icasticità, un’assolutezza e evidenza di senso tuttavia trasportate sul versante del significante. Sempre nella previsione oppure nell’attesa che, inoltrandosi nelle più lunghe cadenze e articolazioni del corpus testuale, lo si accosti poco alla volta o all’incontrario lo si veda apparire in un tratto.

Occorre intanto rimarcare come questa esigua, nel numero di pagine, e scarna raccolta, edita da Raffaelli, arrivi dopo una folta schiera di piccoli ma comunque importanti e nel loro modo illuminanti libri che Giuseppe Rosato ha dato alle stampe negli ultimi anni. L’accumulo dei materiali espressivi – liriche e prose - non intende comporre una biografia, ancorché il risvolto personale e familiare sia vistosamente presente: quanto invocare e reiterare un asserto di disperazione del vivere – e del vivere a un certo momento quando si siano perdute le cose essen-ziali – consacrando la morte a figura determinante e aspettata.

Tutto ciò – come bene si comprende – attiene all’esistenzialità dell’autore ma non si avvale di grandezze psicologiche e umorali e ancor meno estetizzanti e possiede il peso di un’ombra di fondo, che si appoggia su un giudizio, su una sofferenza ormai caratterizzata, sulle minuzie realistiche e le piccole acciden-talità di chi viva giorno dopo giorno queste situazioni. Tutte equamente prove di una impermanenza ormai da un bel tempo strutturata, e questo malgrado che Rosato non prema il pedale sul patetico e sul declamatorio ma al contrario su un tessuto emotivo solidificatosi in dolore e poi divenuto anche pensiero, riflessioneamara sul mondo.

Quel che un Franco Loi accetta di chiamare, citando un interprete di Rosato nella breve nota dettata per il risvolto di copertina, una “maledizione del pensare” conseguente a una maledizione del vivere, o meglio allo sgranarsi della vita poco per volta, appunto “jorne a jorne”, alla volta della consunzione e dell’insigni-ficanza. «La vite se ne va e chelu ccòne», quel poco «che ci-aremàne pare ca s’appòse / sopr’a lu còre e te le fa dulé».

I passaggi di queste obiezioni non alla vita ma ai suoi inganni, che si svelano sulla distanza offerta dal tempo come egualmente dalla solitudine di una provincia

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entro cui si è reclusi, adempiono il loro compito nel disegno del libro e nelle sue varie stazioni. La tentazione sarebbe di frapporre un argine che potrebbe esser tracciato nei versi, di testimoniare una possibilità pur nella identità del prodotto poetico per come esso è divenuto e per come si è trasformato da ciò che era in anni lontani (e in concreto il fatto che Rosato continui a scrivere esprime a proprio modo una resistenza).

Certo, l’attitudine creativa all’espressione significa pur qualcosa, ma noi la leggeremmo piuttosto nella dimensione del dolore e nel fatto che un tentativo di dare sostanza alla sofferenza con la lingua dialettale sia da considerare una conquista e comunque una acquisizione da avere in conto. Intanto nell’ambito della poesia neo-volgare (ancorché si sia sicuri che Rosato non sarebbe affatto d’accordo), ma anche nella vicenda particolare del nostro quale si riflette nella sua poesia.

Ragioni che rendono più probante e essenziale – tuttoché secondario al riguardo esistenziale e emotivo – investigare la specifica funzione della lingua: la tenuta del dialetto allorquando esso si sostiene su tali tematiche (ma su questo daremo ragguagli più avanti). Così il primo dato è capire quanto e come esso dialetto sostenga una prospettiva esistenziale e estensivamente filosofica, ma insieme come l’aver evitato ogni ellissi di specie retorica e ogni infingimentospinga non a ripresentare sia pure sotto traccia memoriale (escamotage o moda-lità conosciuti della poesia dialettale di ritrovare attraverso l’inventiva il rinno-varsi di un significato che, pur patito nelle pene del corpo e dell’animo, sviluppi una vivificazione) determinate meccaniche comunque consolatorie.

Nei suoi versi, Rosato è indifeso e tenero e scabro ma non ricerca alcun conforto. Nondimeno sempre in questi versi le sue brume e i suoi sprazzi e lacerti paesaggistici hanno una loro precisa evidenza. Si avvicinano alle nostre corde di lettori, alle nostre rappresentazioni mentali, senza che la sua materia, il portato delle riflessioni che fa, cambi in alcun modo.

Poi però qualcosa succede: «Che vô sta nève, stu nenguiccijà’ / che se fa ‘revedé da stammatìne / e proprie ogge, lu ventune marze, / c’avèss’ avùta ‘ntrà’ la primavere, / che me vê ‘ddice’?...». E a conferma della piena evidenza di questa immagine: «Resentì’ lu selènzije de la nève / e revedé’ nu bbianche che nen lande / passà’ na sgrèje de scure; e allora ìrsene, / dope che tutte cose se n’è ìte».

Comparati tra loro, e poi tradotti al confronto con altri passi, i due excerptamantengono un tono elevato e puro ma non si traducono in una lingua neutra, lontana. Viceversa l’impianto espressivo del neo-volgare rosatiano è mezzo di significazione delle cose che richiama con le proprie parole, che sia l’acqueru-giola “fine-fine” o l’anima in pianto dei morti, l’infittirsi della solitudine e l’as-senza delle cose, ma anche la loro presenza, il loro assediante insistere. Nulla è nei versi infine astratto.

All’opposto diremmo che il portato di pensiero lungi da ogni presunzione

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letteraria stia proprio nella possibilità del dialetto, cioè della lingua poetica, di unificare tensione e disperazione esistenziale con le verità materiali – quelle ad es. del proprio corpo, della mente – e con la realtà che volta a volta si presenta di fronte al poeta.

Ebbene, in un tale nucleo che è immagine o serie d’immagini che si effon-dono nei riflessi e chiaroscuri delle strofe, entrano le parole e i moti dell’animo e insieme appare nella fusione che si determina il disegno di un destino che è sistema del tempo, dei luoghi e degli affetti, della conoscenza e dell’immagina-zione. Ed è qui che il paesaggismo interiore di Rosato, lo stesso che si riflettenello scarno paesaggio al di fuori della finestra, sfuma in nuclei di pensiero che si contornano e accendono nelle linee del dire poetico.

Quel “sulècelle ne novembre” allora che filtra timido e improvviso, l’acqua “a ruvanèlle”, la neve marzolina (“nèva marzòle”) e la nevicata (il sunnomi-nato “nenguiccijà”),e ancor più il profilo di un cielo stellato (una purgatoriale e dantesca, o se si preferisce leopardiana, “stellejàte de la sere”), sono immagini contemplate non solo dall’immaginazione ma anche con gli occhi della fantasia e con il corpo che si proietta verso l’esterno. Figure complementari, o ospiti imprevisti, che agiscono sul piano simbolico.

Il movimento che ne consegue è l’irrompere delle rondini - «Le rènele, le rènele…» - in un incipit di verso e composizione dove attraverso un tremore, attraverso lo scossone e il fremito di un colpo al petto («Na bbòtte / ‘mpètte»), risorgono immagini antiche. La pressione della natura va infine a incidere anche sulla disperazione. E accanto al pensiero dell’attesa della fine, all’attesa della fine («le sente ca liggère gne nu zòffie / me passe ‘ncòlle, accoma na carezza»), la separatezza produce con l’arrivo della nuova stagione un empito rinnovatore che la poesia della nostra Modernità aveva già rilevato nel suo primo apparire.

Se tutto ciò, nella poesia di Rosato, anche in questa ultima, interviene in un quadro dove comunque il manifestarsi delle cose non ne muta il carattere e però anche non altera la sua condizione (per cui ad es. da una luce che germini d’improvviso si trapassa subitaneamente al buio), pure esso rileva una presenza vitale che si riflette sulla poesia stessa. Questo – lo ripetiamo – non modificala propensione a una conclusione agognata, alla volta di una inevitabilità che possiede anche il carattere di verità desiderata. Da cui una scrittura che si stringe a poco a poco in forme esistenziali e riflessive, in segni formali e linguistici che arrivano in gran copia.

E comunque, giusto al punto estremo delle possibilità intellettive e sensoriali, la percezione di Rosato si mostra impegnata a intraprendere altri cammini. Sotto la tensione e sotto le increspature dell’emotività e del dolore, c’è infine anche l’ascolto di uno strato più profondo, che tematicamente (e semanticamente) viene designato come un’altra vita, un altro tempo. Qualcosa verso cui si inclina venendo appunto da una condizione di abbandono e prostrazione scossi nulla-meno dalla primavera (o anche eccitati dal cadere della neve).

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Da questo confine, da questo termine, si profila un tracciato ancora illimite, o meglio imprecisato, nebulosamente poetico, che Rosato traduce nel sintagma più esposto ma anche più privilegiato della sua raccolta e che in fatto egli trasporta nel suo titolo a partire da quel lento movimento che si snoda entro i versi, nella loro materialità.

Questo avviene conferendo il senso di una durata (“pe’mise e mise”, “pe’ jurne e notte”) ma insieme di uno scialo, di una perdita (le stagioni che vanno e vengono, «anne pe’ anne, / nu mese appress’all’àtre» in un segno di conti-nuità ma anche di disperdimento, onde più scopertamente, nella stessa lirica, «lu tempe passe e passe»), ma anche del trascorrere, del muoversi verso qualcosa in una sottile e sensibile articolazione.

Così la durata del tempo riconduce le percezioni: «Vedé’, sentì’, / patì’ jorne pe’ jorne / tutte quelle che ce sta prime, a-ècche”, questo nella commovente lirica in ricordo di Dario Bellezza – dove l’avverbio in chiusura di verso (e di composizione) dice la consistenza del luogo, l’hic et nunc delle vicende esisten-ziali (“a-ècche”, qui). E poi in quell’incedere prosodico che quasi mima la lenta e inevitata consunzione, l’appressamento al termine ma attraversando tutto un territorio vitale.

Ed è giusto nell’intonazione, nella durata di un verso e di un sintagma poetico, potremmo infine dire nella specificità della pronunzia dialettale, che i caratteri se non nascosti quantomeno impliciti della poesia rosatiana dicono più verità e cose di quanto non ne vengano dichiarate. Il “come” diviene infine più essenziale del “che cosa”, e il fatto di riuscire a pronunciare la propria disperazione in poesia, sviluppa in ultima istanza una funzione.

Così la forma - e la sostanza - del discorso si determinano e traspongono nel tono, nella massa fonica che si concentra e uniforma ma che pure disviene e si scioglie. Con accordature del discorso in ascendere e discendere, in fughe dalla vita e ritorni ad essa; con l’eloquio disperato ed amaro oscillante tra la colloquia-lità e la calma tetra da un lato, e un empito forte di sentimenti dall’altro. Tra un asserto che non abbisogna di dimostrazioni e una sorta di amplificazione patetica che, dato il neo-volgare gentile e pudico qui utilizzato, assegnano peso sia alla voce che ai fonemi. Rinunciando – come ben mostra il titolo della raccolta – a riprodurre la parte del significato e invece spostando il senso in un tratteggio sovrasegmentale.

Non vedere la primavera ma sentirla: quasi “se vulesse arepurtà’ lu sole”. Disegnando l’area di una riviviscenza naturale, la poesia di Rosato continua ovviamente ad alimentare il proprio obiettivo. Ciò perché il presente continua ad alimentarsi del passato, ad ampliarsi in esso.

Ma adesso l’immagine chiara, e balzante, è quella del presente accecato dal confine. La domanda ritmica, se così si può dire, si riflette in una volontà allu-siva, in una riduzione per contiguità, che non sempre si fa struttura di discorso. Assumendo il mondo – ma ancora solo intentivamente – nel carattere di trascen-

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dimento del suo sostare di fronte a una soglia: nella volontà, se non nella capa-cità, del corpo che ha vissuto di trascendersi alla volta di altre direzioni. Siamo arrivati: questo è il confine, il limite.

A segno di raggiungere uno stile e una lingua che incidano in questa dimen-sione, Rosato mette nel proprio partitario un’attenzione per la poesia antece-dente: Giovanni Pascoli, in questo senso nume tutelare ma insieme Trilussa, il guardiagrelese Modesto Della Porta, il polacco Adam Zagajewski. Anche tramite loro l’immediato presente cerca di estendersi sino a un limite estremo. Ma come il canto di perdita che procede da un immaginario rinnovato non mantiene nei testi la disciplina del compito che si è voluta prefiggere, continuando invece ad assomigliare a qualcosa che continua ad essere reale per quello che c’è stato un tempo e per l’essere di un tempo in luogo del dissolversi delle cose, così nella distanza si ha vivo il sentimento dell’attesa.

Esso sì reale ed evocante in una qualche misura il Clemente Rebora dell’Ima-gine tesa («Arrive, tê ‘rrevà’, poche ce manche…») e però anche il Rebora che si macera nella solitudine della mancata risposta e del silenzio. La visione del confine non perviene infine a dispiegarsi: la si intuisce, la si desidera, ma è “vaga imagen”, come scrisse in un testo affine Jorge Guillén, “sobre mis espejos”.

Questi specchi sono in Ettore Rosato nitidi, di natura presso che proustiana. Qualcosa di insolito, ma anche di estremo, che sta nella prosecuzione dell’af-fanno e che alimenta lo sguardo: l’atto del guardare nel vuoto del quale la bian-chezza della neve fa capaci. Ė lì che lo spirito del mondo, al suo limite, al suo punto estremo, si lascia percepire. Accorgersi del vuoto è così non vedere più nulla, ma il nulla è percepito in un bianco di senso che si metaforizza nella neve, quando finalmente il mondo fa sembiante di rientrare nelle proprie regole. «Addavère mò lu mònne / se vô aremétt’a regule».

Qui infine il confine diventa soglia mobile, “that opens and shuts” avrebbe scritto Beckett. Metafora di un percorso esistenziale e affettivo, che Rosato sa se non percorrere almeno immaginare stando però ancora nel vivente, in esso prefigurando lo scioglimento in qualcosa che rassembra l’origine.

Come gli avviene in una bellissima composizione in cui il sistema della sua poesia trapassato in materia vanente si metaforizza e si colloca infine nel mondo: «Resentì’ lu selènzije de la nève / e revedé’ nu bbianche che nen lande / passà’ na sgrèje de scure: e allore ìrsene, / dope che tutte cose se n’è ìte. / Mejje de ccuscì nen pô fenì’ nu mònne, / tra le cose cchiù bbìlle de lu mònne».

P. S. – La neve è il leit-motiv che percorre l’opera di tanti artisti, vuoi inner-vando motivi di grazia ed eleganza («las manos de nieve» di Neruda in Pelleasy Melisanda ma anche, in un sonetto dedicato a Helena, «las nieves … más crudas» della Primavera), vuoi però sviluppando le forme anche le più estreme di elusione dalla vita (penso ai versi licenziati nel 1909 da Robert Walser, sorretti da una introspezione lirica che ha avuto quale risvolto esterno la sua morte nel

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giardino innevato della casa di cura dov’era ricoverato).Ebbene, la presenza della neve come si sa ricorre ostinatamente in Rosato

innestando in un possibile e però mirato discorso interpretativo la catena delle analogie e dei riscontri. Tale immagine, in senso anche formale, può essere intesa alla stregua di un dettaglio comunque significativo ed insieme simbolico (tanto da alludere a qualcosa che si volge poco per volta ad estinguersi ricoprendo le cose e gli uomini al contempo). Sul piano della testualità si ha in ogni caso una ulteriore gamma di evenienze. Così di fronte all’esplicitarsi di determinati significati anche sottoscritti reiteratamente dall’autore, si osserva a contrappunto qualcosa di misterioso che è consono alla natura stessa di quell’accadimento. Perciò il simbolismo può evocare le meccaniche di qualcosa che è apparente, che appunto appare, oltre cui però si celi la parte segreta dell’essenza della cosa, dell’ente.

Così, sempre a un riguardo testuale, si trova come la contemplazione dell’ac-cadimento avvenga grazie a una finestra al cui cospetto si pone il soggetto poetico. Per dirla con il Joyce di The Sisters (la prima delle novelle di Dubliners): «There was no hope for him this time: it was the third stroke. Night after night I had passed the house […] and studied the lighted square of window: and night after night I had found it lighted in the same way, faintly and evently».

E anche il personaggio evocato arriva a dire di sè: «I am not long for this world». Il tutto senza alcuna corrispondenza a un proponimento di consunzione e annullamento di tutto, quanto per altro potrebbe trovare conferma – dentro il complessivo volume di Dubliners cui appartiene la novella dalla quale abbiamo derivato le citazioni di cui sopra – giusto nella parte in chiusura significata da The Dead. Nella quale la discesa della neve suggerisce uno stato d’animo incline a compenetrarsi con le cose: dunque attento a coglierne i più piccoli moti (che è alla fine una risorsa formale, il tracciarsi di un senso nel suo punto più estremo ed impercettibile). «A few light taps upon the pane made him turn to the window. It had begun to snow again».

Per associazione, viene in mente il commento di Claudio Abbado alla chiu-sura di una sinfonia di Gustav Malher, se ricordiamo bene la prima. Abbado appunto rilevava come quelle note che andavano spegnendosi si liberassero della loro consistenza esterna e materiale per trapassare – e far trapassare chi ascol-tasse – in una zona di silenzio nella quale si raggiungevano le determinazioni primarie e infinitesimali del suono, cioè a dire dei materiali più essenziali.

Ecco: la scrittura di Ettore Rosato tende a toccare - e annota a tratti - le più sottili rifrazioni delle proprie figure poetiche tutt’insieme con quel che esse sottintendono. Da cui un movimento non verso l’ottundimento del senso (e dei propri sensi) ma all’opposto verso la verità interiore delle cose.

Gualtiero De Santi

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Il félibrige friulano di Pasolini

Pasolini è l’intellettuale più celebre del Secondo Novecento, il più citato e, perciò, il più frainteso. In tempi di social le sue frasi e i video che lo ritrag-gono mentre esprime uno dei suoi concetti “profetici”, come si usa dire, vengono condivisi da migliaia di persone e, onestamente, non mi viene in mente un altro intellettuale di tale spessore oggetto di così tanta attenzione. Ma fra tutte queste persone che provano vicinanza al sentire pasoliniano, quante lo conoscono nella sua fondamentale opera di scrittore? Per i più Pasolini è un opinionista (e mi scuso per l’orribile parola) che si scaglia contro i soprusi del Potere, poi un regista, un romanziere e solo pochissimi potrebbero affermare di averne fatta esperienza di poeta, se non nel senso vago e inutile che troppo spesso questa parola così importante assume.

Anche per questo motivo il volume de Il Parlar franco su Il félibrige friu-lano di Pier Paolo Pasolini edito da Pier Giorgio Pazzini Editore, assume un significato ancora più importante, perché oltre ad indagare la poesia di Pasolini, sceglie, come è nella natura della rivista diretta da Gualtiero De Santi, di inter-venire su quella dialettale in friulano, produzione che ai più potrebbe sembrare marginale, ma che, grazie agli interventi che possiamo leggere in questo prezioso volume, appare come fondativa di tutta l’esperienza estetica del Nostro. Infatti, come nota il poeta pesarese Gianni D’Elia nel suo vertiginoso intervento di aper-tura, “Pasolini è come un primitivo che si affaccia al mondo e lo nomina”, in una Casarsa in cui “il mito greco risuona […] nel sillabismo scarno e transitivo di un nuovo lirico arcaico della poesia contemporanea”.

Poesia dialettale per Pasolini non è ripiegamento localistico o folclorico, ma sperimentazione letteraria che si connette alle correnti della modernità europea, tensione verso quella ricerca linguistica che contraddistinguerà tutta la sua vicenda artistica e che lo porterà ad approdare al cinema nel tentativo di cogliere una lingua della realtà in quanto “lingua dell’origine, […] lingua di una poesia vergine e incontaminata” (così De Santi nel suo intervento intitolato La lingua pura della poesia). D’altronde la decisione di scrivere in dialetto viene a Pasolini dall’aver sentito pronunciare, una mattina della sua gioventù a Casarsa, la parola “rosada”, parola che immediatamente dischiude al poeta un mondo di suoni e di suggestioni che lo spingeranno alla scrittura, più attraverso un procedimento simbolista, quindi, che per un interesse per le tradizioni e la vita dei contadini. E in effetti Pasolini tradurrà anche Rimbaud in friulano, a dimostrazione di quanto egli consideri il dialetto una lingua di poesia che vada liberata dai temi bassi a cui spesso si presta, connettendosi con la tradizione dei trovatori e nel “supera-mento del pascolismo per una lingua della poesia in quanto lingua della realtà” (ancora De Santi). Per far ciò il poeta, come ci spiega Angela Felice nel suo intervento intitolato Dal dialetto all’antidialetto. Pasolini teorico del’estetica del cuore, si produce nella “nobilitazione artistica” della materia verbale attra-verso la creazione di un dialetto lirico che riesca a porsi allo stesso livello delle

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lingue della tradizione europea. D’altronde è lo stesso Pasolini, come ci ricorda Rienzo Pellegrini nel suo intervento critico-biografico I giorni di Casarsa. Per un’approssimazione al Pasolini friulano, che afferma quanto sia importante per lui la tradizione romanza, identificando nel termine “ab joy” inteso come raptus poetico, esaltazione ed ebbrezza poetica, l’espressione chiave di tutta la sua produzione, “vitalità contagiosa e incessante: disperata vitalità” (così Pelle-grini).

Il volume prosegue con l’intervento di Salvatore Ritrovato che riflette sul ruolo della poesia del Nostro nel quadro della critica dialettale del Novecento, con gli interventi di Gualtiero De Santi e di Angela Felice su alcuni dei più importanti esponenti dell’Academiuta di lenga furlana, come Bruno Bruni, Ovidio Colussi e Tonuti Spagnol, e quelli di Riccardo Bernini e Hideyuki Doi sul rapporto di Pasolini con la cultura giapponese, nonché della traduzione in russo della Nuova gioventù, a rimarcare l’antiprovincialismo del friulano pasoliniano. A chiudere il volume alcuni sentiti ricordi dell’amico poeta Roberto Roversi.

Dunque questo numero de Il Parlar franco ha il grande merito di ricor-darci come l’esperienza dialettale di Pasolini non sia affatto marginale, perché è già esperienza della “ricerca di una ‘profondità’, di una durata, di resistenza al ‘progresso’ superficiale” (De Santi), in perpetua tensione verso quel “parlar franco”, appunto, che è “una lingua più vicina al mondo” (De Santi), la lingua della verità.

Mirco Ballabene

Nino Pedretti: poesia e prosa in italiano

Nino Pedretti (1923-1981) nasce giovane alla poesia, ma pubblica il suo primo libro a cinquantadue anni, nel 1975, Al vòuşi, in dialetto romagnolo, quel dialetto di cui ha scritto: «A differenza dell’italiano, arrotolato nei codici, levi-gato ed illustre, il fratello umile, il dialetto, è vissuto all’aperto come un’erba selvatica, bagnato dalla pioggia dei secoli, e come un’erba pertinace di gramigna, si è arrampicato sui monti, si è addentrato nei minimi villaggi, ha coperto ogni metro di terra dove viveva la gente comune del lavoro e dei sacrifici».

Nasce giovane alla poesia. Fonda, infatti, dopo la guerra “E’ circal de’ giudéizi” a Santarcangelo di Romagna, con Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Gianni Fucci, Flavio Nicolini e Rina Macrelli: i ragazzi discutono di poesia, di politica, di presente e di futuro, di come esprimersi – se in italiano o in dialetto -, come dare valore al dialetto, quale svolta dare a quella loro vita a piene vene, con i turbamenti, le ansie, le aspettative di chi ha vissuto la guerra e mette in conto una rinascita a cominciare da sé. C’è chi resta sul posto (Fucci), chi va a Milano (Baldini), chi a Roma (Guerra, Macrelli). Nino, dopo la laurea in lingue a Urbino, va in Germania. Quindi torna e inizia a insegnare inglese prima a Cesena poi a Pesaro, dove si fermerà fino alla sua morte prematura.

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Nasce giovane in lui la poesia («...becco di furore / poesia, avventura, amore mio...», Poesia) e nasce anche in italiano. La prima sezione di Gli uomini sono strade (1977), La polvere e la rosa ha per sottotitolo: Primi versi (1946-1958).Nino Pedretti, è appena tornato dalla guerra. Già lettore amoroso di poesia, trova, dopo gli ermetici, nuovi autori, Saba per esempio, forse Scotellaro nelle riviste e quotidiani del tempo. Si guarda dentro, tocca quasi con mano cose e persone, elementi della natura. Ne ascolta l’eco sottile in sé. Avverte un fuori di sé inesistente e un esistente dentro di sé: il pieno/vuoto acuisce la nostalgia di una perfezione antica o si fa sentimento-canto. («Madre, / io vorrei donarti / una gallina queta / per i tuoi celesti pollai / dove tu parli sola come una bambina. / Che distanze percorre il cuore / madre, che grandi distanze», «Per i tuoi celesti pollai»).

Ma nuove e diverse esperienze di vita e di lavoro entrano nel suo intimo e si dilatano in necessità di andarvi a rintracciare ragioni e torti. Adesso non urge soltanto un “io” solitario, ma un io che nella realtà incontra i ferrovieri, ha incon-trato i partigiani, i reduci, riflette sulla Resistenza, vede le persone nella loro dimensione lavorativa e giornaliera. Introietta il fuori per misurarvisi.

Se i primi versi restituiscono la pienezza della vita da vivere, proseguendo nelle sezioni di Gli uomini sono strade si dà la vita nel suo essere vissuta, nel ricordo-memoria («Le monache come farfalle / in quel gran chiaro di mare. / I fiori gialli, le pinete / lo strepito dei bimbi / e l’aggufato prete / dalla caviglia bianca. / Di notte si cantava: / io ricordo che eri bionda / e ti cercavo tra le stelle contadine», “Di notte si cantava”), nelle sue angolature, per cercarvi-vedervi nuove prospettive, altri punti di svolta, impregiudicati. Scatta anche l’ironia, l’ar-guzia (Mottetti, altra sezione) per le situazioni di una umanità per la quale prova compassione (Mitleiden) e comprensione data l’uguale sorte di viventi e stante un’energia a farcela mai da sottovalutare né da dimenticare. Scatta la ricerca di un dialogo (con la piccola figlia, Anna) per capire l’altro nel profondo.

La poesia, iniziata essenzialmente melodica, lirica, musicale, accorda un altro registro perché il fuori è entrato dentro e si è amalgamato nelle fibre di uomo. Allora vale il poemetto (nella parte finale del libro), il giro largo del pensiero a racchiudervi passato e presente, interrogativi inevasi, risposte sospese dentro una verità: «non è mai finita / fino alla morte / la crudele vicenda della vita» (Mottetti, XXV).

Nino Pedretti in italiano ha scritto anche prose (Grammatiche. Monologhi e racconti inediti, a cura di Tiziana Mattioli-trascrizioni di Elena Nicolini, Raffa-elli, 2012). Forse nati per essere letti alla radio, restati nei suoi cassetti, questi scritti sembrano schizzi di eventi legati a caratteri di personaggi vari, invece sono spaccati di vissuti. Lo rivelano, per primi, i titoli tratti dal mestiere dei protagonisti, da un nome, da un soprannome, da uno strumento musicale, o privi di un titolo forse ancora da trovare.

Spaccato, dunque, dentro cui, occhielli di messa a punto o ravvicinamenti

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al rallentatore di figure e poveri cristi, si allargano pensieri e quel Viaggio che potrebbe nelle intenzioni portare lontano e che termina, al contrario, sotto le mura di un manicomio o verso casa appena lasciata o in un luogo irriconoscibile eppure ben conosciuto, o senza porre spazio d’attesa nel mezzo di una Battaglia(ultimo racconto) sinonimo del campo permanente del vivere.

Sono gli itinerari («Chi scrive in prosa non vede il mondo per punti, come in poesia. Lo vede per itinerari»: così l’autore stesso) , nitidi dentro una prosa che rende il percorso segnato dal destino («...i nodi del destino sono purtroppo disseminati così come le mine in tempo di guerra», [senza titolo], dall’amore («...l’amore è una trasversale che taglia l’impossibile solo quando le cose della realtà quotidiana sono possibili...», Senza titolo), dal dolore, dall’illusione («…viaggiare è la proposta di un’altra vita, è il bisogno dell’impossibile.», Mono-logo del viaggiatore), dal nonsenso fissato in poeticità («Lì ho passato qualche ora inebetito dalle cicale col pensiero che si faceva d’aria, di foglie, e quando non c’era nessuno pulsava vuoto nel silenzio.», senza titolo), dal giorno scam-biato per notte e viceversa. Percorso segnato dal legame parentale («E allora cos’è l’amore per i parenti? Un deforme amore di sé, del proprio io, o è l’urlante mistero del sangue diviso che fatica a ricongiungersi?», Il parente), costellato di domande sul sapere/non sapere («Che cosa so io, signori, della vicenda della morte? Eppure devo morire. Che cosa so io del futuro, …, che anche a voi tutti si presenta con assai poche prospettive ed anzi decisamente ostile e pieno di insidie?», Un intervento al congresso internazionale di ittiologia).

Grammatiche come grammatica (nel suo etimo) di realtà-non reale che contiene gli inciampi esistenziali, detti per momenti, per tratti: nell’insieme vanno a formare il quadro della vita in cui la creatura, mai grimpeuse, si muove un poco sbalestrata, un poco spinta, altre volte per inerzia, ma con la forza vitale propria al suo nascere.

Maria Lenti

L’Ėpitaphe Villon di Amedeo Giacomini

Questo intervento, ovviamente calibrato nel suo limite, va a completare una nota da me stilata per questa rubrica nell’antecedente fascicolo di Fermenti,scheda che venne dedicata a una nuova rivista di letteratura dialettale, In aspre rime, che come già s’è spiegato annette sia pure in traduzione il titolo di una raccolta poetica di Amedeo Giacomini, In âgris rimis, uscita da Scheiwiller nel 1994, e lo fa consapevolmente dato che la nuova rivista diretta da Matteo Vercesi continua idealmente l’antecedente Diverse lingue a cui Giacomini aveva colla-borato e che è da ritenere avesse anche sostanzialmente guidato sino alla sua scomparsa intervenuta nel 2006.

La casa editrice di Diverse lingue, la Campanotto di Pasian di Prato alle soglie di Udine, è la stessa di In aspre rime. Il cui fascicolo d’avvio, dato il carat-

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tere monografico incentrato sulla figura e l’opera di Giacomini, è provvisto della trama larga e varia delle credenziali bibliografiche a cura di Lisa Gasparotto. Scorrendole sia pur rapidamente, m’è caduto l’occhio sulla voce delle tradu-zioni e degli autori resi da Amedeo in versione italiana: Le Clézio, Machado e persino Paolo Diacono forse di fronte alla necessità di fornirsi di un curriculum universitario (Giacomini ha infatti insegnato all’Università di Udine). Per un autore di versi, tradurre è esercizio espressivo indispensabile dentro cui agisce una qualche rappresentazione della propria poesia. Ma vorremmo dire anche della propria vita, come è stato nel caso di Giacomini almeno nell’esempio che vogliamo proporre.

Pochi forse lo sanno, ma Amedeo Giacomini condusse i suoi studi univer-sitari a Urbino: vi conseguì la laurea e vi ebbe le prime esperienze letterarie partecipando in un qualche modo del clima culturale della città quale si era sviluppato nel dopoguerra e come soprattutto Carlo Bo l’aveva configurato chia-mando all’insegnamento nell’ateneo di cui era Magnifico Rettore intellettuali e docenti di prima fila. Quella stagione urbinate – tra fine anni ’50 e primi anni ’60 - può considerarsi il punto di partenza stesso, o almeno il punto culturalmente più esposto e consapevole, della vicenda espressiva di Giacomini: scrisse infatti allora le prime poesie e, venendo al nostro assunto, mise a punto la sua prima traduzione.

Ebbene, in un numero rimasto unico e solitario di una rivista di giovani, dal titolo Mosaico, che porta la dicitura di ‘I° Quaderno di cultura Urbino’ e che oggi è allogato presso la Biblioteca Comunale Ubaldini della cittadina grandu-cale dopo essere traslocato dalla mia soffitta, dove l’avevo conservato per più di cinquant’anni, compare alle pp. 5 e 7 Epitaffio di François Villon in calce al quale, alla pagina 7, si presenta la scritta “Traduzione a cura di A. Giacomini”. La pubblicazione reca la data in numeri romani (XVI-IV MCMLXI) e reca anche l’iscrizione dell’editore-stampatore, “Urbino, Tip. Bellucci”, tipografia gestita allora nel 1961 dal padre di un giovane poeta, Ercole Bellucci, che lavorava come bibliotecario presso la Facoltà di Giurisprudenza ma che si era ormai plate-almente impancato nel suo ruolo di “Jünger Dichter” avendo a referenti le perso-nalità che operavano nella città, soprattutto quelle universitarie, da Carlo Bo a Arturo Massolo a Livio Sichirollo, insieme tenendo ben saldi i suoi piedi nelle taverne locali.

Infine, Bellucci era l’amico inevitabile di Giacomini, si voleva agli occhi degli altri sventato, spaccone, sofisticato ma anche grosso e gran bevitore. Insieme a loro due, con bella politonalità, c’era un altro giovane di cui solo a intermit-tenza mi lampeggia in mente il nome, Luigi Pellissari, che nel pensiero di noi giovanissimi che guardavamo al mondo della cultura con passione e studio, era quasi mitico avendo pubblicato un suo testo nel Menabò di Vittorini e Calvino e comunque tanto bastava a renderlo illustre e invidiato nel giudizio di provinciali “happy few” che s’affacciavano alle cose dell’intelligenza.

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E appunto, nel contesto culturale ed esistenziale con questi coetanei, Giaco-mini impara che ci si deve avviare alla scrittura proprio lavorando sui maestri, non soltanto leggendone i testi ma altresì introiettandone i mondi e insieme traducendoli (un po’ come nel passato ci si avviava all’arte disegnando a partire da modelli e anche copiando e rifacendo quadri e disegni). In un certo senso, François Villon fu per Giacomini un vero modello, un classico nella cui poesia e esistenza riconoscere una profonda sintonia, perlomeno in quella fase giovanile, ma penserei personalmente anche dopo.

Il testo tradotto è L’épitaphe Villon, conosciuto popolarmente come Balladedes pendus (ma il cui titolo per esteso è L’épitaphe de Villon en forme de ballade),le cui celebri quattro strofe travalicano come è ben evidente ogni limite tempo-rale (si pensi solo all’influsso che le Ballate villoniane hanno avuto sulla poesia e sul teatro di Bertolt Brecht). Quando Giacomini volge L’épitaphe nei primissimi fastigi di una sua scrittura, non è ancora apparsa l’edizione feltrinelliana delle Poesie curata da Luigi de Nardis per l’Universale Economica, e anche quella di Neri Pozza sarebbe solo apparsa nel 1962.

In tutta evidenza, egli fa i suoi lavori di traduzione prima di queste pubblica-zioni; con qualche verosimiglianza si avvale dell’edizione delle Rime villoniane del 1953 a cura di G. A. Brunelli e comunque una ricognizione nella Biblioteca Universitaria di Urbino dovrebbe recare qualche lume alla questione. Forse si serve di una copia prestatagli da Bellucci, che nella sua ostentata mise en scène di autore maledetto doveva avere nei propri scaffali i libri per così dire de chevet.

Però infine è chiaro come egli fosse mosso da contingenze esteriori: da un libro incontrato in una libreria della città dove il Bellucci e i suoi compagni di dolci e mordaci detti, di ben fatti canti («Si bien chantans, si bien parlans», scrive Villon nel Testament), andavano costantemente e quasi giornalmente a control-lare e se del caso acquistare le novità, ma ancor più dalla temperie culturale e esistenziale della città, come la conoscenza diretta e la frequentazione dei profes-sori universitari e degli ospiti che di volta in volta Bo chiamava (da Jorge Guillén ad Ungaretti a Mario Luzi) in quegli anni di autentico rinascimento culturale per Urbino.

Questo spiega perché, nella summenzionata bibliografia giacominiana, quattro sue poesie siano comprese in un tomo di Studi urbinati dedicato al germanista Traverso (Leone Traverso: un ricordo e un omaggio). Nel mentre che il vanto di una primogenitura di ospitalità è da ascrivere – come ben mostra la bibliografiadella Gasparotto – a una rivista di cultura contemporanea, a scadenza periodica, fatta da giovani intellettuali e scrittori (tra cui chi firma questa nota), denominata con spirito libertario e anticonformista Ad Libitum. Due i testi poetici di Amedeo Giacomini inquadrati alla pagina 56 del n. 4 della serie, numero uscito nel 1967 e in cui era anche contenuto un inedito di Allen Ginsberg, Middle of a long poem on ‘These States’ / Kansas City to St. Louis, datomi personalmente dal poeta americano al Festival dei Due Mondi di Spoleto, lo stesso in cui venne denun-

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ciato e arrestato per aver letto versi considerati osceni (si trattava del celebre Howl inviso a baciapile, democristi e mentecatti codini).

Questa la traduzione effettuata da Giacomini dell’ Epitaffio Villon, che qui di seguito trascriviamo non emendata anche nelle sviste di interpunzione: «Fratelli umani, che vivrete ancora, / non abbiate indurato il cuore, / chè se di noi poveri misericordia avrete, / presto vi ringrazierà nostro Signore. / Ci vedete qui appesi in cinque, sei… / Le carni che troppo ci piacque d’ingrassare / sono da tempo divorate e marce: / ci restano le ossa, ma cenere saranno, polvere / Non ridete della nostra brutta sorte; / ma Dio pregate, che ci voglia perdonare. // Se fratelli vi chiamiamo non abbiatevela / a male: dalla vostra giustizia, moriamo / condan-nati. E in questo vostro mondo, / voi sapete, sono ben pochi i fortunati; / Scusateci ora che siamo trapassati / presso il Figlio della Vergine Maria, / chè almeno la sua grazia non ci manchi / e ci preservi dalla folgore infernale. / Ce ne andiamo, più nessuno ci venga a molestare! / ma Dio pregate che ci voglia perdonare».

E poi nelle due ultime strofe. «La pioggia ci ha lavati e lisciviati, / di nero tinti il sole e disseccati, / gazze e corvi ci hanno cavati gli occhi, / strappata la barba e i sopraccigli, / crivellati di beccate come fossimo ditali, / avanti e indietro andiamo / senza un attimo di pace, siccome / varia l’uzzolo del vento che ci sbatte. / Non siate con noi anime dannate ! / ma Dio pregate che ci voglia perdo-nare. // E tu, principe Gesù, che su tutto regni, / abbi cura che l’inferno non ci pigli, / fa che con esso nulla s’abbia da spartire. / Uomini, quassù non ce la farete ad imbrogliare / ma Dio pregate che ci voglia perdonare». (G. D. S.)

Rosanna Gambarara, “Dedlà”

Non saprei dire, benché sia di nascita e esperienze urbinati, se il dialetto della mia città (di ceppo gallo-italico con intersezioni e miscelazioni romagnole) possa venir disgiunto da quell’eterno presente che lo caratterizza in quanto lingua della comunicazione quotidiana ma insieme lingua della creatività. Nel passato recente, anch’esso rubricabile sotto il segno dell’immediatezza e del parlato comune, non abbiamo gran che di esempi quando si pensi all’espressione poetica. Vengono alla mente Renzo De Scrilli e Fuffi (cioè Fulvio Santini), e poi null’altro, o quasi, ove si cerchi di uscire dal terreno della gergalità. Forse qualcosa di meglio troveremmo ammesso che risalissimo agli inizi del secolo e in particolare a Lucia Tartufari (riproposta e come risuscitata dalle ricerche sul campo di un anglista innamorato di cose locali, Rolando Bacchielli), la quale si firmava Cècc de la Torraccia, che direi uno pseudonimo maschile, un camuffa-mento giacché forse non era lecito che una donna per giunta insegnante scrivesse nella lingua degli ignoranti e dei poveri, comunque licenziando sonetti di robusta e ben tornita fattura contadina e popolare che andrebbero una volta per tutte riproposti.

L’idioma aspro e rigido di Urbino, ostinato e chiuso come le menti di chi viva o sopravviva in una enclave certo alquanto speciale e circondata dalla bellezza di

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un paesaggio che fa ovviamente pensare al rinascimento benché in un contesto socio-economico arretrato e soprattutto complesso sotto il riguardo antropolo-gico (questo a malgrado che ci si trovi affidati a una sorta di raro illimite lirico), non pare accolga di primo acchito interessi di pensiero e nemmeno di grazia e lirismo. Altra cosa è il corrispettivo orale, filtrato dal corpo, temperato dagli umori, guidato anche dalla cultura e dalla vita quotidiana: insomma da tutte quelle intermediazioni che appena pochi anni fa sembravano illuminarsi (per addurre un esempio al limite ma a nostro giudizio probante e suggestivo) con le divertite e bonarie improvvisazioni dialettali di Paolo Volponi nei momenti del suo giro-vagare per la città, in una sorta di domesticazione e attenuazione musicale della sua più contorta e tormentata lingua poetica, quella che abbiamo conosciuto in Con testo a fronte; o come esso, questo dialetto in fondo comunicativo e gergale, si conduce nelle rappresentazioni di una filodrammatica locale cui sempre arride il consenso della gente.

Negli ultimi anni qualcosa comunque s’è mosso. Lo slancio con cui un Pippi Balsamini (Poesie, 2014) rievoca usanze e persone della sua adolescenza ha trovato nei versi più sorvegliati e ispirati e decisamente più colti di Germana Duca Ruggeri, anconetana trapiantata da quando aveva vent’anni ad Urbino, un fervore e un brusio che nel rievocare ricette e tradizioni ma anche parole dialet-tali di un tempo gioca su rapporti più profondi, quelli che rinveniamo nella sua poesia in lingua. Allo stesso tempo, dopo Elena, Ecuba e le altre, raccolta arri-vata a un’attenzione nazionale che si imbeve di una vitalità essenziale ed energica fatta virare sulla scrittura di genere, nel suo caso ovviamente femminile, e sulla sperimentazione formale, anche Maria Lenti è giunta infine a sparare i propri colpi sul terreno dialettale, o meglio di un sistema espressivo che contempli un orizzonte neo-volgare.

Adesso una nuova raccolta di Rosanna Gambarara, già autrice di versi in lingua, sposta forse involontariamente le questioni su un terreno più impegnativo ed elaborato malgrado l’ostentazione di semplicità. L’opera cui facciamo riferi-mento, dal titolo non agevolmente traducibile di Dedlà (che si potrebbe rendere con ‘di là’, ‘dall’altra parte’, ma che è espressione che indica un movimento, un passaggio da uno spazio ad un altro laddove in quel titolo essa è una prepo-sizione in funzione nominale) e non tradotto dall’autrice, sovviene a riflessioninon di superficie anche sulla lingua dialettale utilizzata. Le cui “dislocazioni”, ben annotate da Germana Duca Ruggeri nella sua esatta e compiuta Prefazione, dichiarano se non proprio un tramenio, che in questo senso sarebbe disordinato, il déplacement o trascinamento di qualcosa che appartiene ai portati della poesia neo-volgare.

Intanto si dica che Rosanna Gambarara non è nuova alla scrittura dialettale. In una raccolta antecedente, Hýsteron Próteron (Pagine, 2016), compaiono ventun sonetti che, nel dislocarsi dell’originale in urbinate e della traduzione in italiano, rimano le rispettive prospezioni poetiche sull’immagine del “dedlà”, trovandosi

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l’uno di fronte all’altra. Anche in questo caso il lemma, piuttosto che una sepa-razione e una divisione, manifesta il potere germinativo della scrittura e il suo divenire: “da dedlà”, cioè dallo spazio del sogno verso la visione, e tutt’accanto – come fa osservare l’autrice – da un prima dell’esistere a ciò che gli viene dopo ma soprattutto un gesto spontaneo che fa osservare nelle cose che si hanno di fronte il guizzo rivelatore di ciò che si agita nello spettro dell’anima e della memoria.

Per sua stessa ammissione Rosanna Gambarara vuol lavorare su cose lineari, le «robb da gnent», come viene dichiarato in una poesia. Ma ammette anche di buttar giù versi di notte anche se non fa propriamente poesia onirica: concen-trandosi fortemente sulle sue immagini; riordinando le sensazioni provate specie quando esse si producano intensamente, come in quei suoi testi sulla musica, Vivaldi, Sinfonia, Arios dolent oppure Quartett, che nascono dalle emozioni di corali e concerti appena ascoltati qualche ora prima; infine muovendo da un nucleo prima emotivo, di suggestione meravigliata, e poi da microsezioni musi-cali che le invadono la mente.

Nel caso di quest’ultima raccolta, la voce poetica enuncia i pensieri, notturni e diurni, e detta una propria lingua. Ed è in quella voce che alberga l’identità dell’autrice ed è sempre in essa che si profilano conoscenze e credenze, anche geografiche e sociali. Infine, nella miriade di episodi che tengono luogo di vicende esistenziali e poetiche nelle relative composizioni, Gambarara si auto-biografa. Le sue parole, o meglio le parole dell’io lirico e narrante, si delineano in uno stile armonioso e per essere più precisi, come confessato dalla stessa autrice, si ha un “germinare lento da un’idea che cerca il suono delle parole che la incarnino”. Onde una sonorità riconoscibile, un fraseggio modulato e corposo che si appoggia su una sorta di prosodia linguistico-antropologica.

Qui forse è il seme della sua poesia quantomeno in dialetto, nei frammenti e negli spezzoni di suono che continuano ad alimentarsi nella memoria. Ma poi quel tessuto ancora informe deve prendere consistenza, e allora la materia musicale viene a farsi parola, racconto: deve trasferirsi in uno schema che per Gambarara è imperiosamente quello della metrica, di per sé vincolante ma anche portatore di ulteriore musicalità. Così il suo passato di insegnante liceale di disci-pline umanistiche e letterarie la orienta verso l’endecasillabo, e qualche volta anche verso l’esametro. E comunque la materia che si viene componendo nella sua mente e vorrei anche dire nel corpo deve entrare in una veste che la stringa e la ordini.

Qui, in Dedlà, l’intero partitario è composto da sonetti che vorrei definireben adeguatamente rifiniti, coi classici quattordici versi e le variazioni della rima chiusa e alternata e tutte le altre varie suggestività e possibilità che le undici battute dell’endecasillabo possano offrire. Il passaggio alla traduzione italiana, tenuta a fronte del testo dialettale scritto ovviamente prima, mantiene idealmente la struttura a sonetto, ma la sfrangia e la arricchisce in schemi che guardati a colpo d’occhio non sembrano sonetti anche se ne assumono le misure dando

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conferma del movimento della lingua da quel nodo di emozioni e sensazioni appena ricordato verso i primi microsuoni e poi verso il comporsi del materiale poetico in versi compitati, strofe, strutture espressive che dal dialetto trapassano poi nelle successive costruzioni in italiano.

Poco sopra ho parlato della durezza e ruvidezza del dialetto urbinate e dunque ci si potrebbe chiedere come sia possibile farlo malleabile e pronto ad accogliere la musicalità. Se però ci si riporti a uno dei titoli sopra elencati, Arios dolent, si vedrà come la lingua urbinate sia più internata in un proprio svolgimento intimo che non l’Arioso dolente della traduzione in italiano la quale inevitabilmente induce la convenzione linguistica di un’indicazione di tono. Ma verrebbe anche da osservare che il livello musicale non venga sempre mantenuto, o perlomeno si tratterebbe non già di una musicalità soffusa, intramata di accordi sensibili e per così dire lirica, ma al contrario di una linea sufficientemente accentuata e caden-zata e battuta come interviene nella poesia dialettale che non si appone fronzoli sul capo (e qui mi guizza in mente l’idea che la poesia battuta e cadenzata di Volponi, che io stesso a suo tempo ho detto dantesca e iacoponesca e comunque debitrice anche nei riguardi della metrica quantitativa, abbia nel sottofondo e nel proprio sottotesto linguistico proprio l’urbinate, come per altro non è difficilecongetturare).

Comunque ne sia, Rosanna Gambarara risponde ai dettami della poesia dialettale in primo luogo conformandosi alla sua parte più tradizionale, almeno in un primo momento e almeno nella parte dell’al di qua. Non evita infatti le composizioni di gruppo e la rievocazione di conoscenti nei passaggi delle occor-renze intervenute nell’infanzia. Ancora incorniciato nella tradizione, è l’apparire di un fantasma locale – “el sprovingol” – che si agita dentro le sue notti e i suoi incubi: solo che questa Mater dolorosa in forma appunto di ‘sprovingol’ pur aggirandosi nel turbine dei sogni si ritrova collocata sullo scalino del tempo di là («Me se’ comparsa tel scalin / del temp dedlà», si legge).

Ovviamente anche Rosanna Gambarara e la sua poesia discendono da un tessuto fittamente memoriale e riconoscibilmente antropologico, su questo non dovrebbero sussistere dubbi e in ogni caso i suoi testi non li prevedono. Ma, infine, è quel déclic dell’insonnia e del rimuginare che ne consegue, a segnare la differenza. Nel senso che se nella fase dell’al di qua si costruiscono quadretti che paiono quasi somigliare a certi tales versificati di ascendenza e sapore anglosas-sone, poi ciò che conta di più – o che magari più sorprende – nella sua poesia è quell’andirivieni tra il prima e il dopo che porta a supporre che il nucleo espres-sivo stia nel mezzo, in tal modo comprovando il sostanziale bilinguismo della sua operazione.

Questo, lo si può almeno rimarcare, convalida nel suo carattere alcune indi-cazioni arrivate di recente da studiosi di gran nome intorno alla poesia dialettale. Ancor più qui colpisce il fatto che il mondo che turbina nella mente della poetica dormiente, fatto in un primo tempo di insorgenze inattese e paurose, di accen-

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sioni e contagi a fior di pelle, poi si sistemi in un universo onirico ricco di linee e camminamenti geometrici – tondi chiusi, sporgenze, angoli, circonferenze, rien-tranze ottogonali - che traducono la materia poetica alla volta di una sua dimen-sione astratta e mentale, sia pure a intermittenza. Quanto è alla fine il miglior acquisto per la poesia neo-volgare urbinate e per il suo futuro. (G. D. S.)

“Provi di lingua matri”

Prove di lingua madre titola la raccolta di Maria Gabriella Canfarelli edita nell’ultimo corso del 2019 per le belle e ben curate Edizioni Novecento di Masca-lucia, in provincia di Catania. Intanto è d’uopo segnalare e ovviamente avere in giusto conto il fatto che l’autrice siciliana non sia nuova alla poesia, laddove lo è invece per la poesia in neo-volgare. Vantando al proprio attivo cinque raccolte di versi in italiano: Domicilio (1999), Cattiva educazione (2002), Zona di ascolto(2005), L’erborista (2010), Dichiarazione giurata dell’autrice (2015).

Ma, come dicevamo, questo esordio nella poesia in dialetto o lingua catanese, per quanto ci viene dato di immaginare dal titolo configura un esercizio conosci-tivo e autoriflessivo che è per un verso l’immersione in un patrimonio (diciamo così) materno e maternale e per altro verso vale quale percorso di ricerca – e di sperimentazione – che si intona a qualcosa di udito anche incidentalmente e poi anche conosciuto nei primi anni di vita. Con il ritorno a quella “palora-matri” che è il seme e il primo tratto della “lingua-matri”.

C’è comunque un primo strato semantico che va preso in considerazione, contenuto nel ristretto ma insieme veritiero limite di chi essendosi cimentato nella poesia in lingua italiana accetti di affannarsi su cellule ritmiche e espres-sive che si comportano diversamente da quelle ufficiali. Ovviamente fissata in una propria dimensione espressiva e insieme in un ormai riconoscibile profilopoetico, Canfarelli unisce la propria immaginazione a qualcosa che ella aveva creduto perso giacchè appartenente a un’epoca antecedente la sua formazione culturale e scolastica.

Quella lingua italiana appresa sui banchi di scuola, e considerata sino a poco tempo fa essenziale, è però lingua seconda che, come annotato a suo tempo da Tullio De Mauro (che la poetessa catanese riprende e cita avanti i suoi testi), discendeva direttamente dal dialetto. Quest’ultimo nondimeno allontanato e posto quasi in stato di sospensione, pur continuando evidentemente ad esistere, a frut-tificare, e premendo sino al punto di uscire fuori d’improvviso, per impreveduta e inizialmente non compresa e comunque sorprendente impellenza: risultando a tutta prima “parola incognita”, non nota sino allora né presente nella quotidia-nità, e poi però in grado di divenire propria e personale: «palora scògnita» che «’nveci è a me’», che invece è mia.

Una scoperta che fortunatamente non sancendo il suo smarrimento definitivosi costringe in un ripetersi frequente di esperienze e pronunzie segnalate sin dal titolo della composizione da cui si è appena sopra citato: Chiossai di na vota,

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cioè “Più di una volta”, in una sorta di ritmica pressione pulsionale in attesa di coagularsi e ravvivarsi in una propria semantica. Secondo un processo che appar-tiene non già ai territori di una comprensione immediata e della comunicazione ma all’opposto a quelli dell’espressione interiore e della poesia. (G. D. S.)

Salvatore Di Pietro, tra mondo cristiano e industrializzazione

La società è in perenne e conflittuale divenire, ed è dei poeti cogliere il respiro sotteso di tali mutazioni. La poesia, se correttamente intesa, è testimonianza del divenire di ciascuna epoca, un tapis roulant su cui scorrono macerie, scorie, allu-cinazioni e nevrosi individuali e collettive, e contaminazioni di idee e di popoli.

La poesia di Salvatore Di Pietro ci porta in una rappresentazione accorta e minuziosa di un tempo di crisi. Nato a Pachino (Siracusa) il 18 agosto 1906, si accosta giovanissimo al mondo del teatro recitando con le compagnie che si esibiscono su palcoscenici mobili nella piazza grande del paese. Recita come attor giovane nella compagnia del grande Giovanni Grasso. Nel 1926 si trasfe-risce a Catania dove entra in contatto con il mondo teatrale e letterario del capo-luogo etneo, e dove pubblica le prime composizioni sul “Giornale dell’Isola”, incoraggiato dal conterraneo Vitaliano Brancati. I suoi primi libri di poesia sono Acqua di l’Anapu (Acqua dell’Anapo) (Vittoria, Catania 1936), che comprende i componimenti giovanili, e Alveare con la introduzione di Federico De Maria (Zisa, Palermo 1947). Ma negli anni catanesi l’attenzione di Di Pietro sembra rivolta soprattutto al teatro. Scrive le commedie in tre atti Berretto goliardicoe La calata al pantano, e l’atto unico Lu suli di la sira, rimaste inedite. Inoltre Di Pietro compone testi per canzoni musicate da Giuseppe Terranova e Gaetano Emmanuel Calì.

Negli anni del dopoguerra sarà vicino, ma senza mai aderirvi formalmente, al gruppo dei poeti innovatori catanesi, i Trinacristi, che avevano in Salvatore Camilleri l’ispiratore, e in Enzo D’Agata e in Mario Gori gli altri elementi di spicco. Nel 1958 pubblica Muddichi di Suli (Molliche di Sole) (con traduzione di Antonio Corsaro, Edizioni Salesiane, Catania), da considerarsi il vero libro di esordio, che contiene molti dei tratti che costituiscono l’essenza della poesia di Di Pietro, quali la gentilezza espressiva, la continua eco del mondo dell’infanzia, e il monologare con Dio. È anche da sottolineare il progressivo distaccarsi dalle forme metriche tradizionali della poesia siciliana, quali il sonetto e l’ottava sici-liana (otto endecasillabi a rima alternata) per l’adozione del verso libero.

Rimasto vedovo nel 1961, Di Pietro si trasferisce a Viterbo l’anno successivo mantenendo tuttavia stretti contatti con l’ambiente culturale catanese.

Nel 1963 pubblica Tuta di villutu (Tuta di velluto) (prefazione di Giuseppe Villaroel e traduzione di Ermanno Scuderi, Il nuovo Cracas, Roma) con cui inizia la grande stagione della sua poesia, raccontando il processo di industrializza-zione della Sicilia, gli anni del boom economico, la veloce trasformazione della classe contadina in classe operaia, e la difficile convivenza del mondo paesano

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con i propri riti e il nuovo vorticoso divenire. Di Pietro tratteggia il cambiamento del paesaggio che si popola di ciminiere, la corsa ai pozzi petroliferi, e soprat-tutto il sorgere di nuove forme di sfruttamento e i problemi della appena nata, in Sicilia, classe operaia.

Nella poesia eponima, ad apertura di libro, Di Pietro affronta con risolutezza il tema della nuova situazione, culturale e sociale, che va prospettandosi: «Matri, / ccu avugghia e-ffilu di lu tò dialettu, di lu villutu ca papà mi detti / na tuta ficia la me puisia» (Madre, / con ago e filo del tuo dialetto, / dal velluto che papà mi diede / una tuta ho fatto per la mia poesia). Alla base vi è la consapevolezza della necessità del dialetto, della lingua che dal popolo nasce e che allo stesso dà dignità, capace di raccontare con il prodigio della poesia che il velluto degli abiti dei contadini siciliani si è trasformato in una tuta, e che la stessa poesia sta mutando, perché «ssa tuta / è la nova bannera di Sicilia» (questa tuta / è la nuova bandiera di Sicilia). Sono gli anni delle grandi speranze, e nascono come d’in-canto il polo industriale di Termini Imerese, l’impianto petrolchimico di Gela, e le raffinerie di Priolo e di Augusta. In altri testi il poeta sviluppa questo tema, e il suo dettato è ispirato da una gioia che va progressivamente declinando: «Li me versi nàsciunu / dintra l’officina di lu jornu, / comu faiddi di ferru nfucatu: / e-ccantanu / canzuni d’ancunia e di marteddu» (I miei versi nascono / dentro l’officina del giorno / come faville di ferro infuocato / e cantano / canzoni d’in-cudine e di martello).

Tradizioni e gesti secolari devono confrontarsi con un nuovo paesaggio, con un nuovo modo di concepire la propria vita, le proprie abitudini, e mentre le nuove generazioni sembrano adattarsi rapidamente i vecchi restano al margine disorientati: «Pirchì mi lassastivu a-ppedi scausi / nna li strati d’un munnu / senza funtani d’amuri, / senza funtani di paci?» (Perché mi avete lasciato a piedi scalzi / nelle strade di un mondo / senza fontane d’amore, senza fontane di pace?). E si va al lavoro, novità assoluta, spostandosi in treno: «Catena di rriloggi a-ccucù / ccu-ttesti a li finistreddi / e-pporta l’ura d’unni passa» (Catena di orologi a cucù / con teste ai finestrini / e porta le ore dove passa), con le fermate a orario che scandiscono la giornata.

Tema caro a Salvatore Di Pietro, che frequentemente ritorna nelle sue poesie, è il Natale della sua infanzia, dei primi ricordi, che il progresso vorticoso sembra volere contaminare: «Bonanotti / albiru di lu Natali miu, / senza Bbamminu e-nnacchiri a li rrami, / bonanotti» (Buonanotte / albero del mio Natale, / senza Bambino e nacchere ai rami, / buonanotte). Il libro si chiude con l’emozione dei versi dedicati alla moglie scomparsa giovanissima, con l’invocazione di lasciare tutto immutabile per perpetuare il dolore: «Nun lu smuntati lu me lettu granni, / lassatilu accussì / ccu ssa mpronta di testa a lu cuscinu, / ccu ssu sudariu di l’amuri miu. // Lassatilu accussì / a-llibru apertu di li sonni mei, / ccu Mmichela ca rrac-cama bammini / supra pagini bbianchi di linzola» (Non lo smontate il mio letto di matrimonio / lasciatelo com’è / con quella impronta della testa sul cuscino, /

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con quel sudario dell’amor mio. // Lasciatelo così / libro aperto dei sogni miei, / con Michela che ricama bambini / sopra pagine bianche di lenzuola).

Nella prefazione Giuseppe Villaroel, oggi dimenticatissimo poeta catanese ma protagonista, nella prima metà del Novecento, di una stagione poetica molto celebrata, commenta: “In questa necessità interiore dell’immettere un mondo nuovo nel linguaggio del popolo; necessità che deriva proprio dall’adeguarsi alla vita in un’atmosfera del tutto modificata dai mutamenti sociali, dalle scoperte scientifiche, dal formarsi di nuovi strati psicologici nella vita della comunità moderna, in questa necessità, diciamo, Salvatore Di Pietro si accorse che anche la poesia dialettale, doveva seguire il cammino dello storia; non poteva restare arenata al passato”.

Stabilitosi dunque a Viterbo, nella casa di Via Istria n. 30, risposatosi nel 1964, Di Pietro collabora con la RAI curando il programma “Sicilia canta”, e diviene presidente dell’associazione “Tuscia dialettale”. Nel 1970 pubblica Viterbo in onda verde, con introduzione di Sandro Vismara, unico libro di poesia in italiano, per poi tornare al dialetto con Diu s’è fattu di ferru (Dio si è fatto di ferro) (Giannotta, Catania, 1974), e con la plaquette La tratta di li brunni (La tratta dei bruni) (Edigraf, Catania, 1975).

In Diu s’è fattu di ferru Di Pietro ha completato il percorso di progressivo distacco dalla metrica tradizionale con l’adozione del verso libero. Nel libro è forte la suggestione quasimodiana, con l’andamento litanico dell’anafora e della ripresa, della “lamentazione” meridionale, con il rischio sempre incombente dell’emigrazione in direzione del Nord del Paese, col non risolto conflitto tra mondo contadino e il nuovo contesto industriale: «Diu s’è fattu di ferru… / e la campagna chianci, / ca lu paradisu è ‘nta ‘stu nfernu» (Dio si è fatto di ferro… / e la campagna piange, / perché il paradiso è in questo inferno). La figura di Cristo diventa il simbolo di ogni sofferenza: «Cristu risuscita a Priolu! // Ed angili di fumu / scàsanu di li cimineri: / angili niuri, / ccu trummi di sireni / ppi ‘ssi madonni ccu bammini ‘m brazza,/ ca davanti a li porti aspettanu / ‘na tuta blù» (Cristo è risuscitato a Priolo! // Ed angeli di fumo / schizzano dalle ciminiere: / angeli neri, / con trombe di sirene / per quelle madonne con bambini in braccio, / che davanti alle porte aspettano / una tuta blu).

La tratta di li brunni (La tratta dei bruni) è una plaquette che comprende sette poesie ispirate alla lotta contro il razzismo e il pregiudizio. Forte, poi, è la preoc-cupazione che il nuovo benessere, nato con il sacrificio dei contadini e degli operai, sia fragile e illusorio. Amari i versi in cui si protesta «Scumpartimentu di secunna classi: / ottu posti ppi sedici Tirruni / e panzi di valigi di cartuni» (Scompartimento di seconda classe: / otto posti per sedici Terroni / e pance di valigie di cartone).

Il successivo È nuovamente giorno (Rebellato, Quarto d’Altino, Venezia, 1977), pubblicato quando il poeta è già ultrasettantenne, è il libro più corposo e complesso. Il Natale è ancora una volta il momento dei sensi di colpa, dei grandi

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rimpianti, della consapevolezza del male compiuto e subito: «A Gesù Cristu l’am-mazzamu nui, / e ppi gustu di ‘ssu trimennu mali, / lu facemu rinasciri a Natali, / iu, tu, vui!» (Gesù Cristo l’ammazziamo noi, / e per gusto di quest’orrendo male, / lo facciamo rinascere a Natale, / io, tu, voi!). E ancora viene denunciato il conflitto tra le generazioni, mondi sordi e indifferenti l’uno all’altro, e lo sfrut-tamento dei lavoratori, con versi, sempre attuali, dove si denunciano il carovita e l’austerità. In Spillacci e cartapista (Signorotti e cartapesta), poesia tra le più significative della sua produzione, viene descritta la processione di «Santi di cartapista / supra li nostri spaddi di divoti» (Santi di cartapesta / sopra le nostre spalle di devoti), con in testa i signorotti locali che «di la panza ni fannu ‘na vitrina» (della pancia ne fanno una vetrina). Mentre si svolge il sacro rito «’Nu vecchiu sparracia: / li miraculi li fici iu / e all’ultimata / ni la rivincita di la zappa / mi lassastivu sulu e senza aiutu / comu si jetta un limuni mungiutu» (un vecchio brontola: / i miracoli li ho fatti io / e in conclusione / nella rivincita della zappa / mi avete lasciato solo e senza aiuto / come si butta un limone spremuto).

Con versi vigorosi Di Pietro tratta il rapporto, tutto interiore, tra i vivi e i morti come nella bellissima Crisantemi: «Ni lu celu, crisantemi di nuvuli / si spampanu… / portanu a li vivi l’amuri di li morti» (Nel cielo, crisantemi di nuvole / si spampano… / portano ai vivi / l’amore dei morti). E nei versi toccanti dedicati al padre: «senza tempu e spaziu ppi Tia, / ummira silinziusa, ccu l’età / di ‘n’ucchiata di Suli d’autunnu, / o Pa’ / e mi sembravi Tu l’eternità» (senzatempo e spazio per Te, / ombra silenziosa, con età / di una occhiata di Sole d’au-tunno, / o Padre / e mi sembravi Tu l’eternità).

Curiosamente nei suoi versi appaiono verbi coniugati al tempo futuro (es. scuprirai, sarà, chiancirà), estraneo al dialetto siciliano, dove viene usato il tempo presente. In siciliano, ad esempio, per dire io andrò si dice io vado (iuvaiu).

Temi sociali visti sotto la luce di un cristianesimo critico e operativo troviamo anche nell’ultima produzione. Ermanno Scuderi nella prefazione a Pueta e tempu(Poeta e tempo) (Greco, Catania, 1984) annota che “Sua caratteristica è quella, mi sembra, di interiorizzare il sociale e di conferire ai più intimi sentimenti una dimensione che va al di là dei limiti individuali per toccare i vasti interessi della comunità”. Nella poesia Basilicò (Basilico), riprendendo il tema nostalgico dell’infanzia e del paese natale, Di Pietro scrive «Ni lu me paisi a ‘st’ura / lu Suli, arginteri, è strati strati / e ccu’ sti vitrini di cammisi / li carusi vannianu / l’argentu vivu chi hannu ‘ntra li vini. // […] // Ni lu me paisi a ‘st’ura / nun c’è tempu ppi mietiri lu tempu» (Nel mio paese a quest’ora / il Sole, argentiere, è per le strade / e con queste vetrine di camicie / i ragazzi gridano / l’argento vivo che hanno nelle vene. // […] // Nel mio paese a quest’ora / non c’è tempo per mietere il tempo). In Quannu la pampina cadi (Quando la foglia cade) il poeta, riflettendosul declinare della sua vita, sommessamente sospira «Quannu la pampina cadi / nun c’è età né scontru d’autru munnu / c’è sulu lu so autunnu» (Quando la foglia

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cade / non c’è età né scontro d’altro mondo / c’è soltanto il suo autunno).Segue il libro Immagini (Mario dell’Arco, Roma, 1986), dedicato alla moglie

Rosella. Stemperati i temi sociali, si accentua la vena intima della poesia di Di Pietro, che prende i tratti di una dolcezza cantabile: «Ristuccia / vrazza mugni di li spighi / unni la carànnula cuva / e lo so’ masculu canta / ni lu celu di ‘ssu nidu ‘n terra. // […] // Pensu e cantu a la carannula» (Stoppia / braccia monche delle spighe / dove la calandra cova / e il suo maschio canta / nel cielo di quel nido in terra // […] // Penso e canto alla calandra). Diviene centrale il tema del rapporto con Dio. Nella poesia Fami (Fame) parla di sé intento alla lettura del Vangelo, ma «Ma non è facili / truvari assittaturi a latu di Diu» (Non è facile / trovare da sedersi accanto a Dio). Scrive Giovanni Tesio nella presentazione che nel libro “prevale una saggezza raggiunta e vagamente favolosa, qualche volta giocosa – resistenza d’amore che non cessa di cantare -, ma a volte, anche nel commento troppo ravvicinato alla attualità, vi si insinua una debolezza non esente da rischi. A volte vi appaiono fiondanti voci di popolo oppure degli aforismi di personale costrutto”.

Due anni dopo è la volta di Supra righi di zebra (Sopra righe di zebra) (Pungitopo, Marina di Patti, Messina, 1988). Scrive bene Rino Giacone nella presentazione: “È incredibile e commovente come questo poeta, giunto ad un’età in cui sembra naturale fare dei consuntivi, non si volga mai indietro, ma guardi ancora, con gli occhi stupefatti di fanciullo, al mistero fascinoso della vita traendo accenti di suggestiva liricità”. Fino agli ultimi giorni Salvatore Di Pietro continua a scrivere, e annuncia l’uscita di un nuovo libro Vangelu Zingaru(Vangelo Zingaro), che verrà pubblicato postumo (prefazione di Pietro Gibellini, Comune di Pachino, 2000).

Fino alla fine l’autore di Tuta di villutu e di È nuovamente giorno continuerà a fare la spola tra Viterbo e Catania. Nella città etnea trascorre abitualmente i mesi invernali nella casa di Via Santa Caterina n. 9, nel centro storico, una stra-della incuneata tra la Piazza Carlo Alberto, sede del mercato, la Via Umberto I e il cineteatro Odeon, coccolato e amato patriarca, anche per il carattere generoso e per la particolare mitezza del carattere.

Muore a Viterbo il 13 febbraio 1990.Renato Pennisi

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Lungo Viaggio al termine di un… Notturno Italiano e… oltre…di Pippo Di Marca1

La notte è, o almeno io e tantissimi altri crediamo che sia, la dimensione più magica dell’esistenza. La notte, che è un po’ il nostro cavallo alato; “La notte”, che, per l’appunto, come dice Bolaño che disse Breton del grande poeta surrealista della Guyana del Sud detto ( inventato?) Régis de Saint-Clair , “è il suo cavallo”. Di notte si sogna, di notte si è più liberi dall’oscenità gridata della luce, si accende invece la fantasia, si vola con lei, ci si sente più protetti dal misterioso silenzio del buio, si puo’ meglio viaggiare furtivi alla scoperta del mondo, lasciarsi prendere e trascinare dalla sua parte più nascosta, più irraggiungibile… L’ho appreso fin da piccolo, nel bar di mio padre, che restava aperto, e pieno di gente, sino all’una e mezza, le due, a volte fino all’alba. A un certo punto mi mandavano a dormire, nella casa a due passi dal bar, ma io meditavo, o sognavo, di scendere, di infilarmi dentro uno dei camion , preferibilmente quello che andava più lontano, e di partire con i camionisti che dopo essersi imbuzzati di panini, sfincioni e litri di caffé si avventuravano per le lande più lontane e sconosciute della Sicilia e addirittura dell’Italia, del ‘continente’, alla scoperta di…

… Di cose da scoprire, del resto, ce n’erano già così tante lì, in quel bar, che alla fin fine, non avendo il coraggio di tramutare in realtà i miei sogni di fuga coi camionisti, mi poteva bastare attardarmi un po’ la sera ( magari facendo finta di niente, prima che mio padre mi intimasse di andare a dormire, la mattina c’era da alzarsi presto e andare a scuola!) per farne incetta, per alimentare la mia curio-sità, la sete di cose straordinarie, delle cose dei grandi, l’unica scuola, a dirla tutta, che mi interessava…

E i grandi che facevano? Tantissime cose, tantissime scempiaggini, tantis-sime partite a carte nel retro, tantissimi, accesissimi diverbi di opposte tifoserie, sia calcitisco sportive sia politiche demo/fascio/monarco/comuniste. Ma soprat-tutto, specie d’estate, ogni sera, quando calava il buio, alzavano il sipario del loro spettacolo più interessante, il più sentito, il più strambo, forse il più necessario.

1 Le foto sono di Paola Spinelli.

Pippo Di Marca

PER

SON

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Si riunivano attorno a un grande tavolo a bere birra in interminabili partite di tocco. Che cos’è il tocco? Si ordinano e si pagano tante bottiglie di birra quanti sono i partecipanti; per ogni bottiglia o gruppo di bottiglie, dopo opportuna conta – per questo si chiama tocco, si ‘tocca’, ossia si fa la conta – dei numeri lanciati a mano aperta dai partecipanti, la ‘sorte’ indica un padrone delle bottiglie, il quale sceglie un sottopadrone: così può cominciare il tocco, con la distribuzione delle bevute tra tutti. Col cazzo! A quel punto comincia il bello! Il padrone è tale per modo di dire, qualsiasi proposta egli faccia, naturalmente attenendosi a prescritte regole e formule, deve essere ‘approvata’ dal sottopadrone! Altrimenti, la birra essendo ‘sua’, se si impunta, se non accetta mediazioni e si mette contro il sottopadrone, non gli resta altro che bersela lui, al limite fino a ingozzarsi a morte! Ero ancora un ragazzino, un adolescente, ma lì capii che assistevo a una straordinaria quanto raccapricciante rappresentazione dei rapporti sociali, come se quel ‘micromondo’ che si esibiva notte dopo notte – con in suoi odii, le sue idiosincrasie, gelosie, vendette, amicizie, tradimenti, spocchia, alleanze, bellige-ranze estremamente mutevoli, soggette al vento della loro in apparenza inspiega-bile volubilità – era, né più e né meno, una replica bastarda, in piccolo, della grande rappresentazione del mondo di fuori, del mondo lontano dove andavano i camionisti, il mondo della generale belligeranza permanente, della ‘conflittua-lità universale’ di cui percepivo l’eco attraverso la radio o la televisione ( i gior-nali non li leggevo allora, solo Gordon Flash e Tex Willer; e giusto per curiosità, e per stropicciarli a dovere, Bolero film e Grand Hotel, tra i pascoli segreti di mia sorella) e qualche volta addirittura a scuola, dai salesiani.

Fatto sta che quel gioco, il tocco, entrò nel mio immaginario come una specie di porta della conoscenza, intesa anche come ‘fantasia’, ‘mara-viglia’, sull’essere, i suoi piaceri, i suoi dolori, i suoi imperscrutabili destini. E tale è rimasto negli anni e nei decenni successivi: acquattato zitto zitto dentro di me come il primo e più resistente tra gli scrigni segreti della mia magica età infantile a ricor-

darmi, a mettermi di fronte a nefandezze, orrori, ingiustizie, violenze, soprusi, infamità, ai più viscerali e idioti e arcaici e gioiosi e truci e crudeli godimenti/comportamenti dei nostri simili, senza distinzioni degne di essere segnalate, sotto tutte le latitudini.

Col Tempo, ovviamente, agli scrigni primigenii ( come quando, fino agli 11,12 anni, per sentito dire, amavo tanto le partite di pallone che m’ero convinto fossero così importanti da durare giornate intere, sicuramente più delle intermi-nabili partite nel campetto dell’oratorio che giocavamo senza smettere, fino allo

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sfinimento, o a che non si vedeva più il pallone ; o quando, fino ai 14 ,15 anni sognavo, avendone la certezza!, di diventare il nuovo Coppi, vincere Giri e Tour come lui, e, naturalmente, battere il record dell’ora; o come i mille innamora-menti sicuri al mille per mille, le Rite, le Rose, le Agatine, le Ines, le Lucille… non corrisposti al cento per cento!) di allora nel magazzino, invero ben capiente, del mio immaginario ne vennero aggiunti e stipati tanti altri. E così sono andato avanti per decenni di immaginario in immaginario lasciando che si accumulas-sero, si succedessero, si moltiplicassero, vivendo e, in difenitiva, anch’io molti-plicandomi… Col rischio, è chiaro come il sole e al tempo stesso oscuro come la notte, di tralasciarne o dimenticarne qualcuno man mano che dovevo dare udienza ai nuovi arrivati, più o meno previsti o prevedibili, ma quasi sempre, al postutto, ‘evocati’ da me stesso, dai miei comportamenti, dalle mie sterzate umorali e amorali, dalle mie storie, dallo spirito d’avventura, dall’infinita curiosità sulla caledoscopica poeticità impoetica dell’esistenza, dall’essere rimasto un eterno fanciullo sospeso nell’indeterminatezza e nella ferocia dei casi umani, facile vittima di ogni predazione etcetera…

Ad esempio, per completare il discorso sugli scrigni primigenii delle fantasie sportive e amorose, ben presto furono ridimensionate.Per le prime, quelle ‘sportive’, quanto al ciclismo, di fronte all’evidenza che i risultati – m’ero addi-rittura iscritto tra gli esordienti all’Uvi, Unione velocipedistica italiana –, sommo scacco!, non arrivavano, soprattutto in salita; quanto al calcio, allorché mi portarono a vedere la prima partita vera giocata al Cibali, che fino a quel pomeriggio apparentavo al mitico Maracanà alla stregua di paradisi del pallone in cui ci si poteva beatamente abbandonare a vita, se non per l’eternità, e con mia enorme, indicibile delusione, finì, per di più zero a zero, che ancora non avevo mangiato il terzo dei sei panini portati da casa, che il sole splendeva ancora alto, troppo alto, sull’orizzonte, l’orizzonte del mio sogno che sfumava tristissimamente.

Per le seconde, i turbamenti amorosi, successe il contrario, il sogno un certo giorno si avverò, quando Maddalena, già zinnata di brutto, alla soglia dei nostri 13 anni, mi portò nel gabinetto della maestra dove andavamo a doposcuola e ci baciammo e limonammo da pazzi e tutta lei emanava quell’odore e quel sapore umorali di corpo non lavato, selvaggio, mai più dimenticato, finché non bussa-rono e si scatenarono allarmatissimi, la maestra, incazzata nera, l’intera classe, ripartita cinquanta e cinquanta tra invidie e risolini… Ovviamente, come vole-vasi dimostrare, le passioni assolute per il calcio (… prova ne sia che un paio d’anni dopo, al termine della ‘meravigliosa’ partita tra il Catania e l’ ex grande

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Ungheria sfuggita al regime del suo paese e in tournèe negli stadi di mezza Europa, mi infilai con la prepotenza ossuta dei miei quindici anni di mingherlino come una sardina dentro il pullman della squadra parcheggiato nel piazzale all’esterno del Cibali e letteralmente strappai a un attonito e divertito, immenso Ferenc Puskas un autografo che mi tenni e tengo stretto, e debitamente ‘incorni-ciato’, come una reliquia o un amuleto donatomi, per interposta persona, dall’inaccessibile dio del pallone… ), per il ciclismo e per l’amore-amore, al netto delle immancabili delusioni, non sono più cessate e ancorché sotterranea-mente, quasi a soccorrere discrete ma presentissime nei momenti peggiori , continuano imperterrite, più di altri immaginarii, a restare tra le maggiormente battute…

… Finché, un po’ alla volta, senza fretta, imparai anche l’ita-liano, la mia seconda lingua. E a leggere. Di tutto. E special-mente andare al cinema, non solo gli Stanlio e Ollio domeni-cali dei salesiani. Anche due filmal giorno. Nei cinema di terza categoria li proiettavano a due alla volta con un biglietto unico : nella mia affollata agendina di precocissimo archivista di ‘sogni’ del solo ’51 spiccavano per presenze, leggi film con loro come protagonisti, Errol Flynn 10, Burt Lancaster 11, Viveca Lindfors 7, Tyrone Power 9, Mel Ferrer 5, Rita Hayworth 7, Cary Grant 10, Humphrey Bogart 9, Lauren Bacall 6, Clark Gable 4, Spencer Tracy 4, Frank Sinatra 6, James Stewart 5, Lana Turner 5, Edward G. Robinson 4, Gary Cooper 6, Kirk Douglas 6, Ava Gardner 11… volete che continui?… E il mondo s’apriva su infiniti panorami, mentre continuavo a fare i conti con lo squallore , le miserie, il degrado, eppure la inoppugnabile teatralità degli orizzonti più vicini, la strada, il quartiere, i vinai, il bar di mio padre, i muri scoscesi, le aule freddissime della scuola elementare Luigi Capuana, la feroce presenza, la potenza sfacciata del sole, che in me suscitava e suscita sentimenti sempre spurii, di odi et amo, che imponeva su tutti e tutto la sua forza livellatrice, come se tutto, ma proprio tutto, dovesse splendere, sempre!, a dispetto di ogni cosa, di ogni disgrazia, di ogni pianto, di ogni grido, di ogni risata!

Finché mi ritrovai, quasi senza volerlo, a scrivere, per il giornaletto del liceo Cutelli.

E il mio immaginario timidamente provò a misurarsi con il giallo. La mia rubrica mensile, contenente un raccontino, si intitolava ‘ Indovinala, giallo!’

Finché, dopo la maturità, mi ritrovai – grazie alle entrature nell’ambiente di un mezzo cugino di mio padre che dirigeva la sede Sisal locale del totocalcio e

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bazzicava nelle redazioni dei giornali – a tu per tu con Pippo Fava, caporedattore della cronaca (oltre che straordinaria persona, generosa, ludica, solare, inarresta-bile, buona, carismatica, trascinatrice) del pomeridiano Espresso Sera. Per più di quattro anni sotto la sua ferma guida, tra fraterna e paterna, io allora avevo 18 anni e lui 33 o 34, mi occupai di cronaca nera e giudiziaria: tutti i giorni tra ospe-dali, commissariati, mattinale dei carabinieri, palazzo di giustizia e poi di corsa al giornale a ‘scrivere il pezzo’, a volte scompisciandoci dalle risate, perché io, sempre in ritardo, spesso, per guadagnare tempo, ero costretto a leggergli ad alta voce quello che stavo scrivendo: e quella volta che gridai “ la povera vittima fu costretta a subire un coito anale e poi un coito orale e infine un coito vaginale” e lui mi interruppe ridanciano: Ragazzo mio! Quante volte te lo devo dire! Tu mi vuoi fare licenziare! Chi lo sente il direttore! In questo giornale non si può fare… pornografia! Non siamo ancora pronti per scrivere la parola coito! Metti, che so, ripetuti atti sessuali, cazzo!

Finché quelle prime, forsennate, multiformi fantasticherie, quelle cavalcate di vita, in certo senso una pacchia fumogena ed euforica al limite della surrealtà o dell’irrealtà, col suo illu-sorio corredo di garantita irresponsabilità e la sicumera giovane di immortalità felice, di futuri radiosi, quando non di ‘volontà di potenza’ andarono a sbattere contro un camion della CocaCola, di quelli alti a due piani come coraz-zate che trasportavano migliaia di bottiglie… Me lo ricordo venirmi incontro e contro con tutta la sua, quella sì!, potenza ed enormità, io giù, sotto, alla guida di una Giulietta sprint rossa che avrebbe potuto infilarsi in mezzo alle ruote per quanto era bassa, e l’improvvisa ster-zata a sinistra, puntando a buttarmi fuori strada, e l’impatto pieno con il copertone della ruota destra del mostro, e il rinculo e i giri della macchina su se stessa, e il sangue che scorreva a fiotti dal mio collo, rosso sul maglione rosso appena comprato, e i dolori al petto e alle costole, e le grida della ragazza che era con me, illesa ma in stato di choc, isterica, con i dolcissimi occhi che l’avevano trasformata in una deforme, orribile erinni e il mio primo pensiero, ora che m’invento da raccontare a mio padre (da sempre contrario che comprassi quella macchina di seconda mano ancorché coi soldi guadagnati lavorando al giornale), e la corsa di un soccorritore all’ospedale di Taormina, e soprattutto quel centimetro, o due, discosto dalla giugulare sinistra, grazie al quale ero ancora in vita… E l’addio al giornalismo. Quei giorni, in quell’ospedale, il giornalista in pectore – ormai saturo e francamente schifato da tutto quel viavai di sparatorie, morti ammazzati,

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feriti, incidenti, stupri, puttane, magnaccia, ospedali, commissariati, squadre della buon costume, tribunale, corte d’assise, requisitorie, arringhe, sentenze, corruzione, giudici spesso compiacenti, delitti impuniti, come se non gli appar-tenessero più, come fosse stato semplicemente un mero apprendistato neutro alla macchina da scrivere o l’esercizio narcisistico di un’autogratificazione da provin-ciale –, si tramutò in uno scrittore. Nelle lunghe settimane di degenza nacque la voglia, il bisogno di raccontare quella storia, elaborare quel trauma terribile: l’aver visto in faccia la morte mi fece scoprire che la vita è anche altra, non sogni, non parco di divertimenti, ma violenza, disfacimento, che la scrittura poteva servire a trasmettere tutto questo, a trasfigurarlo, magari per rimarginare ferite profonde, o a disvelarlo, magari per condividerlo con altri.

Così nacque ‘Storie paral-lele’ ( il mio primo romanzo, tuttora inedito, sta da qualche parte, nel fondo di un cassetto, narra di due coppie di giovani innamorati che a distanza di pochi mesi l’una dall’altra muiono in incidenti automobi-listici pressoché identici, nella stessa curva della strada nazio-nale ionica e… della vita), così i miei orizzonti, in un sol colpo,

si aprirono, anzi si spalancarono. Sul momento non avevo la più pallida idea di come e dove, però seppi che s’erano spalancati: e con essi , e alla stessa indefinitamaniera e con stessa provinciale vaghezza circa eccellenze, ambiti e luoghi, si allargarono i miei compulsivi ‘immaginari’. Correva l’anno ’64. Mi informai. Mandai il dattiloscritto tra gli altri a Niccolò Gallo ( all’epoca la ‘mente’ della Mondadori) e a Geno Pampaloni (il guru della Vallecchi). Mi risposerò tutti e due. Mi convocarono per un incontro: diretto: così si usava allora, che tempi! Cominciò il mio ‘giro d’Italia’: prima tappa, Firenze, sede della Vallecchi; seconda tappa, Roma, il domicilio di Niccolò Gallo a Piazza Ungheria. Erano entrambi entusiasti e furono prodighi di consigli, di suggerimenti, di sollecita-zioni, di cure ( specie Gallo, sensibile, squisito, coltissimo; mi avrebbe ricordato, più tardi, altri cari amici/consiglieri come Angelo Ripellino o Giorgio Melchiori). Tutte cose di cui avrei dovuto tener conto per poi ritornare dall’uno e dall’altro, beninteso ignari, e procedere alla pubblicazione. Non feci nulla. Non riuscii a cambiare un rigo. Non per sgarbo nei loro confronti. Mi avevano ‘gratificato’, mi avevano ‘aperto’ l’accesso a un mondo, mi avevano ‘illuminato’ su me stesso, li avevo ‘adorati’. Solo che l’idea di rimettere mano, riandare a quanto già scritto mi faceva star male. Fu più forte di me: era come stravolgere pezzi o parti del mio corpo, qualcosa che apparteneva solo a me. Non feci nulla. Per mesi, invece,

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mi trastullai pensando e fantasticando solo di Roma e di Firenze e dell’aria e della ‘libertà’ che vi avevo respirato… e del mio futuro…

Che in effetti, lo sapevo bene, rimandavo la fuga verso altri lidi di mese in mese, era già segnato fin dal giorno in cui avevo parlato, un intero pomeriggio, con Niccolò Gallo ( poi gli telefonai più volte per scusarmi della mia colpevole indolenza, adducendo le mie ragioni che lui con notevole tatto e sensibilità capì e recepì, dimostrando oltretutto una non comune consapevolezza etica, antiutili-taristica, rispetto al suo lavoro e al suo ruolo di uomo di cultura ). E che metteva Roma al primo posto nelle orbite quanto mai effervescenti e pure un tantino surrettizie dei miei potenziali ‘immaginari’ di allora: non proprio la città ideale, ma sicuramente un grande laboratorio in atto sul presente, su quel presente che sembrava finalmente risvegliarsi mettendosi alle spalle un dopoguerra lento e faticoso. Questo un po’ l’avevo capito. E così, stando al centro dello stivale, per la prima volta, da emigrante di lusso, mi sentii Italiano! Ero uscito da un’isola: entravo in una penisola, in una terra più ferma. In realtà fu una specie di terre-moto, di frenesia a tutto campo. Non sapevo nulla, non ero mai stato a teatro, tranne alle farse della parrocchia o del teatro dialettale, al varietà di certi cine-teatri che te li raccomando e al teatro dell’Opera di Catania, dove avevo fatto anche la comparsa alla Traviata; sapevo qualcosa dei sunti del Readers Digest, qualcosa di Steinbeck, qualcosa di Brancati, avevo letto Le parrocchie di Regal-petra e Gli zii di Sicilia di Sciascia e naturalmente Verga e Manzoni e Leopardi e Dante e i poeti delle antologie per via del liceo. In poche parole, e in definitiva,infarinature. In men che non si dica conobbi Carmelo Bene, mi tollerò generosa-mente, mi informò su se stesso e (invero poco) su quanto stava succedendo, mi parlò dell’imminente convegno di Ivrea sul ‘nuovo teatro’; fui assiduo della mitica Feltrinelli di via del Babuino, divorai l’almanacco Feltrinelli, credo del ’65, come fosse una piccola bibbia, cominciai a leggere ogni sorta di libri, saggi, racconti, romanzi, a frequentare le gallerie d’arte, le mostre, andare agli incontri, ai dibattiti, con Arbasino, Moravia, Pasolini a portata di mano, che gli potevi parlare, li potevi toccare, potevi intervenire; fui al teatro di via Belsiana, all’Eliseo, a vedere Il gioco delle parti, I sei persoaggi ( scoprii Pirandello, a Roma!), Metti una sera a cena di Patroni Griffi, in seguito finii persino, con Prandino Visconti e altri scalmanati, nella sua terrazza la notte della radiocronaca dell’incontro di boxe tra Benvenuti e Griffith per il titolo mondiale dei pesi medi; e poi piazza del Popolo e piazza Navona e Via del Corso e Via Ripetta e via Margutta e via Veneto… Troppo! Dai, dai e dai, gira volta e rigira questa favola folle, questa girandola interminabile da un certo punto in poi, dopo un paio d’anni, anziché accumulare acriticamente ogni azione o esperienza o scoperta cominciò a espel-lerle, il suo turbinio non cessò, ma rallentò e si fece selettivo, più consapevole: fu allora (nel frattempo, oltre a Carmelo, che pretendeva non andassi a vedere nulla, tranne, casomai!, lui, avevo visto il Living, delle performances o installa-zioni in gallerie d’arte) che scelsi da che parte stare e cercai e trovai la mia ‘casa’,

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il Teatro La fede di via Portuense, un luogo periferico, un locale freddissimo, lungo e stretto, a forma di tunnel, buono come deposito o bottega artigianale, lontano dal centro, che presi a frequentare assiduamente. Lì vidi delle cose stra-ordinarie, vidi delle interessanti serate su Duchamp, che già conoscevo, era sulla bocca di tutti nel milieu dei pittori di Piazza del Popolo ; lì vidi uno spettacolo intensissimo di soli corpi in movimento del Poor Theatre, un gruppo americano di passaggio; lì entrai nel gruppo di Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann e ci rimasi per un paio d’anni facendo l’attore in un teatro di pura azione e inven-zione scenica piuttosto che di rappresentazione di testi drammaturgici… E dire che, una volta chiusa la parentesi con Gallo e Pampaloni e messe da parte forse un po’ precipitosamente le velleità di romanziere, avevo quasi deciso, subornato da tutto quel caos, quel ‘gran teatro’ che vorticava attorno a me, che avrei fatto il ‘drammaturgo’, mi sarei messo a ‘scrivere’ testi per il teatro!

In pochi mesi quell’idea malsana andò in polvere. Capii che il vero teatro, quello che stavo scegliendo di fare, nasce non a tavolino, seduti davanti a una scrivania, ma sulle tavole del palcoscenico, come risultato di un laboratorio non basato su testo e recitazione tradizionali, che elimini o sostituisca il testo drammaturgico con azioni, gesti, suoni, movimenti. musica dei corpi, ricerca e montaggi sperimentali per dar luogo e forma a una inedita e originale scritturascenica.

Questo passaggio, che poteva sembrare uno dei tanti, è diventato invece cruciale nella mia vita di artista ( e di uomo, di persona, le due cose per me sono inscindibili). Cruciale per almeno tre motivi, o esiti, peraltro tra di loro interconnessi, quasi a comporre un’istanza unica, il mio metodo, o la mia ideologia, di pratica e poetica artistica. Prima di tutto perché coincise con il ’68 e gli anni seguenti. Che non si possono liquidare come anni di grandi illu-sioni, di ribellione, di rivolta giovanile. Perché furono, per tantissimi, anni di crescita assoluta, di consapevolezza matura del mondo, di tutte le sue enormi magagne, di tutte le sue responsabi-lità, e specialmente di abbattimento di tutti i confini mentali imposti, di raggiungimento di visioni più alte e poetiche e libere della società e dell’umanità, della sua storia e della sua arte. In quella temperie, mentre il mio sacro fuoco artistico veniva alimentato e si coniugava saldamente a un’ ideologiaantitetica, apertamente oppositiva, la mia dimensione umana, di persona, di cittadino si aprì a orizzonti qualche anno prima inimmaginabili: altro che italiano! Presi piena coscienza, a tutti gli effetti e con tutte le conseguenti implicazioni

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possibili e impossibili , di essere, anche e soprattutto in quanto artista, un libero ‘cittadino del mondo’! Che si inoltrava con autentica passione, una qualche luci-dità e una vena di follia e (libero) arbitrio in un’esplorazione a tutto campodell’universo mondo, convogliando in un unico abbraccio, in una sola alchimia o istanza storie, geografie, narrazioni e la svariata galassia delle arti. Provando a tenere viva – al ritmo di un danza! danza! danza!, come dice Rimbaud – la primeva moltiplicazione euforica dei suoi immaginari!

In secondo luogo, per la paradossalitàdi questo lunghissimo tuffo (… o viaggio al termine della lunga notte… )… nel teatro… e in questo genere di teatro, di pura sperimentazione, di continua ricerca, dove non si da nulla per scontato, pre-scritto, che è andato avanti per… cinquant’anni. Perché per un verso, col tempo, si è rive-lato, è stato, una gabbia dorata, per un altro verso, al tempo stesso e proprio per la sua energia interna, centripeta, implosiva si è configurato come una specie di mostro a cento teste capace di inghiottire, incame-rare e veicolare un’incredibile quantità di altri passaggi, o ‘immaginari’ ( musica, mi sono ‘inverato’ come gran musi-cologo, arti visive, fotografia, videoarte, cinema, che è stato cardine della mia drammaturgia scenica, ginnastiche del cuore, della mente e del corpo ecc… ) o se si vuole di variazioni o declinazioni di un unico, ininterrotto, flusso ‘immagi-nario’.

Infine, terza ma non ultima ragione, perché ha finito, indirettamente, col salvaguardare, difendere, ibernare la letteratura: in certo senso rimasta incubata in me: che, tramite il teatro, mi sono servito e abbeverato alla fonte dei massimi scrittori, della grande letteratura altrui!

Il 50 per cento del mio teatro sperimentale ha trovato motivazione, ispira-zione e realizzazione massime nei romanzi, nelle atmosfere e nelle magmaticità letterarie più estreme, nelle pieghe delle esistenze degli autori, scavando cunicoli nel pozzo nero delle loro biografie, alla ricerca ‘scenica’ della loro temperatura più autentica.

Sì che la sostanza profonda della mia parabola teatrale, al netto del confronto e dell’attenzione dedicati e dovuti alla grande tradizione della drammaturgia universale, al canone occidentale( Shakespeare, Cechov, Ibsen, Pirandello, Beckett ecc.), è stata debitrice di innamoramenti e riferimenti più o meno radicali quasi esclusivamente con scrittori, letterati – oltre che con protagonisti delle arti visive e performative: tra cui devo almeno accennare all’incommensurabile, duraturo, ‘incarnato’ debito nei confronti di Marcel Duchamp, su cui ho costruito una vera

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e propria tetralogia teatrale e che si può dire successivamente ha permeato in maniera diretta o indiretta, subliminale, tutto il mio itinerario teatrale.

Sì che, limitandomi alla letteratura, sono passati nel mio ‘antro nero’, come diceva Quadri, o nei miei ‘romanzi teatrali’, come diceva Bartolucci, Huxley, Wilde, il grande ‘mistero’ Lautréamont, Merimèe/Bizet, Hawthorne, Sartre, il ribelle Genet, il geniale creatore di labirinti Borges, il neoavanguardista sulfureo Handke, l’immenso Joyce, il miei amici maestri di lucidità o travestimenti barocchi o provoca-zioni avanguardistiche Milanese, Bufalino e Sanguineti, il mio amico Cortàzar, disseminato a profusione per stagioni, il gigante Gadda, il re degli iconoclasti T. Bernhard, Valery, Enzen-sberger, l’universale Kafka, Conrad, il mio Poe, l’immaginifico,superbo, catacombale Manga-nelli, l’esploratore di geografie Matvejevic, Rulfo, l’autore di un solo libro, ma perfetto, Pedro Paramo, il cantore della Sicilia Vittorini, Dotto/Bene in memo-riam di Carmelo, Collodi/Pinocchio, Glenn Gould, Mandel’stam, Canetti e… Bolaño… forse il più grande di tutti, per me una folgorazione, l’ultimo dei grandi, colui che mi ha fatto riavvicinare alla letteratura, mi ha fatto ridiventare scrittore, mi ha quasi costretto a ritornare alle origini, a quelle origini da dove non erano mai stati espulsi, erano soltanto rimasti in sonno, i primi contagi da ‘immagi-nario’, nello specifico il mai dimenticato ‘tocco’ di birra della mia adolescenza.

Insomma, di immaginario in immaginario ero arrivato a lui, a Roberto Bolaño , tra il 2004, data in cui seppi e lessi di lui, e il 2009, in cui lo misi in scena ripetutamente per 4 o 5 anni, fino all’altro ieri, si può dire; eleggendolo a mio ‘faro’ indiscusso: come Joyce, Duchamp, Lautréamont, Kafka e altra compagnia bella… … E così il cerchio si chiuse, qui scattò la scintilla di riprendere a scri-vere di… letteratura.

(Di e sul teatro non avevo mai cessato di scrivere: se non ci fosse altro, baste-rebbero le note di regia! Ma questo era un dettaglio, in fondo. La vera questione, più profonda, era la seguente: che senso dare a questa svolta, a questa deci-sione, a questa ennesima ‘metamorfosi’ – apicale, visto che arrivava a più di cinquanta anni da ‘Storie parallele’, il mio romanzo giovanile, per così dire. Il senso,un senso, forse, me lo diede il caso. Proprio nei mesi in cui la decisione maturò, mi fu inopinatamente – in ritardo, era stata pubblicata non so quanti anni prima – regalata l’autobiografia di Luis Buñuel, un altro dei miei grandi ‘innamoramenti’. Appena l’ebbi in mano, sfogliai a caso il libro, intitolato “Dei miei sospiri estremi”, e sulla pagina c’era scritto, parola più parola meno, non lo ritrovo nel marasma della mia libreria, forse l’ho perduto:… Per tutta la vita mi

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sono speso come un ossesso per il cinema, senza tregua, spesso annoiandomi, o arrabbiandomi, alle prese con decine e decine di persone, a volte anche odiose, e “non ho fatto l’unica cosa che avrei voluto veramente fare, che ho sempre desiderato di fare con tutte le mie forze, che mi avrebbe reso felice: chiudermi in casa, in totale solitudine, e scrivere storie, romanzi”… )

Ma scrivere che cosa? Partire da che cosa? Un racconto breve – una fantasia su un tocco di birra notturno, con un personaggio, soprannominato il Sindaco per la presunta eleganza nel vestire, dalle caratteristiche molto bolañiane, che, da ‘padrone’, muore ammazzato all’alba, dopo avere ingozzato litri e litri di birra per non darla vinta al ‘sottopadrone’ – che aveva fato capolino più volte negli anni, si prese per così dire la ribalta. Mi misi al lavoro. Pensavo a qualcosa di secco, stringato, trenta, quaranta cartelle. Il titolo che gli avevo dato era diretto, chiaro, senza accorgimenti, si sapeva come sarebbe andata a finire: La morte del Sindaco. E in realtà li scrissi. Usando, come in tanto Bolaño, la prima persona, che mi sembrava la più efficace.

Subito però i nodi vennero al pettine. Bolaño o non Bolaño, il montaggio e l’assemblaggio e la disposizione ‘liquidi’ sulla pagina delle parole e dei capitoli possono risultare ben più complicati e complessi e al tempo stesso delicati che la costruzione ‘concreta’ di azioni teatrali sulla scena. Il protagonista, il Sindaco, era uno spazzino di cinquanta/sessanta anni, un uomo all’antica, un ignorante in un consesso di ignoranti, la maggior parte analfabeti che parlavano solo in dialetto. Egli non poteva raccontare la sua storia in buon italiano – ancorché magari, per dire, alla Camilleri, che oltretutto sarebbe stato quanto di più lontano immaginabile e accettabile da Bolaño –, senza contare che non poteva raccontare la sua morte! Tutto da rifare: la prima stesura de ‘La morte del Sindaco’ poteva essere, al massimo, un canovaccio. Occorreva un altro personaggio che potesse fungere da io narrante. Un personaggio possibilmente più giovane, certamente più istruito, più ‘sgamato’, come dicono a Roma, più moderno, per non dire contemporaneo. E certo non potevo trovarlo nel… 2015, visto che la vicenda andava collocata, era successa!, nei primi anni ’60. Dovevo cercarlo in un tempo coerente, successivo quanto bastava al tempo della storia. Scelsi l’anno 1975, l’anno in cui finì la guerra del Vietnam. L’io narrante non poteva essere che un sessantottino movimentista e anti-amerikano, se possibile già laureato, esisten-zialmente di estrazione popolare, abbastanza confuso, abbastanza morto di famee nella merda, non che aspirante poeta o scrittore ( più o meno come Bolaño a quell’età!). Roma, negli anni ’70, era piena, pullulava di gente così! Avevo l’imbarazzo della scelta. Cadde su un Testaccino. Romanista, come tutta la sua sbrindellata famiglia. Non restava che fare incontrare questo testaccino ‘rivolu-zionario’ con un personaggio vicino o amico del Sindaco che avesse vissuto in prima persona la notte del tocco e la morte del Sindaco e che di confidenza in confidenza la narrasse al giovane testaccino: il quale, promosso a io narrante, l’avrebbe messa per iscritto. L’incontro tra i due e il racconto dell’amico del

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Sindaco al giovane romano sarebbe avvenuto a Roma, durante una lunghissima notte che avrebbe fatto da simbolico pendant con la lontana notte del tocco e dell’assassinio, a Catania. Ben presto, pian piano, la storia mi prese la mano, o cipresi gusto, e, pagina dopo pagina, l’intreccio prese una sua strada, anzi parec-chie, decisamente imprevista. Gli incontri e le notti si moltiplicarono, da una diventarono quattro, e soprattutto si creò una specie di strana amicizia tra i due che finirono per raccontarsi, spesso su piani inclinati di paradossalità, assurdità e surrealtà assortite, oltre la storia del Sindaco, anche le loro vite, la storia delle loro vite, peraltro agli antipodi! Il libro, che cresceva di giorno in giorno, a quel punto, un paio d’anni dall’inizio della prima stesura, aveva per titolo ‘Notturno Italiano’. Ma attenzione: non solo perché tutti gli incontri e gran parte delle vicende narrate avvenivano di notte e in Italia, nella sua capitale: no: bensì per un debito e un omaggio subliminale a Roberto Bolaño e al suo romanzo Notturnocileno, per me uno dei suoi più belli, più tosti.

(L’omaggio, sia detto tra parentesi, è subliminale nel senso anche di effet-tuale, dato che l’incipit e la chiusa del mio libro sono uguali a quelli del suo libro, e sono, rispettivamente… “Adesso muio,… ” e “… una tempesta di merda”. Noto, en passant, che Bolaño avrebbe fortemente voluto intitolare quel libro con le parole della chiusa, fu il suo editore a pregarlo e a dissuaderlo, modificandoloin Notturno cileno).

Anche questa sorta di indebita commistione e ingerenza tuttavia si rivelò inadeguata, insoddisfacente. Anche ‘Notturno italiano’ stava stretto al libro. Che nel frattempo era cresciuto ulteriormente, a dismisura, c’era un universo, c’erano più universi, forse troppi, c’era la Sicilia, c’era l’Italia, ma c’era anche l’Europa, c’era tutto un mondo ‘picaresco’ di derelitti, di paria, di bordelli, di puttane, di reietti, di vite spezzate… E così quella ‘tempesta di merda’ con cui il libro si chiudeva, e si chiude, giunto alla terza stesura, agli inizi del 2019, si saldò col titolo di uno dei miei spettacoli su e da Bolaño: 2066: La linea spezzata della tempesta, che diventò – leggermente modificato, tolto il riferimento assoluta-mente improprio a una data tremenda, fatidica, e messo al plurale, riportato a persone, o personaggi, più che a situazioni –, al termine di un lungo viaggio… Linee spezzate nella tempesta.

Pippo Di Marca

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Magia Ciarla, la madre di Raffaellodi Maria Lenti

Magia, figlia di Battista Ciarla, è la madre di Raffaello Sanzio, morta quando lui aveva otto anni, nell’ottobre del 1491.

Come è accaduto alle donne per secoli e secoli e millenni, madri di persone comuni o madri di uomini o delle poche donne passate alla storia, di Magia Ciarla non resta una parola, una immagine, una frase. Notizie scarne dal testa-mento e dai libri del marito, Giovanni Santi: dote cospicua, ricco il guardaroba, vestiario raffinato. Di buona famiglia se è stata chiesta in moglie dal facoltoso, già relativamente celebre, poco più che quarantenne Giovanni. Che onorerà la giovane moglie: per il suo funerale pagherà, infatti, alla chiesa di San Francesco quattordici libbre di candele (otto di più di quelle pagate per la madre).

…e Raffaello: avrà sentito la madre “sparita”? L’avrà sepolta nell’oblio? o lo avranno spinto a seppellirla nel cielo, a crederla cioè chiamata dal Signore-Dio, da dove avrebbe vegliato invisibile su di lui? O l’avrà avvolta, presente in astra-zione, in un alone contornato di nóstos e algia?

Per la sua formazione Raffaello ha avuto, fino a undici anni, la guida del padre (morto nel 1494). Nella sua bottega manifesta predisposizione per la pittura e apprende a scegliere e mescolare i colori, a capire il verso del legno. Qui osserva il padre disegnare, usare il pennello per il rilievo di corpi e visi, studiare la composizione, sfumare o concentrare il colore a seconda della luce; lo ascolta ricevere commissioni, parlare di costi, pagamenti; lo sente impartire ordini; lo vede consigliarsi con Evangelista da Piandimeleto, primo Maestro del bambino Raffaello.

E dalla madre che cosa avrà avuto? Magia lo ha messo al mondo, presu-mibilmente lo ha allattato, lo ha tenuto tra le braccia, avrà immerso il gomito nell’acqua per l’assaggio della temperatura, lo avrà asciugato in teli di lino o di cotone: con l’attenzione dovuta ai maschi, come imponevano padri e norme, ma con l’amore di una madre, di tutte le madri in genere, per i propri figli di non importa qual sesso.

Magia lo ha vestito: prima la camicina bianca cucita in casa, la maglietta di lana fatta ai ferri, le fasce a stringerlo ché le ossa non soffrissero storture di sorta. In seguito, prese le misure del suo corpo, con le sarte di casa lo fa piccolo uomo, decidendo colori e stoffe, fattura, cappello.

Era impaziente Raffaello di correre fuori dalle costrizioni materne come - narrano letteratura, arte e memoria personale - tutti i bambini di qualsiasi tempo e luogo? Sbuffava e recalcitrava quando sua madre lo portava in chiesa alle funzioni? E lei, Magia Ciarla, quali rimproveri e richiami al figlio? Che compor-tamento gli avrà imposto di fronte alle persone del Palazzo dei duchi di Monte-

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feltro? Perché il futuro “divino pittore” entra da subito a corte con i genitori, essendo il padre Giovanni pittore, cerimoniere, scenografo, poeta nella casa dei Duchi di Urbino.

Penso alle tante Madonne di Raffaello: dolci, tenue la malinconia a volte, a volte un lieve sorriso (Madonna Benois, Madonna dei garofani), decise ma raffinate, tènere nel tenére saldamente il bambino: in un quadro la Madonna tocca i piedi di Gesù, in un altro si china verso quel figlio che sembra volersi liberare e scendere a terra, in un terzo lo stringe al petto, in un quarto appare sul punto di giocare con lui, in un altro lo ha saldo sulle ginocchia orgogliosa. Penso al manto della Madonna Sistina: alitato da un soffio di vento, sembra sollevare verso l’alto la donna che sorregge nel braccio destro il figlio. Penso alla BellaGiardiniera, alla Madonna del Cardellino, a….: mai sola la Madonna, sempre con il bambino sereno o in procinto di sottrarsi al suo controllo, adorante verso il viso materno o scostato dal busto, ...e lei che, sollecita a che niente sfugga, “tiene la situazione”.

Rammemoro le donne che Raphael urbinas (la firma) ha avuto come modelle, a quelle che lui ha amato e da cui è stato amato o, magari, solo ammirato: al passaggio del suo feretro a Roma una folla, per lo più femminile, sui due lati piange la sua morte -1520 -.

Mi piace credere che il dipintore, pur con bellissime donne davanti, si mettesse al cavalletto con in sé sempre il ricordo sfumato di una madre lontana, forse evocata e, quindi, rievocata nelle Madonne amorose, mai sdolcinate: una pelle sulla quale la mano infante talora sosta a lungo, un fiato sul corpo del piccolo, una mano a sfiorare il suo viso, un braccio ad avvolgere la creatura.

Magia avrà insegnato a Raffaello a camminare, a dire parole. Lo avrà avviato all’ordine armonico nelle e delle sue cose, agli orari da rispettare, al corretto porsi e porgere. Come le donne benestanti e agiate del Quattrocento non avrà ignorato cognizioni culturali pur minime: pertanto con lui avrà compitato numeri, a lui avrà suggerito brevi componimenti. Gli avrà dato esempio di serietà. Lo avrà avviato a non pretendere tutto dagli altri e a volere molto da sé dando campo alle inclinazioni della propria sensibilità e intelligenza, alla declinazione giusta per guardare (nel senso proprio di fare la guardia) sé stesso.

Sarà transitato, di questa oculatezza pratica da calare in interiore, qualche germe in Raffaello, giovane a Città di Castello a Perugia a Firenze a Roma, poi grande nella sua bottega al di qua del Tevere a due passi dalla Stanze Vaticane, capo di lavoranti, per di più con diversi “cantieri” aperti contemporaneamente? In tale capacità la tradizione critica riconosce il calco paterno e della famiglia Santi con un nonno artigiano in proprio e venditore di prodotti del mestiere. Eppure…

Magia Ciarla, ancora le donne del tempo e di ogni tempo, compreso quello della mia nascita e crescita, governava la casa e quel che vi era dentro: economia, decisioni, faccende, direzione dei famigli, polso non tremante a marito fuori per

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i suoi lavori pittorici e gli affari d’artista. Raffaello restava sì nella bottega Santi avviata e ben gestita dai vice, ma anche affidato alla madre che, nell’istruirlo alla vita di bambino un giorno grande, gli rammentava i doveri da seguire portandogli il padre come modello. Lui… la vedeva nel contempo accorta nella gestione della casa e dell’entourage.

Scomparsa Magia Ciarla all’improvviso alla realtà, Raffaello, incredulo e scorato (se ne può dubitare?), avrà cercato la madre da una stanza all’altra, l’avrà aspettata, attesa, rimpianta con il cuore, rincorsa con la mente.

A quella sua acerba età, studi acclaranti ed esperienza personale, le perdite si interiorizzano. Il genitore non precipita nel dimenticatoio, nessun imbuto lo risucchia lontano, vive invece in una forma tutta particolare in chi ha subìto la perdita. L’impronta e il segno del perduto non si cancellano e non spariscono se sparisce chi li ha donati. Magia Ciarla è restata, silente, dentro Raffaello con i suoi segni e la sua impronta. Indefinibili, indeterminabili, ma non negabili o da ignorare come se non fosse esistita.

Maria Lenti

OLTRE I BANCHIAntologia a cura di Antonella CalzolariTesti di: A. Abate, V. Barletti, E. Battista, S. Cassioli, L. Catapano, A. Cerquetani, A. Ciaralli, M.C. Condrò, S. D’Alise, M. Del Monaco, M. Fabozzi, P. Gimigliano, D. Impiglia, J. Maltini, L. Mancino, V. Manciocchi, P. Pallini, D. Petrachi, I. Scavonetto, I. Silvestri, K. Sobieszek.

POESIA NEOGRECALa generazione dei quaranta / cinquantenni ovvero la “invisibile” generazione del ’90Introduzione e traduzione a cura di Crescenzio SangiglioAutori: J. Markòpulos, J. Alissànoglu, C. Anghiranopùlu, K. Buras, I. Chuvardàs, P. Golitsis, S. Jeorghiadu, A. Konstandìnu, J. Lillis, D. Perodaskalakis, T. Vorias.

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«Il pessimismo è troppo umano»: (ri)scoprire l’ultimo Elio Petridi Emanuele Bucci

«Nell’ultimo periodo della mia vita, io ho fatto film sgradevoli. Sì, filmsgradevoli in una società che ormai chiede la gradevolezza a tutto, persino all’impegno: se l’impegno è gradevole, e quindi non dà fastidio a nessuno, lo accetta. Altrimenti no. I miei film, al contrario, oltrepassano addirittura il segno della sgradevolezza» (Elio Petri)1.

Il 2019 ha segnato una duplice ricorrenza legata alla figura del regista, sceneg-giatore, intellettuale (anche se lui non si definiva e non si sarebbe definito tale) Elio Petri: novant’anni dalla sua nascita a Roma, e quaranta dall’uscita del suo ultimofilm, Buone notizie, prima della scomparsa precoce nel 1982. Buone notizie è un titolo sottovalutato, trascurato quando non dimenticato nella filmografiadell’autore e nella storia del cinema italiano2, dunque tanto più emblematico del destino cui è stato troppo a lungo relegato uno dei più interessanti registi italiani del secondo Novecento, impegnato nella difficile e probabilmente utopica sfidadi realizzare un cinema “politico popolare” (“polpop”, lo chiamò lui una volta) in grado di parlare al grande pubblico per stimolarlo a crescere culturalmente e a mettere in discussione il sistema socioeconomico presente3. Tutto il cinema di Petri, anche prima dei titoli più noti e discussi (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970; La classe operaia va in paradiso, 1971) è stato un cinema profondamente, irriducibilmente politico, ma alla costante ricerca di una modalità di rappresentazione alternativa all’opzione (neo)realista4. Sono piut-tosto le coordinate di un espressionismo inquieto e multiforme quelle tracciate dalla parabola del regista romano: una «cifra espressionistica […] che volentieri indulge nel tratto eccessivo, caricaturale» (Cardone)5.

1 in F. Faldini e G. Fofi, a cura di, Il cinema italiano d’oggi 1970-1984 raccontato dai suoi protago-nisti, Milano, Mondadori, 1984, p. 286.

2 Clamorosa, ad esempio, la svista di Brunetta che, nel suo volume Cent’anni di cinema italiano 1905-2003, cita come ultimo film di Petri Todo Modo (cfr. G. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano 1905-2003, Bari, Laterza, 2003, p. 291).

3 «Credo che senza il suo naturale ed unico interlocutore- che è il pubblico a lui contemporaneo- il cinema si svuoti di una grande parte della sua vitalità. Partendo da questo principio, mi pare che le prospettive del cinema libero- o, per meglio dire, le prospettive di una liberazione del cinema- siano connesse con quelle della nascita di un pubblico libero- con quelle cioè della liberazione del pubblico dai suoi condizionamenti» (E. Petri, Gioco di squadra e specialità indidivuali, «Cinema 60», 44, agosto 1964, ora in Scritti di cinema e di vita, a cura di Jean A. Gili, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 90-91).

4 Scrive Petri in un articolo su «Città Aperta» del 1957: «Il “neorealismo” se non è inteso come vasta esigenza di ricerca e di indagine, ma come vera e propria tendenza poetica, non ci interessa più. […] La torbida Italia nata dai compromessi del dopoguerra non può più essere affrontata col candore implicitamente cristiano del “neorealismo”: urgono storie ed immagini più pertinenti alle lacerazioni morali che la restau-razione capitalistica- compiuta su basi nuove per il paese- ha compiuto nelle coscienze» (Il cinema italiano: un elefante castrato, «Città aperta», 4-5, 25 luglio 1957, ora in E. Petri, Scritti di cinema e di vita, p. 56).

5 L. Cardone, Elio Petri, impolitico: La decima vittima, 1965, Pisa, ETS, 2005, p. 23.

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Petri è stato accusato, da molta critica coeva, ora di concessioni allo spetta-colo e di compromesso con l’industria e i generi cinematografici tradizionali (in realtà questi ultimi venivano scardinati, deviati, deformati per farne strumento di un discorso politico che raggiungesse un’utenza più ampia possibile), ora di essersi avvitato in una deriva eccessivamente grottesca e pessimista nell’ultima fase della sua produzione6. Proprio su questa, allora, ci vorremmo soffermare nelle righe che seguono per dare, anche noi, un contributo alla rivalutazione di questo artista, riscoprendone lo sguardo peculiare e critico, in grado di riverbe-rarsi ancora sul cinema e sulla società odierni.

Gli ultimi film della carriera di Elio Petri sono, significativamente, quelli in cui si radicalizza ogni tratto saliente del suo percorso artistico: l’opzione formale espressionista e grottesca, la (de)costruzione di personaggi scissi e irrisolti, la visione negativa del contesto politico, sociale e culturale nostrano (la cui lettura è accostabile per molti aspetti a quella dell’ultimo Pasolini). La proprietà non è più un furto (1973), Todo Modo (1976) e Buone notizie (1979) sono, da questo punto di vista, ascrivibili alla medesima fase, nell’ambito della quale la provoca-zione investe parimenti classe dirigente, pubblico e sistema produttivo, tanto da determinare il rifiuto e l’emarginazione progressiva dell’autore, nonché il lungo silenzio rispetto a cui poche (ma, fortunatamente, in aumento) voci di studiosi si sono poste e si vanno ponendo in controtendenza.

Con il film del 1973 (scritto, come i precedenti due e come A ciascuno il suo, insieme a Ugo Pirro) inizia la fase che un importante indagatore dell’opera di Petri come Alfredo Rossi ha definito delle «apocalissi laiche», segnata dal prevalere

del sintomo discorsivo apocalittico. Sintomo assorbente, si starebbe per dire totalizzante […]: un momento, dunque, del pensare il sociale, da parte di Petri, in senso catastrofico, luttuoso, quaresimale. Apocalisse, quindi, ma laica, fatta solo di lividi bagliori, di dannazione, dominata incontrastatamente dall’Anti-cristo (sia esso il Macellaio de La proprietà, lo scannatore, sia esso l’Aldo Moro e la lugubre “corte” di Todo modo), senza palingenesi alcuna (ovvero “fughe” utopiche del desiderio come in La classe operaia, film-comunista) se non di tipo “illuminista”.7

La prima “apocalisse laica” è un atto d’accusa radicale nei confronti della società capitalistica a partire dai suoi fondamentali: il denaro e, ancora prima, il concetto stesso di proprietà privata. Ma il film è anche un’impietosa analisi, in forma di allegoria, della crisi della sinistra, della incapacità di quest’ultima di

6 Si veda, a mo’ d’esempio, la critica di Lino Micciché al penultimo film, Todo Modo: «”summa” delle virtù e dei difetti (degli altri tre), con netta prevalenza di questi ultimi, maggiorati, nella fattispecie, dai troppi soprassalti espressionistici, dalle incontrollate irrisioni, dalla esplicitazione plateale di quanto nel testo di Sciascia è invece parcamente alluso, sempre e soltanto tra le righe» (L. Micciché, Cinemaitaliano: gli anni ’60 e oltre, Venezia, Marsilio, 2002, p. 353).

7 A. Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2015, p. 120.

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(contrap)porre una reale e coerente alternativa al sistema vigente. L’argomento sotteso al film, come ha esplicitato il regista, è dunque la «nascita della dispera-zione in seno alla sinistra»8.

A tal fine, La proprietà «delinea attraverso una rappresentazione iperbolica e grottesca sei tipologie di ladri» (Catolfi)9, ovvero di altrettante relazioni (inevita-bilmente) malate con il possesso (nella sua contraddittoria relazione con l’iden-tità) dentro l’ordinamento capitalista. L’impiegato di banca Total (Flavio Bucci), autodefinitosi “marxista mandrakista”, sceglie, come simbolico bersaglio della sua rivalsa (nevrotica) contro il denaro e chi ne dispone, un abbiente e corrotto macellaio (Ugo Tognazzi), cominciando a derubarlo dei suoi beni. Ma la rivolta di Total è tutta interna al circolo dell’«odio di classe, decomposto in egoismo, e quindi reso innocuo»10, confermando e anzi alimentando la «religione della proprietà»11, ovvero del “furto” su cui si fonda l’intero consesso sociale. E il risultato finale è appunto l’autodistruzione di Total, strangolato dal macellaio, il quale spegne e riassorbe così l’anomalia nata e nutrita all’interno del proprio stesso sistema. Attorno ai due personaggi si muovono ulteriori figure-maschere,parti complementari della commedia apocalittica: il ladro-attore Albertone (Mario Scaccia), in cui si può leggere l’allegoria del rapporto contraddittorio tra artista e macchina capitalista in cui opera; il brigadiere (Orazio Orlando), anche lui ladro nella sua funzione di guardiano della proprietà privata che gli permette di appropriarsi «di parti più o meno importanti dell’esistenza altrui»12, il padre di Total (Salvo Randone), lavoratore in pensione che vive in miseria eppure difende le ragioni del sistema di sfruttamento di cui è vittima. E poi c’è Anita (Daria Nicolodi), commessa e amante del macellaio, complice e al contempo schiava di quest’ultimo, donna degradata a oggetto di possesso da tutti i personaggi maschili della vicenda (compreso Total, che la rapisce e la violenta come un’altra “cosa” appartenente al macellaio).

La rappresentazione porta alle estreme conseguenze le soluzioni espressio-niste e stranianti già presenti, con maggiore o minore evidenza, nei precedenti lavori del regista. Tra i momenti più emblematici in questo senso (che provoca-rono e provocano tuttora le maggiori perplessità e ritrosie da parte degli spetta-tori) ci sono delle brevi sequenze, disseminate in momenti diversi del film, dove i protagonisti, collocati in un ambiente neutro completamente buio che a tratti li inghiotte, si presentano-confessano di fronte agli spettatori13.

8 Ibidem.9 A. Catolfi, Elio Petri e La proprietà non è più un furto, in G. Rigola, a cura di, Elio Petri, uomo di

cinema. Impegno, spettacolo, industria culturale, Acireale-Roma, Bonanno, 2015, p. 197.10 Dall’autopresentazione del personaggio di Total nell’incipit de La proprietà non è più un furto,

1973, di Elio Petri.11 Ibidem.12 Dall’autopresentazione del personaggio del brigadiere in ibidem.13 Si tratta probabilmente della soluzione più vicina all’epica brechtiana di tutta la filmografia di Petri.

Lo straniamento che opera generalmente quest’ultimo, peraltro, non è facilmente accostabile a quello di Brecht, perché, come ha sottolineato Bisoni, in Brecht «lo stile risulta in qualche modo cancellato, sottratto. Il che rimanda a un vuoto di espressività. L’opposto di quanto avviene in Petri» (C. Bisoni,

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Ma tutto quanto, ne La proprietà, è improntato ad un eccesso caricaturale che lo rende «allucinazione grottesca»14, come sottolinea De Gaetano: «L’azione stessa perde, insieme ai personaggi, ogni congruenza e verosimiglianza e diventa segno di un gioco di maschere che soppiantano un mondo senza volto»15. Contri-buiscono a questo precipitare della rappresentazione (e della realtà) in cupa visione allegorica tutte le principali soluzioni del dispositivo cinematografico: la scenografia (di Gianni Polidori), con ambienti connotati espressionisticamente (per esempio la banca-cattedrale in cui si svolge la sequenza della rapina); la colonna sonora (di Ennio Morricone), fatta di rumori stranianti, sospiri, rantoli, come quelli dei titoli di testa che recitano, deformata, la coniugazione del verbo avere; gli inserti pittorici, in particolare negli studi dei personaggi (dipinti su carta realizzati da Renzo Vespignani, amico e già collaboratore di Petri in altre occasioni). Proprio tali studi sembrano la traduzione più evidente delle inten-zioni di Petri e Pirro rispetto alla caratterizzazione anche fisica dei personaggi. Appunta il regista al riguardo:

Le facce- tutte- devono essere livide di invidia/ tumefatte dalla rassegnazione/ gonfie di rabbia inesplosa/ oblique per meschinità e furberia/ ispessite dalla eccessiva frequentazione dei programmi televisivi/ vuote per il deserto fatto nei loro occhi dal sentimento della paura. / Esse, le facce, devono trasudare l’orrore, l’irrazionalità, la cupidigia, il povero deserto della loro grande orrenda città.16

Il film costituisce una radicalizzazione del discorso petriano anche sul piano tematico, avviando una nuova fase nella riflessione critica di Petri sull’indi-viduo nella società (dove un’influenza determinante continua ad essere giocata dall’esistenzialismo sartriano)17 condotta attraverso personaggi (in particolare maschili) segnati (e lacerati) dal contrasto fra pulsioni profonde e ruolo sociale, identità e maschera, istanze astratte e soggettività concreta. I protagonisti dei film di Petri sono sempre individui smentiti, giocati, messi in crisi dalla propria stessa contraddizione, spesso psicologicamente (e sessualmente) infantili sotto la maschera posticcia che il contesto socio-politico gli ha offerto (o imposto): non a caso, il conflitto in seno ai protagonisti emerge spesso attraverso il confronto problematico con il femminile, banco di prova della fragilità e inadeguatezza degli uomini-bambini-maschere. Secondo Petri la duplicità che attraversa l’in-Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Torino, Lindau, 2011, p. 7).

14 R. De Gaetano, Il corpo e la maschera: il grottesco nel cinema italiano, Roma, Bulzoni, 1999, p. 92.

15 Ivi, p. 93.16 Cfr. A. Rossi, op. cit., p. 121.17 «Per chi vuole, come me, raccontare le storie degli individui- e dei condizionamenti assoluti che

essi trovano dentro di sé- senza mai perdere di vista i fenomeni sociali e storici e la loro direzione classista- come condizionamento esterno, ma non deterministico, - una lezione necessaria è quella di Sartre; il suo continuo sforzo di riportare l’esistenzialismo sulla terra, la sua attenzione- direi tensione- verso la ricerca marxista, la spregiudicatezza con la quale sa cogliere il vivo e il moderno in tecniche da altri pigramente respinte» (E. Petri, intervista a V. Spinazzola per Film 1962, Milano, Feltrinelli, 1962, ora in E. Petri, Scritti di cinema e di vita, p. 86).

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dividuo contemporaneo (quindi, e sempre più, i personaggi dei suoi film) è una conseguenza della divisione sociale in classi, la quale implica «un’umanità scissa, separata, in cui i rapporti produttivi siano fondati sullo sfruttamento del prossimo»18.

Total è indubbiamente uno di questi personaggi: diviso (e inetto) nella (per sua stessa ammissione) impossibile volontà di conciliare l’essere con l’avere19,nel rigetto anche fisico dell’ambiente in cui tuttavia opera e che lo determina (l’allergia al denaro incompatibile con la sua professione di bancario) e nella tensione al furto che conferma, sabotandola, l’ossessione per la proprietà. Ma, a quest’altezza, la duplicità contraddittoria dei protagonisti non è più solo interna al singolo personaggio, perché si va ulteriormente esasperando attraverso la dialet-tica tra due figure maschili che rappresentano l’una il doppio (asimmetrico se non opposto) dell’altra. Tale svolta ha la sua premessa, appunto, nella relazione Total-macellaio che informa La proprietà: dove l’opposizione complementare tra i due si gioca (non a caso) anche sul piano erotico, nel conflitto «tra l’esube-ranza sessuale del macellaio e l’ennesimo caso di impotenza rappresentato da Total» (Bisoni)20.

Todo Modo, seconda e ancora più libera trasposizione di Petri di un romanzo di Sciascia (dopo A ciascuno il suo, del 1967), è un’impietosa satira del sistema di potere ruotante attorno al partito della Democrazia Cristiana, nonché (soprat-tutto) una rappresentazione allegorica, in forma di giallo grottesco dai connotati sempre più surreali, del disfacimento di tale partito-sistema. Per Rossi il filmrappresenta «l’elaborazione ultima, e forse definitoria, nel senso di essere la più radicale ed eccessiva, la più buia e la più chiusa, della scena del Politico, come scena dell’impossibilità e impadroneggiabilità della maschera carnevalesca»21.

Al romanzo di Sciascia Petri ha “forzato la mano”22, come lui stesso dichiara, in più di un senso. L’opera originale presenta, nel monastero-albergo di Zafer, un giallo senza chiara soluzione e una dialettica tra due personaggi, il prete-affarista don Gaetano e un pittore laico capitato lì per caso e per curiosità. Il rapporto tra queste due figure, che nel loro incontro-scontro «cantano insieme le lodi della cultura umanistica e assieme piangono la fine d’una civiltà»23, viene sostituito da Petri con quello tra il medesimo prete (interpretato da Marcello Mastroianni) e il dirigente politico M. (Gian Maria Volonté), caricatura di Aldo Moro. L’as-senza, nel romanzo di Sciascia, di riferimenti a specifici personaggi del quadro

18 Intervista a Jean A. Gili per Le cinéma italien, 1978, ora in E. Petri, Scritti di cinema e di vita, p. 163.

19 Nell’ultimo dialogo col padre, che gli domanda «Non sei onesto, non sei ladro… ma chi sei?», Total risponde: «Io vorrei essere e avere, ma so che è impossibile, è questa la malattia» (cfr. La proprietà non è più un furto, 1973).

20 C. Bisoni, Il potere e l’impegno. Le traiettorie del cinema civile di Elio Petri, in G. Rigola, a cura di, op. cit., p. 128.

21 A. Rossi, op. cit., pp. 131-132.22 Cfr. E. Petri, Brevi considerazioni a proposito di A ciascuno il suo e di Todo Modo, «L’Arc», n. 77,

1979, ora in Scritti di cinema e di vita, p. 155.23 E. Petri, intervista a Jean A. Gili per Le cinéma italien, ora in Scritti di cinema e di vita, p. 158.

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politico contemporaneo viene perciò ribaltata da Petri, in quella che diviene «la più feroce critica rivolta dal cinema italiano al vigente sistema di potere democri-stiano» (Donghi)24, e in particolare una dura presa di posizione contro la strategia del compromesso storico portata avanti in quegli proprio da Moro.

Ma la violenza del pamphlet di Petri rispetto al libro di Sciascia non si ferma alla scelta del diverso co-protagonista (e bersaglio): il già enigmatico e aperto (dunque intenzionalmente allegorico) ordito narrativo di Sciascia (dove alcuni notabili democristiani, riuniti nell’albergo-eremo per “esercizi spirituali” che celano trattative e accordi di potere, vengono misteriosamente assassinati) deflagra nella sceneggiatura di Petri e si fa sogno-incubo. I cadaveri aumentano in circostanze sempre meno spiegabili, fino all’ecatombe finale in cui M., attra-versando il bosco che circonda Zafer, si imbatte nei corpi (disseminati con le loro carte, a comporre un macabro e onirico percorso tra gli alberi) di tutti gli ospiti dell’albergo. Il dirigente si lascia a sua volta sopprimere dal proprio assi-stente (Franco Citti), mutatosi in sicario degli occulti mandanti della strage (tra cui forse c’è lo stesso M., che si immola all’apice del proprio delirio-disegno sacrificale-masochistico)25.

Allo stesso modo, la rappresentazione è esasperata e deformata in chiave grottesca rispetto al romanzo. Scrive Petri:

Forzai le mani di Sciascia anche nel tono del film, ch’era quello grottesco d’una farsa nera, e mi sembrò, così, non solo di seguire un’indicazione di Sciascia- «nell’abietta mistificazione e nel grottesco»- ma di evocare quel clima di farsa nerissima che si respira e si continua a respirare tuttora in Italia.26

Non a caso tutti i dirigenti e notabili democristiani che vediamo nel film,oltre a M., risultano intenzionalmente caricaturali, « personaggi tartufeschi, stri-scianti, topi di sagrestia, untuosi, dall’incedere femmineo, dall’eloquio faticoso e incomprensibile»27, come li ha descritti il regista. Particolarmente indicativa in questo senso la caratterizzazione del personaggio di Voltrano, presente anche nel romanzo di Sciascia, e affidato nel film all’attore comico Ciccio Ingrassia,

24 L. Donghi, L’utopia grottesca: Todo Modo e l’Apocalisse della DC, in G. Rigola, a cura di, op.cit., p. 205.

25 «Sulla linea della farsa “nera” che volevo realizzare, ho girato il film nell’idea che il mandante degli omicidi fosse lo stesso M., che poi, per ammissione d’impotenza, giungeva ad ordinare la propria esecuzione. Ma al tempo stesso, in qualunque posizione oggettiva mi ponga, la fine assume sempre il valore d’un redde rationem. Sia che i protagonisti si eliminino a vicenda, sia che M. ordini la loro e la propria esecuzione, sia che altro del suo partito, da Roma, decida di distruggerli per un suo piano inespli-cabile, comunque teso verso altri eccidi, sia che la CIA abbia deciso di eliminarli tutti a causa della loro provata incompetenza, sia che il massacro sia frutto d’una sommossa sociale, sia che il Padreterno (ormai alleato del PCI?) abbia deciso di sbarazzarsi dei suoi corrotti figli, in tutti questi casi (ed anche nella loro fusione) il massacro assume il valore oggettivo d’una punizione, d’un redde rationem. Se si preferisce, il finale di Todo Modo rappresenta- metaforicamente- l’incubo d’un democristiano, cioè il sogno d’uno di noi» (E. Petri, intervista a Gili per Le cinéma italien, ora in Scritti di cinema e di vita, p. 162).

26 E. Petri, Brevi considerazioni su A ciascuno il suo e Todo Modo, ora in Scritti di cinema e di vita,p. 155.

27 E. Petri, intervista a Gili per Le cinéma italien, ora in Scritti di cinema e di vita, p. 159.

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che col suo fisico longilineo e allampanato non meno che con i toni esasperati della recitazione risponde perfettamente all’ottica deformante (anche rispetto alla materia letteraria) del cineasta.

Emblematico dell’esasperazione-deviazione anche formale a cui Petri sotto-pone il libro di Sciascia è poi il lavoro sulla scenografia, a cura di Dante Ferretti. I connotati già allegorici della Zafer letteraria vengono potenziati, e quello del film è più simile a un claustrofobico carcere-bunker che a un albergo, delinean-dosi come spazio metastorico e quasi metafisico, i cui connotati infernali sono rimarcati dallo stesso don Gaetano, quando intima a M.: «l’Inferno è qui vicino. È sottoterra, ad un passo, ci siamo dentro. Ed io sono qui per accompagnarvici per mano»28.

Il film è anche una conferma (e un potenziamento) di quella dialettica tra doppi che sviluppa il discorso di Petri sulla scissione dell’individuo nella società capitalistica. Come rilevato da Rossi, la caratterizzazione del don Gaetano di Todo Modo mantiene tracce del progetto di Petri ed Enzo Siciliano (risalente al 1974) che vedeva al centro il rapporto conflittuale tra un sacerdote in crisi e un falso sacerdote: non a caso, allora, il prete di Todo Modo è «un soggetto diviso, mistico e mistificatore, moralista e imbroglione pronto a darsi alla fuga col maltolto prima del disastro, incombente sugli esercitanti»29. La sua ambiguità è anche di natura sessuale, come evidenzia la sequenza della confessione di M., in cui il prete dichiara all’altro che vestirsi da prete «è un po’ come sentirsi donna»30. Per dirla con Petri, don Gaetano «demarca i confini della doppia morale e subisce direttamente su di sé la separazione, in una sorta di bisessualità, che è non solo biologica, ma culturale e sociale: egli vive tutti i peccati, maschili e femminili, attraverso la sua investitura, e deve sopportarli nella sua carne»31.

Ma don Gaetano ha, a sua volta, il proprio doppio esteriore nel personaggio di M. Quest’ultimo mantiene- e se possibile accentua- tutti i tratti di impotenza, scissione paralizzante e infantilismo del protagonista petriano: si pensi al suo ultimo confronto con don Gaetano, dove lo vediamo assumere un tono lamentoso e piagnucolante da bambino rimproverato di fronte al sacerdote («padre primor-diale […] punitivo, […] sadico»32 cui M., nel suo «masochismo morale»33, vuole sottomettersi) che gli nega l’assoluzione. O pensiamo, di nuovo, alla sequenza della confessione, dove M. confida al prete le sue fantasie «di stupro passivo» che però non tradurrebbe mai in atto: «Come in politica. Sogno, anche lì, di pren-

28 Cfr. la sequenza della cena prima degli esercizi spirituali in Todo Modo (1976).29 A. Rossi, op. cit., p. 129. Su don Gaetano Petri afferma: «Egli ha scelto la falsa coscienza come

unica possibile modalità d’esistenza, più d’ogni altro […] e nel massimo della consapevolezza. Si potrebbe dire che è tanto alto il grado di consapevolezza della sua falsità da somigliare molto a uno stato di follia» (intervista a Gili per Le cinéma italien, ora in Scritti di cinema e di vita, p. 164).

30 Cfr. Todo Modo, 1976, di E. Petri.31 intervista a Simon Mizrahi rilasciata in occasione dell’uscita in Francia di Todo Modo, ora in E.

Petri, Scritti di cinema e di vita, p. 173.32 C. Bisoni, Il potere e l’impegno, p. 129.33 Ibidem. La nozione è ripresa da D. Giglioli, Vittimizzazione, in AA.VV., Annisettanta, Ginevra-

Milano, Skira- La Triennale di Milano, 2007.

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dere delle decisioni: la riforma sanitaria, ad esempio, medicine gratis per tutti […]. Do il via alle operazioni… e poi mi ritiro. È come… è come una erezione mancata, capisci?»34. E proprio Petri, parlando di Moro, si riferisce chiaramente al personaggio di M. che di Moro costituisce la lettura-deformazione critica: «Il suo voler costringere la stasi a sembrare movimento agisce certamente sul suo soma. Egli appare, infatti, perfino sessualmente indeciso. È esangue, rarefatto, aereo, assente, immerso in sublimi conflitti». M. e don Gaetano sono quindi due doppi a loro volta duplici, «l’uno e l’altro preti e antipreti, soggetti coronizzati e al contempo scoronizzati nello scenario del politico» (Rossi)35.

L’esperienza di Todo modo, anche nel quadro della sua difficile produzione e ricezione, ci permette di focalizzare ancora meglio la visione della società dell’ultimo Petri. Le dichiarazioni a cavallo della realizzazione e promozione del film testimoniano infatti una visione estremamente pessimistica della situazione politica e culturale italiana:

Faziosi, nauseati, rivoltati abbiamo il diritto d’esserlo tutti noi, davanti alla certezza che quel ch’è fatto è fatto, ossia, che i valori che rendevano autonomi il costume e la cultura delle classi popolari italiane sono ormai irrecuperabili. Per ora, su tutto e su tutti, ha vinto l’ideologia piccolo-borghese, attraverso il corporativismo.36

Non maggiore fiducia è riposta dal regista nel sistema produttivo del cinema nostrano, la cui crisi Petri collega a quella più ampia dell’Italia tutta e che si ripercuote sui tentativi di trovare al film anti-democristiano un distributore:

Scrivo l’elenco delle noleggiatrici che hanno finora rifiutato il lavoro: United Artists, Twentieth Century Fox, Warner Bros, Titanus, Gaumont, Cineriz… Errore mio: voler fare questo genere di cinema con la grande produzione, con l’impiego di capitali che aumentano vertiginosamente le difficoltà oggettive di fare questo cinema e che diventano subito censura commerciale, apparentemente, politica nella sostanza. Il capitale è censura… È lui il padrone. Impossibile invertire i ruoli… È la sconfitta di un certo tipo di cinema, che chiamerò politico o politico popolare. Polpop, Poppol… Ahi ahi ahi. Addio, polpop, addio poppol.37

34 Cfr. Todo Modo (1976).35 A. Rossi, op. cit., p. 129. Nell’intervista a Gili per Le cinéma italien, Petri afferma dei personaggi:

«La divisione del lavoro li vuole rotti, dissociati, incomprensibili come schizofrenici. Ma ben più pericolosi» (Scritti di cinema e di vita, p. 166).

36 E. Petri, intervista a Jean A. Gili per Le cinéma italien, ora in Scritti di cinema e di vita, p. 158. Si possono notare già qui analogie con le posizioni dell’ultimo Pasolini (espresse ad esempio negli articoli di quest’ultimo raccolti in Scritti corsari e Lettere luterane) sulla “mutazione antropologica” e l’omologazione delle classi popolari al paradigma piccolo-borghese. Lo stesso Petri conferma questa analogia riferendosi esplicitamente a Pasolini in altre dichiarazioni, ad esempio nell’intervista a U. Rossi per «Cinema 60», n. 14, marzo-aprile 1982, «Negli anni del dopoguerra la lotta di classe si presentava con connotati abbastanza netti. Poi c’è stata quella vera e propria mutazione antropologica che Pasolini ha denunciato per primo; le contraddizioni si sono aggravate e complicate, tutto è diventato più difficile e meno chiaro» (ora in Scritti di cinema e di vita, p. 106).

37 Dai quaderni su Todo Modo, 26 agosto 1975, ora in A. Rossi, op. cit., p. 141.

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L’ultimo film compiuto di Petri, Buone notizie, sarà prodotto, non a caso, in autonomia da Petri col supporto dell’attore protagonista Giancarlo Giannini.

Il film arriva dopo la parentesi di una produzione televisiva, la trasposizione Rai in tre puntate de Le mani sporche (1978), dal dramma omonimo (1948) di Jean-Paul Sartre. Per il regista è l’occasione di approfondire ulteriormente alcuni concetti (a lui già molto cari) legati al pensiero del filosofo francese, come si evince dal corposo saggio, redatto per l’occasione da Petri (e inserito nel quaderno Rai di presentazione dell’adattamento) dove esplicita la sua lettura del testo sartriano. Nel saggio, Petri si sofferma, tra le altre cose sulla dialettica tra i due protagonisti, militanti diversamente “in malafede”38 nella medesima forma-zione, il Partito Proletario dell’immaginario stato est-europeo dell’Illiria, durante l’ultima fase della Seconda Guerra Mondiale. Il concetto sartriano di malafede è determinante nell’informare la visione petriana dell’individuo, come dimostra la lettura che il regista dà dei due personaggi. Da un lato, i propositi omicidi del giovane Hugo, finalizzati (apparentemente) a preservare la purezza della causa rivoluzionaria (scongiurando l’alleanza strategica con le forze conservatrici perseguita dal compagno), sono smentiti e vanificati dal suo essere «incapace di progetto»39 perché dominato-annichilito dall’idea ossessiva della morte. Ma nemmeno il più anziano Hoederer, fautore del compromesso e paradossalmente più “puro” di Hugo perché si “sporca le mani” in nome di un progetto autentica-mente perseguito, è del tutto estraneo allo scacco del pensiero (e della voluttà) di morire40.

Il lavoro a partire dal dramma di Sartre pone dunque con la massima evidenza quello che è un altro nodo chiave nel percorso (non solo) dell’ultimo Petri: l’idea-presenza della morte. Si tratta di un tema centrale in tutta l’opera dell’autore. Rossi rileva proprio nel «concetto di morte al lavoro» il «rovello continuo» del discorso di Petri: «morte come processo di degrado del costume civile, decadimento dell’essere come insensatezza di soggetto lavorato dalla perdita identitaria»41. La morte è un filo nero che percorre l’intera filmografiadell’autore, non solo quando si parta (come di frequente) dai codici del racconto giallo-poliziesco42. Nell’ultima fase della produzione di Petri, la riflessione sulla morte si fa, se possibile, ancora più esplicita e totalizzante: l’apocalittica carnefi-

38 “Malafede” intesa come «atteggiamento- privo di menzogna e di inganno- di chi vorrebbe compiere l’impossibile fuga da ciò che egli stesso è» (cfr. F. Prono, Per una teatralità antitelevisiva. Le mani sporche e l’eredità di Stalin, in G. Rigola, a cura di, op. cit., p. 217).

39 Le Mani Sporche, testo non firmato ma attribuibile con certezza a Petri, in «Rai Radiotelevisione Italiana- Appunti dell’Ufficio Stampa», Roma, agosto-settembre 1978, ora in E. Petri, Scritti di cinema e di vita, p. 188.

40 «Hugo e Hoederer sono simili nella malafede» (ivi, p. 191)41 A. Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano, p. 26.42 Al di fuori di quest’ultimo, l’esempio forse più emblematico è quello de I giorni contati (1962),

non a caso uno dei film più personali e legati al vissuto biografico dell’autore: è il senso di prossimità alla morte, destato dall’episodio iniziale sul tram, a muovere la crisi dello stagnaro Cesare- articolata, anche qui su una scissione, quella «tra il tempo di vita e il tempo di lavoro» (E. Petri, in G. Fofi e F. Faldini, a cura di, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti. 1960-1969, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 153).

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cina di Todo Modo (e, prima ancora, il tetro affresco de La proprietà), così come il dramma sartriano hanno nella morte la dimensione che non soltanto condi-ziona, ma finisce col fagocitare pensieri e azioni dei personaggi.

Ma l’esperienza de Le mani sporche è anche l’occasione, per Petri, di veri-ficare dall’interno le strutture e il metodo di lavoro di un mezzo, quello televi-sivo, determinante per le trasformazioni socio-culturali dell’Italia nei decenni Sessanta, Settanta e oltre. Non è casuale, allora, che il film Buone notizie, oltre a declinare nuovamente il tema della scissione individuale nel sistema neoca-pitalista (e del doppio come proiezione allegorica di tale scissione), sia anche e soprattutto un apologo grottesco sul decadimento dell’intera società italiana: dove l’allegorizzante chiave è proprio lo schermo (fatto di tanti, invasivi schermi) della televisione.

Il film mostra un protagonista senza nome (punto di arrivo di una catena di personaggi privi di un’identità onomastica che non sia quella del proprio ruolo-gabbia sociale)43, funzionario televisivo costantemente visitato, sul luogo di lavoro come nella routine matrimoniale, dalle immagini televisive che raccon-tano di catastrofi ed emergenze (tra cui il diffondersi di un’epidemia, analoga-mente a Todo Modo). L’uomo è l’ultimo e il più “nudo” (in tutti i sensi) degli “irrisolti” petriani, incapace di dare un senso (che non sia quello della mera convenienza sociale in un contesto borghese-consumista) al suo rapporto con la moglie Fedora44, ma nemmeno in grado di accettare la scissione del tradimento: la consapevolezza di quest’ultima infatti lo paralizza impedendogli di godere pienamente delle agognate avventure extraconiugali, più anelate che realmente vissute. In tale non-dinamica si inserisce l’enigmatica figura di Gualtiero (Paolo Bonacelli): questi, professore ebreo non meno afflitto da crisi esistenziale e coniugale, irrompe nella vita dell’anonimo funzionario che considera il proprio “migliore amico”, pur non avendo rapporti con lui da anni. Gualtiero appare afflitto da deliri persecutori, convinto che qualcuno lo voglia assassinare anche se non è in grado di spiegare chi e perché45. Eppure, forse, il “folle” Gualtiero (internato poi in manicomio con la complicità della moglie Ada e dello stesso “migliore amico” Giannini, che vive anche una goffa e abortita avventura con la donna)46 è il più consapevole di ciò che si sta muovendo nell’allucinata realtà in

43 Si pensi al commissario di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto o all’M. di Todo Modo.

44 Lo esplicita lo stesso protagonista nella sequenza della colazione con Fedora: «Io non capisco perché cazzo noi due continuiamo a stare insieme. Figli non ne vogliamo, per non mettere al mondo altri infelici. Rapporti sessuali? Squallidi e casuali. Sussiste soltanto il problema di come spartirci i beni materiali, perché sono dispari, tre: frigorifero, televisore e giradischi» (cfr. Buone notizie, di Elio Petri, 1979).

45 Gualtiero parla, genericamente e al plurale, di «Loro» come dei misteriosi (anche per lui) mandanti del suo omicidio, in quella che sembra un’allusione (velata di parodia) del film ai poteri occulti nell’Italia della “strategia della tensione”.

46 Nel fallimento dell’avventura sessuale tra il protagonista e Ada si misura il peso della scissione-frantumazione individuale che impedisce all’uomo tanto di ripensare la sua esistenza quanto di accettare sino in fondo l’ipocrisia della sua doppia vita borghese. Il momento erotico tra i due si interrompe infatti quando la donna gli rimprovera: «Qui non siamo in due, siamo in tre, io tu e un moralista che giudica!».

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cui si dibattono i personaggi del film: a sorpresa, infatti, il delitto (naturalmente in circostanze inspiegabili) avviene davvero, e il racconto di questo piomba sull’incredulo funzionario attraverso l’immancabile filtro televisivo.

Ancora una volta, la narrazione e la rappresentazione sono intenzionalmente deformate rispetto a un criterio realistico per andare oltre il dato contingente, aprendosi invece a problematiche più ampie. In questo caso, la crisi individuale (esistenziale, affettiva, sessuale) del borghese piccolo piccolo interpretato da Giannini rimanda all’impasse di un’intera società, già prigioniera di una «dimen-sione virtuale di immagini funeste e funeree» che «preannuncia il futuro mondo globalizzato» (Mondella)47. La televisione crea e al contempo rispecchia questa surrealtà grottesca in cui ormai si (dis)perde tanto il singolo quanto il consesso sociale. L’inettitudine del protagonista è direttamente proporzionale alla sua dipendenza dal palinsesto «che la società preordina, programma, elabora, per darti l’impressione che tu vivi, mentre tu non vivi più da molto tempo»48.

Ma il confine tra il mondo dentro i confini del piccolo schermo e quello al di fuori è ormai quasi indistinguibile. L’assurdità delle continue catastrofi annun-ciate con indifferenza dai media e recepite con sempre maggiore assuefazione dal pubblico ha il suo corrispettivo nel mondo (ir)reale, con i continui allarmi bomba e le situazioni ai limiti dell’assurdo, a esasperare fino alla caricatura il clima di tensione di quegli anni e suggerendo un ripiegamento verso la normaliz-zazione del senso di paranoia, impotenza, passività rispetto a un contesto ostile quanto sfuggente. Non meno grottesca è la rappresentazione della città, una Roma (profeticamente) invasa dalla spazzatura e dove l’arrivo di un furgoncino dei gelati ruba la scena a una violenza sessuale consumata a poca distanza.

Al centro di quest’ultima proiezione laicamente apocalittica abbiamo di nuovo una dialettica tra doppi maschili. Gualtiero infatti emerge a tutti gli effetti come proiezione reduplicante del protagonista. Alcune sequenze sono particolar-mente emblematiche in questo senso, per esempio quella in cui, senza un appa-rente motivo logico, lo stralunato Gualtiero invita l’impacciato amico a ballare con lui il valzer («È bello ballare tra uomini. È come ballare con se stessi», afferma Gualtiero)49. Entrambi, poi, significativamente, sono dominati dall’idea della morte: per Gualtiero c’è la paura di venire ucciso, per l’altro la fine dell’esi-stenza è un’ossessione altrettanto costante50. Anche l’omosessualità latente e più volte insinuata che aleggia tra i due può essere interpretata come afflato narcisi-stico dell’uno verso un’altra parte di sé: in particolare, Gualtiero sembra incar-nare la parte infantile, la verità delle pulsioni che il funzionario ha rimosso dietro

47 D. Mondella, Le buone notizie e la cattiva televisione, in D. Mondella, a cura di, L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza Elio Petri, Bologna, Pendragon, 2012, p. 121.

48 E. Petri, intervistato in A. Tassone, Parla il cinema italiano, vol. II, Il Formichiere, Milano, 1980, p. 282.

49 Cfr. Buone notizie, 1979.50 Si veda ad esempio la sequenza del dialogo tra il protagonista e Fedora dopo aver assistito alla

trasmissione televisiva del mago. A un certo punto la donna controbatte all’uomo: «Non sei tu che devi morire, è un altro». Il primo titolo del soggetto di Buone notizie era, non a caso, Prima di morire.

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e dentro la sua condizione di borghese scisso e teledipendente. Nel suo delirio, infatti, Gualtiero oppone (disperatamente) i propri desideri infantili (la fame di pasticcini, l’autoerotismo, il “gioco” del ballo, la pistola-fallo) come unico e ultimo scampolo di fronte alla de-umanizzazione (a mezzo anche, e soprattutto, televisivo) in atto: de-umanizzazione che si compirà, ineluttabilmente, con l’ef-fettivo omicidio di Gualtiero. Ma è soprattutto la (volutamente inverosimile) confessione di Fedora (quando svela al marito di aver avuto una relazione extra-coniugale col defunto Gualtiero) il momento massimamente rivelativo della duplicità allegorica che lega le due figure maschili: «Era un po’ come stare con un altro te»51, dice la donna al marito.

In questo dualismo la recitazione degli attori si conferma «significantecentrale»52 della rappresentazione. Da un lato, il protagonista Giannini che, sottolinea Rossi,

ricorda in qualche modo il modello keatoniano. Buster Keaton è infatti il borghese che trascorre impassibile da un universo finzionale all’altro. Ma Keaton non è un soggetto malato e diviso, è anzi profondamente conformato nell’azione, è una marionetta vincente. Giannini- uomo è invece qui la marionetta perdente nell’ancoraggio al proprio ideale dell’io, abitando una scena asettica, fredda, poco denotata, “osservata” dalla m.d.p. in distanza, è marcato nei tratti del viso, nello sguardo da una impassibilità che è data dalla sorpresa stessa dell’inesi-stenza della propria soggettività.53

Dall’altro lato c’è Paolo Bonacelli/Gualtiero, «contraltare fisico di Giannini […] il viso infantile e spaventato, la corpulenza impacciata, il testone ciondo-lante di una maschera triste che percepisce la propria tragicità di esistere»54.

La connotazione allegorica della vicenda è ulteriormente suggerita dal criptico finale, con l’eredità lasciata dal morto Gualtiero al “doppio” Giancarlo Giannini: una busta con su scritto “da non aprire”, che a sua volta contiene altre etichette riportanti la stessa frase. La scissione dell’uomo petriano si fa compiutamente frantumazione, costellazione di pezzi respingenti dal significato indicibile, forse insondabile. È il definitivo «black-out del senso, che rimette in questione la catena chiusa del discorso sulla credenza dell’Io» (Rossi)55.

La produzione dell’ultimo Petri, va detto in chiusura, prosegue oltre Buone notizie, attraverso una quantità notevole di scritti e progetti incompiuti che sviluppano ulteriormente gli aspetti sopra evidenziati. Tra questi, c’è il progetto di lungometraggio Chi illumina la grande notte, spy-story grottesca, crudele e ancora invischiata in molti nodi chiave del precedente film: la presenza di un doppio (qui addirittura sosia del protagonista), il senso di paranoia e persecu-

51 Ibidem.52 A. Rossi, op. cit., p. 154.53 Ibidem.54 Ivi, p. 155.55 Ivi, p. 154.

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zione per mano di misteriosi cospiratori, la rappresentazione di una Roma grot-tescamente allucinata (fatta qui di labirintici cunicoli che conducono a bunker di servizi segreti), l’onnipresenza oppressiva della morte. Tali elementi però sono declinati in quella che pare una riflessione profonda, dolorosa e gravida di spunti sul mezzo cinematografico: Marcello, il protagonista di Chi illumina la grande notte è infatti il proprietario di una sala cinematografica dove si proiettano filmclassici, in contrasto con la sala di fronte che programma film italiani di serie B. Significativa in questo senso anche l’insistenza sul tema della cecità (il doppio di Marcello, la spia Ferlinghetti, è cieco, e lo stesso Marcello viene a sua volta acce-cato) e l’ironia meta-discorsiva dell’ironico, improbabile happy ending.

Ulteriore testimonianza di tale riflessione meta-cinematografica, e forse la più emblematica, è infine il denso Breve incontro, racconto pubblicato dall’autore, poco prima della sua scomparsa, sulle pagine di Nuovi Argomenti. Lo spunto è, una volta di più, allegorico: si tratta del dialogo tra un regista e la sua macchina da presa, che discutono sulla crisi e il senso del continuare a fare cinema nell’Italia di quegli anni. Il regista altro non è che un alter ego dell’autore, come confer-mano la descrizione fisica e il nome del personaggio, “PTRRCL29S29H501C”, ovvero il codice fiscale di Petri. L’ultimo doppio di Petri è, quindi, Petri stesso. La crisi di un mezzo espressivo e la crisi di una società sono inscindibili, ed entrambe non possono non ripercuotersi sulla coscienza critica dell’autore, che ne lascia, ancora e un’ultima volta, sofferta e radicale testimonianza:

Senti, io ho solo due anni meno di The Jazz Singer, sai quel film, il primo film sonoro, sai […], beh, nel Ventinove sono nato, l’anno della Grande Crisi, dodici anni dopo Caporetto, fu un inverno rigidissimo quando nacqui io, e il mondo crollava, poi lo rimettevano in piedi, e dopo un po’ lo facevano ricrollare, su, giù, almeno tre o quattro volte, e anche più, se conti i crolli di interi sopra e sottomondi culturali, ideologici, politici, religiosi, e tra schizzi di macerie e di parole ho visto, prima della seconda guerra mondiale, almeno tre piccole guerre d’assaggio, e il viso duro e stupido del fascismo, e, dopo, praticamente non hanno più smesso, e ora vogliono farne una definitiva e, in mezzo, morti, morti, morti, la più lunga carneficina della storia […], una continua mutazione dell’uomo, quindi di me stesso, anche, in qualcosa di freddo, di artificiale, di ignoto, e sempre la certezza dell’impotenza, insomma, che ci posso fare, a me vengono in mente solo storie tristi, drammatiche, metafore scure, nere, pessi-mistiche, anzi disperate. In altri tempi, queste storie erano considerate, diciamo così, dialettiche. Oggi non c’è più bisogno di dialettica. Ci si deve mimetizzare. Tutti respingiamo il pessimismo perché siamo andati al di là, in un vuoto puro. Il pessimismo è troppo umano.56

Emanuele Bucci

56 E. Petri, Breve incontro, in Nuovi Argomenti, gennaio-marzo 1982, poi in Elio Petri, «I quaderni di Lumière» n. 11, Bologna, Edizioni Ente Mostra Internazionale del Cinema Libero, febbraio 1995, p. 125.

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Effetto nottea cura di Gualtiero De Santi

Joker e Martin

Si danno affinità di molto più sottili di quanto non si sia disposti a immagi-nare tra i due film di Todd Phillips e Pietro Marcello presentati e premiati alla Mostra di Venezia 2019: il primo, Joker, con il Leone d’Oro; l’altro, MartinEden, con la Coppa Volpi attribuita meritatamente a Luca Marinelli. Tali affinitàinteressano innanzitutto i due personaggi che occupano il campo visivo delle due opere, Arthur Fleck e appunto Martin Eden. Questo a malgrado del fatto che, a un riguardo di superficie e di forma, non esistano propriamente elementi conver-tibili: il primo, Joker, intonato com’è ai caratteri tipici dei prodotti americani e del ‘cine-comic’; il secondo invece giocato sulle cadenze proprie al cinema d’autore europeo.

Le due pellicole non sono neanche unite da allocuzioni programmatiche, presentando come avviene tempi e modi dissimili e una diversa visività. Ma c’è qualcosa di più profondo ed intimo che conferisce il tono che esibiscono: una sorta di linea destinale che investe le figure e l’aspetto di inevitabilità dominante il racconto per il fatto di essere, quelle figure, come gettate in una strettoia da cui escono maciullate e straziate. Arthur Fleck finirà in un manicomio criminale; il Martin Eden partenopeo di Pietro Marcello (e Maurizio Braucci) si rimette alla morte per acqua.

In ambedue i casi la chiave che consente di entrare nella struttura profonda o comunque essenziale dei due film è quella della modernità, delle sue attese o promesse di bonheur, nel tratto apicale del passaggio alle disillusioni e alle devastazioni della post-modernità, una volta che sia stata assunta la conformità con la parte per così dire yankee e statunitense del problema, con il privilegio del denaro, della competizione, la scelta del dileggio verso chi non ce la fa e l’esalta-zione del successo dei vincenti. Il tutto intonato alla celebrazione dell’individuo in quanto tale, dell’homo œconomicus o meglio del depredatore e consumatore che però, se si ritrova nell’anello debole, nella marginalità, si vota a chiudersi nella solitudine e nell’inevitabile caduta.

In tale ottica lo Joker di Todd Phillips, ambientato ai nostri giorni, presenta bello e ottenuto il risultato date le premesse che presenta; Martin Eden, collo-cato agli inizi del Novecento e fissato sulla scena parlante e mobile di Napoli, si compenetra al disegno di un destino che si compone sino a precipitare nel caos. Ma in entrambi i casi l’intonazione va al ritmo precipite e distruttivo del capitalismo occidentale e per conseguenza a due modelli culturali da esso dipen-denti o meglio in esso irretiti: uno di aperta opposizione, il grande romanzo che

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Jack London aveva scritto nel 1910, l’altro calibrato su immaginari da uomo-sandwich e (nelle sue attese) da stand-up da commedia che si convertono in un esistente miserabile, cioè a dire in scenari di follia e violenza.

Il personaggio principale di Joker si ispira certamente all’avversario di Batman che si incontra nelle strisce di Bob Kane, Bill Fingers e Jerry Robinson e come ritorna ovviamente anche nel cinema (con le drammatizzazioni geniali di Jack Nicholson e Heath Ledger). Ma i suoi veri antecedenti sono piuttosto in Taxi Driver e in Re per una notte di Martin Scorsese, citati tra le righe, e ancor più nel sublime Charlot di Modern Times, che invade a un certo punto lo schermo di Joker, come ugualmente – non si deve nutrire meraviglia – l’androide meccanico in cui si trasforma la prostituta Shen Te in Der gute Mensch von Sezuan di Bertolt Brecht (con anche antecedenti ulteriori nelle macchine robotiche boeme).

Già negli anni ’30 Charlie Chaplin aveva saputo indicare come quella nuova vita in fibrillazione che si veniva alimentando nello spazio della modernità eludesse, anzi radicalmente precludesse, ogni soccorso razionale e umano, nono-stante il richiamo all’ottimismo ed al sorriso sovrimpresso alle forme allocutorie del suo film dalla canzone con cui esso doveva siglarsi: Smile. Su una simile chiodatura si è venuto innestando il personaggio di Arthur Fleck, non invece sullo Joker dei fumetti. O meglio, è all’interno del circuito ermeneutico della clownerie che si danno dolore e solitudine e soprattutto è lì che vive la coscienza della reale entità delle cose e della compartecipazione, nel mentre che dentro lo schermo del jokerismo, se così si può dire, cresce un meccanismo vittimario e violento.

Sullo sfondo, la Gotham City: una New York che prende forma da un conso-lidarsi di colori ora spenti e tetri ora invece accesi, comunque abitati da fantasmi e larve umane, da ratti giganteschi, variante post-dickensiana della miseria e del degrado in chiave contemporanea. Tutto un tramenio di apprensioni e ambasce e nevrosi che la colonna sonora di Hildur Gudnadottir, in convivenza con la foto-grafia di Lawrence Sher, racchiude nelle armature di una Moderne apocalittica intenta a trasmutare le proprie leggi da quelle inumane del potere per tentare di ammansirlo. E in fatto, nell’economia del film, l’uccisione delle tre promesse della finanza nella metropolitana per mano di Joker, è la miccia che fa esplo-dere le lunghe fucilerie della parte finale, con la parola d’ordine del cartello che appunta sul proprio spazio il lemma “Kill the rich” e che poco per volta, sequenza dopo sequenza, trae verso una posizione di rivolta contro i pochi che possiedono tutto, o quasi tutto, da parte dei molti camuffati da clown che nulla hanno (e in questo senso il film di Phillips accompagna l’incesso nel cinema americano di un immaginario distopico, alla Carpenter e alla Ridley Scott, ma in un disegno di reazione e rivolta radicalizzate non a caso avvertite e messe in evidenza dagli organi di controllo e governativi negli Usa). Una verticalizzazione se non della ribellione quantomeno della sua necessità.

Insomma non viene fatta astrazione dalla realtà malgrado il richiamo inevi-

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tabile al fumetto; né ci si vieta di affondare lo sguardo nelle tenebre (la stupidità della Tv, il delitto, l’arroganza del potere) e di indagare la sofferenza che ricade sulla più comune umanità. In una tale ottica, se decisamente esilarante è l’intera parte che riguarda lo show televisivo, con un Bob de Niro impagabile e persino divertente quando viene fulminato dallo Joker, straziante è quella risata di Arthur che nasce da un difetto del cervello ma che corrisponde a un dolore dell’anima e ad un pianto interiore, vera e propria ondulazione sonora che giunge dritta dallo spazio semantico dell’opera per essere figurazione materiale, e non invece simbolica, di una ferita e una lacerazione che assume figura di realtà nell’uni-verso di Joker.

Il dissidio che nel nostro caso si celebra è tra significante e senso, ormai fatalmente scissi. Ma quel che più colpisce è il turbamento che ne proviene allo spettatore, il presagio di un male irreparabile, la perpetua insopportabilità del presente: gestiti in una maschera, un corpo smagrato e brutalizzato, in un volto che, grazie alla magistrale performatività di Joaquin Phoenix, ottiene la compe-netrazione di figura e paesaggio urbano (cui lo Joker appartiene), di spazio e tempo, di antefatti culturali e degrado etico-sociale.

Ė a partire da questo nucleo che il film realizza le più lampeggianti estensioni del proprio sguardo sui molti territori contigui, quello ad es. del cinema e del romanzo americano, sempre troppo dominati da patologie fatte insorgere a un momento dato (e anche fastidiose, come ad esempio in Ad astra, dove tornano i conflitti pseudo freudiani tra padre e figlio).

Adesso, dopo Joker, sappiamo da dove discendono le ossessioni e le manie di cui sono portatori i tanti personaggi del racconto americano, e sappiamo altresì che è di lì che si convocano sugli schermi le armi della pazzia e del delitto, l’una effetto di una condizione, il secondo argine e reazione alle indicibili violenze di quella condizione. Così se una Blanche Dubois (quella di Tennessee Williams ed Elia Kazan, ma anche di Woody Allen) è una vittima, il mangiatore di umani de Il silenzio degli innocenti può anche apparirci un vendicatore.

Anche il Martin Eden di Jack London è stato in qualche modo un libro di trasposizione come, fissate a punto debito le differenze, lo è il film di Pietro Marcello. Quando nel 1909 lo scrittore americano si sforzò di tradurre la propria “biografia squarciata e maledetta” (così Walter Mauro) in autobiografia, lo fece mimetizzandosi e per interposta persona. Il risultato fu un libro forse non del tutto risolto sul piano del racconto di una esistenza ma comunque attento a narrare la propria vocazione, il che aumentava il suo fascino. Parimenti Braucci e Marcello trasferiscono le vicissitudini di Martin – il taccuino della sua educa-zione sentimentale – dall’America a Napoli, quasi creando un corto circuito ma anche alimentando visioni, sentimenti, pensieri che riannodandosi a quelli del Martin Eden originale ne attualizzano il fervore febbrile e eccitato, radicandosi nel terreno di una tradizione italiana che incedeva da molto lontano.

Lo stesso non potrebbe al riguardo dirsi di Joker (dove non abbiamo la profon-

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dità temporale del film italiano), che però non si eccettua gran che dal mondo e dal messaggio di London. Certo il modello letterario ha ceduto il passo nel filmdi Phillips a uno schema fumettistico ma è innegabile che le sconnessioni fisichee mentali del personaggio centrale trovino le loro radici nei turbamenti del mari-naio londoniano e soprattutto in quel sentimento di inappartenenza che lo lega a questo riguardo al Martin di Pietro Marcello.

Quel che si vuol dire è che i due film partecipano di un clima, di un’at-mosfera che li sovrasta: muovendo entrambi dal senso ostinato di qualcosa che possa all’improvviso intervenire schiacciando i personaggi. Ė stato sin troppo facile rilevare come l’Arthur Fleck di Phillips oscilli in continuazione tra realtà e delirio. Non è al tutto certo che le cose che avvengono nel film si diano nel concreto del racconto, cioè se il capitolo della realtà si frantumi ripetutamente.

Un’affine, se non propriamente identica mobilità, è anche nella figura di Eden: che intanto si muove tra il pattern letterario che inevitabilmente ha il suo peso e la sua trasposizione (che presenta qualcosa di forzato); tra il passato storico e sociale del nostro paese – con l’affiorare nella superficie del visibile filmicodello squadrismo fascista e prima ancora delle lotte operaie ed anarchiche – e il richiamo più che manifesto al liberismo più sfrenato e al populismo dei nostri giorni.

In questo senso Marcello non fa mistero delle sue propensioni e simpatie anarchiche, dando visione in positivo ai moti di Genova del 1920 guidati da Errico Malatesta e privilegiando nel proprio racconto il moto spontaneo delle masse nelle loro spinte genuine. In tale ottica, il richiamo di scioperi e battaglie di libertà nelle immagini e nelle sequenze del suo film compongono una realtà materiale e un humus che né storia né ideologie hanno saputo far sfioccare sino in fondo.

Ė in questo contesto che l’aspetto inscenato e contemplato della ambienta-zione napoletana sembra come sconfinare in qualcosa che appartiene a un’anima profonda, a una antropologia. E Napoli, col rimando (forse non calcolato, ma inevitabile) al “matematico” di Mario Martone traslato nel personaggio dell’in-tellettuale appoggiato ancora una volta sulle spalle di Carlo Cecchi, è il palco-scenico in cui si consuma il rito della devastazione e dell’uccisione di una verità naturale non ingabbiabile in alcun postulato ideologico. Il progressivo estra-niamento di Martin Eden nel suo gesto finale è infine la replica del suicidio di Renato Caccioppoli.

Tutto questo non si dà grazie a un taglio narrativo scorrevole e a una fera-cità descrittiva, che pure esistono ma in ragione della coscienza dolorosa di qualcosa di complesso, arduo anche a dirsi sul piano storico-antropologico, congiuntamente alla consapevolezza culturale e politica della ormai consumata mercificazione dell’arte. Di qui la complessità prima della messa in scena e del montaggio, poi del lavoro sulle inquadrature: con graffi, lacerazioni, balenii che danno sostanza almeno per un momento ai brani staccati della coscienza e a una

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sorta di inconscio collettivo lacerato e sanguinante.E insieme tutto il sommovimento delle immagini, quel continuo e trafelato

combinare e scombinare giunture, il deliquio da cui il personaggio si riprende solo a tratti: cioè a dire il liberarsi del testo visivo da ogni sottotesto, una visio-narietà che si definisce sul piano della veggenza del poeta-demiurgo.

Se in Joker l’espressione del protagonista si colloca sotto il segno inesora-bile dei modelli imposti dalla televisione e dalla società postmoderna di massa, in Martin Eden pare ancora possibile perseguire le vie del sensibile. Sorta di Gramsci proletario e ingenuo, o di Malatesta consapevole delle proprie ragioni, il Martin Eden di Pietro Marcello e Maurizio Braucci fa mostra per larga parte del film di credere ancora nel valore emancipatorio della cultura.

Questo sino a quando una lama di luce verrà a rassodare le sue ferite. Così per gradi progressivi quel sapore acerbo che in lui aveva soltanto dimora di un’ombra, diviene una voragine. Ma quella scelta, il suicidio per annegamento nel mare, si può infine anche leggere come ritrovamento di una verità: afferma-zione dell’unità tra natura ed uomo.

Gualtiero De Santi

Ricordo di Piero Tosi

Tosi e l’estetica del costume. Negli ultimi anni Piero Tosi aveva come eretto un muro tra il suo talento e il lavoro che ancora conduceva sui set, convinto com’era che la grande stagione del cinema italiano fosse ormai perduta e fosse anche irripetibile, come lo erano i grandi film che vennero creati. Tanto che qual-cuno (mi pare fosse Umberto Tirelli) è arrivato ad asserire che chi non aveva visto Senso nell’edizione originale del 1954 non si sarebbe potuto render conto della bellezza figurativa di quel capolavoro e, quanto alla copia restaurata sia pure con tutti i crismi, essa non era che l’ombra dell’originale.

Mette conto di ricordare che giusto con Senso si ebbe il pieno coinvolgimento di Tosi nel cinema in qualità di costumista. Questo all’interno di una prassi, quella viscontiana (col concorso determinante del grande Aldo Graziati, il diret-tore della fotografia che perì in un incidente stradale nel corso delle riprese), che dalla precisione filologico-estetica si faceva un punto d’onore di risalire alle modalità storiche e sociali, da cui una ricostruzione per immagini – e aggiunge-remmo per costumi, per abiti oltreché per scene – non già di armonie consola-torie e estetizzanti quanto di quei conflitti e contraddizioni che dal Risorgimento sarebbero risaliti sino al nostro Novecento e vorrei anche aggiungere ai nostri giorni.

Un processo complesso che si sarebbe ripetuto nove anni dopo con Il Gatto-pardo, ancora di Visconti e ancora più chiaro ed ambizioso in quel decorso lingui-stico che era insieme nostalgia per il tempo trascorso ma anche base concreta per una interpretazione che entrava in consonanza con le nuove elaborazioni

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della storiografia italiana. In ogni caso, fu con Visconti che Tosi potè esprimere la parte più creativa e insieme più coltivata della sua natura: tanto nel cinema (Le notti bianche, Rocco e i suoi fratelli, La caduta degli dei, Morte a Venezia, Ludwig) che nel teatro. E in entrambi i settori l’abito era pensato in relazione al personaggio ma anche al suo interprete.

L’intervento creativo del costumista riguardava il modello immaginato e di poi trasportato sugli attori, ma altrettanto la scelta dei tessuti ed il loro tratta-mento. L’abito indossato da Anna Magnani in Bellissima, involato avventuro-samente alla donna che lo possedeva, venne sottoposto a un bagno nel thè per ottenere gli effetti desiderati. Ugualmente, nel caso di Ludwig, a segno di ottenere l’effetto dell’antico e insieme l’eleganza asburgico-bavarese, i tessuti utilizzati per le divise della sfilata vennero lavorati così da apparire lucidi e creare effetti riflettenti (come nei quadri di Giorgio Morandi).

La conferma ci arriva anche dal lavoro prodotto sul palcoscenico sempre sotto la guida di Visconti. Se si osservano da vicino i bozzetti delineati da Tosi per la memorabile Locandiera del 1952 (dove pare che in un primo momento Visconti fosse dell’avviso di coinvolgere proprio l’incisore e pittore bolognese), quell’universo veneziano che il lavoro di regia avrebbe voluto ricomporre nella sua diffusa operosità richiamandosi a Pietro Longhi, ben traspare dai modelli disegnati per il siparietto, per le scene dell’atto primo secondo e terzo, l’una trasfigurata in quella successiva e di lì essenzializzata, dal primo colpo d’oc-chio formale e appunto morandiano, nell’evidenza di qualcosa che appare più icastico perché maggiormente conforme al reale (una vena e un istinto che erano usciti in maniera esaltante l’anno prima nei costumi di Bellissima, in particolare nell’abito della Maddalena Cecconi di Anna Magnani).

Accanto al rigore delle linee, dei colori, delle tonalità, nel Tosi de La locan-diera rivestono un ruolo fondamentale le modulazioni coloristiche dei costumi scenici (si scorrano gli abbozzi per gli accostamenti cromatici) e ha anche pieno rilievo la bellezza delle predominanti di colore e luce con cui si ricomponevano un’epoca ed una civiltà, quella nostra settecentesca, con le ariose vedute dei tetti, con la semplicità di un mobilio che non dimetteva una propria cifra stilistica, con quel predominio del bianco che – annotava Giulio Trevisani sulle pagine de L’Unità – traeva motivi dalle tovaglie, dai tendaggi, dai veli, senza alcun abuso di parrucche ciprie o nei.

Un’affine levità è nel bozzetto per la scena del primo quadro del primo atto e del secondo quadro di quello successivo ne La sonnambula del 1955 alla Scala, protagonista la Callas (anzi, come ancora si chiamava, Maria Meneghini Callas) e ovviamente anche nel costume azzurrino del suo personaggio, Amina, evocante alla pari delle scene i ceramisti dell’ultimo Capodimonte. Sempre quell’eleganza suprema e discreta, tale nettezza, emerge nello Zio Vania del ’55: in cui la scena si ispirava suggestivamente al podere di Melichovo della famiglia Cechov, con un “grigio-polvere di estate e di sole” ristagnante “sulla casa bianca di legno, sul

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giardino rustico, sull’arido fogliame delle betulle” (così Giorgio Prosperi).Ma andando avanti negli anni: ecco l’elisabettismo fiammeggiante di

Dommage qu’elle soit une p… di John Ford, a Parigi nel 1961 (con Romy Schneider e Delon), la Traviata di Spoleto 1963 e sempre nella cittadina umbra, dieci anni dopo, l’ultima regia lirica viscontiana con la pucciniana Manon Lescaut(dove Tosi lavora a quattro mani con la sua migliore alunna, Gabriella Pescucci e dove alla consueta finezza si accompagna sempre quella poetica della realtà che vuole che anche il costume possa, con la sua evidenza semantica e formale, contribuire alla ricostruzione di una verità non superficiale dell’opera).

Ma tornando al cinema e ad altre collaborazioni: meno incisivo tuttoché di solida validità figurativa è il contributo recato ai film di Mauro Bolognini nel giro di boa degli anni ’60 del secolo scorso, soprattutto con La viaccia e Senilità,mentre solo esemplati su effetti formalistici gli apporti recati ai film di Zeffirelli,dove sotto una generalizzata vacuità finiva con lo schiacciarsi la genuina vena lirica del nostro. Altro ancora potremmo ascrivere al capitale delle benemerenze accumulate da Tosi, tali le soluzioni espressive raggiunte con Soldati (Policarpoufficiale di scrittura), con Fellini (nel visionario Toby Dammit ), con la Cavani.

Ma se la collaborazione con Visconti si è sempre tenuta a un livello così alto da togliere il grido a tutte le altre, la genialità e la creatività di Tosi si sono espresse sia pure in diversa misura e con diversi caratteri in Medea di Pasolini (si pensi solo ai pesanti abiti rituali della protagonista e agli arcani monili che li accompagnavano) e, per stare a combinazioni contrappuntistiche quasi giocate su un piano musicale ottenuto con le stoffe e con i colori, in Matrimonio all’ita-liana dove Tosi asseconda gli estri inventivi e ritmici di Vittorio De Sica.

La forza di Tosi – insieme ovviamente a tutte le sue specifiche qualità di maestria e inventiva – è consistita nel fatto che l’abito disegnato e realizzato si voleva anche “giudizio” e assai sovente giudizio storico. Così ad es. la stra-ordinaria galleria imperiale di Ludwig, specie nella prima parte, vale in quanto appoggiatura formale per una sfilata di abiti del potere nel momento cruciale della sua decadenza, dunque in una diretta esplicitazione della sua ormai vuota rilevanza; laddove all’incontrario, ad es. in Matrimonio all’italiana, lo sgar-giante cromatismo dell’abito indossato da Sophia Loren in quella carrellata che la segue verso la macchina di Soriano, fa affacciare il tema della fantasia popo-lare e dell’allegria del dopoguerra, in quel fervore di ritorno alla vita che aveva raggiunto anche le classi più indigenti.

L’arcata storica e nobiliare che veniva a disegnarsi nel cinema di Visconti si traduce in un atteggiamento concreto, se pur sottinteso o meglio implicito, nei film più realistici come fu quello di De Sica. Ma nel cinema di Visconti corre-vano ulteriori ispirazioni, altra quotidianità: un’attitudine altrettanto rigorosa lasciava infatti scivolare nelle immagini i sentimenti più sfuggenti e più difficilida confessare, quelli di specie proustiana; così la ricerca formale veniva allora orientandosi verso una sorta di ordito emotivo. Valgano al riguardo gli abiti di

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Silvana Mangano in Morte a Venezia disegnati sul più fertile cedimento alla memoria (a quella interiore e privata che il regista milanese aveva degli abiti indossati dalla propria madre).

Ma infine l’eccezionalità di Tosi si riflette in un disegno di eletta normalità, o di conquiste ottenute e mantenute. Questo ove si rifletta sul fatto che il cinema italiano dal 1945 al ‘975-76, non è stato solo un cinema di grandi autori. Ai suoi risultati non sono rimasti affatto estranei i tecnici che hanno prestato il loro contributo e le stesse maestranze: i direttori della fotografia, da Otello Martelli ad Aldo Tonti, da Gianni Di Venanzo a Rotunno, da Tonino Delli Colli a Vittorio Storaro, come equamente gli scenografi e i costumisti, capaci di raggiungere traguardi così ambiziosi che oggi nessuno potrebbe nemmeno immaginare di ripetere.

Tutto ciò è stato possibile perché si voleva comprendere il mondo ed orien-tare il proprio presente, con immagini improntate alla cultura ed all’arte al cui concorso hanno contribuito quei materiali di scena che semantizzati in grandi sequenze divenivano linguaggio filmico. Infine anche nel caso di Piero Tosi, i cui risultati rimangono irripetibili come i film ai quali ha portato il suo contributo, si può sostenere che il senso più vero della cultura è il concetto di realtà che le opere hanno saputo esprimere anche nella parte concernente i costumi. Un principio in fondo etico cui è rimasto sempre fedele il costumista fiorentino. (G. D. S.)

Una telefonata con Piero Tosi

Le signore Scicolone intente ad assaporare pasta e fagioli in un ‘basso’ napoletano, l’eleganza all’inglese che Mastroianni rubò a Paolo Stoppa, il café-chantant di Tecla Scarano, l’intuito gigione di Vittorio De Sica e molto, molto altro: un’ora di assoluto godimento per cinefili e studiosi di teatro, soprattutto per quel tono amabilmente caustico del quale la conversazione del maestro si ammantava. Davvero un privilegio poter parlare con Piero Tosi, seppure per il breve tempo di una telefonata. L’occasione fu un articolo sui costumi di Matrimonio all’italiana di Vittorio De Sica affidatomi da Gualtiero De Santi, che ringrazio anche per lo spazio di questo ricordo, pubblicato nell’omo-nima monografia edita dall’Associazione Amici di Vittorio De Sica (2002). Telefonai a Tosi nel dicembre 2001 e, avviata da una serie di domande zelanti, l’intervista prese subito il tono di una chiacchierata nella quale il maestro, con la gentilezza dei grandi, non lesinò aneddoti e considerazioni personali, accanto ai dettagli sul processo creativo degli abiti di scena per il film. Anche per Matri-monio all’italiana (1964), come già per Bellissima (L. Visconti, 1951), Tosi partì in molti casi da pezzi esistenti, adottando accorgimenti sottili per smorzare la prorompente bellezza di Sophia Loren senza scontentare Carlo Ponti, occhiuto custode dell’immagine della diva. «La moda è un accidente, finché non diventa stile» commentò Tosi ricordando l’armamentario di ciglia finte e cotonature di cui la Loren non poté fare a meno pur nei panni modesti di Filumena Marturano,

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che proietta su certe inquadrature di Matrimonio la luce glamour delle copertine di “Vogue”. Sovrapposizioni che i grandi costumisti prevedono e sanno convo-gliare in una ancor più precisa definizione del personaggio: «una specie di abito magico», in grado di investire l’interprete e farlo calare nell’epoca del film,sintetizza con l’usuale incisività Franca Valeri (in L’abito e il volto, Incontro con Piero Tosi, regia di F. Costabile, 2007). Del resto, ammise Tosi, il mondo di Matrimonio all’italiana non doveva essere esattamente datato ma «indistin-tamente lontano nel tempo», effetto ottenuto grazie a una preparazione quanto mai accurata: «nella mia carriera è l’unica volta in cui ho potuto fare un lavoro così serio, per un film: tutto pianificato fino al più piccolo accessorio». Anche se occorre precisare che i titoli di coda attribuiscono a Tosi i costumi di Sophia Loren e Marcello Mastroianni, mentre come ‘costumista’ è citata Vera Marzot, allora assistente di Tosi. «Fu una gioia lavorare a quel film: un’orchestra di primi violini, persone squisite e intelligenti, attori bravissimi».

In quell’ora di telefonata Tosi non si limitò a Matrimonio all’italiana. Le domande intorno al film di De Sica accesero mille digressioni, e l’accento fioren-tino del maestro mi avvicinava figure fino ad allora per me dislocate nella luce di un proiettore o sulle pagine di un libro. Visconti e i suoi attori, la Callas, Pasolini, Camerini, la Wertmüller, Maria de Matteis e per un momento anche Fellini, radunati in un’ideale sartoria, forse proprio quella di Umberto Tirelli, che di Tosi fu amico e collaboratore per quasi 30 anni, per decidere un tessuto, un taglio, un colore. Allievo di Ottone Rosai all’Accademia di Firenze, finissimocolorista del palcoscenico e dello schermo, nel nostro incontro telefonico Tosi non esitò a criticare certe operazioni di restauro cinematografico: «il colore è nefando, orrido, salvo alcuni rarissimi casi di prima visione. Oggi i film andreb-bero ristampati in bianco e nero. Senso sembra fatto di gelato».

La bottega. Ecco cosa mi colpì più di tutto nella conversazione con Piero Tosi. L’attenzione estrema al dettaglio tecnico, a ogni sfumatura della lavorazione, alla componente artigianale nella creazione degli abiti di scena, perché ogni filmè un documento e basta una trama sbagliata a rovinare il quadro. Un filologodel costume, capace tuttavia di plasmare abiti magici. Della stessa sostanza dei sogni, direi. Grazie, maestro.

Cristina Ortolani

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La nostra tamerice

Non ti ho detto di quel che ho fattoil giorno prima di tornare a Roma.Sono andato sotto l’ombra del nostro albero a Rosetomi sono seduto e gli ho sorriso dicendoglich’era dolce, che il mio e il tuo cuoreli aveva conquistati.Il suo cuore ha sorriso,ha pregato la brezza d’abbracciarmie di mandarti un bacio.

Letteraria

Amarti non è il riassuntodella tua persona,l’analisi del tuo sorriso,ma una scommessa di Dioche scuote le fondamentadel nostro essereper accertarsi del fascinodella luna e dei marosi.

Amarti non è il desideriodi prenderti una nottee all’alba avere il cuore soddisfatto,ma un volo che va in direzionedegli abissi per informarliche l’amore è un abisso più profondo,la realtà dell’imponderabile.

Amarti è sapere che a Materauna parte di me ogni seraparla con la luna di Leopardi,con le frenesie di Neruda,col cuore di Petrarca.

Immagino ogni tantodi Dante Maffia

Immagino ogni tanto

Immagino ogni tantoche qualcuno mi chieda a bruciapeloqual è la sintesi del nostro amoreo che cosa di te conservereise fossimo costretti a separarci.La mia risposta?“La sintesi! Be’, sai, la sintesi, ma sì,le ore vissute dentro di tementre la morte feritainfuriava e sbraitava per scomporre l’universo.Ma cosa conserverei? Le tue forme quando s’incarnano in me,le parole dettate dal tuo seno.“Il TUTTO” ch’è misura del mio esistere.O medicherei le ferite della Comareper darle asilo”.

Anche nella morte

Mi dicono che ormai vivo lontanoda questo mondo,e forse è vero.Mi dicono che tu sei la luce,ma devo stare attento.A che cosa?Che la luce si spenga?Non ho paura della morte,anche nella mortetu sarai la vita,il sempre, amore mio.

Dante Maffia (foto di Bill Wolak)

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Sole, ti prego

Sole, ti prego,non esagerare.Luna, anche tu non allungaretroppo le mani oltre il dovuto.E tu profumo di timonon prenderti troppa confidenza,non dimenticareche sono calabrese,eh, sì, geloso.Non lo do a vedereperché le ho promessodi smussare la mia rudezza.Ma a voi lo posso confessare:sono geloso perfinodel sapone e dell’acquaquando fa la doccia,figuratevi quando entra nel mare.

Germogli d’infinito

Non importa quel che diventeranno dopole nostre memorie(i nostri corpo zero),se curiosità o ingombro,comunque cose accadutee ormai spente.Perché tutto si spegnenel rogo dell’insignificanza.Dunque è adesso che mi premi,adesso ho bisogno che tu siasostanza viva e palpito d’amore,pienezza e viaggio che plasma gli approdi,li rende nostri,crudi, selvaggi, indomiti,pacati e lieti, germogli d’infinito

Non so se posso

Non so se posso dargli un aggettivo:è stato un sogno vertiginoso,con corse lunghissime,parole senza suono,paesaggi sconfinati,luci e ombre su dirupi,siepi che all’improvvisoaprivano il cuore della fioritura.

Ti cercavo. Dapprima mi rivolsi alle stelle, nessuna risposta.Poi alla notte che stava andando a dormire.Bofonchiò un suono aspro,come volesse nascondermi un segreto.Poi ai gelsomini, perfino al gattoche faceva le fusa indifferente.

Sapessi quanta strada!Sai, gli oleandri dissero,“è appena passata”,l’ulivo centenarioche vive sul quadrivio:“un attimo fa era a me vicina,se corri alla svolta la vedrai”.Alla svolta soltanto il vento,anche se di colore rosso acceso,e imbarazzato.

Più avanti la vecchia cascina abbandonata.L’hai vista passare?“Mi è parso, sai, io dormo quasi sempre,forse era la sua camminata,non so, mi dispiace”.E poi il fiume: “Sì, di qui è passata,aveva un mazzo di fiori bianchi,

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non essere geloso se l’ho accarezzata,troppo bella la sua andaturae gli occhi il poema della vita”.Tu sempre ingordo, povero Leccata,sei un farabutto, prima o poi,morirai dissanguato.

È passata di qui mia cara quercia?Tu, nuvola bastarda, l’hai vista?L’hai guardata?“Io non vedo e non sento,solo a voltemi prende la smania, e poi, tu chi sei? Va per la tua strada,io vado per la mia”.

La smania è un brutto affare,bastava che guardassi verso il maree t’avrei vista fiorire dalle onde,o dai Sassi,che hanno con il mareun patto: miei complici.Anche la morte è mia complice,quando mi prenderàtu non dovrai soffrire.

Oggetto in disuso

Dopo avere appuratoche Dio m’ha fatto nascere poeta,dopo aver lettoalcune migliaia di volumidistillando e mettendo la mia animain trasparenza,la mia mente sulle onde del mare,qualcuno, con sussiego,vuole insegnarmi che cos’è la poesia.

Sono sempre felicequando qualcuno vuole insegnarmi,la crescita è il viaggio da compiere

anche se non so per che cosa.Ma questo mi dice: assegna un carattere alla pecora,vai a capo quando ti piace,usa nomi desueti,inventali magari,e vedrai i battimani come pioveranno,come i grandi giornali e le tivvùfaranno a gara per intervistarti.

Timidamente oppongo:e le emozioni?Quelle che provosolo a pensare che a Materabatte un cuore per me.Ma nessuno ormai sache cosa siano. Scrivi che un caimanoogni notte viene a visitartie siede di fronte a te nel salotto;scrivi che la bambola di pezza

[della tua bambinasa dipingere meglio di Picassoe scrive come Marina Cvetaeva.La stranezza conta.

Povero Shakespeare, ho detto,poveri Omero e Goethe.E lui: ormai sono polvere, le loro parolenon hanno la coscienza del presente.Non valgono più niente.Dunque?Nessun dunque, la poesia ormaiha la stessa valenza d’un detersivo per i piatti.Non la pensi così?Sei un oggetto in disuso.

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L’alba assonnata

Quest’alba ancora assonnatacolore del polmonevaga suscitando asprezzeed è come se stesse cadendo da un balcone.Fa fatica ad accoglierla la strada,il bus è diffidente:ha i fari accesi.

È il ritratto di te in questi giornipiovosi e amari che portano languorie si rifugiano nel grigio?O è la vita che scarrella dai binarie si ritrae impaurita?

Quest’alba che non sveglia usignolie non deborda verso i campanilimanda pigrizia in volo,si consola su una pozzanghera.

Rabbrividiscono i cornicioni dei palazzi,i pini, ormai con poche braccia,perdono la voce.

S’alzano nuvole di nafta,clacson annoiati azzardano un tocco.

Comunque siamo vivi.

Forse questa è la morte

Forse questa è la morte(uno dei tanti volti),la morte più crudele, però,perché vissuta giorno dopo giorno,patita nel silenzio indifferente:essere assenti agli altri,sentire che non servi,e nessuno ha bisogno d’un tuo gesto,nessuno bada a quel che fai.

Ci sei oppure nonon ha importanza.

Nessuno ti chiama,nessuno t’aspetta,nessuno deve incaricarti di qualcosa,darti un messaggio,avvisarti di quello che sarà domani.

Essere diventati una cosa,rendersi conto che aspettanoche tu chiuda gli occhicosì non potrai più infastidire.

Forse questa è la morte peggiore:dimenticare il proprio nome.

Sai come sono fatte le madri

Tu sai come sono fatte le madri,sempre preoccupate, ansiose,curiose di conoscere la sortedei figli.La mia mi viene in sognoe fa mille domande, chiedese mi vuoi bene, se mi curi,se hai per me pensieri buonie se ci stai attenta a quel che faccionelle lunghe sere d’invernoo nelle notti estive.E io puntualmente le rispondo:ci manca poco e mi ama quanto te.Va bene?Eh, figlio, per quanto dolce siamai t’amerà come ti amo ioperché t’ho partorito.Ma anche lei l’ha fatto, madre mia.Non te lo dissi, ma tempo addietroero morto e sepolto e leimi ha assunto nel suo gremboe mi ha partoritocome facesti tu.Anche lei con dolore.

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Lui sorrideva senza rispondere

Non capirò mai il dolore dei mulini a ventoche non ho mai visto; me ne parlava zio John,americano del Texasche aveva sposato la sorella giovane di mio padre.I mulini a vento come mostri addoloratiperché non riuscivano a volare.E io a domandargli, zio John, sono felicisolo quelli che sanno volare?Lui sorrideva senza rispondere,beveva un goccio dalla bottiglia,sorrideva di nuovo,e io me ne andavo in cucina a fare il solitariocon le carte napoletane, rimuginavosul dolore dei mulini a vento,e pregavo che mi nascessero le ali.

Amarti è giungere

È terribile il vuoto che si creaogni volta che te ne vaidopo i tuoni, i fulmini, le saette,i terremoti, i maremoti e il capovolgimentodell’intero universo.Un vuoto d’una pienezza sconcertante,un vuoto ricco di sogni vissuti,di viaggi interminabilinella verità dell’esistere.Amarti è sempre giungerea un fiume tumultuoso senza sponde.

Anche il mare

Il mare nel suo odore di alghe,nel suo trionfo di spa-smi e di chimere.Come se fossimo stati noi duea dargli l’anima, il respiro ammaliante,la vita, gli ammiccamenti,la sinfonia e il certificato d’esistenza.Perché quando sei con me sono certo che siamo noia fare esistere il mondo.Anche il mare.

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A passi lenti

A volte ti vedo andare per il vialed’un bosco di querce anticheche mandano frescura.

Io dietro a passi lenti,a godere le tue forme, i tuoi passi, i movimenti improvvisidovuti a una buca, a una radice.

È un sogno dolcissimo,di un erotismo così ineditoche neanche i poeti finorahanno mai goduto.

A me è capitato

È possibile non accorgersid’avere dormito per secolie al risveglio non trovare un solo libro,le biblioteche cancellate,le parole incartare in vec-chi stracci puzzolentitranne quelle troneggian-ti sopra un muro:“Lei ti sta aspettando”?

A me è capitato,e del lungo sonno non ricordo nullase non la vaga leggera ca-rezza di una mano,e la freschezza lieve di due labbra sulle mie labbra.

Dove

Non so più quando sogno o quando sono sveglio,se vivo meglio sognando oppure immerso nell’ombra; sbadiglio leggendo, guardando il mare,mi godo i sapori sdraiato. Dove sta la menzogna?Dove la verità?Quale la luce giusta, quale il sensodi questo sentirmi nuvola, libro scritto male,bagaglio pesanteda non sapere dove posarmi?Eppure non è confusione,non è smarrimento.Solo un dubbio che sfiora le forbici del tempoe la sua ingordigia, l’insaziabile guastoche compie non riconoscendo i valori,l’intelligenza, la ricchezza interiore.È un andare, il suo, senza fermenti,nel buio pesto delle perdite perenni.E pretenderebbe d’essere amato?Neppure i vermi ne hanno considerazione.Che vada nel deserto del Nullaa spampanare l’inconsistenza e il guasto.E non ti sfiorise non vuole essere inchiodatoa un orologio senza sfere.

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Mi ripetevi sempre

Mi ripetevi,come la Madre di Esenin,che sarei diventato un grande poeta,ma dovevo smetterla di leggere troppo,spesso i libri uccidono la poesia.

“Riproduci il canto dei miei reumatismi”, ripetevi,“fai sentire l’odore del latte appena muntoo quando si brucia e la casa sembra appestata;dai alle parole la forza dell’acqua piovana,il sapore delle nespole mangiate nell’orto,la forza del coltello affilato che taglia la provola”.

Non sono mai riuscito a cantare i tuoi reumatismi,Madre,né il latte, né il coltello per la provola.La tua lezioneè rimasta inascoltata.Ma stasera provo a scrivere in versi il tuo sudore,la miseria dei nostri giorni disumani…parlare, sorridere, mangiare insieme ci tenne lontano dalla morte.

S’azzuffano i lupi mannari della confusionem’impediscono di nutrirmidella tua sconfinata mitezza.

Dante Maffia

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ScartiDue poesie inedite

di Ariodante Marianni

1

Butta via la spazzatura del passato,non portartela dietro: s’accumula e puzzae il suo peso affatica. La mente sgombra,è più agile il corpo. O, meglio, siedie fa i conti: un bilancio reale,senza riserve occulte o debiti gonfiati.Troverai qualche attivo. E se non c’èdimentica, ricomincia da capo,perché ogni giorno si riapre il negozio.Su, muoviti, non startene in ozio!

(Leggo, e ironizzo, mi piglio in giro,appallottolo il foglio. Poi mi fermoe rifletto, e queste trite parolenon mi sembrano, al dunque, più insensateperché dette e ridette e ancora dette).

2

Coraggio, datti da fare, c’è ancoratanto da fare:

riporre gli abitiestivi, tirare giùle coperte.

Verrà l’inverno,tutto sarà inverno.L’animale nel tronco

in letargo,i rami bianchi di fioridi neve,

ma secchi e nericome segnid’inchiostro

(spiritoso!Dirai al ragazzosfottente).

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Composizionidi Gualberto Alvino

Poculum vini aut bona puella

longheza mezura prodeza zoide Panema capezzoli più durinon c’è vento che possa premere non onda cristallobatte la tentazione della rinunzia chi via viacompone e disgiunge erra e stanziapasteggiaassaporacome e qualmente de toto corpore fecerat linguamlieta accoglienza a ora quinta pro necessitate ventriha scavato tombe nelle paroleche un puro spurgo sia signacolodal sincipite all’occipiteabbandona nella selva i sentieri segnati dopo averle sarei molto e molto tenuto se il corpoè scomposto lo spirito gli diventa ugualein tutti i forami delle rovine su cuis’abbarbicava bambino campione di salto in bassoboati all’atterraggio negli orecchine avrebbe in séguito patito è per questo che corredall’una alle due ogni giorno pioggia o ventosole neve correre svuota le trombeun procedimento centonario non puònon avere una sua dignità l’accostamentodi più frammenti testualiche il copista abbia sbadatamente omessole modifiche perfino le più tenui devono condurrea un mutamento di sensoil riscontro è tuttavia ben poco affidabilesicché oscilla dentro e fuori prilla qui lìremoto e prossimo parrà strano ma a rendere assaipiù complessa l’impresa ricostruttivainnalzare sé su sé si dicesia l’unico scampo di dì in dì frammentiinserti in continui spartiti senza soluzione

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di continuità ne ha le taschepiene le stive predilige di gran lungail frantumo (diceva fràntumo) di stellalo sbalzo le scheggeviolenza sul solo significante è insensato tuttosi ripercuote ritorna davverotutto ahimè ha un sensoa meno che mettiamoprotei anaremi palindromi cancri anaciclima anche qui ci sarebbe da discuterel’invoglia a percorrere nella sua interezzalode ai birboni di questo mondol’arte di pubblicare i testiun comechessia immaginabilesconforto d’una birra antipode al boccalepane coperto tendenza a confonderelupi e linci dovuta alla scarsafamiliarità con certe formequo bono?

Incipiuntur laudes

creaturarum quas fecit beatusFranciscus ad laudem ethonorem Dei cum esset infirmusapud sanctum Damianumun comportamento correttorioesitante è più deleterioalternanza non rara nell’uso medievaleper strumentale? agentivo? causale?l’increato universo acquista maggior significazionelà fu sùbito appeso per li piedi a uno mignanielloper la moita grassezza da sé ardeva volentierimentre lo pugnalavano pensava intensamenteall’anisosillabismo aliquid stat pro aliquoe si consuma lo foco per neientepoi per neiente lo cor mi cangiavae per neente altrui servite e dateke per neente dà pene e tormentise dunque non potrà essere segno distintivo assolutotanto m’aggrada il tuo comandamentoDante infernale

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Guittone amorosomoralenon le cose ma gli effetti che produconoscorticato e vivoil mondo perdavero uscito dai cardinitutto il novo sapere positivoscriptor compilator commentator auctoril faut aller à l’essentielnon è — Rolando — il testo che mi vuoleesso mi tesseservitude volontairechiamo ebbrezza dello spirito lo stato cheab ovoorafi e coniatoriconciatori e pagliaidiscesi da qualche cieloSchumann un istante prima dellapazzia si cita l’esempio del nabateo doxa paradoxanovantanove chiese rase dal Medesimo cui levatearance di Malta come lela pratica obbliga a finir sempre la frase

Aiu puma ca pàrino pira

Epitalamio per Salvo Butera

come venendo in una luce senza scintillazionespuntò così l’amicizia taleun pomo delle tue parti un limoneinatteso cicciato nella frasca l’immotivatosenso di gratitudine ti fora lo sguardonegro il vint che scur al mòur tuttauna topografia fantastica in fondoall’abetaia conoscevo anch’ioil villaggio di Tringsalvo l’oggetto in esame una superficiepari a Marte su cui marciavo panein borsa occhi bendati tanto per fare con sudue mezzelune turche l’aliscafoa pelo il campo pienodi ragazzi carolini sottotorrecon tenera mascella il fiato lungo ecco rispunta

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tra le cuspidi nebbiettaverde tre lavori tutt’insiememi svoltano l’annata Gabri è quasipronta tende i fianchi piena di tuttili piaceri vedo giàin trasparenza le costole la nucascarlattina il sesso minore d’un puntole svariate occorrenze della vitamorbillo il compito di grecoma un viscere l’inodora lordura quel gretodel Platani col suo risodi cavallo mai in vena d’ierofanieinstrumentum regni nient’altroavrei caro di sapere se tu pure li senticolano dal ballatoio brillanocampi gialli di ravizzone i templisono carcasse ladriho finalmente trovato la cittàse stile è materia domatauna pictura de una noctemolto bella et singolarenon sia da vendere per pretio nesuno

Gualberto Alvino

Forse diventerò come il silenziodi Antonella Calzolari

Makako Jazzdi Alessandro Trionfetti

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Stranite improntedi Marco Buzzi Maresca

stranite impronte fulmini dissuasi strani ardori delirio del non recesso impatto d’unghie dilanio di palloriungulanti ululati e tracce e facce e faccedilavano e dilavano e diluviano e

impresentabile bufera sulle traccea vita ardisce impronte impronte nell’acqua improntedi fuoco nel vento a rilentoin grani di sabbiatra frane e derive

impronte lavacro lascive derive del senso

intàtto l’impatto

e nùlla che viene

ti culla

nell’intatto

intangibile

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Fermenti 241

… nella ferita pornografica irrompendocontinuastrazi la pelle della fuga battendoali al sospiroinutilmenteil tuo nido nello sconcioprolifica becchi protesi artigli dolciquando plani al ritorno

*

amore terreo terremoto la tua manoscuote i tempi e adesso adesso è tutto

adesso

sento nell’abissocado trattenuto sull’orloe ti permetti di toccarmi e ti toccotimore e tremore dell’odore che invadee schiude

l’essere

amore terrore della fine e mai finito ardorenell’istante abbuiato di lampi e frammentinello scisma dell’intero della menteed ora ed ora ed orasenza niente che oracamminando insieme per il nulla

culla dei draghi e di paludisentiero dei pensieri nudiferita che si sana nella lamanella fiamma che ti chiamanel bacio che ti ama

amore nel lago della quiete testa d’arietecanto della divisione coro del brancoletto dello stanco onore

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Fermenti 242

amoresenza che il cuore sappia il cuorebattente delle porte aperte

amoreche il grido incoloreulula al vento

amore giocosamente indennetacito ad ogni parola

amore

tu lo sai io lo soe le parole danzanoincalzano avanzanoparlando d’altro nella selva della carne

*

Labbra di miele le labbra che ti chiamano e cercano pezzi di carne appesi in un quadrole labbra che non ti pensano e desiderano

coltelli le labbra che ti dimenticanoveleno e droga le labbra dell’altalena

ferite atroci le labbra di chi tardaa parlare

labbra di sogno le labbrache potrebbero cantarenel tuo silenzio

*

Rivista "Fermenti" n. 250

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Labbralabbra di sangue fiumi del cuore dita aperte su dolci serpenti

Labbra ferite nel fiumelabbra arpionate labbra ustionanti

Labbra che mordono e divorano labbra che odorano di latte sull’ombelico

Labbra di un canto impudico e amico

Labbra che fuggono e corrono sul corpo brividi repenti labbra serpenti del tremito imprevisto

*

fiori di labbra prati di ardore zolle di afroreanima trapassata in carne straziante litania di ciò ch’è troppoe si può perdere

e nel caldo tenero della pelle con triste meravigliasciabordio di scogliapre agli abissigrida di gabbiani

ti trafora l’azzurro con lamine di cobalto

*

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occhi di corallo labbra bruneumido cerbiatto della mia scena dolce altalena

*

Mare a sconfinio perduto se poimare nell’io mare a scaglie se fosse acido metallico la vista che rimbalza urlando luce d’abisso mare fisso mareirredento nella scomparsairredimibile inudibile sconquasso di fragoridi scoglio mare il cantoche canta la rupe irrecuperabile la vertigine

Mare che vastità abbaglia di concetti che perfetti prismi che poi che mare ammarandola battigia circonflette in perdimentomare nostalgia d’ardimento ardore di lava a nube esplosa quando i vulcani quando i vulcanimare che bacia l’ardore in una danza di fragorimare che danza la barchetta lieve

Mare soffocato di plastica che ne fa isole terrifichee che le muove a terribile nostro perdimentomare terreo circonflesso sulla terra al cielo inchinato in vastità pacificheche l’uragano alza alla sua danza

Mare dei ponti d’acciaio del volo tesooceano delle stalattiti di ghiaccio dell’Antartide e che affoghi la mente di stupori tra le crudeltà danzanti delle foche leopardo e dell’ilarità pinguinamare rovina mare di correnticalde gelide perfide deliranti di labirinti mobili

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 245

Mare dell’immobile sguardodel viaggio che non arrivainnominabile mare della poesiae forse cosa mia …

*

… esplorando le caverne del dolore tra spasmi di mistero il tremito dell’ansa il fiume il fiotto dell’odore il sentore travolgente di qualcosa di più del vero di diverso dal più sincero sogno e dal bisogno

Il salterio del desiderioinanellapontili d’ardimento.

Si parte si arriva protesi nel mare.

L’odore della mente disserraoscenamentesante parti oscure profumi di smarrimento.

E l’anima tremasbigottitariversanel corpo.

Marco Buzzi Maresca

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 246

Il canto delle sibilledi Mario Rondi

La serpe

La serpe che sorride ben nascostanell’ombra dello sguardo del cignoperfida da tempo striscia predispostaal morso famelico del malignoche si veste di grazia con la crostadi veleno da esporre all’asprignofetore della morte che sovrastail paesaggio della luna verdastra.

Vaticinio di morte

Preferisco sostare in silenzioall’ombra della quercia secolaree con l’occhio smarrito d’assenziovaticinare guardando il marese nel tumulto parole licenziodi streghe tenebrose per cancellarel’angoscia che percorre come spirela voglia sconcertante di morire.

Vampira

Ti chiamo e non rispondi mia vampiradel cuore, fattucchiera che neghiparole di conforto a chi sospiranell’attesa del bacio ma dinieghimandi con i veleni a chi ti miranel vento borbottare: te ne freghidi chi mesto t’invoca con le precidisperate, finirai tra le feci.

Il destino

Profetizza spavalda la mia mortela Sibilla camuna con un ghignospaventoso ma rido della sortemaligna, con la bocca che digrignocoi canini ferali alla portedell’Ade che m’inghiotte nell’arcignodestino quando bevo un cicchettoalla sorte che paziente m’aspetto.

Petali

Due petali di gialli girasolitrasportati dal vento dei ricordiin un tuffo del cuore coi coloridell’autunno morente fino ai bordidel cielo luminoso dove fioridella vita sobbalzano concordinel ricordo del bacio fulminanteche colora d’eterno all’istante.

Vaticinio

Vaticinia testarda la Sibillasotto il verde pino ma nessunole dà retta, smarrita, pare brilla,bruciata da follia, forse qualcunoprova già compassione, la scintilladel suo segreto male per digiunodella morte fuggita sulla rivadella spiaggia illudendosi viva.

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 247

Tramonto

Un continuo tormento questo straziodel cuore con parole già perdutenel labirinto dei sogni, pago daziod’illusioni venali con acutespogliazioni d’affetti nello spaziodel tempo consumato in astuterimozioni temporali del ricordodi quel tenero bacio che non scordo.

Lamento della pizia

Fiele mastica la Pizia costatandoche i suoi sortilegi fan cileccasotto l’albero di quercia imprecandocontro le foglie morte per la steccadel suo cuore appassito che allorquandole serve il prodigio le rimbeccache ne ha già combinate di storturecol cuore martoriato da punture.

Presagio

Dalle viscere del capo sanguinantela Sibilla furente presagiscesventure mormorando tra le piantedevastate dal fulmine: languiscela vita compromessa dalle tantedisgrazie scatenate dove finiscel’illusione del sogno bersagliatodalla sorte di colpo devastato.

La sfinge

Beffarda sorride tra le ramefiorite la Sfinge preparandola vendetta del cielo con le lameinfuocate, felice dello sbandodel mio cuore svuotato dalle tramedella serpe che brucia ruotandoi fili di speranza nella nottequando sono finite le lotte.

Massacri

Il taglio del discorso di parolesoffuse è sospeso tra le ramevariopinte di sogni come vuolel’occhio della Sibilla con le tramedel vento che disperde con la moledei fantasmi la voce dell’infameche protegge crudeli uccisionidi speranze sospese ai festoni.

Ecatombe

Vaticinia irata con lo sguardofurente la Sibilla sotto le ramedi quercia promettendo già nel tardopomeriggio sciagure per il reamedei tristi peccatori nell’azzardodel cielo che prepara con le lamedel gioco l’ecatombe dei dannatia non essere per niente consolati.

Il suffisso

Mastica nella notte la Sibillafiele nell’amarezza del rimpiantodi speranze perdute ma distillail fiore del bruciato incantocon brandelli di sogni che sigillanel ritaglio del giorno con quel mantodi parole taciute sull’abissodel cielo come fosse un suffisso.

Il responso

S’ingarbuglia il responso della Piziasulla cima della quercia mescolandoanatemi con lusinghe per pigrizianella notte di tempesta decifrandole parti di scongiuri con malizianel grande dolore masticandole foglie d’amarella nel rancoredi vedere comparire un bel fiore.

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 248

Il libro del profeta

Era scritto nei libri del Profetail tracollo del mio cuore nella nottedella luna calante color setaquando il mondo bruciava la sua dotedi grazia e sentimento per la metadel losco interese sulle notedel cocente dolore che rivestele strade e le convalli fatte meste.

Occhi chiusi

La Sibilla ha chiuso i suoi occhi,sgomenta di guardare nefandezzedal buco della stanza dei pitocchiche cercano il marciume con carezzealle serpi assonnate dai rintocchidi tristi litanie tra le brezzedella sera che cancella l’onoredegli stolti inpazziti per l’odore.

I giochi di Belzebù

Armeggiano audaci col corsettole Sibille giocando con il sesso,in preda alla follia col concettodi turpe depravate che fan fessol’allocco che scoperchia il cornettodi dolci e gianduiotti con connessoil diavolo Belzebù che si divertea giocare con le tette scoperte.

La stella

Brandelli di parole sbocconcellala Sibilla dall’alto della piantadel tutto inascoltata, come stellache incendia l’atmosfera con la tantasua brama che disperde in procellai tristi pentimenti ma s’ammantadi colpe nel prevedere tempestequando s’avvicinano le feste.

Il distacco

Desolante distacco profetizzala Sibilla dall’alto della piantacon occhi lacrimosi quando aizzafulmini e saette per la tantacrudeltà del destino sempre in lizzacon il bene dell’uomo che s’ammantadi colpe surrogate dal difettodi sognare invano in doppio petto.

Il terrore

Non mi sono amiche le Sibillecon lo sguardo soave, mi promettonobaci, ma propinano, forse brille,morsi con sortilegi che flettonola mente già bacata con scintilledi fuoco devastante: mi gettanonello sconforto con sguardi di fuocoe me la faccio sotto non di poco.

Promesse disattese

Nella notte Sibille con la manosollevata promettono favori,ma con gioco di stella piano pianole Arpie sovvertono gli ardoricon condanne crudeli nel ripianodel cielo, afferrate dai bolloridel male che ci sta giusto a pennellogiungendo nel profondo del cervello.

Invocazione alla Sibilla

Infondimi Sibilla quel piacereche strappa dalla vita terrenae spinge nell’immenso del sapereceleste come grazia senza penache colma di sapienza nelle sferedel cielo generoso che poi menaal sublime contatto con la luceche ogni triste dolore ricuce.

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 249

Ma io non lo diròdi Nadia Cavalera

Va bene ho capitonon parlerò di questa merda di sistema che ha infangato qualsiasi speranza e sogno e ci ha costretti a fare da sostenitori ai nostri sfruttatorisu noi poggiano tutti gli organi istituzionali dal Comune all’europeo stato sovranazionaleper una cupola di pochi capoccioni che tirano le fila di noi poveri coglioniche ci ribelliamo di tanto in tanto ma poi molliamo schiacciati dalla famiglia la spesa i figli il lavoro il bagno ai coniglima loro no sempre freschi e riposati hanno mezzi e uomini per continuare a depredare

MA IO NON LO DIRÒVa bene ho capito

Non parlerò della favola che vince sempre il bene quando avanza gagliardo dalla notte dei tempi sempre il male Con venature qua e là più chiare bonificateche non riescono a sfumare la violenza immane che i maschi della nostra specie nutrono verso tutto e tutti perché si sentono mutilati castrati dal non poter procreareE si inventano le infinite sfumature di porcate mantenendo il “gigante e la bambina” con le donne schiave stuprate annullate cooptateCome se l’amore da solo non potesse bastare

MA IO NON LO DIRÒVa bene ho capito

Non guasterò il quadretto che i capi con gli scagnozzi vogliono dipingere epurando l’ espressioni dei resistenti senzienti e costringerli al sentire contrario piccoli ritocchi per i brocchi che insistono a domandargli “i soldi per Camel chi te li dà” o a confessare “Mi han detto: vai nel Vietnam e spara ai Vietcong”a bestemmiare e bere vino pur restando Gesù Bambino

MA IO NON LO DIRÒVa bene ho capito

Non parlerò che il mondo fa schifo e voi vi attaccate a sfumature che manipolano la realtà e soffocano le voci più autentiche e genuine invece di intervenire alla radice

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 250

e che vorremmo almeno la magistratura e le forze dell’ordine dalla nostra parte e non a sfracellarci di cotte e botte per consenzienti rotte o a intervenire di facciata per qualche minuzia che non migliora la tetra arguzia(“spesso gli sbirri e i Carabinieri al proprio dovere vengono meno, ma non quando sono in alta uniforme e l’accompagnarono al primo treno”)

MA IO NON LO DIRÒVa bene ho capito

Non parlerò di questa creazione che da paradiso sembra una maledizione in evoluzione la decomposizione di Dio morto a torto risortoche “Io se fossi Dio” la rimpasterei ab ovo per farne una vita migliore da questo nero aborto a circuito corto

MA IO NON LO DIRÒVa bene ho capitoNON LO DIRÒNON LO DIRÒOPS!L’HO DETTO

Nadia Cavalera

Il cartiglio del ventodi Mario Rondi

Due passi all’Inferno,con un occhio al Paradisodi Mario Rondi

Rivista "Fermenti" n. 250

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Trent’anni dalla fine del NovecentoTre testi riassuntivi

di Sergio D’Amaro

Commiato generale dagli anni Ottanta

I.Ancora ho nella mente le viele folli ali che ci posano quariunite in molti fogli d’agendae non so dare date alle onde del tempo.Questi anni sono un marein cui si fonde la precaria goccia del calendariola volontà di saggiare il sapore del secolo.Nell’autunno dolce le foglie croccantirivestono i nostri Unter den Lindengiocano col vento della storia in rivoltasi staccano dagli alberi con discreta saggezza.

II.Abbiamo attraversato molte terreoggi l’orologio segna un riposo presuntoil ritorno di una stagione che non si rivelache è, sì, autunno e quasi finema non si decide a un precipizioo ad una interrotta superficie(Quest’autunno sfumatocauto e tiepidoquante volte lo vivemmo?Quante volte l’indecisionefu più consolante?Quante volte visse per l’Europaquesto sole sulle fogliee avvinse gli ulivi e gli abeti?Era questo l’autunno più attesoil segno che in silenzio scendea dare l’allarme nel forte?Questo era quell’autunnoche appare come un’alba qualunquee si dispiega sonoro in un’arpa iniziale

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 252

e si tramuta in violino e crescee torna in squilli e trombe e timpanie scuote l’aria e invoca il giornopieno nella sua grandezzanella sua luce più chiarapiù altapiù tormentosae svetta unico nel tempocon le guglie che bucano il cielo…)Era questo l’autunno,l’autunno.E noi lo vivemmonoi.

III.Ora anche noi ci allontaniamoda questa battagliae capiamo mesti il passato.La stagione delle nuove forme è maturasplende nella mente liberatacome il gabbiano infantileè un momento distinto del caosun asse riequilibrato di tensioni.Resta la pietà degli annidelle tante piccole morticadute nel bracieree ricoperte di cenere(Le molte morti che ci hanno inchiodato all’odioci hanno straziato e umiliatotu io gli altridi fronte alla grandezza della vitaall’inconoscibile camminoche ci strappa da sé, ci alienail lampo il sangue il battito sordoche ci aliena, l’ingannogli anni che ruotanonelle sfere del cielonei labirinti del sognoe posano qua i nostri corpie li disfano come valige– e qua restano come carte in attesa di partireil vento che le porti alla melodia di qualche vocealla decifrazione di qualche vecchia scrittura –

Rivista "Fermenti" n. 250

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fino ai corpi insanguinati di Timisoaraalle belve scatenate nell’ultimo ringhioalla libertà di una bandiera stracciata).Resta quest’ultima mortequest’ultimo atto assurdo di conoscenzache sdipana il groviglio di delittie rende crudo il tiepido autunno di gioia– E la memoria si riavvolgeritrova il gelo di altri inverniil lampo il sangue il battito sordole immagini fondanti di una svolta –– E siamo schiacciati dalle vociche echeggiano in profonditàcon richiami sempre più nettiquesta forza che stringe il respirole date rimosse, soffocate -.

IV.Al futuro si addice la speranzachi può prevedere che la neve diventi una valanga?Questo è ora il giorno che sorgeè qui che si leva la nuova luceil coraggio di alzarsi e di uscireincontro alla cittàle vie che si incrocianoin un ritorno di sensoe guidano gli occhi al mutare degli angoli– il passato è qui, in queste stradedove le molte identità si fondonoi segnali proiettano immaginidi un cammino che crescee sceglie passi ignotiin un pensiero appena mosso -– il presente è qui, in questa dilatata armoniadi sostanze duraturenel piacere della memoriache avanza tra gli affetti e le angosce.

V.Ora, ormai, devi ricostruire i discorsiciò che ancora non conosciquel che ti spettaciò a cui la tua vita è stretta.

Rivista "Fermenti" n. 250

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cacciatore di piste senza meta.

Ti vestivi di feste contadine intrecciavi amori alle balere e con Pavese giocavi alle silvane

mitologie dei paesi e dei quartierii lampioni in piazza e le morosei piovosi autunni e le guantiere

offerte dalle zie come le rose i confetti il rosolio la fisarmonicale polke le mazurche e le rosse

tovaglie a quadroni. Italia semplice giovane e viva attraverso Pasolini riscoprivi le ceneri di Gramsci

riaprivi gli orizzonti vespertini chiusi dal nero fumo delle bombe svelavi il seme antico del dominio.

Cantava Firenze nell’Arno e Roma scorreva nel Tevere di alghe molli e sinuoso vibrava agli ampi ponti

Salve, anni del mio secolo,anni che correte con ruote sempre più grandiverso la veloce meta del terzo millennio(un punto che non conosciper un sentiero che non conosci).È là che giunge l’uomocon la sua fragile scienzasicuro solo della sua accertata essenzavecchio dubbioso e solodopo viaggio e tempodopo vago e tenue movimentoteso a un quadro in una stanzadov’è la pietra uguale all’esistenza.

Cronache dell’Italia che non muore

I.Dentro questo massimo incalzare di speranze e di paure nate sotto un cielo screziato di zagare

il tuo mistero, Italia, forsennate colombe annunciano tra i soliti venti la spuma del Tirreno, le toscane parate

di colori spalmati sugli eventi e sulle sparse pietà residue. Nell’ovatta deiettiva del tempo

si sfioccano le agende ambigue di Piovene, quegli aspri anni Cinquanta che misero in fuga l’infanzia mia continua

tra il mare e i laghi, alla paranza del vecchissimo nonno con la pipa le mani asciutte al sole di levante.

Italia, allora solo quasi sorta tra gomme americane e le lambrette più intima più schietta più sentita

non eri che ruscello e pia pineta e fischio di merlo tra le canne

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 255

pizzicando chitarre ai colli d’oro fino al Pincio boscoso e al Celioil ponentino accarezzava le cupole

e le piazze, si perdeva nelle celie barocche dei palazzi, alle finestrepopolari, alle osterie domenicali.

L’Italia risorta celebrava i suoi estrii suoi aromi di Caffè Greco e Aragnoi teatri borghesi e le modeste

cucine, “Sogno”, il primo bagno le conserve di salsa, il matterello la luce ancora a vite e allo sparagno.

II.Ora non siamo più alla speranza e nel mistero del tempo che ci tocca di nuovo è gonfia la vela alla paranza

solchiamo offesi e attoniti la rotta in piena passione e dolci risse alla linea d’ombra che anche Fofi

segue dopo che ai Sessanta non s’arrese.Questo elettronico presente annulla attese ed esperienze

occhieggia lucido dalla parete dove sono i miei libri di sempreil Curtius il Macchia il Mario Praz

il faro di Virginia il suo Sussex l’Omero di Auerbach i viaggiatori le nostalgie romantiche Milocz.

Anche oggi le nuvole hanno le ali e oggi pure cerchiamo le parvenze di una qualche lingua dell’altr’ieri.

Italia bella, più schietta più vera

risorta pari da una popolare democrazia occidentale.

Amorosa Italia, oggi sei pura come le dolci frittelle di mia nonna hai le spalle nel verde pullover

degli studenti anni Settanta:nulla è cambiato dai tempi di Piovene dall’età novella degli amori pronti?

III.Oh sì, Italia, certo sei cambiata non sei più la vergine giovenca che trovò Enea al suo fuggir da Troia!

Sei mobile testarda partigiana “indignata” ti dicono, impegnata ad empir celle galeotte di strana

gente, di carattere mezzana. E tutto può la pietas le lacrimae rerum, la polvere e l’altare

il perdono dell’attico ed il crimineil demolir lo Stato e la spocchia di rifare alla testa la sua scrina.

IV.In questo cielo del Novantatré screziato di zagare e d’influssiun posto c’è per la dialettica del tre

l’opposto il negativo il non tutto l’irrazionale correre dell’uomo a nascondersi nella buca dello struzzo.

V.L’Italia del Sessanta, ricordi?Io giocavo ai trenini e alle corde tese per un salto e alle vigne andavo

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 256

a cogliere i primi chicchi d’uva asprigna.Gli operai sudavano alle bocce bevevano birra Peroni alla bottiglia.

Coppi moriva ma ormai c’era Nencinigridavamo al bar i nostri applausi. Fellini rubava la vita coi suoi intrecci

e dolce la chiamava ma era erosa da nuove malattie esistenziali che l’Italia facevano più chiusa.

C’era già il presagio di fatali cadute nelle offerte del benessere nei vani possessi materiali.

Milano ospitava Rocco e il suo malessereil rock il Pirelli e anche Torino diventava città meridionale.

VI.Oh Italia, com’era profonda la tua anima più semplicei tuoi istinti di donna proletaria.

Avevi un mare antico di alici azzurre e di tonni lottatori barche impeciate e reti complici

che tornavano all’alba nei portitra le voci grosse degli uominicosparsi di essenze salse e di sudore.

Rompevano la sera i fuochi nei caminie il cuore si saziava di cantie di storie librate al sole saraceno.

Eri schietta, Italia, così vibrante di colori riaccesi nella luce delle piccole lanterne parlanti.

Dal vaso muto sulla tovaglia lisa uscivano i fiori secchi del mercato

i muri erano coperti dalla muffa

stavano appesi i quadri di zio Aldo il rosario e una vecchia stampa di Treviso. Nella cucina al caldo

preparavano i taralli di Sant’Anna cantavano le prime note di Modugno infornavano con la lingua su “volare”.

VII.Ai vent’anni il miracolo si spense alla banca di Milano e a Valle Giulia.Cominciarono le lotte e le esperienze

d’una tragica sequenza di paure. Gramsci era perduto e morto Pasolini più non s’andava al cinema ed al club

sbocciavano gli amori e le pistole poco prima del Settantasette. Gli inverni erano lunghe parole

strette nell’eskimo e nelle sciarpeall’incontro dei compagni per le vienei bar della piazza principale.

Come fu inutile la sociologia ed ogni ideologia sommersa nella neve dell’Italia pia!

VIII.Anch’io me ne partii per il Nord in cerca del posto tanto amato. Eppure erano gli anni miei migliori

con molto Leopardi ed Ungaretti Thomas S. Eliot e l’Emily di Amherst un po’ di Moravia ed Elio Vittorini

le città della Ginzburg e di Bassani. Fuori del Sud mi sentii più Sud e con Franco diedi una tesi

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 257

sul Cristo si è fermato a Eboli di Levi. Non potemmo più scordare i nostri archetipigli orologi rotti, la distanza dei tempi.

IX.Caro Franco, il futuro ha un cuore antico, impastato al dolce miele dei croccanti nei tiretti di Matera.

Ora che il giallo denso delle ginestre si attacca maturo alle rocce della piccola contrada di Marchese

ora che l’estate si fa lenta al poggio e riarde le sterpaglie di Lantauro sicuro è il mio animo dall’odio

e febbre salutare il suo contrario. Oggi vi amo, anni faticosi degni di pietà e di veli mortuari.

Lungo le marine dei miei occhi vedo le superbe vele di Ulisse e le genti che salutano benevole

alla nuova terra che risorge. Oggi vi amo, anni crudelissimi che venite da una storia senza mete

e sparite nel cosmo di galassie. Siete come questo cielo triste venato di candide ovatte

e di lame penetranti di rossosorriso tra i monti lontanispariti nella luce corrosa.

X.A Firenze, a quest’ora, gli Uffiziimmortali odorano di zagaree dei colori rinati sullo strazio

Non più morte ma suono di fanfare

non più fuoco ma acqua di fontana che rimedio sia per la barbarie.

Zefiro torna e il bel tempo rimena dorme il giglio fermo sullo stelo denso il muro degli anni sotto i ponti.

Libertà va cercando ch’è si cara all’uomo nato a non vivere da bruto ma per cercar della vita l’erba rara.

Leonardo e Michelangelo, tornate!Quant’è bella giovinezza che si fuggee quant’è eterna la gaiezza

dei popoli a cui l’orgoglio ruggesi fa durevole certezzache il vizio non offende e non aduggia.

Canto della mia generazione

1.

Quando la mia generazione sarà spentae anche le parole che più forti credevamo saranno preda di una cecità senza più occhi

quando i desideri voleranno a un ramoe le foglie staccandosi crudeliavranno un autunno non più nostro

è allora che potrai tendere la manoe capire su quale sponda il mareti detta la saggezza dei suoi secoli.

Io ho solo inteso ìlare l’ebbrezzadel tempo che passava nelle mani belva famelica che abita la giungla

precaria immagine della vita stessaappesa a una corda di chitarrache vibra di sensi elettrizzati.

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 258

2.

Quando la mia generazione sarà spentadiremo senza una lacrima ‘io c’ero’senza ledere nulla della strada fatta.

In fondo abbiamo avuto tuttochiedendo alla terra chi eravamoe al cielo una promessa di conforto.

Rapide le ruote di quel trenoindussero a forzare gli orologiad incidere la pagina del fato.

Corrono i giorni ultimi d’agostobrucia su un rovo squallido l’estate negli orizzonti ciechi di foschia.

Il sole sorprende tiepido la notteal culmine dei suoi inutili misteriprecipita il giorno nel cuore battente.

3.

Neppure un fiore dell’arida stagionesi salva nel cataclisma delle oreche sfrecciarono sugli alacri quadranti.

Non c’è più il mare inconsapevoleche giocò nelle tempeste dell’infanziané il carrubo che addolcì la bocca.

Tu solo sei rimasto, ricordo,tu sola sfinge tra le lacrimesola consolazione nel cimento.

Hai occhi azzurri di amore e un volto rosato di auroreche pie accarezzano il mio dubbio.

Vorrei raggiungerti ammaliatodalla forza di tanti desideriimprimermi il tuo marchio d’infinito.

4.

Libere arie degli anni febbrilipaiono ogni tanto che si posinosulle sparse rovine del Millennio.

Tornano ad altre nuvole confusetra richiami e deboli promesseall’unisono con voci frammentarie.

Un’eco appena distinguibileun discorso a stento ritrovatoma salvo nella gola della storia.

Sai tu quando troveremo il guadoquando diventate isole sorellesfideremo la nebbia persistente?

Sperare forse, osare, tentandola più attiva delle possibili memorienel rebus ormai liquido del mondo.

Sergio D’Amaro

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 259

di Gianluca Di Stefano

La mia patria

Che bello le città sconosciute! È il momento e il posto in cui puoi supporre che le persone che incontri sono tutte gentili.Céline, Viaggio al termine della notte

È semplice:guarda nel muro di arenariaarso dal sole complicedove cresce la paretaria

Così non la troverainelle leggende agiografiche

E non cercarenelle carte geograficheall’Atlante care

La mia patrianon è la terra natiache il disperato abbandonané l’illusione che l’approdo ci dona

La mia terra non ha inizio né fine.Nella mia patria non c’è nessun confine

Prova a immaginarla alzando lo sguardodove l’azzurro del cielo e l’azzurro del maresi confondono nello stesso traguardo,una linea con cui ci ostiniamo a misurare

se ti è più sempliceguarda nel muro di rocciaarso dal sole felicedove il fiore sboccia

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 260

Sapessi dove fossi almeno

Io sono un minatore nel pozzo dell’animae scenso zitto e senza tema nel buioe vedo luccicar nella notte con timido baglioreil presioso e nobile metallo del doloree non più bramo risalire alla felicitàThomas Mann, Doctor Faustus

Mancano otto minuti alle ottoperché manca sempre qualcosa.

Cade la sera dispettosa, che inciampo nella quotidiana maledizione

Entro in stazionesperando che mi conduca via un treno

Sapessi dove fossi almenonon sarebbe un problema

Tutti viaggiamo senza temanella stessa direzione all’oscuro:

Il futuro.Così ascolto le stelle, parlo al muro

Nell’aria che sa di idrocarburo,imperituro, si rialzerà il sole

e scambierò due parolecon uno sconosciuto alieno

Sapessi dove fossi almeno…

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Fermenti 261

Palermo Palermodi Antonella Doria

[…]che oscuro fermenta permetti ch’io preghi per teche l’ora infinita sia vinta. […]Amelia Rosselli

Oh tu, Palermo, terra adorataGiuseppe Verdi, I Vespri Siciliani

1Poi… vennero guerrieri di fuocoa incendiarci la casa d’amore e fu il buio… e il buio fu tutto…terribile respira la notte con lingue infocate … nella follia del giorno non servono barriere e barricate conviene quasi stare a labbra serrate guardare la Città(… sotto la luna addormentata …) ignara di iene e sciacalli… troppo azzurri quei monti di spalle spiano muti ruote di fuoco sterpi armi bastarde su sonno sogni scagliate … Palermo… brucia !

3Poi… vedemmo giungere gente e più che gente mandrie da pendii fuggire come da savana in fiamme mugghianti più che mare di tempesta presto venire a l’acquachiara a l’arenella a l’alito de l’onda tanti e tutti ansanti nel respiro de la preda nel luogo braccata nel tempo de la fuga buiocieco dovebrancola l’appiglio nel ritmo inseguito del cuore in affanno nel battito troppoforte del rito Palermo… brucia!

2Poi… vedemmo falò orlare orti giardini e comestelle cadere su case e case egente gente tanta ch’io maine avrei creduta… una piena cocente a coprire venne lamateria corporea fiumanaviva inerme (bocche aperte al grido) ne’ l’aria nera stretta e pure corse oscura di boccain bocca la freccia la paurafurore con sé trascina la fiumara tuttaPalermo… brucia!

4Poi… vedemmo un mmare(che tutto accoglie) nel sudariodi onde dove dune crollano selvagge e sofismi d’oropuro… ma nero sale SacroMonte selingue di vampa divorano pinimarittimieplumelieeucaliptipalmeeoleandriardono rossecupolechiostri e palazziteatrimusaicicattedralistucchi d’oro e avelli realitutto si squaglia lo StuporMundiPalermo… brucia

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 262

7Poi … sale la pietà di un’alba il respiro greve di un cieloanemico consuma l’erba in campoceneri e braci (stranianteimago …) corpi figure formemateria di ombre sembraliquefarsi confondersialla terra nella sospensionedel peso senza più Storia(virus mutanti replicanti)ognuno per sé errantecerca prega appiglialla solidità del vuoto…Fu quello che – in sonno - vidi …

8Poi … fu quello che pensai Poi … quello che dissi Poi … che scrissi(ienesciacalli putridoventre) ma … Terra è Sangue e Musa Sangue è l’iraPreghieradisperatarimuovepassionedisperataangosciaInfernoimmobilesintetizzaCantonidisintegratidellamiavita 1 Strazio ruppe inpianto la blasfema preghiera incubo dell’orda immanevertigine di un evo venturo

1 Rosselli, L’opera poetica, I Meridiani, Mondadori, Milano 2012.

5Poi…. la Città vedemmo(la Bellezza ) bruciare tutta precipitare franano travi ardenti e liquido asfaltoribolle nera cenere posa su pelle su labbra su corpi bui bagliori fra pianti preci ebestemmie a noi d’intornosalgono da ciglio da margineestremo Al cielo al cieloal ciel… intona lontano l’ondama angelisanti oggi hanno ali di pietraPalermo… brucia!

6Poi… volgemmo occhi e cuore a la Conca desolata vastitàguarda la notte mutili spalle spente sgomente creature a la riva ormai ombre quasi fantasmi vagano tondotondoa la Città irreale… senza sapere capire vedere luogo di vuoto muta forma ancora sempre Persefoneil cocchio di Morte galoppalo scheletro suo la bestiaancora in trionfo porta Palermo… brucia!

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 263

9Poi… se l’alba torna ritorna in giorno il risveglio come da terremoto brivido sacrosquarcia la terra il filo d’erbail cielo in fondo alle macerierimane la vita e dimora ancoraquesta coazione alla macelleria del vivente accumula allinea frammenti versi parole sempre vince il ghigno animale di maligno sempre sa la cellula se pure vuole cancellare le tracce… la parte mancante rimane distrarsi non può dalla cloaca del mondo*Rimane la vita rimane questosguardo d’attesa sull’orizzonte questa compassione infinita … …

Antonella Doria

Autori di “Fermenti”

Gabriella Sica

Vito Riviello

Aldo Rosselli

Rivista "Fermenti" n. 250

Fermenti 264

Di pesci e di stelle: poesie di Vera Germanoa cura di Gualtiero De Santi

Secondo un intellettuale e poeta colombiano, Giovanni Quessep, la nostalgia è vivere senza ricordare da quale parola si sia stati inventati. Del pari per il boliviano Paura Rodríguez Leytón che ripete in esergo a una sua lirica i versi di Quessep, essa è “desmemoria perpetua”, uno smemoramento fatto di un nulla che sia però di guida verso gli abissi. La doppia citazione parrebbe impropria per Vera Germano, nata in Friuli a Udine nel 1946 e poi vissuta e spentasi nel 2009 a Torino, perché quel che interviene nella sua scrittura si direbbe l’esatto opposto dell’attitudine dei due poeti che lei sicuramente non aveva letto ma dei quali condivide – a parti nondimeno rovesciate – il sentimento di abitare un piccolo spazio che è però un miscuglio di anime.

Il fatto è che Vera Germano – nella propria esistenza come nella vita interiore quale si effonde dalle sue liriche – segue un percorso che dal solco delle radici professate e rimpiante conduce alla volta di una nostra modernità novecentesca che, per stare a raffronti che potremmo avanzare riportandoci al suo Friuli, mostra qualche dimestichezza con universi narrativi femminili che possono ricordare la Percoto, (anche in considerazione che ha scritto romanzi e racconti, inediti alla uguale stregua dei versi), con un’immersione in un universo di esistenza e asperità che erano già in Paola Drigo e in padre Turoldo allora che descrive la propria infanzia. Ma con un tono riflessivo e limpido che recuperando lo slancio vitale perviene alla oggettiva composizione di una rete simbolica affidata alla contemporaneità.

Questo perché in lei è assegnatamente la memoria a ricondurre a un tempo in cui la freschezza di un torrente e di un ciotolo che mai si svuota, la vivezza della campagna e l’oscura vitalità dei cortili e delle case, si sospingono sotto i cieli e le luci delle sue parole, nel territorio bagnato d’acque e intramato di canali e rivicelli di un suo universo che prima d’essere fantastico è il riflesso della nostalgia di una terra e una vita concrete. Tutto era cominciato con l’esperienza di una quotidianità grama, dura, ma intessuta di affetti, rallegrata dai suoni e dai giochi che offrono una certezza di realtà. Ma – tale è il punto d’equilibrio della sua opera - al di là di quel paesaggio si apriva il terreno della storia, o meglio delle promesse di una storia enfatizzata dalla grande città e però trattenuta sullo sfondo, in favore delle piccole virtù (e qui nel suo pantheon letterario potrebbe entrare Natalia Ginzburg).

In questo senso, per riutilizzare in forma traslata la naturalità friulana, il “féli-brige” della nostra autrice ha ormai accettato la lingua al posto del dialetto (una lingua e un dialetto mentali), gli affetti familiari e civili al posto di una solitudine che non si impone neppure quando la malattia avrebbe avuto il sopravvento su

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di lei. E la memoria, non già la “desmemoria”, dell’infanzia e dell’adolescenza entra nella sua esistenza di donna e madre, di insegnante e scrittrice riservata e appartata, proseguendosi nella vita che lei immagina dei suoi figli. È alimento e linfa per la creazione ed è materia per quella poesia che lei incontra nel corso della sua giornata e che dovette praticare – un po’ come Emily Dickinson ma come tante autrici donne, almeno nei decenni passati – negli intervalli della vita familiare e professionale (Germano era stata insegnante), con discrezione e tene-rezza sul tavolo della sala di casa o sulla propria scrivania, luogo di lavoro e di riflessione.

Con una voce poetica nella quale quel che più conta è il dato singolo e elemen-tare, che per certuni vuol dire il piccolo (e che certe poetesse riducono a una misura esigua) ma che per altri, se non l’essenza, è qualcosa di basilare, senza mai pretendere a una dimensione ontologica: da cui un senso di freschezza e fluidità del pensiero rilevate da un aggettivo, dalla limpidezza e dall’onestà del dettato (che produce effetti sul piano espressivo), dalla sua verità. Con un campo lesse-matico semplice che è però morale in virtù della moralità della sua scrittura.

In un qualche modo, la pratica della poesia è in lei inseguire il vissuto fissando i contatti col mondo e quasi impostandone un’ermeneutica. In tale ottica la progressione cronologico-tematica – dai sentieri e dalle boschine del Friuli ai tetti e alle piazze di Torino – è quasi il racconto di un passato che si proietta sul presente nel ritrovamento di un’identità profonda in cui scorgere i segnali di un mondo in sé compiuto che trascende l’accidentalità dell’esistenza.

In Germano l’arte e la sensibilità si confrontano non con l’artifizio o la tecnica, e neppure con un’ambizione ad apparire, ma invece con una dimensione naturale e spontanea. È la via per la quale la memoria individuale diviene in lei memoria culturale. Il suo universo – ristretto magari alla dimensione della casa, della propria gente, dei familiari – è la sperimentazione di una autentica convi-venza: in questo senso un laboratorio sociale che ordina le immagini di quella sua esperienza in una serie di piccole edizioni e plaquettes prodotte in proprio e licenziate anno dopo anno nel tentativo di accompagnare il fluire del tempo. Una visione che non cede a nessun nomadismo e effettismo impressionista e a nessun compiacimento, nella convinzione che le cose rammemorate sul filo dei ricordi entrino nelle tessere del presente. In questo senso è attraverso la scrittura che l’individuo supera i propri confini sino a bruciarsi e perdersi ma infine ritro-vandosi come poeta.

Le liriche che qui presentiamo appartengono a edizioncine licenziate in pros-simità delle feste natalizie: le prime otto erano in Di pesci e di stelle edito in autogestione familiare in corrispondenza del Natale 2006, le due successive in Lune (2007). Un volume antologico curato dalla figlia Sara Meloni, uscito il 16 maggio 2019 - a dieci anni esatti dalla sua scomparsa - e intitolato Dove il cielo è più chiaro, rammemora attraverso poesie, brani di prosa e immagini la sua rara e sempre discreta vocazione di poetessa e raccontatrice. (G. D. S.)

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Che altro

Che altro,se non guardare e respirare e toccare ...che altro,se cento vite non bastanoper sentirequanto abbiamosotto i piedi,sulle labbra,tra le dita,dentro gli occhi, nella testa;che altro se non andaree campare di pesci e di stelle ...Io non so Io non capiscoquando e come abbiamo perso la strada.

Il pianto degli alberi

Mi pare, a volte,soprattutto di sera,che gli alberi piangano,ignoro se dai ramidai tronchi o dalle foglies’inizi a singhiozzare,soltanto so che piangeogni singola partee tutte insieme fannoun concerto straziante.Allora per la polpami rattristo,certo delle piante si può direche c’è ben altro sotto la scorza dura,quante volte m’ha dato tenerezzail legno denudato

Poesie di Vera Germano

fra le dita.E so che di quel piantonon ha colpe il ventoe nemmeno si accusi il temporale;gli alberi piangono così,per intimi motivi,magari al posto di qualcunoche non ne è più capace.

L’ombra del noce

Mi è dolce quell’ombratonda e solitaria:i noci stanno di lato ai sentieri,strade di campagna,le sole che amo fra le strade,e tra il sentiero e il camposi disegna l’ombraquando viene l’estate,poi si copre di malli e di foglie,per questo mi piace il settembre,cerco noci sul ciglio dei campi.Quanto più ricca l’ombra dei castagniche stanno a fare bosco tutti insiemee quanto più generosicon i doni d’autunno …Ma il noce era di casa,sa di verde sulle dita la mia infanzia,più lontani ed infidi erano i boschi,certo di un’altra età,io mi ero fatta grandee mio padre aveva smesso di tenermi per mano.

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Fermenti 267

Tramonti / 1

E quando sul sentiero mi mancail carrettoquando sento che dai campi troppa vita se n’è andata – e poco m’importa se quella era fatica – quando vedo i fruttimarcire sui rami,io guardo il profilo dei montiche amo,bello come sempre il tramontospecialmente d’autunno,e penso che niente è cambiato,magari un solo istante lo penso,l’acqua scorre ancora a valle,il sole arrossa la sua striscia di cielo,ancora un poco e si fa scurolo senti quel tuono lontanostanotte ci vorrà la copertala minestra è sul fuocobambine, a lavarsi le mani.

Tramonti / 2

Verso sera il sole si fa chiarodisco rosaceo sul grigioorizzonte di cittàrespirano mefitici i motoriè la gente che tornadove tornada chi ritornao forse qualcuno va viaqualcuno rimaneil tutto si mescolae poi scomparele strade sono gorghi paurosie quelle intorno non sembrano casema gabbie tristi di uccelliche tramonti sono questisfondi senza colore

chissà se qualcuno ne soffremagari chi è nato in campagnaqui la gente girachiusa dentro corazze dipintepiedi senza callimani senza nerbogole senza voceteste senza sognie forse anche i cuorili hanno messi in freezer.

Tramonti / 3

Di certe ombre che mi sento dentroaccuso spesso il luogoche non ha stagioni,alberi e verde che non vedo,rintocchi di campane che non sento,eppurecerte sere d’estatesu questo balconeinconsistenteloro portavano due piccole sediee stavamo a guardare di sottocon occhi di bambini(quelli che sapevano prestarmiquelli che ogni cosa fanno nuova).Chissà di che parlavamo respirando l’asfalto e il rumoredei tram,scherzando, ridendo pianopiano, forse per non sciuparequel senso specialedi felicità.

Ai miei figli

Questa è stata l’estate dei ritorni:si dice che tornare faccia maledove si è stati allegri e spensieratidove ci sono troppe sedie vuote

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Fermenti 268

dove il tempo ha cambiato le cose le case le strade le faccee non importase in peggio o in meglio.Forse è vero per chi ritorna solochi conta gli anni ad ogni angolodi stradae nei pensieri va soltanto indietro.Ma io guardavo voinelle stanze che sono state della nonna,per le strade che Sant’Antoniodomina dall’alto,sul ponte dove bambina andavoa stupirmi dei pesci,presso la Casa Rossadove la storia ha inizio,fra aria, sassi e odoriche sono in me da sempre.E tutti i miei fantasmihanno sorriso.

Ai miei occhi

S’incurva morbido il sentiero,forse attratto dall’acquache sente oltre l’argine,e altrettanto evidenteè qui l’ansa del fiume.Così, dolcemente fiume e sentierovanno quasi a incontrarsiper l’estremo saluto:sul ponte muore infattila piccola stradae il torrente va via tutto solo,un po’ disperato, ma fierocome tutti i torrentiquando incontrano i ponti.E non si dica ch’è semplicementenaturalel’armonia del gran quadro d’assieme,che la gioia ai miei occhida altro non viene

che dai riflessi del terreno.Questa è bellezza purasenza motivi e senza spiegazioni,esiste per togliere il fiatocome la foschia sospesa là in fondo,tra i campi e le siepi.

Non la dico nostalgia

Non la dico nostalgia,soltanto dolcezzaa volte sopita,nascosta nelle pieghedelle cose presenti:sapori conservati negli annimeglio che in naftalina,pronti a venire fuoriquando cambia una luceo anche in mezzo al niente,in qualunque momento …i pennini, l’astuccio,il fuoco nella stufa,la campagna di fuoricerte sere d’invernolo scialle della mammache infornava castagnee il tuffo al cuorenel momentoin cui rientrava papà.

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Fermenti 269

di Italo Scotti

Epidemia

In una primavera Così deserta e ignaraLe voci dei balconiInframezzano i graniDi un rosario di numeri.Certo dovrà passare Prima o poi questa nottata.Intanto ne contiamoI minuti.

Meticciamoci!

Il gamete guizzante non sceglieL’ovulo in base al colore:Predilige il diverso da sé e foraOgni corteccia di timore.METICCIAMOCI!Dopo il diluvio e l’arca, serve ancoraLa bianca colomba per abbattereI muri e bonacciare i mariPer esplodere digheLiberare alveari?Che discenda alloraE scenda presto!METICCIAMOCI!Contaminiamoci!Con pazienza napoletanaFeconderemo l’umiltà franceseL’umorismo tedesco, l’altruismoInglese, la generosità olandeseE pure il gusto e le cucine.Faremo Europe ebree e palestinesiRusse e ucraine, siriane e libanesi,Arabe e persiane, indiane e pachistane

Cinesi, indocinesi, coreane e giapponesi,Benediremo Schiavoni e Ugandesi.METICCIAMOCI!Come, indifendibili, si meticciano le lingue, Ritmi, danze, musiche e canzoni, Sambabaiano, rockàngloamericano,Fellahì in due quarti, pop mediterraneoPercussioni tribali, energie africane.S’apra ogni strada, si facciano ponti,Nulla si disperda, tutto si confronti!Saremo sempre in grado di salvareE di vivificare i lasciti dei padri,I riti, la poesia, il melodramma,Le sinfonie, la musica da camera,I richiami dei boschi e della lunaLa saudade di casa, dicendo poi Basta, chega de saudade.Meticciamoci allora, Tanto avremo da fare e guadagnare…E poi ciascuno trovi il suo dialetto, Il suo particulare!

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Fermenti 270

Dove la Merini ha spremuto il doloredi Vinicio Verzieri

Dove la Merini ha spremuto il dolorepurificato dalle acque del Navigliosono germogliate perle in versiallargando il respiro di poesiae oggi a stento qualcuno legge la targa posta dove ha abitatosenza emozione e rispetto.

Il mio balcone che dà sul Naviglioinaccessibile per restauromi impedisce di vedere il cielo e la gentepertanto non comunico col respiro di libertàe la poesia ne risente.

Ribadiscomeglio amare che essere amato.

La serenità dello spirito è senza nuvolecon l’alba e il tramonto d’ottimismo.

Ho tessuto ragnouna rete per catturare le emozioni.

Vinicio Verzieri, Il Naviglio e la Merini.

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Fermenti 271

Il cielo ha luce di Venere

Il cielo ha luce di Venere Il suono spande (Ascoltareche annuncia la notte l’armonia che in sottofondoed esalta gli alberi in controluce. Incantevole The Chords

delizia l’elevazione Sh-Boom)Gli zigomi alti della riflessione mescolando il trascorsonon sono l’invito al bacio con un tocco di ritmoma al semplice canto del dubbio. che spinge al godimento

del moto e comprimeLe perplessità sono alla base il sapore dello spirito.tra le radici dell’esistenzae producono lo squilibrio Il trasporto della musicache disorienta la parola conduce in luoghipropensa a fissare dove solo la fantasiai dettati dell’interiore. può accedere

esaltando la vitaIl bianco passaggio con colori in movimentodel cigno nel Naviglio e profumi percepitiappena solleva lo spirito del sentimento.con tocco di poesia.

L’esaltazioneI propositi impegnano la mente ha vedute aereeche elabora piani d’azioni e l’ariae tengono lontano regge le ali spiegateil contorno sociale per le vedutedi malefatte politiche. astratte e concettuali.

Vinicio Verzieri, Il piacere della natura.

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Fermenti 272

Una terrazza sul CosmoMeditazioni poetiche

di Lidia Sella

Così fluidi noiacque battute dai ventitravolti da questa vita rapinosa che, nella sua corsa a valle,ci impone in quale direzione scenderea che velocitàsfilaccia le ondeci rimescola dentrosoffoca sognisvapora la sostanza liquida di cui siamo fattila trasforma in nuvole pioggia ghiaccipoi di nuovo in torrente.

***

Il volto, la maschera che indossiamoun paravento di carne a celare il nostro caos interiore:si spaventerebbero gli altrise vedessero quali tsunami ci scuotonole colate di lava sottopellei fumi infernali che si sprigionano dall’officina del cervello.

***

Epifanie di terre emerse e mondi sommersimentre nuoti in un mare trasparente:sospesi tra due dimensioni lo sguardo, il tuo respiro.

***

Qualsiasi scenario cosmicoargentee tramepaesaggi, volti, canti, voci,versi di animali estintie persino amori impossibili:puoi vivere possedere immaginare descriverequalunque cosa,se il tuo pensiero sa scegliere le parole.Un arsenale atomico contro la noiail tuo dizionario di italiano.

***

Lidia Sella

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Fermenti 273

SherazadeIl bambino ha paura di entrare da solo nella nottema se con una fiaba lo accompagni all’imbocco del tunnelsa che mentre parole si intrecciano e suoni ricamano l’ariail filo della vita non si spezza.Aggrappato alla tua voce, adagio si cala tra le braccia del buio.

***

Le foglie in cima a un albero soffrono di solitudine.A consolarle il dialogo con le stelle. E una visuale più ampia.Non possono nascondersi. Quindi imparano il coraggio.A petto nudo, crivellate dalla grandine, mai nemmeno un lamento.Ma siccome sanno che presto arriverà l’autunno,rialzano subito il capo, a godersi ogni carezza di sole.

***

Nuda, leggera, nuotare rapida verso l’infinito.In questa culla di zaffìro, reminiscenze di vita acquaticasenza più la gravità delle cose, lontane le dune dell’essere.Liquido il tempo, libero, come all’inizio, quando nessuno a definirlo:orizzonti aperti a ogni possibile destino.

***

Bambina, ogni volta che captavo una parola nuova, mi sembrava di guardare più lontanoquel brivido a scoprire un mondo segreto:l’orizzonte della realtà si dilatava all’improvviso.

***

PenelopeNel mio bozzolo a tessere il desiderio, riesco ad amarti anche cosìperò sai? Nei boschi dell’inconscio ogni tanto scoppiano incendiallora fuggo, poi mi perdo fra le lande desolate che ho nel petto.Sotto la pressione della nostalgiasi spezzano le veneil cuore implodeva in frantumi l’Universo.Oppure alluvioni spaventosee nel gorgo della correntefortissima

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Fermenti 274

l’impressione di affogaretroppo lontano tunon puoi salvarmi.A occhi chiusi immagino almeno i tuoi baci.Il nostro esercito di ricordi chiamo dall’ombra.Sperimento il vaccino contro la distanza:al morso del nulla abituo le mie carni.

***

Visibilità ridottapoi nebbia fittase guardi avantio indietrodentro spirali di tempo infinitoprecipiti in un imbuto d’ombraprofondo miliardi d’anniin quelle piramidi di oscuritàpiù nessun legame con il presentetranne la vertigine dell’assurdo.

***

CicladiSoltanto cicale, vento, sciabordio d’ondea segnare il tempo pigro di questa estate ad Anafi.Qui tutto è armonia. E quiete. Quasi un fermoimmagine.Eppure il pianeta Terra, carico di nuove antiche sciagure,viaggia attorno al Sole a trenta chilometri al secondoe ruota su sé stesso a mille settecento all’ora.Intanto Madre stella ci trascina con séa duecentoventi chilometri al secondoattraverso le periferie della Galassia.Nel superammasso che ci ospita,una sorta di affollata astronave cosmicadel diametro di mezzo miliardo di anni luce,la Via Lattea si muove a passo di danza,abbracciata a centomila sorelle e, con loro,corre a due milioni di chilometri l’ora verso il Grande Attrattore,possente calamita al di là delle costellazioni del Centauro e dell’Idra.Come dunque stabilire davvero in quale luogo mi trovo adesso?

***

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Fermenti 275

Conto alla rovesciaNon ci restano che pochi miliardi di anniper traslocare su un altro pianeta,prima che il Sole diventi un gigante rosso cento volte più grande di oratanto immenso da lambire l’orbita terrestree così bollente che la nostra atmosfera si brucerebbe all’istantecome un soufflé cotto in forno alla temperatura di oltre mille gradi.Ma il problema nemmeno si porrà.Eminenti scienziati ci rassicurano:l’umanità ha cinquanta probabilità su centodi autodistruggersi entro un secolo.

***

Cronache dal NullaDavanti a quel buio deserto infinitosenza niente e nessunosilenzio ovunqueuna solitudine sterminatail vuoto fu sopraffatto dal terrore.E un giorno, miliardi di anni fa, per un attimo tremò.Non aveva immaginato che un semplice brivido generasse tanto sconquasso.Che ne sapeva lui di fluttuazioni quantistiche?Il suo ventre invece si dilatò enormemente, all’improvviso.In esso si formarono prima lo spaziotempopoi una mole spaventosa di materiaenergiavita e morte presero a divorarsi a vicendatra le pareti dell’utero mostruosoche si gonfiava a dismisuramondi impazziti, velocissimi, fuggivano l’un l’altro.Un grande sgomento lo assalì.Tornare indietro non poteva.Ma comprese almeno che le emozioni intense giocano lo stesso ruolo del caso:trasformano la realtà, influiscono sul corso degli eventi.Ogni scossa interioreun seme di ignoti destini e trame impreviste, spesso tragiche.Per evitare altri guai, si sforzò allora di rimanere inerte, impassibile.Finse addirittura di non esistere.

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Fermenti 276

Spaziotempomateriaenergia hanno contributo a costruire il cervello umanoe si sono così dotati di uno strumento atto a studiare e definire la loro stessa natura

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Noi siamo capsule di spaziotempomateriaenergia.E mentre meditiamo sullo strano miscuglio di cui siamo formatile entità fondamentali dell’Universo sfruttano i nostri cervelliper interrogarsi su sé stessee agguantano finalmente le risposteche inseguivano da miliardi d’anni.

Lidia Sella

Dopo l’estatela vita e la morte strette con benigna ragionedi Marcello Bettelli

La poesia e la vitaAriodante Marianni dieci anni dopoa cura di Eleonora Bellini

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Fermenti 277

Racconti1

di Mario Rondi

Il corvo della regina

La regina possiede sei corvi, più uno di scorta, che rappresentano il potere della monar-chia: i corvi imperiali sono nutriti ogni giorno con cibo rigorosamente integrale, con una dieta a base di carne cruda e di biscotti inzuppati di sangue, elargita dal Maestro dei corvi che vive sulla torre più alta.

Il più anziano di questi corvi aveva raggiunto la veneranda età di 44 anni: sono il simbolo della continuità della monarchia e ogni piccolo incidente che potrebbe loro capitare è indice di una calamità imminente: per questo sono trattati con tutti i riguardi, per il timore che scoppino rivolte o epidemie.

Non possono allontanarsi troppo dalla torre e tanto meno fuggire, perché preventivamente vengono loro tarpate le ali e quindi devono limitarsi a svolazzi nei dintorni dei palazzi reali, ma in compenso godono di una completa assistenza in caso di malattia e possono ricevere regali da tutti i sudditi, che li venerano perché sono apportatori di benessere e prosperità.

È successo però che una notte di vento il corvo più anziano, che era una femmina e si chiamava Titti, è deceduto all’improvviso, con grande sconcerto della regina: la borsa è crollata, le luci della città si sono spente, la metropolitana si è fermata, qualche suddito è svenuto dallo spavento, mentre i soliti furbi hanno tentato di scassinare le cassaforti, creando il panico tra i poveri risparmiatori.

Subito è partita la caccia per trovare un altro corvo reale, degno del predeces-sore, ma uno di questi astuti pennuti, discendente di antiche civiltà, non ne voleva sapere di finire con le ali tarpate e un anello nelle zampette, così ha pensato di sparire dalla circolazione.

Ma, si sa, la potenza del regno non può crollare di colpo, con tutti gli affari che sono sempre in corso, specie negli scambi di pietre preziose con qualche pianta di caffè particolarmente pregiato: astuti detectives sono partiti alla ricerca

1 Illustrazioni di Beniamino Piantoni.

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Fermenti 278

del corvo imperiale che non poteva mancare per non fare crollare di schianto il regno, con principi e contesse che piangevano a dirotto.

Di corvi imperiali non c’era neppure l’ombra, nascosti nei loro inaccessi-bili pertugi per timore di vedersi le ali tarpate: un solerte gendarme, specializ-zato nella lunghezza delle minigonne che entrano nei palazzi regi e nelle chiese aperte al culto, intravide un corvo spennacchiato che probabilemte veniva da terre lontane e non sapeva dove posarsi, perché vedeva da ogni parte baionette e cannoni pronti a sparare.

L’indefesso guardiano lanciò subito l’allarme e la notizia si diffuse in un batter d’occhio: arrivarono elicotteri, alianti e droni d’ultima generazione per convincere il povero corvo a posarsi in una pianta di aeucalipto.

Spaventato per tutto quell’armamentario, il poveretto non sapeva più che fare: tentare d’infilarsi in un camino, ma alla fine si convinse a giungere a patti con l’esercito in armi; non era certamente uno dei maestosi corvi imperiali che cercavano, ma visto il pericolo che si allargava a macchia d’olio, con il panico che serpeggiava tra la gente, il comandante dell’armata di intrepidi ricercatori riuscì a convincere l’unico corvo che si trovava nell’intero regno a posarsi in un campo di cipolle per stabilire un accordo.

Quando planò, tutto spaurito per tante armi puntate contro di lui, il poveretto si sentì in trappola, ma non era completamente sconfitto perché cominciò paca-tamente ad avanzare delle minime richieste: prima di tutto non avrebbe accettato per nessun motivo l’anello sulla zampa e tanto meno si sarebbe adattato a girare per i palazzi con le ali tarpate.

Prometteva che non sarebbe scappato da nessuna parte e avrebbe mangiato anche il cibo macrobiotico, ma voleva andare dove voleva, e almeno una volta all’anno fare visita alla sua morosa, che lo aspettava sempre con trepidazione.

Ci fu un consulto eccezionale con tutti i ministri e la regina in testa: tutti promettevano che gli avebbero sistemato le ali, allungandole e gonfiandole con un’operazione indolore per avere l’aspetto regale, che spettava al settimo corvo della regina, seppure quello di scorta.

Lui accettò tutte le condizioni: quella di presentarsi alle sfilate in onore dei regnanti di altri stati, di mangiare carne cruda a giorni alterni, con biscotti inzup-pati di sangue, di cantare alle cerimoni dell’alzabandiera, di non fare mai versacci inopportuni, specie davanti ai principi e alle contesse, ma non transigeva di avere i suoi giorni di ferie e di girare tra le torri dei palazzi senza neppure la più piccola ala tarpata.

Scoppiò un putiferio perché quella richiesta sembrava a tutti irrispettosa dei patti regali, ma alla fine, poiché non si trovava nessun alto corvo regale da nessuno parte, dovettero a malincuore accettare le sue condizioni, se non vole-vano che il regno cadesse in rovina …

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Fermenti 279

Chiara e l’amoreIl professor Marcantonio era folleme-

mente innamorato della signorina Chiara, forse in maniera eccessiva, ma anche un po’ patetica, perché lei aveva molti pretendenti che la chiamavano a tutte le ore: il suo era un amore istintivo, senza nessun controllo, che lo tormentava in tutti i momenti, però gli concendeva anche brevi istanti di gioia.

Lei in un primo momento si dimostrava accondiscendente, concedendo spazio alla sua fervida immaginazione, ma poi qual-cosa girava storto e presto s’arrabbiava: bastava un colpo di vento, il repentino cambiamento della pressione atmosferica e dei dava in escandescenze.

La sua ira terrorizzava anche i passeri che non cantavano, le mosche che smette-vano di volare: il povero professore, tutto premuroso, cercava di calmarla, ma non c’era niente da fare, perché la collera aumentava sempre di più.

Si metteva i pantaloncini corti e diventava molto piccolino, sentendosi colpe-vole per una misteriosa marachella che aveva combinato, ma lei rispondeva facendo la smargiassa, pestando i pugni e dimostrandosi offesa.

Il professor Marcantonio cercava di ammansirla con cioccolatini e caramelle, facendo la faccia da puffo che ride a crepapelle, ma la signorina Chiara diventava una belva: gli strappava i bottoni della giacca, lo prendeva a calci nel sedere, lo pungeva con uno spillo, ma non riusciva a frenare la sua rabbia.

Lui si metteva a gambe larghe e, tutto dimesso, ripeteva che l’amava tanto, molto più del suo gatto, di un amore puro, senza fraintendimenti, più forte del mal di testa, con un grande trasporto, che sfiorava ogni parametro di decenza: per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa, bastava che non fosse così scontrosa e suscettibile.

In queste confessioni diventava banale, sicuramente esecrabile perché sembrava calare le braghe e avesse paura di tutto: della sua ombra, della sua indecisione, diventando un pusillanime.

Lei era irremovibile: si chiudeva nella sua stanza e non rispondeva al tele-fono, stracciava tutte le lettere d’amore che lui le aveva spedito ogni giorno, cacciava urla che spaventavano anche il pappagallo, di solito gioviale.

Non erano le sue poppe maestose che lo infiammavano, ma la disposizione della mente al sogno, la dolcezza dello sguardo che sospingeva in un’atmosfera rarefatta: cercava la pace, non gli estenuanti stringimenti, con dispendio di energie.

Quello che lo conquistava era il candore dei pensieri, la brillantezza degli occhi azzurri che lo proiettavano sulle vette più eccelse del cielo, dove non c’erano diavoletti pelosi, pronti a combinare dei dispetti.

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Fermenti 280

Accarezzare un suo fianco sarebbe come sprofondare nell’azzurro, con i cherubini che sorridevano contenti: non c’era più ombra di rancore nel suo sguardo sereno, ma un pizzico di irriverenza che stimolava la fantasia.

Erano finiti i tempi dei battibecchi, delle ripicche: l’amore incondizionato aveva appianato ogni cosa, cancellando tutti i torti subiti.

La tenera Chiara, quando sorrideva, apriva orizzonti sconfinati, dove i cieli erano limpidi e la grazia a portata di mano: la leggerezza del suo incedere tra le stanze ovattate recava scintille di gioia, come una donazione incessante, anche se il professor Marcantonio in certi momenti della giornata era un po’ svampito, non rendendosi conto della fortuna che aveva.

Ogni tanto però alla mente della signorina Chiara si affacciavano tristi pensieri: allora pensava che sarebbe morta tra atroci dolori per malattie incura-bili che le avevano diagnosticato troppo tardi.

Quando sarebbe giunto il suo momento, avrebbe cominciato a cantare e, tra sorrisi e carezze, si sarebbe ritirata in pace, senza scenate, sorridendo della vita che le aveva concesso tanti regali, prima di tutto l’amore per la natura e per un piccolo uomo che si nascondeva sempre tra le piante del terrazzo, perché aveva paura di fare una brutta figura …

L’angeloIl signor Pacifico era di animo tranquillo

e remissivo, disposto a sopportare le solite contrarietà che la vita propina ai buoni di spirito: la sua massima aspirazione era vi- vere in pace con se stesso, senza troppe scoc- ciature, cui tentava sempre di porre una pezza, facendosi in quattro per venire incontro alle esigenze degli altri.

Nei momenti di libertà restava in panciolle a sognare la pace celeste, che era una costante disposizione d’animo al volo, con la mente che girovagava tra le nuvole azzurre, ma la signora Filomena lo distoglieva dalle sue beate meditazioni perché diceva che bisognava piantare un chiodo nel muro per appendere un quadro o portare i rifiuti al piano terra, dove sareb-bero arrivati quelli dell’immondizia.

In ogni momento della giornata, quando si sentiva libero da ogni incom-benza, perché in fondo era un vecchio pensionato, e intuiva che qualcuno in un punto misterioso lo chiamava con una strana vocina per regalargli un’onda di dolcezza e di quiete, ma poi arrivava la signora col suo vocione che dava ordini perentori, perché c’era sempre qualcosa da sistemare, vuoi una sedia mal messa, vuoi il tostapane che non funzionava.

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Così la sua sacrosanta aspirazione al distacco, alla carezza del vento che filtrava dalla finestra, con la speranza che finalmente udisse bene quella voce che lo spingeva lontano, inevitabilmente si dissolveva: lui doveva lasciare il suo stato di felice abbandono e mettere mano alla cassetta degli attrezzi per trafficare.

Il più delle volte si accorgeva che erano tutti lavori inutili, perché quando aveva finito di aggiustare un interruttore quello immancabilmente si guastava, se sistemava col cacciavite una molla, quella dopo qualche istante si liberava e ballava spudoratamente nella stanza, ma il signor Pacifico non si lamentava mai ed eseguiva minuziosamente gli ordini imposti dalla sua venerata signora, che in compenso stava per ore al telefono a chiacchierare con le vicine.

Quando, dopo aver sistemato tutti i lavoretti più impossibili, si sedeva in poltrona con la mente rilassata gli veniva sempre in mente un angioletto rubi-condo che appariva nei suo sogni: sembrava che da lontano sorridesse, come a compatirlo o forse più semplicemente per chiamarlo in un posto misterioso, dove tutte le sue preoccupazioni sarebbero un giorno finite; il signor Pacifico per qualche istante si beava in quella pace assoluta, dove non giungevano rumori, neppure scricchiolii dei topi in perenne ricerca di una crosta di formaggio, e la sua mente veleggiava a mezz’aria, rapito dalla dolcezza di quel mondo immagi-nato che da qualche parte lo stava aspettando.

Irrompeva presto la signora Filomena con l’aspirapolvere, che aveva scovato pericolosi germi infettivi nascosti nei punti più segreti della stanza, magari sotto l’antico comò o tra le fessure della vetusta libreria: la sua pace presto svaniva e un’ansia incontrollabile spuntava dagli intestizi più profondi del suo cuore, per altro sempre a rischio d’infarto.

Meticoloso, come sempre, lui eseguiva tutti i lavori che gli venivano richiesti, giungendo al punto di concedere anche una passata di cera sul pavimento perché in certi momenti gli sembrava troppo opaco, ma per quanto lui si prodigasse per assecondare ogni desiderio della sua signora, lei trovava sempre qualcosa che non andava.

Alla sera poi, al momento di coricarsi, quando lui sperava in un tenero abbraccio o almeno una piccola carezza, la signora Filomena era sempre stanca e rimandava quel fatidico contatto al giorno dopo, quando non avrebbe avuto il mal di testa.

Immancabilmente però la sera dopo succedeva la stessa cosa: lei era troppo presa dai suoi problemi di ordine e pulizia nella casa per abbandonarsi a un trepido stringimento, così il povero Pacifico doveva far finta di niente e cancel-lare i momentanei bollori di spirito.

Ma una notte, quando non riusciva a dormire, tormentato dai suoi desideri, comparve in fondo al letto l’Angelo che da tanto aspettava: quello rideva spen-sierato, mentre con lo sguardo suadente si avvicinava sempre di più.

Il signor Pacifico fu afferrato da una grande emozione e all’improvviso diventò audace: da parte sua l’Angelo, che era una femmina deliziosa, inco-minciò a stringerlo in un abbraccio infinito e lui si sentiva finalmente liberato da ogni impedimento, perché gli sembrava di volare a mezz’aria nel cielo turchino, dove tutto era semplice e leggero e le carezze non avevano mai fine…

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Lettere dall’infinito prossimo (passare)di Giovanni Baldaccini

Publio Cornelio Passero, la primavera giova alla montagna se con passi decisi saldi le zolle ai fiori – ti dicevo l’altra sera di passaggio (ricorderai, io spero) – e se il contrario, transeat. D’altra parte considera le lettere, le pergamene, i fori delle stelle, che la carta non può parafrasare, i Nubiani lungo il Nilo d’estate (una puzza terribile!), i flussi senza sete, le bugie, tanto per ripassare la lezione. Dunque ricorderai: ho scordato.

Passero Cornelio Publio o l’incontrario (si potrebbe anche dire Publio Passero o Cornelio, senza aggiungere altro). A cosa giova questa confusione, propul-sione, proliferazione, possessione, nuclearizzazione e quanto altro di nomi asser-ragliati, quando le ossa vagano e il solstizio viene una volta l’anno? Tanto peggio a Stonehange, dove si pretendeva che qualcuno facesse colazione all’intervallo, mentre urge la semina e salpare non significa pesci, ma questi barbari avevano strane usanze (usi costumi allitterazioni) di quelle con la lingua sempre appesa – dunque come seguire la carrozza se il cavallo la biada? Ma non sostare, Publio Passerotto, e spendi la stagione nei bordelli o per lo meno a Rimini, dove le donne – vuoi mettere = giocano a cavallina senza veli ed io che me li tolgo con la toga, generalmente svaso – tu mi dirai che cosa – i fiori, caro mio! Ma ti scon-giuro taci, che il mal di testa è sordido e nel cortile le galline fanno un baccano d’inferno.

Corneliuccio mio,quando si salta l’ora valicante si finisce in barile. Non uggiolare ai semi di

lampone, alle begonie, ai saldi a fine anno, alle petunie, ai Druidi, ai somari, ma scrivi poesie, scrivi storielle, insomma scrivi quello che ti pare, ma ti prego: non uggiolare ai gatti, a meno tu non voglia vacillare attimi traballanti (coi gatti non è mai sicuro, come gli Egizi sanno) mentre in montagna: vacche. Vuoi mettere, Passerotto?

Dunque Cornelio uggiolo, lamentati! Cesare non ha fondo e il portafoglio latita come un otre a sera tarda – hai presente? Praticamente vuoto. No: neppure sgocciolante.

Uteri dozzinali l’altro giorno: supermercato all’angolo. Dice la vuoi? Tirare dritto.

Ma dicevo di Cesare: l’hanno ammazzato a marzo, per fortuna, e il prossimo si accomodi, mentre la primavera che declina lascia il posto all’estate e i suoi

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tormenti. Tormentami Publiuccio, almeno un poco. Ma non esagerare, che le sfere celesti stanno in alto e le ali ai messaggi.

Scrivimi!

Ieri cornacchie al varco di frontiera. Di nessun interesse.Alternativa: vento.Quando puoi, suonami una passata.

La passacaglia sarà come passare? O una scaglia, un passero stonato, un Mi minore in Re, un autobus fermo, uno sgusciare (un uovo?). Quanto ai treni, ancora non li hanno inventati.

Micene se n’è andata nella storia, Passero solitario del mio dire (Cornelio? Publio? Non Nepote) ed i fantasmi abbandonano i viventi. Sempre la solita storia: un fuggi fuggi generalizzato.

L’altra sera qualcuno si azzardava a traversare l’atrio verso il letto. Non ti dico la pargola di turno: urla ad oltranza. Davvero noioso. Per abbreviare: ioso.

Vabbè che quello tracotava alquanto. Poi esordisce… Inutile riferire: queste Ombre dicono sempre le stesse cose… l’Invitto, l’Invincibile… il Già Morto – dico io. Meglio saggiare l’anima dei vili oppure la criniera dei cavalli! Hai letto quell’Inglese? Avrebbe dato il Regno!

… come dicevo, la mia destinazione nelle Gallie, mi intristisce. Certo, sempre meglio che il fango di Bitinia, ma senz’altro avrei preferito un viaggetto per mare – diciamo Asia Minore – dove i reperti abbondano e quattro sassi valgono una fortuna. Quanto alle donne svendono le sottane per un sogno (si farebbero affari mica male…) e se porti loro quattro calze di filo ti fanno cose d’altra dimensione, che nemmeno i freudiani più accaniti o altri ingombri si sarebbe permessi di insegnarti in quelle fantasie segrete – edipiche o pre? – insomma, quelle di prima della gozzoviglia o giù di lì. Quando nasci dopo è troppo tardi e se ti azzardi: tre anni di galere.

Mai stato, Passerotto? Ah, la vita: che ci soggiorni a fare...

Lettera a Settimio Settimo (di dieci)

Carissimo Settimio e i tuoi dintorni,Cesare non poteva infliggermi pena più molesta. Avrei di gran lunga preferito le paludi a questa confusione polverosa, colma di fanciulli urlanti, profeti d’ogni genere e pretese, come ad esempio battere moneta, probabilmente con l’emblema di un pidocchio.Le donne, poi, ti dico, Settimino, indossano bardature da cavalli, che neppure negli occhi è lecito guardarle, se ne avessero. Della puzza non parlo.

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Ripensavo l’altra sera a mamma tua, mentre scioglievo i cani per spaventare un drappello di fantasmi (piuttosto barbuti e luridi, direi). Ripensavo, ti dicevo: povera donna, sai quante sofferenze! Non ne provi una colpa, tu settimo di dieci, che l’hai costretta a sporgersi nel nulla di una morte evitata chissà come. Dieci parti (tu il settimo), mentre qui se si nasce è una disgrazia da evitare, nascondere, sommare alle evidenti altre quotidiane. Per non parlare di una strana setta che i propri neonati quasi li affoga per via di un rituale incomprensibile, dice per ripulire da certi peccati immaginari (che vuoi abbia potuto compiere un neonato, se non desiderare di restare nella madre, tanto per evitarsi la rottura?).Come vanno gli scongiuri? E i fratelli, tutti in buona salute? Non avrai molto dalla spartizione quando tuo padre lascerà la flotta e certamente morirà in un letto, spero privo di cimici. Qui sono costretto a disinfestare ogni sera. Invio uno schiavo a coricarsi nudo per infestarsi a dovere. E domani lavacri.E le fonti di Clitunno? Ed i formaggi, i passeri, la sera le zanzare?Quanto a me, più che altro disbrigo, come diceva il mio predecessore, noia ed d’affanni. Generalmente questioni religiose, cavilli, arrampicamenti sulle nuvole e fastidiosi crolli, dovuti a rigidità consolidate mentre le nubi, come ben sai, d’ovatta. Mi mancano le nostre passeggiate. Nella mia mente, Roma splende assenza. Ultimamente ho ingaggiato alcune ballerine siriane; la sera ci si distrae un po’. Si dimentica.Cesarea non offre affermazioni: qui il mondo si nega. Se non fosse per qualche nave proveniente dall’Egitto o dal Libano asservito, si perderebbe ogni contatto col reale. A proposito dell’Egitto. Qualche anno fa: solo un mondo di morti. Domani muovo le truppe verso la Fortezza: un’arrampicata da pazzi! Ci vorranno due anni per farli ragionare, se rimane qualcuno.Ultimamente scrivo strane cose, tipo: aspettami al porto vecchio, fuggiremo. Aspettami chi? Fuggiremo dove? Ah, Settimino Settimino Settimo: dove fugge la vita? Rileggevo di Ulisse, sere fa, al lune di una torcia profumata (qui tutto puzza di sterco di cammello). Nell’Ade, dove le ombre adorano il mancante sangue di terra. Esse adorano il senso di quello che fluisce: per riavere un istante. Ci penserai?Non potrò neppure riabbracciarti.

Lettera alla Pizia

Ah Signora,le tue tabelle di divinazione danno un responso esatto se è vero che non sanno cosa dire e spetta a me rivestire d’assurdo e di spavento l’insopportabile

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pianificato stare del sole e della luna, quando il vento si ferma e la sua voce suona come un nibbio.S’affaccia il giorno e la montagna è piatta, senza neve d’inverno o primavera, alba tramonto sussurrata quiete, tempesta quando occorre o la ganascia sordida del sole brucia covoni e donne quando estate. L’uva langue ed io non ho più vino. Dunque come potrò ignorare e friggere d’intenso il mio disagio se gli ulivi dimenticano il mare e l’olio sa di acqua. Ah Signora - tu non capisci la disperazione quando il bicchiere è colmo di mancanza, perché sei disperata e dormi nei tuoi fumi di caverna d’oppio d’avanzo di cui non dai notizia a noi mortali altro che nelle balle che dispensi e bevo per interposta droga e farmi un po’ di te quando ti aspiro e frano nel mio corpo e nei raggiri dove è obbligo stare.Diversamente inutile tra noi, tu navighi l’oltraggio della mente, versi inermi, assoggettata folla al tuo delirio. Propaghi; ed ogni dispersione sa di latte - come le vacche invitano - tra l’invidia di capre e dei formaggi al monte - io dilaniavo lupi - e l’universo ride di questo nostro affanno, cui ci consegni e fondi - mia Signora - senza darne risposta, tanto che ripensavo l’altra notte una impossibilità: sarà che nel tuo dire che è silenzio la risposta è l’assenza? Fattivamente il popolo non cerca e si inebria di bicchierini e pasticchette, dalla minore età all’oltretomba. Solo noi dispensati abbiamo il vizio di porre le domande per difetto, ma ho capito che il tuo non dire è dire: non c’è nulla da dire.L’altro giorno, nel sobborgo di Craneo, Diogene scansava i suoi fantasmi; quindi la notte.Parmenide sognava notti insonni; Aristotele un circo, dove le stelle stanno fissein cielo. Eraclito rideva.Ci avviciniamo al carico d’autunno dove la primavera dome il suolo e l’inverno s’appresta a congelare. Ci avviciniamo alla mia lontananza: mi sveglierò?

Giovanni Baldaccini

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Donna in ritrattodi Gemma Forti

Assorta e malinconica, l’espressione sognante negli occhi marroni striati di giallo, come quelli sonnacchiosi di un gatto in vena di fusa, sotto l’ala protet-tiva del verde copricapo a cloche, anni Trenta, afflosciato morbidamente sul lato destro del volto; la mano sinistra poggiata dolcemente dietro la nuca; la destra, inguantata, nel grembo, a sorreggere una pochette di velluto scuro, la bella signora, seduta su uno scranno, impaludata in uno spolverino di taglio militare, aperto davanti in modo da evidenziare il gonfiore del seno, sembrava fissare,senza vederlo, un punto lontano, come immersa in languidi pensieri, sia pure stretta nella cornice dorata che la imprigionava nella tela.

Si era chiesta spesso se la modella del ritratto fosse stata l’amante del pittore o forse solo una donna amata e desiderata, magari a sua insaputa. Comunque c’era stato senz’altro un coinvolgimento emotivo dell’artista nel dipingerla con tanta incantata veridicità.

Non era dato saperlo in quanto il quadro non era firmato se non con due iniziali scolorite dal tempo: forse V. G. o chissà che altro.

Lo aveva trovato, per caso, coperto da un polveroso lenzuolo, nella soffitta,della villa di campagna che, sua madre, aveva ereditato da un lontano zio e di cui adesso lei era l’unica proprietaria.

Ne era rimasta subito attratta ed aveva deciso di appenderlo nel salone, al posto di una laccata comune scena di marina, al tramonto. Ed aveva avuto ragione. L’ambiente ne era stato subito ravvivato, impreziosito da un incanto particolare.

Di giorno la luce del sole abbracciava sinuosa il ritratto, ammorbidendo i tratti del volto, evidenziandone particolari nascosti, sempre nuovi. Il tramonto lo adombrava di un fascino crepuscolare. Mentre la luce soffusa della notte lo incupiva, con effetti anche sinistri. Sembravano tre donne diverse, sia pure in un unicum creativo.

Perché poi, quel quadro, che senz’altro era stato dipinto da un’abile mano, fosse finito in soffitta, a differenza delle orribili croste che aveva trovato appese, in pretenziose cornici, non riusciva proprio a spiegarselo.

Forse lo zio, di cui sapeva ben poco, essendo un uomo misantropo e puritano, ne era rimasto turbato ed aveva preferito circondarsi di immagini rassicuranti, oppure, invece, da libertino incallito, se ne era innamorato, facendo ingelosire una sua amante, che aveva minacciato di lasciarlo se non se ne fosse disfatto. E lui, mentendole, l’aveva fatto sparire, nascondendolo nella soffitta, dove andava di soppiatto, di notte, a rimirarlo.

Sciocchezze o verità? Chissà?

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Comunque quell’effige aveva avuto il potere di intrigarla, sbrigliando la sua fantasiosa immaginazione, liberandola dalla noia mortale che le infliggevasempre, dopo alcuni giorni di assoluto riposo e relax, la monotonia della vita di campagna, con i suoi ritmi pedanti e regolari.

Dopo una settimana sentiva impellente il bisogno di tornare in città, di tuffarsi di nuovo nel traffico, nel caos quotidiano, nello smog, come una droga di cui non riusciva a fare a meno.

Ma ora, qui, aveva trovato un diversivo. Un nuovo gioco con cui trastullarsi. Non si sentiva più sola. Era in compagnia di una dama misteriosa, che la fissava,sfuggente, da un luogo remoto e senza tempo.

Aveva cominciato così ad esternare i propri pensieri a voce alta.Sperando che qualcuno rispondesse, aveva iniziato a parlare rivolta al ritratto,

prima di se stessa, poi, ponendo delle domande, all’inizio discrete, man mano più intime e pertinenti. Infine incalzanti, come in un interrogatorio espletato in un commissariato di polizia o durante una seduta psicoanalitica.

Ma l’interlocutrice la fissava immobile, muta, pur nelle labbra tratteggiate leggermente dischiuse, quasi per accennare parole tenere ed affettuose.

Forse le stesse parole che avrebbe voluto sentire l’artista innamorato dalla sua reticente fredda amante o dalla sposa di un altro, magari di chi aveva commissio-nato il ritratto, di cui s’era invaghito.

Il monologo era durato alcuni giorni, invano.Aveva, quindi, deciso, di usare un’altra tattica, quasi sempre vincente. L’in-

differenza.Quando passava davanti al camino, sulla parete in cui era appeso, allonta-

nava lo sguardo, volgendolo altrove, o seduta sul divano non alzava mai gli occhi, fingendo di essere assorta nella lettura di un libro interessante.

Questo per alcuni giorni. Finché una notte, non resistendo oltre, aveva deciso di spiare nel buio, non vista, facilitata dalla luce di una luna piena.

A carponi aveva raggiunto il divano, trattenendo il fiato. Nascosta dietro le trine dei cuscini, aveva sollevato repentinamente lo sguardo.

Il ritratto, risplendente di raggi di luce argentei, al pari di un prezioso gioiello esposto in bella vista nella vetrina di un rinomato orefice, era immobile nella sua posa naturale. Come sempre.

Rassicurata, si stava per alzare, quando..., quando, la dama, sollevando la mano guantata dal grembo, lasciando così cadere le pochette ai bordi della cornice, le aveva puntato davanti l’indice, profferendo non dolci parole, come si aspettava. Bensì, con voce stridula e tagliente, aveva gridato, concitata:

“ Cosa vuoi da me? Non ho nulla da dirti che tu non sappia già. Quindi, lasciami in pace. Sappi, però che io...io sono te, l’altra che dovresti conoscere ma che non vuoi o temi incontrare”.

La luce abbagliante della luna aveva cessato, d’improvviso, di splendere sul ritratto, per rifugiarsi, timida dietro i drappi ondeggianti delle tende seriche, per

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dileguarsi pian piano oltre la finestra.La stanza era quindi ripiombata nel buio naturale della notte. E così ogni cosa

all’intorno, inghiottita da un silenzio ovattato.Tutto sembrava tornato al suo posto.Ma cosa era veramente avvenuto?Se lo era chiesto invano più volte, mentre tornava a letto nella sua stanza in

fondo al corridoio.L’indomani, al risveglio, aveva notato di essersi chiusa dentro a doppia

mandata.Non ricordava di averlo fatto. Evidentemente era impaurita dall’accaduto.

Dovette confessare a se stessa che anche alla luce del giorno nutriva un certo timore.

Si preparò pian piano per ritardare il più possibile il ritorno nel soggiorno. Ma forse aveva fatto solo un brutto sogno, ripeté più volte a se stessa, quasi per rincuorarsi.

Percorse velocemente il corridoio. Arrivata alla porta della sala, chiuse gli occhi prima di aprirla.

Trattenne a lungo il respiro. Sollevò leggermente la palpebra destra, poi la sinistra. Si stropicciò più volte gli occhi.

Ma la dama era misteriosamente scomparsa dalla parete. Al suo posto troneg-giava di nuovo la marina, nella sua anonimità laccata.

Ma lei non ricordava di aver sostituito il dipinto.Chi lo aveva fatto, se da qualche giorno era sola nella villa? Era forse entrato qualcuno? Magari un ladro?E il ritratto, il bel ritratto, dove era finito?Non osava riandare in soffitta.Quando lo fece, poté constatare che il dipinto era sparito anche da lì.Mentre scendeva la scala a chiocciola cominciò ad avvertire una strana sensa-

zione di benessere, mai percepita prima di allora.Si sentiva liberata da ogni inquietudine, ansia e qualsivoglia futile conven-

zione.Era quasi felice. Senza conoscerne il perché.Ciò le bastava per proseguire a vivere, senza tanti problemi.Meglio non sapere nulla e non porsi arrovellanti interrogativi.Del resto così facevano la maggior parte degli abitanti del pianeta in cui

viveva, riuscendo in tal modo a sopravvivere.Gemma Forti

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Il deserto dentroGianluca Cinelli

Jackson respirò l’aria torrida del deserto e seppe di essere di nuovo solo. Era arrivato fino ad Albuquerque su un Greyhound e di lì aveva proseguito finoa Gallup e oltre, finché l’ultimo bus l’aveva scaricato nel mezzo del nulla su un crocicchio tra i campi. Nessuno poteva rintracciarlo adesso.

Si guardò intorno come un naufrago. Continuava a ripetersi in mente le parole «non c’è niente di buono nello strisciare indietro, è avanti che devi andare». Qual-cuno doveva avergliele dette pochi giorni prima, ma non ricordava chi. Sapeva soltanto che era tornato ad abitare per un po’ con i suoi, nella loro grande casa in montagna, dopo che era tornato dalla missione all’estero. Quei giorni trascorsi lassù con loro, però, gli pareva che andassero alla deriva e i ricordi sbiadivano. Era successo qualcosa di terribile là sulle montagne, ma non poteva ricordare che cosa, se non in immagini smozzicate, come un brutto sogno. C’era una casupola squallida, su un sentiero battuto appena fuori del bosco, e qualcuno urlava delle minacce incomprensibili, mentre un grosso cane abbaiava e scuoteva la catena che lo legava al palo. Chi era quell’uomo? Dov’era quella casa? Jackson provava paura e un furore cieco, quando questi ricordi gli ritornavano alla mente. Erano gli ultimi che aveva del breve tempo trascorso in montagna dai suoi, poi il buio.

Il sole tramontava, era tempo di incamminarsi verso ovest. La terra era arida e rocciosa, le colline basse colline sembravano onde di un mare pietrificato, sopra il quale una coppia di avvoltoi planava nel cielo vuoto. Era proprio come in Afghanistan, dove tante volte aveva guardato un cielo identico a questo e aveva pensato a casa. Ma dov’era ormai casa, non lo sapeva più.

Nel crepuscolo il deserto appariva magnifico e desolato. La strada era vuota e il calore del giorno la faceva tremolare come se l’asfalto liquefatto ribollisse. La sera però si rinfrescava rapidamente e si alzò una brezza leggera. Ogni traccia di vegetazione era scomparsa e restavano in vista soltanto le rocce rosse, abbrustolite dal sole. Pochi minuti dopo il tramonto Jackson udì il suono di un motore distante e si voltò con un fremito di timore. Un vecchio furgone color carota arrancava nella distanza vuota del deserto. Le luci brillavano quasi irreali nel crepuscolo violaceo. Quando fu a pochi metri da lui, il veicolo s’arrestò. L’autista indossava un cappello e sembrava piuttosto corpulento, ma il volto restava invisibile nel buio dell’abitacolo. Jackson s’avvicinò e guardò dentro dal lato del passeggero:

«Vuoi un passaggio?», chiese il guidatore in una voce calda e roca, come il deserto.

«Sicuro.»«E dove vai?»Jackson non seppe rispondere, perché non ne aveva idea. Non trovava nessuna

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parola capace di dire il posto dov’era diretto, così si limitò ad alzare le spalle e indicò verso ovest.

«Salta su», gli disse l’altro e gli offrì una sigaretta. Alla luce della fiamma la faccia dell’autista sembrava di terracotta, squadrata e segnata da lunghe rughe profonde.

«Fin dove puoi portarmi?»«Mi fermo a Yahtahey.»Jackson non l’aveva mai sentito questo posto, ma non se ne fece un problema.

Per lui non era che un’altra tappa del viaggio.Il guidatore era taciturno e respirava pesantemente. Il furgone era vecchio e

puzzava di gasolio e tabacco. Jackson chiuse gli occhi nella notte che scendeva e la sua mente si perse. Il brontolio monotono del vecchio motore, i sobbalzi sulle buche e l’odore secco del deserto che si raffreddava lo riportavano indietro, laggiù. Dopo pochi minuti sentì quella strozzatura nello stomaco, che sempre provava in Afghanistan quando gli passava per la testa di ritornare a casa. Si svegliò e vide le stelle luccicanti nel cielo nero. Il furgone attraversava la notte del deserto ed era come galleggiare in mezzo alle stelle. Jackson si toccò l’anca destra per assicurarsi che la pistola fosse sempre lì, perché la provincia di Herat era insidiosa dopo il tramonto.

«Mio Dio», disse vedendo tutto quel buio, «ma da quanto siamo fuori di pattu-glia? Perché non mi hai svegliato? Dovremmo già essere rientrati alla base.»

Il guidatore lo guardò un paio di volte prima di rispondere: «Sei nel Nuovo Messico, soldato. Dormivi. E hai parlato.»

Jackson tornò alla realtà. Non stava viaggiano sullo Hummer e l’uomo seduto accanto a lui al volante non era Franklin. Sentì qualcosa rotolare giù pesante-mente dentro il petto. Franklin, il suo caro e solo amico. Franklin, che lui aveva fatto morire per non aver detto che c’era un ragazzino con un lanciarazzi puntato contro di loro. Lo vedeva ancora, di notte nei suoi incubi, quel ragazzino strac-cione, vedeva il tubo verde sulla spalla esile, e il razzo che partiva lasciandosi dietro una scia di fumo bianco. Allora saltava sul letto, svegliandosi un attimo prima dell’esplosione. Ogni notte era la stessa storia da mesi. Il deserto aveva inghiottito Franklin. Jackson non avrebbe potuto perdonarsi per quel che aveva fatto, né lo avrebbe fatto l’Esercito. Neanche Franklin lo aveva perdonato, perciò Jackson continuava a fuggire.

«Ascolta», disse con calma il guidatore. «Dove andiamo non ci sono alberghi. La mia donna non ti lascerebbe entrare, se ti portassi da me. Ti scarico alla pompa di benzina. Potrai restare lì per la notte, nel retro del mio ufficio. Troverai qual-cosa da mangiare e da bere sugli scaffali del negozio.»

«Grazie, amico, davvero», rispose Jackson. Era strano, adesso era un vaga-bondo e aveva bisogno degli altri per ogni cosa. Proprio lui, che non aveva mai chiesto niente a nessuno, che aveva sempre vegliato sul sonno dei suoi concit-tadini, che aveva sacrificato il proprio tempo migliore per loro. O questo era

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almeno quello che pensava quando era laggiù, all’estero. Ad ogni modo era successo tanto tempo prima, in un’altra vita. Adesso sedeva sul fondo e guardava quella strana corda che gli pendeva sopra, incerto su cosa dovesse farci. Quando finalmente raggiunsero Yahtahey erano le dieci e le strade erano deserte.

«Cerca di dormire un po’», gli disse l’uomo quando accostò davanti al rifor-nitore. «Domattina farai meglio a partire presto. Poche miglia più a nord c’è la strada per l’ovest. Troverai un passaggio lì. Che Dio ti benedica.»

Si separarono senza dire altro e la notte inghiottì il furgone.

Quella notte Jackson sognò di nuovo l’attacco, però stavolta fu diverso. Di colpo il deserto cambiò aspetto e si mutò in un paesaggio di montagne boscose sotto un cielo tempestoso, con gli alberi che oscillavano nel vento feroce. Jackson era da solo davanti a una casupola miserabile e c’era un uomo che gli urlava contro, lo ingiuriava e lo minacciava con una zappa. Un enorme cane nero inca-tenato a un palo abbaiava furiosamente, pronto a fare a pezzi Jackson, che nel sogno guardava la scena con un senso di impotenza e di orrore. Poi di colpo apparve Franklin, indossava ancora la mimetica. Gli fece un cenno e si trasformò in un tornado che spazzò via la casa, l’uomo e il cane.

Jackson aprì gli occhi impaurito. Il sudore gli copriva il volto e gli faceva male la schiena. La stanza, piccolissima, era incasinata come se lui avesse scal-ciato nel sonno. Strisciò giù dal divanetto consunto su cui aveva dormito e uscì fuori nell’aria fredda del primo mattino. Il cielo a est cominciava appena a impal-lidire. Respirò profondamente e si calmò, mentre la mattina scacciava gli ultimi spettri della notte.

Lasciò Yahtahey e s’incamminò verso ovest sulla vecchia strada indiana, la stessa che un tempo percorrevano le colonne delle Giacche Blu per raggiungere gli avamposti estremi di Alamo e Fort Defiance, sul confine. Passò davanti a solitarie stazioni di benzina gestite da indiani, perché era ormai entrato nel loro territorio. Guardava quelle loro facce arrostite, gli zigomi alti, i nasi piatti e gli occhi scuri. Quella gente gli appariva come un popolo fantasma, rimasto lì come per proteggere il deserto con i suoi segreti. Finalmente cominciava a sentirsi a casa. Come erano sopravvissuti loro là fuori, cacciati e massacrati, così poteva anche lui trovare un posto dove nascondersi e vivere. Lì nel deserto né l’Esercito né Franklin l’avrebbero mai più trovato.

Il sole diventava sempre più feroce. A malapena la vita attecchiva sulle rocce, lottando per sopravvivere. Ogni ciuffo d’erba, ogni arbusto, i cactus solenni, il rapido frullo del corridore della strada all’inseguimento di una lucertola e il suo stesso cuore che batteva nelle orecchie gli ricordavano quanto la vita sia tenace.

L’ustione del sole divenne quasi insopportabile e Jackson dovette fermarsi prima di crollare. Giunse a un bar dall’aspetto dimesso, lungo la strada, annesso a una vecchia officina di riparazioni decrepita. Si affacciò nel garage ma non c’era nessuno. Una pila di pezzi di motore stava ammucchiata in un angolo e riconobbe

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parti di auto smembrate e lasciate lì ad arrugginire. Fece il giro della baracca e infine entrò nel bar, anche se in tasca non aveva che pochi dollari. L’aria era chiusa e calda e vi ristagnava un aroma acido di cibo avariato. Jackson fissò a lungo il banco, dove vide degli avventori appollaiati sugli sgabelli come una fila di pappa-galli, piegati in avanti e immobili come statue. Nessuno di loro parlava e sembrava che un qualche dolore segreto li costringesse in quella postura scomoda e soffe-rente. Sembrava che nessuno si fosse accorto di lui, tranne un vecchio indiano seduto nell’ombra proprio accanto al suo tavolo. Jackson non lo aveva visto.

«Vagare da soli nel deserto in questa stagione è pericoloso», disse il vecchio. «Scommetto che sei nell’Esercito.»

«E perché?»«Mi ricordi quelli che vengono qui. Vengono da Colorado Springs, si fermano

qui, sono tutti diretti verso sud.»«E cosa ti fa pensare che io sia uno di loro?»«No, tu non sei uno di loro. Li vedi quelli là seduti? Loro sono così. E non si

ferma mai nessuno qui, se non gente così. Non sono né vivi né morti.»L’uomo fece una pausa e aggiunse, con un sorriso sdentato: «Si sono persi.

Questo è uno strano posto, dove finiscono soltanto vecchie cose rotte. Certe cose si possono riparare, ma non è sempre così semplice.»

Jackson si lasciò andare indietro contro lo schienale della sedia e chiuse gli occhi stanchi. L’odore penetrante di cibo guasto gli dava la nausea. Pensava alle parole del vecchio, alle vecchie cose rotte ammucchiate nell’officina, agli uomini tristi e soli appoggiati contro il bancone.

«Io non sono come loro», disse senza aprire gli occhi. «Non sono venuto finqua per rimanere. Devo continuare.»

«Lo so», disse l’uomo posando le mani brune e ossute sul tavolo. «Dove andrai?»

Jackson guardò a lungo la schiera degli uomini pietrificati al banco e pensò che sembravano alquanto irreali. Non sapeva dire dove fosse diretto.

«Anch’io ho qualcosa da riparare.»Il vecchio lo squadrò con aria strana e disse:«Voglio aiutarti. C’è un luogo nella Riserva, la mia gente sa che lì vive una

donna sacra, oltre i monti a nord, dove un tempo abitavano i nostri padri. Lei è antica e conosce i misteri della terra e del cielo, scruta il cuore dei vivi e intende le parole dei trapassati.»

«Dico, mi prendi in giro?», rispose Jackson.«Questo è quel che sa la mia gente. Sono vecchio e mi ricordo di uomini che

partivano per andare a cercarla. Lei aiuta i coraggiosi che osano affrontare il deserto per incontrarla.»

Allora l’uomo tirò fuori un foglio piegato che sembrava antico come il deserto stesso. Come stese la cosa sul tavolo, Jackson si rese conto che era pezzo di pelle ingiallito e consumato sul quale era stata disegnata una mappa. Si vedeva una chiazza verde attraversata da sentieri e da quello che sembrava un fiume.

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«Questa è la via. Devi solo seguire il sentiero verso nordest», disse il vecchio indicando una delle linee con il suo dito scheletrico. «Non puoi sbagliare, ma stai attento, perché ogni cosa ha il suo costo.»

«Tu sei mai andato a cercarla?», chiese Jackson, improvvisamente interes-sato.

«Sì.»«E l’hai trovata?»«No. Alla fine me ne è mancato il coraggio.»Jackson rise con una certa amarezza:«Vedi? Mi stai solo imbrogliando. Devi avermi preso per un gonzo.»«Non ti imbroglio, ragazzo. Sta a te decidere se vuoi credere o no. Quel che

credo io non importa. Prenditi il tuo tempo per pensarci su. Stanotte puoi restare qui, se vuoi.»

«Questo posto è tuo?», chiese Jackson sorpreso.«Non fai che chiedere domande, e non sai che fartene delle risposte. Partirai

prima dell’alba. Allora saprai già per che cosa sei venuto fin qui.»Jackson sentì una grande stanchezza in tutto il corpo. Il puzzo di cibo marcio

e il caldo gli offuscavano la mente e poi si ricordò che non mangiava o beveva da ore.

«Non mi sento bene», disse debolmente e si sdraiò su una panca lungo il muro. Nessuno si curò di lui e il vecchio rimase con lo sguardo fisso in avanti, sembrava una di quelle statue di legno raffiguranti vecchi guerrieri indiani, che talora si vedono ancora accanto alla porta di certi vecchi bar della Riserva. La stanza iniziò a girare intorno e poi tutto divenne nero.

Venne il mattino e trovò Jackson sdraiato sulla panca nel bar vuoto. Il locale era silenzioso e lui era completamente solo. Per la prima volta da tanto tempo aveva dormito a lungo e senza incubi. Si guardò intorno, il bar era squallido e derelitto. Due pile di casse di cartone stavano in un angolo, coperte sotto uno spesso strato di polvere. La stessa polvere copriva il pavimento, dove i suoi scar-poni avevano lasciato le impronte. L’aria era pesante e le tapparelle abbassate sulle finestre apparivano unte, scolorite e coperte di cacche di mosca. Un vecchio calendario del 2008 era appeso alla parete dietro il bancone.

Un improvviso suono, come un raspare, lo fece saltare su con uno spavento. Un visitatore misterioso camminava su e giù lungo il portico di legno. Jackson sapeva fin troppo bene che si trattava di un paio di scarponi militari. Forse era un altro di quei rottami umani in viaggio verso sud da Colorado Springs, finitolì nella speranza di trovare il bar aperto? A proposito, si chiese, dov’erano finititutti quanti? Jackson trattenne il respiro, la paura lo immobilizzava. Da fuori non si sentiva più niente. Immaginava che quello sul portico se ne stava addossato alla porta, con un orecchio premuto contro il legno per captare qualche segno di vita dall’interno. Il pensiero tanto a lungo atteso e temuto si fece strada nella sua mente. Quello là fuori era Franklin, non c’era dubbio. Alla fine l’aveva trovato.

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Jackson non si mosse e aspettò, da fuori non giungeva più alcun suono. Una lama rosata di sole era intanto apparsa sulla parete e alla vista di quel raggio di luce si calmò. Il fantasma se n’era andato, il deserto l’aveva inghiottito per la seconda volta, ed era ora di rimettersi in cammino.

Jackson aprì la porta con circospezione. Non c’era niente fuori. La brezza fresca soffiava tra gli arbusti con un lieve fruscio. Le rocce, sotto i raggi del primo sole, sembravano coperte di sangue. L’ospite abbandonò il bar e si voltò un’ultima volta per guardarlo. La baracca gli apparve inspiegabilmente vetusta e cadente. Le tapparelle erano abbassate e la vernice era tutta scrostata e screpolata. Sul pavimento del portico impolverato si stagliavano delle impronte recenti di stivali militari. Dunque era vero! Franklin doveva essere stato lì. L’unica cosa che non riusciva a spiegarsi era dove fossero finite le impronte degli altri avventori, quelli che aveva visto il giorno prima. Pensò che la brezza avesse soffiato nuova polvere durante la notte, coprendole. Ma sì, doveva essere andata proprio così.

Jackson prese un sentiero verso nordest. Il sole saliva sempre più alto sopra il deserto e i le alture tondeggianti sembravano dei corpi giganteschi, le cui spalle fossero state scorticate dall’ira di una qualche divinità crudele. Di tanto in tanto si guardava intorno e indietro, per assicurarsi che nessuno lo stesse seguendo, e finalmente si ritrovò in una valletta verde come un’oasi. Alberelli bassi copri-vano i fianchi delle colline che digradavano dolcemente verso un tranquillo spec-chio di acqua azzurra. Attraversò il boschetto diretto verso il piccolo lago, dove si immerse senza neanche spogliarsi. Gli parve di sentire una specie di morsa gelida attorno al corpo surriscaldato, che reagì con veemenza, prima con i crampi alle gambe, poi con un malessere generale che lo costrinse a strisciare sotto un cespuglio, al riparo dal sole. Lì si sfilò i vestiti e restò nudo, disteso, il corpo madido di sudore freddo. Aveva la nausea, gli alberi e le piante cominciarono a ondeggiare e le nuvole bianche che galleggiavano sopra di lui nel cielo blu pare-vano ruotare come se le avesse sconvolte una tempesta invisibile.

In quello stato di spossatezza quasi delirante, durato chissà quanto, sentì i passi di qualcuno che si avvicinava facendo scricchiolare gli aghi di pino. Ruotò gli occhi per guardare, temendo che il fantasma l’avesse raggiunto di nuovo. Invece dai cespugli sbucò una donna, che trasalì vedendo il corpo nudo steso in terra. Jackson sorrise perché l’aveva trovata, la mappa l’aveva condotto proprio do lei, lontano da ogni sguardo umano.

«Sei ferito?», chiese la donna accucciandosi sui talloni accanto a lui. Aveva una voce bassa, quasi maschile, il volto era rugoso e abbronzato e gli occhi erano blu come il cielo, mentre i capelli lunghi e argentati scendevano come una cascata ghiacciata. Jackson sentiva il tocco delle sue dita sul petto e sul collo, sulla fronte e attorno ai polsi roventi.

«Andrà tutto bene», lei disse. «Sei stato fortunato.»Le sue parole agivano sulla mente del giovane come una specie di potente

magia e subito si sentì meglio, come se la vita gli risalisse attraverso le vene su verso il cuore. Il vecchio indiano aveva ragione, questa donna era un’antica

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guaritrice. Lui voltò la testa e strizzò gli occhi per guardarla bene. Benché fosse nudo non provava vergogna, perché lei non era una semplice donna. Lei cono-sceva i misteri, vedeva l’invisibile, per lei la nudità non era nulla. Si sforzò di parlare, ma aveva la bocca arida e la gola ardente:

«La stavo cercando», le disse con un filo di voce. «La mappa mi ha condotto da lei.»

La donna gli sorrise e gli posò la mano sulla fronte:«Il deserto è pericoloso in questa stagione. Che cosa stavi facendo qui tutto

solo? Potevi morire.»«Quanto lo vorrei. Dio sa se avrei preferito morire al suo posto.»«Di chi parli?»«Franklin, il mio amico. È ancora qua intorno, da qualche parte, mi sta

seguendo. Cova rancore.»«Hai detto il tuo amico? Vuoi dire che non sei solo?», disse la donna allar-

mandosi. «E il tuo amico è qui vicino?»«La prego, signora, gli parli, gli dica di lasciarmi in pace. Non volevo fargli

del male, davvero non volevo ucciderlo», disse Jackson agitandosi.La donna lo guardava preoccupata. Il ragazzo voleva che lei parlasse con il

suo amico, che aveva appena assassinato. Era sotto shock, certamente, o forse il delirio era l’effetto del colpo di sole. Lei pensò rapidamente che stava seduta nel mezzo del nulla accanto a un assassino, e che questo aveva immediato bisogno di un’ambulanza. Benché fosse un medico, non poteva fare molto per lui in mezzo al deserto, se non idratarlo un po’ con l’acqua della borraccia.

«Come sei finito quaggiù?», gli chiese mentre gli bagnava la fronte.«Sono venuto a cercarla perché lei può guarirmi.»«E chi te l’ha detto?»«Era un vecchio, un indiano. Mi ha mostrato la mappa.»«Era anche lui un tuo amico?»«No. Non l’avevo mai visto prima. Gliel’ho detto, era un indiano.»«Quindi non è lui quello che hai ucciso.»«Oh no, quello è Franklin, lui non è indiano. Lui è un buon amico e vive qui

nel deserto. Io l’ho ucciso, perciò cova rancore.»La donna a questo punto non ci capiva più niente.«Ma almeno qualcuno sa che sei qui?»«No!», gridò lui, una gran paura l’aveva invaso. «Nessuno deve saperlo.»«Ok, adesso stai calmo, va tutto bene.»La donna pensò che tenerlo all’ombra era il meglio che potesse fare, mentre

tornava indietro a prendere la macchina, diversi chilometri più a nord, dall’altra parte della valle. Il telefono non funzionava lì e ci sarebbero volute ore prima che tornasse indietro con un’ambulanza.

«Il vecchio indiano aveva ragione», cominciò a dire con calma, rassicurante. «Io posso guarirti.»

Jackson la guardò con un sorriso colmo di gratitudine e pianse.

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«Non posso farlo qui, però. Devo portarti fuori dal deserto e poiché tu non puoi camminare, te ne starai sotto questo cespuglio finché io non ritorno con la macchina a prenderti. Intesi?»

«Lei ha una macchina?», chiese lui sorpreso.«È un problema per te, ragazzo, se ho la macchina?»L’espressione di gioia e gratitudine sul volto di Jackson si mutò in un attimo

in costernazione e poi rabbia:«Lei non è una donna sacra», ringhiò.«Calmati. Ho detto che posso aiutarti e lo farò.»«No! Non puoi! Anche tu sei falsa, sei una spia. Mi stavi seguendo proprio

come tutti gli altri, per metterli sulle mie tracce!»Jackson cercò di tirarsi su e la donna, atterrita, saltò in piedi e fuggì tra i

cespugli, inseguita dalle maledizioni disperate del ragazzo. Ma lui era troppo stanco e stordito per inseguirla. Un’onda nera di rabbia lo accecava, voleva ammazzarla così come aveva già ucciso l’uomo sulle montagne, a mani nude. Gridò contro il cielo vuoto tutta la sua disperazione solitaria, e fu allora che un uomo in mimetica emerse dal boschetto. Jackson si calmò all’istante e si tirò su a sedere, irrigidito dalla sorpresa e dalla paura. Davanti a lui stava Franklin, pallido e rigido. Non c’era traccia di rabbia o di rancore sul suo visetto da bambino, soltanto profonda tristezza e rassegnazione.

«Ciao Jackie, sono io. Ti ho cercato dappertutto, eccoti finalmente. È bellis-simo qui, non trovi?»

«Meraviglioso. Eri tu stamattina, che bussavi alla porta?»«Tu che dici?»«Penso che eri tu. Ma come hai fatto a trovarmi?»«Io non ti ho mai perso. Non mi hai mai lasciato andare.»«Come avrei potuto farlo?»Franklin guardò Jackson con un sorriso mesto e sospirò, poi disse:«Perché non ci sediamo? Lì, sulla spiaggia, vieni.»I due amici uscirono dal boschetto e andarono a sedersi là dove la debole

risacca del lago scivolava con un fruscio continuo sulla sabbia. Jackson, asciu-gandosi le lacrime, sospirava profondamente. Era contento che Franklin l’avesse trovato.

«Sei ancora tanto arrabbiato con me?», gli chiese timidamente.«Mai stato arrabbiato, Jackie.»«Davvero? Malgrado tutto?»«Davvero.»«Io credevo che covassi rancore. Mi vergogno tanto», disse Jackson ricomin-

ciando a piangere.«Non è stata colpa tua.»«Non volevo deluderti, amico mio. Avrei preferito morire al tuo posto.»«Va tutto bene, Jackie. È andata così, era venuta la mia ora. Ma tu adesso

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devi smettere di tormentarti, sei scappato troppo a lungo. È tempo di fermarti, non credi?»

«Ma mi stanno cercando, mi danno la caccia come a una bestia.»«Lo so.»«Come posso convincerli che sono innocente?»«Innocente?»«L’hai detto anche tu, appena adesso.»«No, Jackie. Non l’ho detto.»Jackson lo guardò disorientato, senza capire.«Che cosa hai fatto mentre eri in montagna dai tuoi genitori?», gli chiese

Franklin. «Ti ricordi che cosa hai fatto?»Jackson scosse la testa, confuso. Andava indietro ai giorni che aveva trascorso

dai suoi dopo il ritorno dall’Afghanistan, ma che cos’era successo? Perché i suoi ricordi adesso erano così offuscati, come se stesse cercando di richiamare alla memoria la vita di qualcun altro? Vedeva la grande casa dei suoi in cima alla collina, il giardino, il volto di Karen e di sua figlia, bellissima, Cynthia, le vicine di casa. Poi i ricordi diventavano cupi, pieni di rabbia e di solitudine. Ritrovò il sentiero bianco che conduceva alla casupola di quel contadino che vi abitava da solo con il suo cagnaccio nero. Non ricordava come si fossero incontrati, né perché quell’uomo l’avesse ingiuriato. Erano ricordi pieni di odio e rabbia, un furore inspiegabile. Adesso vedeva l’uomo steso in terra, con grumi di cervello che gli colavano fuori del cranio spaccato, a formare una pozza di sangue scuro. Poi era venuta la tempesta e la pioggia battente aveva lavato via il sangue, finchéuna tromba d’aria aveva investito la casa, spazzandola via insieme con il corpo e il cane, che Jackson aveva visto volare in aria come due giocattoli.

Jackson si premé le mani contro gli occhi e disse:«Ho sognato quell’uomo l’altro giorno, e c’eri anche tu. Mi insultava, mi

minacciava, ma tu ti sei trasformato nel tornado e l’hai ucciso.»«Dio sa se si meritava di fare quella fine», disse Franklin. «Karen ti ha detto

che era un uomo malvagio. Ti ha insultato senza motivo, perché era un uomo cattivo.»

«Come sai tutto questo?»«Io so quel che sai tu.»«Io non l’ho ammazzato quell’uomo, tu l’hai fatto!», gridò Jackson.«Io sono un fantasma, esisto soltanto nella tua mente. Posso uccidere solo se

tu lo fai. Non sono altro che un vuoto.»Jackson s’ammutolì. I pezzi pian piano andavano al loro posto, man mano

che lui ritornava indietro con la memoria e ritrovava se stesso come se però fosse un’altra persona. Trovò un uomo come lui, con cui condivideva lo stesso dolore e la stessa rabbia. Sapeva che entrambi quegli uomini erano lui, e così anche Franklin e il vecchio indiano. Era sempre stato lui e soltanto lui. Tutti vivevano nella sua mente. Lui era la gabbia e la chiave, era la ferita e la cura. Adesso

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sapeva che lui stesso era il deserto dentro.«Dovrei smettere di scappare?», chiese infine, calmo.«Credo di sì.»«Mi puniranno per quel che ho fatto.»«Puoi ricominciare, Jackie.»«Come?»«Lasciati alle spalle tutto questo rancore. Le cicatrici le porterai addosso e

dentro per il resto della vita, ma devi vivere. Va’ via, lascia questo deserto. Non c’è niente per te qui, amico mio.»

«Ho paura, Frank.»«Tutti abbiamo paura, Jackie. Guarda me. Pensi che io non abbia paura? E

tuttavia ti imploro di lasciarmi andare. Sei tu a tenermi qui, ma io non lo voglio più. Ti prego, lasciami andare.»

Jackson si voltò a fissare il lago, così immobile e azzurro come se avesse inghiottito il cielo, e così irreale che gli parve di sognare. Si sentiva finalmentepronto ad affrontare il proprio destino. Lui aveva ucciso quell’uomo in montagna, e non sapeva perché, non lo ricordava più. Aveva bisogno di essere curato.

«Non voglio più vivere così», disse, «come un morto fra i vivi.»«Sono fiero di te, Jackie. Non sarà facile, però, perché ogni nascita pretende

una morte», gli rispose Franklin, impallidendo nel sole cocente.«Ancora un’altra?»«Vattene via da qui, amico», insisté Franklin.«Mi mancherai Frank, ti voglio bene.»«Dio ti benedica, Jackie. Ti voglio bene anch’io.»L’uomo con la mimetica era scomparso e Jackson rimase da solo sulla sabbia.

La nausea veniva e andava a ondate, si sentiva debole e vuoto ma finalmentefelice, perché Franklin l’aveva perdonato. Era pronto per ricominciare. Sapeva che la donna sarebbe tornata a prenderlo e che l’avrebbe curato, ma non sentiva neanche più dolore. La testa era leggera come un pallone, gli pareva di galleg-giare sopra il deserto e oltre le colline. Aveva tutto il tempo del mondo.

La donna tornò accompagnata da due poliziotti. Non aveva detto niente del delitto, s’era limitata ai semplici fatti. Si aspettava di trovarlo steso dove l’aveva lasciato nudo. Ma quando emersero dall’ombra videro subito il corpo riverso, con la faccia immersa nella polvere. Lei lo dichiarò morto senza nemmeno toccargli il polso.

«Peccato, signora», disse uno dei poliziotti. «Mi sa che dovremo rubarle ancora un po’ di tempo per fare rapporto. A proposito, mi dispiace che questa faccenda le abbia rovinato le vacanze.»

Lei non rispose. La valle era silenziosa sotto il cielo vuoto, dove uno stormo di avvoltoi roteava in lenti circoli indifferenti.

Gianluca Cinelli

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Storie di mareTall ships

di Giovanni Fontana

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Bruno Conte

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Quasi acquaProva iniziale di egoromanzo

di Bruno Conte

È affluente questo quacquasi che si ripete nuda mente, anche assunto in qui, dove riesce a sorgere il protagonista, che inizia a vedersi, parzialmente compiuto, nella lucidità crescente che descrive in particolare ogni ruga che si stria nelle mani su ogni venuzza marmorea, finché colui si alza e procede, pian piano proteso, circondato da fasce orarie. Numero uno: prendere dalla tazza bianca il latte, senza lagnarsi del latte versato, con una goccia di sonno che insiste nel proprio circolare esistenziale orto nano. Numero due: inghiottire una compressa antinoia.

Ci si rivolge a se stesso nei confronti degli oggetti del mattino, cose più o meno comprese di luce a cui poggiare lo sguardo.

Il bicchiere che scintilla come avvenimento.Quindi mettersi in marcia verso il giorno, recuperare da falso desto il terri-

torio notturno, così controverso, sfuggente all’appiglio per rendere il terreno boscoso in senso di dubbio.

Camminare, camminare, sul pavimento di maiolica giallo, così spoglio acerbo di mancato velluto, così nolente di passo buio.

Si ergono delle viole. Che cosa sono? Sono delle parole. Parole come erbe.È già lunga la passeggiata. Ci si sofferma nella perplessità, testa in alto, poco

all’indietro.Sta nascendo, nel suo nascondiglio in basso, un gobbosfero, che si fa sfero-

becco. Animale oblungo ligneo: da ogni sferoide pronuncia la propria ricurva fronte beccuta. Conviene faticare ad abbassarsi per snidarlo da sotto un ripiano colmo? O è già altrove? Non è necessario metterlo a nudo, toccarlo con la mano dello sguardo.

È comunque un interlocutore. Non si può scrivere un romanzo senza inter-locutori, anche se questo rappresenta una appendice del proprio attore, in questa raggiunta stanza di lavoro, ingombra e abbandonata, a persiane chiuse, in cui la luce ha fissato qua e là i suoi prensili sostegni.

È necessario dare inizio all’avventura, al dialogo con le circostanze, mettersi seduto a scrivere, ascoltare la corrente dei fogli incompiuti.

Che significa scrivere? Estrarre dalle pagine, attraverso le righe, dei fili d’erba che si tirano oltre le spalle (legami per involti fino ad ago e filo?) e lo spazio si infittisce, o si svuota nel silenzio, per riprendere di nuovo intrigante come un piatto sospetto su cui ci si posa.

Una casa, contenuta nella propria forma elementare, bianca parete con porta, tetto angolare, contro uno sfondo grigio ambiguo chiaro.

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Si bussa, la porta si socchiude, si entra.È una foresta l’interno di questa casa. Uccelli di un rosso infuriato attraver-

sano l’irto dell’elevata vegetazione.Necessità di accompagnatori partecipanti. Addensate ombre chiare. Gente

alta e snella che allunga le gambe nell’intricato luogo. Si possono risolvere i sospetti di inganno con determinate ginocchia elastiche. Il serpente infido rimane forcuto a vuoto.

(Ma se per caso si sente prudere l’interno di un orecchio è una lucertola la mano che lo raggiunge.)

Siamo arrivati alla tribù dei Patapam.È una popolazione bassa, gonfia, pallida polmonare, lenta in ogni mossa con

decisione. Parla il ram, con gesti enfatici, enfiati, sommovendo l’insieme degli altri del tram che lo spalleggiano nell’emersione di un proteso oggetto, che si oblunga, da sferoide multiplo a gobboso beccuto, oscuro. Dal biancore pedestre si protende l’alto oscuro, riconoscibile, già incontrato, più esagerato.

Dove riporre questo presente simulacro rappresentativo di un popolo?In un deposito, in cui farsi un varco, aprendo il suo cubico interno. Un ripo-

stiglio di cornici, va bene. E si è subito distratti da questi vuoti quadri appesi a stampelle in diversi stili. Ecco quello in stile: così vi prego. Ha le aste piatta-mente fronzute, in cui si appare nel rispettivo specchio di legno, ritratto smunto, occhiuto a sorpresa, quando si fa strada goccia a goccia la singolare voce di ragno (dal regno dei ragni?).

A proposito, che ora è?In quanto si fa sentire un momento l’ora del polso, arrossata in un punto

venoso da penetrante lancetta dopo lancetta. Un segno per tornare in sé. L’ora dell’uno.

Bruno Conte

Da sinistra, Mario Lunetta, Pasquale Stoppelli e Nino Borsellino durante una presentazione di “Fermenti”.

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di Marco Palladini

Zio e nipote

Tra il rimorso e il rimosso risuona lieve la Blue Note, la nota malinconica della vita, forse della vita di ognuno. Come una improvvisazione free jazz, tra dolce e rabbiosa, tra ottusa e luminosa, tra invitante e declinante. Come una corsa defatigante alle prime ore dell’alba, col fiato sempre più ansimante per svuotare il cervello dei pensieri. O come un lungo tramonto con colori rosso vivido che via via stingono nel nero tenebra della memoria.

Fabrizio Carbetti non è più un pischello, ha superato da un po’ i cinquanta, ma si ostina con i jeans dilavati e stracciati e il ‘chiodo’ sdrucito a conciarsi secondo un esuberante ragazzotto, sempre (apparentemente) a kazzoritto. Sta raggiungendo Rocco Manitano, un nipote ventenne che lo ha invitato ad una serata rap dove si esibiranno, tra gli altri, Club Dogo, Mondo Marcio, Marracash e CaneSecco. Il rap non gli piace, ma tempo fa ha avuto una discussione con Rocco.

Il nipote gli diceva: “Voi rockettari del kazzo siete fortunati”. “Ah, sì, e perché?”. “Ma perché il rock non finisce mai. Nel rock la vita si prolunga, secondo me

indecentemente, attraverso i decenni. In giro ci stanno ancora rockstar ultraset-tantenni, dei veri, osceni dinosauri, tipo i Rolling, McCartney, Neil Young, i Pink Floyd, Who, Zeppelin, eccetera, che non ne vogliono sapere di smettere, che non vogliono ritirarsi e godersi il loro resto di vita da pensionati miliardari. Conti-nuano ad esibirsi, svociati ed artritici, ripetendo inesausti se stessi. Vogliono morire sul palco, gli stronzi, con le parrucche, le dentiere, i lifting, tenuti su da non so più che mix di droghe e di farmaci energizzanti”.

“Ho capito, ho capito, ma poi che è, un delitto? Loro ancora si divertono, la loro vita è il rock, fuori dal rock non sanno fare altro e i fans sono ancora tantis-simi. Quando duri così tanto, un motivo ci deve essere. Forse la loro musica, i loro pezzi sono ancora dannatamente buoni e hanno superato la barriera del tempo. Sono diventati dei classici e loro sono delle ‘living legends’ come dicono in America. Voglio vedere i tuoi diletti rappettari a settant’anni”.

“Infatti, è questo il punto. I rapper a settant’anni non ci arriveranno mai. Già a quaranta un rapper sembra un tipo un po’ ‘suonato’, un anacronistico sfigato.Puoi, a quell’età, andare ancora a giro col cappellino da baseball rovesciato, la felpetta da tamarro, i tatuaggi in ogni dove, le catenone simil-oro al collo, il cranio rasato, i pantaloni oversize, le mutande griffate bene in vista sotto la cintura bassa e le Nike senza i lacci ai piedi, senza sembrare un vistoso, patetico coglione che cerca di far sopravvivere la sua mala e maleducata adolescenza? Puoi continuare a smitragliare sul palco rime di guerra e di scazzo come se fossi un teppistello di strada a vita?”.

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“Certo, che no. Ma è perché, come ti ho sempre detto, il rap fondamental-mente non è musica. Si fonda su basi ritmiche looppate e scratchate e dei giug-gioloni inkazzati che ci parlano sopra. Io qualche brano lo apprezzo pure, ma un disco intero di rap non lo reggo. Dopo un po’ ti fai due palle così”.

“Per un ragazzo come me è triste ammetterlo. Il rap è a scadenza come gli yogurt. In America pure gente strafiga come i Public Enemy è più o meno sparita, i vecchi draghi negri delle prime ondate hip-hop o sono morti o sono diventati boss e producer di nuovi rapper ventenni, o se ne sono andati in pensione anticipata”.

“E già gli va bene. Che poi me li ricordo quei video dove si mostravano tutti come dei supervanitosi e superkazzuti superpapponi neri, sbracati e arroganti, beoti e iattanti, circondati da decine e decine di zoccole seminude a cui fare gestacci e mimare con il bacino il movimento del coito. Il luogo prediletto dei rapper yankee mi pareva il bordello”.

“In Italia, però, c’è un’area rap con una coscienza diversa, dove la militanza rap ha un senso di rivolta politica”.

“Guarda, a parte qualcuno più sincero e ostinato, tipo Assalti Frontali, mi paiono tutti finti, gente che si mette in posa, che recita la parte del duro perché e finché gli conviene, ma è tutta fuffa, aria fritta. Almeno in America era tutto più autentico, parecchi dei rapper black venivano dalle gang criminali, gente con anni di galera e omicidi alle spalle, gente che veniva dai ghetti delle ‘inner cities’ dove la vita è davvero dura e ogni giorno a rischio. E poi c’era il fatto dell’orgoglio nero e dell’autodifesa contro il permanente razzismo che ogni anno ammazza centinaia di giovani neri e ne mette a migliaia in carcere. Lì mezzo secolo dopo Malcom X e Martin Luther King e mettici pure Muhammad Alì, anche se il Ku Klux Klan non si manifesta più come un tempo (ma c’è ancora), la guerra bianchi contro neri è più viva e attuale che mai. Ma qui che c’è? Dovreb-bero essere i figli degli immigrati, le vere tribù stradarole che pistano a sputare il loro odio rappando”.

“Qualcuno, in realtà, ce n’è”.“Non li conosco. Resta il fatto che sia il rock duraturo sia il rap a scadenza

o già scaduto alla fin fine sono funzionali al sistema, anche se non ci e gli pare. Incanalano rabbie e malesseri giovanili, e di fatto li neutralizzano, li narcotiz-zano, invece che accendere la miccia della necessaria rivoluzione. Noi cinquan-tenni siamo stati fregati nel medio periodo; voi ventenni precari siete, invece, stati fottuti in partenza. Com’è che non ve ne rendete conto?”.

“Ce ne rendiamo conto, ahivoglia se non lo capiamo. Ma non abbiamo speranze. Un altro mondo possibile non lo vediamo. La rivoluzione non sappiamo che cos’è. Utopia è una vecchia parola che leggiamo sui libri scolastici. Dietro di noi ci sono soltanto giganteschi fallimenti, disastri politici. Tutti vostri, peraltro. Mi dici che cazzo dobbiamo fare, a parte andare ai concerti che ci piacciono?”.

“Guarda, al prossimo a cui vai, ti accompagno. Per solidarietà ziesca”.

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Beatles o LesBeat?

LesBeat è una cover band che si è formata cinque anni fa. Una cover band dei Beatles, una cosa sinceramente non proprio originale. Di cover band beatlesiane ce ne sono a frotte in questo malnato spaese. Solo nella capitale se ne contano almeno una decina. Non diversamente dalla maggior parte delle altre cover band, i LesBeat hanno in repertorio le canzoni dei primi ellepì, quelli fino a fino a Help(1965). Quelli insomma dei pezzi che gli stessi Beatles eseguivano in concerto fino alla loro ultima apparizione al Candlestick Park di San Francisco il 29 agosto 1966. Del resto per gli stessi originali Beatles non sarebbe stato possibile rifare dal vivo brani come A Day in the Life, I’m the Walrus, Strawberry Fields Forevero Tomorrow Never Knows, se non riarrangiandoli completamente rispetto alla versione registrata. E si sa, invece, che il principio cardine delle cover band è esattamente quello di mantenersi fedeli, fedelissimi al sound originario, di riprodurlo filologicamente, usando i medesimi strumenti e, persino, la mede-sima amplificazione Vox d’epoca. Molte band vestono anche i medesimi abiti e ricreano le stesse acconciature anni Sessanta dei quattro di Liverpool. Perché l’intento è quello di reincarnarli, di produrre l’illusione, il miraggio di avere clonato i Beatles, di avere trasportato una cellula spaziotemporale dall’Inghil-terra di oltre mezzo secolo fa al presente. Ecco le cover band vogliono abolire il passato, lo vogliono rendere un eterno presente, lo vogliono cristallizzare in una bolla perfettamente anacronistica, ma che regala per quell’ora, ora e mezzo di concerto l’illusione di retrocedere nello spaziotempo. Ossia di ripresentificare un momento aurorale e aureo, felicemente sorgivo, splendidamente nativo del beat-rock che fu così allora e poi mai più, ma loro lo rifanno devotamente proprio per consegnarlo a un possibile, sperabile ‘per sempre’.

Certo, per chi guarda da fuori, sono cose patetiche o ridicole o menate addi-rittura deprecabili, ma per i cultori, cioè per gli addetti al culto beatlesiano sono i fondamenti del loro agire. Tale culto è, in tutta evidenza, un fenomeno parare-ligioso, un virus fideistico che pare trasmettersi di generazione in generazione, dai padri, ai figli, sino ai nipoti. La beatlemania esplosa nel 1963 dopo oltre cinquant’anni, grazie anche alle centinaia di cover band, è viva e vegeta e… canta, suona e balla e lotta assieme a noi.

Così, assolutamente la pensano Stefano De Mirtina e Giorgio Delgrossi. Il primo ha 25 anni ed è il bassista dei LesBeat col nome di Battaglia di ‘Paolino Hofner’ (lo strumento appunto di McCartney). Il secondo è un suo vicino di casa, un avvocato in pensione di circa settant’anni, fan della prima ora dei Beatles, che possiede tutti i dischi e i dvd del quartetto, compresi i bootleg in vinile da colle-zione. Delgrossi poi si vanta che lui assistette al terzo dei quattro concerti romani dei Beatles, che si tenne al Teatro Adriano, lunedì 28 giugno 1965 alle ore 16.30. Qualche suo vecchio conoscente smentiva la circostanza, ma lui prontamente, a richiesta, esibiva il biglietto d’ingresso di quel giorno, che però, secondo alcuni, lui si sarebbe procurato successivamente pagandolo salato a qualcuno

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che il concerto lo aveva visto sul serio. Che si trattasse di invidia marcia o di un tarocco confezionato ad arte, fatto sta che Delgrossi il biglietto ce l’ha e ti recita a memoria l’esatta scaletta dei pezzi suonati quel lontano pomeriggio. Inoltre tuttora porta in testa un berretto nero con la visiera, copia perfetta di quello che esibiva Lennon durante i concerti capitolini.

De Mirtina così inclina a credere ai suoi racconti e, comunque, lo sta ad ascoltare per ore quando Delgrossi ricama memorie sui dorati anni ’60 e sulla beatlemania. Delgrossi lo ricambia andando spesso ai concerti dei LesBeat e approvando il loro considerevole repertorio che include: I Feel Fine, She’s a Woman, I Wanna Hold Your Hand, I Saw Her Standing There, Help, Baby’s in Black, She Loves You, Love Me Do, Please Please Me, Ticket to Ride, Long Tall Sally, Twist and Shout, Dizzy Miss Lizzy, I’m Down, Can’t Buy Me Love, I Wanna Be Your Man, Till There Was You, Roll Over Beethoven, This Boy, I’am a Loser,You Can’t Do That, Everybody’s Trying To Be My Baby, All My Loving, A Hard Day’s Night, Yesterday, Rock ’n’ Roll Music.

Bene, ottimo, commenta, è pressoché il meglio di quello che loro suona-vano allora dal vivo e voi lo eseguite egregiamente, con grande fedeltà, anche nelle sfumature dei cori, dei controcanti e degli urletti. I compagni di De Mirtina si compiacciono del suo placet, presentandosi con i loro madornali eteronimi: Gionni Rickenbacker, Giorgetto Gretsch e Riccardino Ludwig.

Quando perciò è uscito il docufilm firmato da Ron Howard Eight Days A Week, incentrato proprio sugli anni della beatlemania furiosa, è stato inevitabile per De Mirtina e Delgrossi decidere di andarlo a visionare insieme. E dove? Ma naturalmente all’Adriano, che però oggi è un cinemultiplex e dell’antico teatro conserva a malapena la facciata esterna. Eh, sì, è cambiato tutto, che dispiacere, dice Delgrossi entrando. In ogni caso, il luogo ‘storico’ è quello e il docu si lascia godere sino al filmato finale, debitamente rimasterizzato, del concerto beatle-siano allo Shea Stadium di New York, il 15 agosto 1965.

All’uscita i due non possono non commentare quello che hanno visto. “Beh, che te ne è parso, Giorgio?”.“Che ti devo dire Stefano, tutto ben calibrato, ben montato, ma anche tutto

molto scontato, già visto e stravisto milioni di volte. Insomma nulla di nuovo”.“Sì, è vero, anche se dicono che c’erano alcune immagini inedite. A me

comunque è piaciuto. Per esempio, c’è quel momento in cui chiedono a John: ma perché urlano tutto il tempo? E lui prima dice che non sa proprio spiegarselo e, poi, che forse è come quando i tifosi urlano dopo un gol. La sola apparizione dei Beatles era come un fantastico, gigantesco gol nel mondo del pop-beat-rock. Che poi a strillare come ossesse erano per lo più le ragazze, ipereccitate e che si orinavano addosso, come fossero preda di un orgasmo isterico, sino allo sveni-mento”.

“Beh, certo, si sa, il rock e la musica dei Beatles avevano allora una formi-dabile funzione di derepressione e di catarsi erotica. Erano un richiamo sessuale

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fortissimo e irresistibile. Le ragazzine che urlavano stavano dicendo al mondo e a se stesse: voglio fottere, fottere, fottere, fottere e, ancora, bifottere, quadrifot-tere e strafottere senza fine… La musica beat-rock era come un simbolico mega-fallo che le trapanava tutte… Comunque, sulla beatlemania aveva, in fondo, già detto tutto, un film come A Hard Day’s Night di Richard Lester, poco valutato quando uscì nel 1964, e invece era una perfetta, ironica, ultradinamica e creativa rappresentazione della beatlemania colta in tempo reale, nel momento stesso in cui stava deflagrando. È divertente che adesso il regista Richard Lester ultraot-tantenne, ci racconti che la produzione gli aveva chiesto di girare la pellicola al risparmio, velocemente e senza sprecarsi, che tanto entro l’anno il fenomeno Beatles sarebbe finito. Mai profezia fu così comicamente sbagliata. Il film in Italia lo ribattezzarono sciaguratamente Tutti per uno, scambiando John, Paul, George e Ringo per i moschettieri D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis: però quel titolo apocrifo fu in un certo senso preveggente, Lester tra gli anni ’70 e ’80 girò ben tre film sulle avventure dei personaggi di Alexandre Dumas: The Three Muskeeters, The Four Muskeeeters e The Return of the Muskeeters”.

“Ma sai proprio tutto di questo regista inglese…”.“Non è inglese, è americano, nato a Filadelfia. In ogni caso A Hard Day’s

Night non è affatto invecchiato, dopo oltre mezzo secolo te lo puoi rivedere con piacere, come un videone musicale avanti-lettera e in bianco & nero, pieno di leggerezza ed arguzia. Non si prendeva sul serio e, te lo ripeto, diceva già tutto sulla beatlemania, il film di Howard da questo punto di vista non aggiunge nulla, anzi”.

“Okkèi, ma tu, invece, da beatlemaniaco della prima ora che cosa ti ricordi?”.

“Cosa ricordo? … Ricordo la tristezza della mia vita di ragazzino in quella Italia al principio degli anni ’60… avevo una famiglia modesta, stavo nella mia cameretta grigia a fare i compiti, c’era la scuola che non mi piaceva, anche se poi mi obbligavo a studiare, giocavo a pallone, ma non ero molto bravo, il massimo del pop che entrava a casa mia era Gianni Morandi (Fatti mandare dalla mamma, Andavo a 100 all’ora) oppure Mina (Renato) o Peppino Di Capri (Speedy Gonzales)… persino il Celentano di Il tuo bacio è come un rock, 24000baci e Stai lontana da me sembrava troppo moderno e trasgressivo con quel suo ancheggiare disossato e provocante alla Elvis Presley. Ecco Celentano introdu-ceva il corpo, un corpo animalesco, ipersessuato nella scena della canzonetta italica e già quello era uno shock nell’Italia democristiana, baciapile e sessuo-fobica di allora. Ma quando un mio compagno di scuola, Massimo Gecchi, che strimpellava la chitarra ed era avanti a tutti per gusti musicali, mi fece sentire i primi dischi dei Beatles pubblicati da noi, fu come se si accendesse una luce. Una luce colorata, anzi multicolore, un arcobaleno musicale che mi apparve una visione. Una volta Wim Wenders disse in una intervista che il rock gli aveva salvato la vita. Ecco, non so se a me ha salvato la vita, ma certamente il rock, in

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primis dei Beatles, me l’ha illuminata… la mia vita in bianco e nero di colpo si riempì di colori allegri, entusiasmanti. Sì, proprio nel senso dell’enthusiasmòsdel greco antico, del dio che filtra dentro di te, che ti indìa, e tu ti senti posseduto, come invasato da una energia che ti libera, che ti sollleva, che ti dischiude inedite prospettive, che ti apre un nuovo mondo. Ecco, è così che mi sono sentito quando ho scoperto i Beatles e, attraverso di loro, il rock. Oggi credo che sia impensa-bile una epifania musicale e insieme ideale di portata così totale, coinvolgente e sconvolgente. La beatlemania per milioni di persone come me è stata una sorta di rivoluzione interiore, di ri-nascita, i cristiani direbbero una metànoia, un cambia-mento radicale, dal quale non si poteva più prescindere…”.

“Sai Giorgio, ogni volta che ti sento riparlare di quei tempi, provo una invidia fottuta, perché tu e i tuoi coetanei allora c’eravate, eravate lì in tempo reale, mentre tutto questo accadeva, mentre nasceva… avete goduto in diretta dell’epoca d’oro del rock, del suo momento, come dicono i filosofi, aurorale…”.

“Lo so, e mi ritengo fortunato per questo… ricordo la trepidazione di tutti noi fans quando doveva uscire un nuovo disco dei quattro di Liverpool, e allora uscivano in Italia sempre in ritardo di settimane o mesi rispetto al Regno Unito e agli Stati Uniti… ma c’era comunque una febbre di attesa prima di acquistare… che so… Help o Rubber Soul o Revolver e non ti dico Sgt. Pepper’s, un vero delirio… perché avevi la sensazione di ascoltare una musica che era come una rivoluzione/rivelazione, di entrare in un mondo magico e incantato, dove grazia, fantasia e libertà si fondevano spontaneamente, quasi miracolosamente… Ecco, sì, i primi ascolti su precari giradischi d’epoca di quei long playing ti apparivano quasi un miracolo, ti facevano scoprire un universo musicale e ideale fino ad allora impensabile… forse gli stessi Beatles se ne rendevano conto solo finoad un certo punto… forse loro catturavano magneticamente certe energie, certi enzimi epocali e li trasformavano in note musicali, come fossero canali, medium di forze misteriose, il cosiddetto Zeitgeist, che li attraversava, che si esprimeva attraverso di loro…”.

“Sì, tutto quello che ho visto, letto e ascoltato di quel periodo corrisponde più o meno a quello che racconti… una ventata di rinnovamento, di palingenesi epocale che trovava nei Beatles i portavoce primi, l’avanguardia pop-rock che batteva il ritmo del proprio tempo di cambiamento radicale. Noi, lo so, siamo soltanto le lontane copie di tutto ciò. Siamo dei graffiti musicali sorti in un’epoca antitetica alla tua. Siamo una sorta di rimpianto… io del resto sono nato dieci anni dopo la morte di Lennon…”

“Sì, ma tu e i tuoi compagni non vi crucciate troppo. Quello che fate come cover band è bello, la musica non passa, la musica vive, rivive ogni volta che la si suona. Rifacendo così devotamente i pezzi dei Beatles oggi, voi in un certo senso li eternizzate, comunque li rendete nostri contemporanei… del resto, le orchestre che suonano Haydn o Mozart o Beethoven, non fanno lo stesso? LesBeat è un atto d’amore, di vero, totale amore e come cantava Paul in Abbey Road: ‘And in

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the end the love you take / is equal to the love you make’…”.“Mi confortano Giorgio le tue parole… sai, sento da più parti ripetere che il

rock è morto e, forse, è vero, visto quello che passa la produzione attuale e allora mi domando se non non siamo dei necrofili, dei puri passatisti…”.

“Ma lascia perdere, è sempre vero e, insieme, non è mai vero. Il rock non sarebbe fatto per durare, eppure dura. Anche quando Elvis se ne andò a fare il servizio militare e indossò la divisa dell’esercito yankee, qualcuno disse che era la morte del rock ’n’ roll. O quando nel giro di poco tempo tra fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 morirono in sequenza Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, i giornali suonarono le campane a morto per il rock. E invece, secondo me, quello che aveva capito tutto e aveva fatto un passo nell’altrove che poi era il suo delirio, un delirio veggente, era Syd Barrett, il ‘diamante pazzo’ dei primi Pink Floyd. Lui, mercè i suoi viaggi allucinogeni, aveva ‘visto’ la follia della sua epoca, aveva compreso la vanità del tutto ed era andato via, aveva ‘stac-cato’ il jack della sua chitarra, la corrente degli amplificatori e si era rinchiuso nel silenzio, in un suo silenzio creativo, da ‘uomo vegetale’ come diceva in cui aveva forse trovato la propria ‘peace of mind’ o magari no”.

“Mi è sempre sembrata una storia molto triste quella di Barrett…”.“Chi lo sa… lui secondo me aveva realmente avuto una ‘visione’ inattingibile

da tutti gli altri, in primis dai suoi compagni di band… Lui era la vera mente crea-tiva del gruppo… l’esploratore verso lidi sconosciuti del rock e della psiche… canzoni straniate, suoni distorti, ossessivi, come a voler cercare una ‘lux eterna’ o il ‘buio assoluto’ che magari coincidono… un ellepì con i Pink, un paio di altri album solisti inclassificabili… un serie di esibizioni finali interrotte bruscamente dopo pochi minuti… forse lui sentiva l’insensatezza di tutto quello… il suo riti-rarsi, fu un ‘aprirsi’ a qualcos’altro che non sapremo mai che cos’era… è vissuto fino a sessant’anni senza inviarci altri segnali, altri messaggi… la sua mente era volata in un altro spaziotempo, in un altrove psico-cosmico da cui non si ritorna, da cui non si può più comunicare…”.

“È la cosa che personalmente mi spaventa, quasi mi agghiaccia, perché è come un incubo che è il contrario del sogno contenuto, rappreso nella beatle-mania”.

“Sì, Stefano, ma pure la beatlemania è finita, i Beatles si sono sciolti, il sogno colorato degli anni ’60 che loro rappresentavano, a cui davano voce musicale si mutò in qualche cosa di dark, di oscuro, in un malessere di cui fu avvertito per primo John Lennon, pensa alla sua The Dream is Over…”

“Quindi noi ‘coveristi’ sbagliamo tutto…”.“Ma no, tu sei un ragazzo intelligente, lo sai bene che è un’altra cosa. Vivi in

un’altra epoca. Tu riproduci un sogno che è, però, cosa ben diversa dal sognarlo e agirlo in tempo reale. Il sogno differito è, comunque, un atto poetico, ma nel segno del ‘ritorno del dolore’, la nostalgia. Rivivere un piacere contiene sempre al medesimo tempo il dolore per il momento primigenio di quel piacere, che

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quando lo vivi in diretta non sai che sta accadendo, lo vivi e basta, tu sei nell’ac-cadimento, coincidi con il divenire, sei nel puro flusso dell’entusiasmo. Quando lo riproduci è un replay, è sempre bello, ma il piacere è necessariamente depoten-ziato, perché sai già di che cosa si tratta, non è più una scoperta, è un riscoprire… ma va bene così, non ti dispiacere”.

“Okkei… siamo arrivati… allora ciao, e… noi quando ci rivediamo?”“Al prossimo concerto dei LesBeat, no?”.

Dee-Jay: le pare normale?

«Out of the Blue, sì, il pezzo dei Nude Vikings ce l’hai? Me lo dovresti mandare in onda con la dedica a una ragazza. Puoi prendere nota? Si chiama Gardenia, e io sono Spillo. Sì, basta così, lei capirà. Ciao… ah, sai che è proprio forte sta trasmissione. Ciao ciao, grazie».

Piero ‘Dj-Phantom’ Scansanti trascrisse meccanicamente i due nomi. La voce che aveva appena telescuffiato nelle sue auricole doveva appartenere a un ganzo di diciassette, diciott’anni massimo. Era una voce biascicata, di uno sbal-lato senz’altro, pensò. Una quaterna di primavere aveva festeggiato, si fa per dire, in quel buco di culo di studio radiofonico. Radio Galassia. Tutte le notti da mezzanotte alle tre e mezza a mandare avanti da solo la trasmissione “Dedican-zoniamoci”. Una cazzata. Me se l’era voluta lui. Una cazzata schiavizzante oltre-tutto, visto che era tra i programmi di punta di quella scassata emittente locale. Nonostante o, forse, proprio in ragione dell’ora di messa in onda.

In ogni caso, Piero era diventato in quattro anni un esperto di voci. Un vocio-logo. Quante migliaia, anzi decine di migliaia di favelle aveva dovuto ascoltare in tutti quegli anni? Oramai riconosceva le fonotipologie a volo: la zona d’ori-gine, l’età, il censo, lo stato psicofisico, persino se era la voce di uno o una che aveva appena chiavato e dedicava il brano all’amante ancora ansimante sdraiato accanto. Caso tutt’altro che infrequente. Il popolo notturno dei radioascoltatori era anche fatto di viziosi. Ciò lo attirava. E di maniaci. Ciò lo eccitava.

Chiamò Georgia, studentessa americana, voleva dedicare Janie’s Got a Gundegli Aerosmith all’amica Lilli che aveva giusto sparato ad un padre molesta-tore. Due in particolare erano i telefonomaniaci tuttora suoi assidui interlocutori. Una donna all’incirca sessuagenaria con voce asmatico-bronchitica cronica che vomitava alla cornetta il suo odio per i commercianti e per i froci. Torrenti di insulti ai primi perché la derubavano cotidianamente esentasse. Ai secondi non si sa perché. Non lo aveva mai spiegato. In compenso per gli uni e per gli altri inventava ogni volta supplizi terrificanti horror-medievali a base di arti segati, occhi bruciati, impalamenti, ingurgitamenti di cazzi e coglioni ancora sgoccio-lanti, soffocamenti con cocktail di feci umano-bestiali e via strapazziando.

Rullo chiese Jailhouse Rock, la cover incisa dai Masterpiece, per Vaniglia. L’altro era un machomaniaco quarantenne brutale e sicuro di sé. Un tipo inte-

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ressante perché si rivolgeva a Phantom secondo fosse una pin-up da telestuprare vantando la qualità pneumomartellanti della sua iperdotata nerchia, la possanza dei suoi muscoli, l’abilità della sua mano penetrante, persino l’afrore altamente erotico della sua secrezione sudorifera. Scansanti al principio aveva provato a dirgli che o aveva sbagliato numero o c’era uno sbaglio di persona e genere sessuale. Il fonomaniaco non se ne diede per inteso. Semmai raddoppiò la quan-tità e qualità delle sue avances. Un giochino che Piero dopo un po’ di telefonate aveva perfettamente inteso. Fingeva di resistere, di protestare per il piacere di sentirgli ruggire le volgarità più sporcaccione.

Non lo negava, no, che godeva molto nel sentire l’alito e la bava di desiderio sopra il suo fantasmatico corpo femminile: ti spanerò il culo fino a fartelo uscire dall’altra parte, ti leccherò quelle tette da maggiorata fino a fartele scoppiare, te lo infilerò per quanto è lungo giù in quella gola profonda da mangiacazzi mondiale che non sei altra e ingoierai litri e litri della mia sborra. Talora Piero si arrapava sul serio e metteva su un pezzo dedicato “ad un amico particolare”. Per esempio Sex is Murder degli Stones.

Era il 12 agosto, mezza estate, la canicola era davvero tremenda. Essendo sabato poi, la più parte degli ascoltatori si spupazzava il week-end fuori città. Ciò spiegava il numero relativamente basso di richieste di dediche. All’una e quaranta, Phantom innestò la segreteria telefonica, programmò una sequenza di pezzi di circa venticinque minuti e uscì dallo studio. Meta il pianobar dall’altra parte della strada. Conosceva più o meno tutti. Rapidi saluti, il solito gin liscio. Da Ricard, il barman, un giovane sveglio con i capelli sempre lucidi di gel e un orecchino d’oro al lobo sinistro, che ti allungava lo sprack, l’ultima droga sinte-tica di moda, con la stessa eleganza con cui ti serviva il Michelangelo Bourbon o la Caipirinha, si fece presentare le due nuove entraineuses.

Due nere: Jade, martinicana, treccine rasta e occhi furbi fissati a un sorriso davvero noctilucente, e Milla, nigeriana, tutta crespa e inguainata in un tubino sotto cui esplodevano due enormi chiappe ben divaricate. Scansanti trescò un po’ con la seconda. “Il tuo numero?”. “Non me lo ricordo. Però, Ricard lo sa”. “Me lo farò scrivere, allora, sul conto”. Intascato lo scontrino del ruffiano, uscendo promise ai nuovi acquisti del locale che avrebbe dedicato loro un brano molto luxurioso.

Ripreso possesso della consolle, sorridendo mise sul piatto Je t’aime moi non plus nella versione trucidissima degli Hard Squallors.

Ascoltò le telefonate registrate. Quattro richieste. La quinta proveniva da una donna. Ventisette anni più o meno. Nessun segno peculiare. Non voleva ascoltare alcuna canzone. Diceva soltanto: sono Bionca. Voglio che mi richiami. Il mio numero è 00-97-24.

Creature femmili cuori solitari o corpi in calore che cercavano l’aggancio non erano mai mancate. Nessuna tuttavia lasciava così d’acchito il suo numero telefonico. Piero che da sempre si barcamenava tra il gusto anche morboso di

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andare a scoprire il gioco altrui e la preoccupazione di non ficcarsi in storie rompipalle, con una delle tante matte col botto e machoprive che ti armano solo casini, restò lievemente spiazzato.

Voglio che mi richiami. È una abituata a comandare questa, si disse. Un tono quasi che non ammette repliche. Sarà una donna in carriera o una soldatessa, sghignazzò. Bionca, Bionca: ma non è il nome di una pornostar specializzata nella linea “anal”? Altra richiesta. Tunnel of Love di Bruce Springsteen per Herri da Tamara. Decise di richiamare.

Al sesto squillo il clic di una telesegreteria: sapevo che avresti richiamato, non sei un tipo difficile da agganciare. Del resto, ti ho studiato, ti conosco bene. Soprattutto conosco il tuo segreto, ma non ho fretta. Avremo tutto il tempo per… Ah, piuttosto: è inutile che cerchi di scoprire la provenienza delle telefonate. Dispongo di un sistema-pirata per strumentare le linee altrui. Potrei chiamare da qualsiasi posto. Da un altro continente, ad esempio. O da un altro pianeta, chissà… Ciao maschione minchione, o no? ah-ah-ah-ah-ah! Clic.

Ma è la stessa voce di prima? si chiese Phantom. Aveva a sua volta registrato il messaggio e lo riascoltò due volte prima di concludere che, sì, la radice fonica era la medesima, ma stavolta c’era una particolare vibrazione metallica. Forse usa, pensò, dei filtri distorsori, roba comunque da specialisti.

Erano le due e tre quarti. Nessuna richiesta. Il caldo quasi trasudava dalle pareti dello studiolo. Mise sul piatto Mondo mongoloide, il pezzo che preferiva dei suoi amici Pistole di Mezzanotte. Hard-core funk ’n’ roll puro.

Il segreto? Ma a quale segreto alludeva questa Bionca? Era forse una traccia quell’ironico e dubitevole riferimento alla sua maschioneria? Forse parlava del fatto che mi piace andare con i mulatti transessuali? Ma che segreto è, visto che lo condivido con molti amici e conoscenti? Questa città è stata sempre e soltanto un immenso trojaio. E io, ormai, l’ho, come dire, completamente introjettata. Donne o trans riesco a scoparli solo se li pago. È così e non c’è altro da dire. Me ne sbatto di farmi psicanalizzare. È roba da strizzacervelli di cent’anni fa. Fottetevi strozzaencefali!

A venticinque anni appena compiuti, Scansanti storicizzava già con preci-sione la sua carriera sessuale. Sverginamento o iniziazione a quindici anni e tre mesi. Sì, un po’ tardi. A dire il vero sono stato precoce in nulla. Fino ai diciotto anni e mezzo, rapporti più o meno regolari con sei fidanzate. Il più o meno si rife-risce al fatto che ogni volta dovevo fingere che era la prima volta che scopavamo, così inventavo complicati rituali di finzione. Quando non funzionava o qualcuna di loro si scocciava, grandi litigate e per settimane neppure ci sfioravamo.

Poi dai diciotto e mezzo ai diciannove e mezzo la grande folgorazione. Lei aveva circa trent’anni. Separata con casa disponibile. Si trombava tutti i giorni, ragazzi!, due, tre, anche cinque volte. Un ossessione. Lei aveva il mito del sesso. Poverina, s’era liberata tardi. Illibata fino al matrimonio e s’era sposata a ventitre anni. Voleva mangiare sesso a colazione, pranzo e cena.

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Credo che facesse anche degli spuntini senza di me. Inesauribile. Io dopo un anno ero esaurito invece. E poi senza i miei rituali mi sentivo espropriato, mi annoiavo. Faceva tutto lei. Così naturale, così abominevole come scrive il poeta. Le feci conoscere un mio amico che le sbavava dietro e mi sganciai.

Astinenza totale per sei mesi, poi una sera festeggiando il compimento dei vent’anni e della prima casa, gli amici mi fecero recapitare a domicilio un bel puttanone biondo: maxitette, volgare al punto giusto, gioielli falsi, risucchio “high professional”. Ci presi gusto. Pagare e comandare. Comandare per fottere. Niente più implorare e contrattare sul filo del ricattino sentimentale. Patti chiari, denari contanti e sesso lungo.

Tre e zerocinque. Un ganzo insonne con la voce impasta dall’acido chiede Psychedelic Blood dei Cramps.

Dunque, Phantom e il trojaio. Un capitolo lungo cinque anni. Arricchito dalla partecipazione a un paio di film porno. Solo come comparsa. Purtroppo. In uno, a dire il vero, si vedeva di scorcio e di lontano il mio uccello spompinato per cinque secondi. Comunque, avevo bisogno di soldi e il regista era un amico e un pornoset è un luogo anche divertente. C’erano per esempio due eccitatrici, anzianotte e maiale la loro parte, che provvedevano con acconce stimolazioni manual-boccali ad arrazzare gli stalloni meno esperti e professionali prima delle riprese. E si dannavano e sbuffavano le vecchie troje aizzate dalle bestemmie del regista, a sua volta arronzato e sturbato e sollecitato dal produttore, un giovane laido e ringhioso figlio di puttana, che aveva gran fretta di concludere con un po’ di scopate, qualche ammucchiata e via.

Ancora due richieste alle tre e un quarto. Una addirittura per Rod Stewart, vero pop-rock d’antiquariato, l’altra per i Plastika Bastardi Rompete le righe, non rompete i coglioni.

Per anni con l’amico Sandoz e quel lemure di Falco a dragare sistematica-mente i marciapiedi metropolitani. Sandoz aveva ereditato e pagava per tutti e tre. Il suo obiettivo strategico era di incularsi tutte le battone e i battoni della città, che aveva diviso in zone strategiche su una vecchia mappa militare che aveva appeso sul retro della porta della sua camera da letto. Era la prima cosa che vedeva quando la mattina si risvegliava. Conduceva la sua campagna di penetrazione sodomitica con rigore ed energia inflessibili, coniugando Sade e Von Clausewitz. Non ammetteva defaillances. Entrò in crisi Sandoz quando si rese conto che la papponeria riciclava con una certa regolarità gli effettivi della prostituzione, e che quindi il suo progetto era irreale, puramente maniaco-osses-sivo. La sera che bussò a quattrini, confessandomi di aver dilapidato l’eredità, litigammo di brutto. Con freddezza, com’è mio solito in simili circostanze, gli alitai in faccia la mia diagnosi. «Sei un pornomentecatto paravisionario. T’ho seguito negli ultimi tempi solo per noia e per vedere fin dove ti saresti spinto. Ora sei a zero e me ne strafotto. Ho un un suggerimento: fai la prova a rovescio. Mettiti tu a battere per vedere se riesci a farti tutti i culattoni di questa dannata

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città. Forse mi avrai tra i clienti ».Ci picchiammo. Gli spezzai un incisivo con l’anello testa-di-morto stile Keith

Richards che portavo al medio della mano sinistra. Con una testata lui mi fece un taglio sotto l’occhio destro. Ci separarono delle mignotte afro. Dopo quella serataccia non ci siamo più sentiti.

Tre e venticinque. In transito sul raccordo un camionista con radiotelefono e filo-underground chiede Dirty Candy di Jesus e Mary Chain. Mi viene in mente che l’altro giorno stavo seduto ad un caffè e c’era una signora ad un tavolino accanto al mio che all’improvviso ha fatto una mossa goffa e le è caduta per terra la borsetta da cui sono uscite delle chiavi, un rossetto, un portamonete e il tubetto di una crema antirughe. L’ho prontamente aiutata a raccogliere tutto e lei mi ha ringraziato con un sorriso sbiadito. Era una donna sulla quarantina con un volto tra interdetto e sconsolato: “Lei mi crede se le dico che quando la mattina mi sveglio e mi alzo, sono già stanca? Penso alla colazione da preparare, ai bambini da vestire e accompagnare a scuola. E poi al pranzo e alla cena da fare e, insieme, a dovermi truccare, vestire, essere impeccabile per mio marito, così che vorrei che fosse già sera per ritornare a dormire. Ecco, le pare normale pensare sempre a dormire, come unico piacere della vita?”. L’ascoltavo stranito e interdetto pure io. E non sapevo che dire, come risponderle. Lei insisteva: “Le pare normale?”. “No, certo. Magari è un periodo di particolare stanchezza… forse dovrebbe fare una vacanza”. “Sono anni che vado avanti così. Non ce la faccio più. Le pare normale?”. Quindi la donna si è infilata la borsetta sotto il braccio, si è alzata di scatto e si è allontanata senza nemmeno salutarmi. Mi sono sentito un po’ uno sciocco di fronte a quella moglie-madre, una donna qualunque, già sull’orlo di una crisi di nonsenso o persino oltre. Lei viveva la irrealtà di una quotidianità meccanica, ripetitiva, che in fondo, riflettevo, ci riguarda tutti. Riguarda anche il deejay che sono e che notte dopo notte mette in automatico dischi dedicati da degli schizzati ad altri schizzati.

Sono le tre e mezza, trasmetto l’ultimo pezzo richiesto: Baroque Bordellodegli Stranglers, da quell’album capolavoro che è The Raven. Mi sembra una conclusione punk perfetta. Il mondo è giusto un bordello barocco e privo di senso. E la percezione di una insensatezza panica ci sovrasta tutti. Rientrando a casa, mi arriva un sms: “Ti sto alle calcagna Phantom, ti tengo d’occhio. Sai che diceva lo scrittore Ennio Flaiano? ‘Coraggio, il meglio è passato’. Per te, sicuramente. B”.

B chi? Bionca? Bionca chi? E come ha avuto il numero del mio cell? È uno scherzo o una persecuzione? Comincio a preoccuparmi, mi accompagna la sensazione di un non so che di ancestrale in cui s’immerge e si spaura il male di vivere o disvivere non trovando mai un senso. Risento come un eco la voce atona di quella donna: “Le pare normale?”.

Marco Palladini

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di Gianluca Di Stefano

Il misogino

Per sopperire al nostro piacere abbiamo le cortigiane ; le concu-bine per la salute dei nostri corpi, e le mogli perché ci procurino figli legittimi e siano fedeli custodi delle nostre case(Demostene)

Come ogni mattina il pensionato Lucio si svegliò col sorriso, quello della sua dentiera affogata nel bicchiere riposto sul comodino accanto al letto, che pareva ammiccasse più irriverente delle altre mattinate. Guardò l’altra metà del letto che era vuota e poi lo sguardo si riposò sul tavolino da notte. L’effervescenza della pastiglia era ormai svanita e il liquido salmastro da cui ripescò la protesi dentaria non si discostava molto dall’atmosfera che poté percepire guardando all’esterno dalla finestra della cucina in cui si era diretto per prepararsi un caffè. Indugiò per un poco spiando le altre finestre dei condomini del vicinato, cercando quelle già aperte; una maliziosa curiosità lo spingeva quotidianamente a cercare di rubare frammenti di vita altrui sbirciando all’interno delle altre case, sopratutto nella speranza di cogliere nudità.

Riempì la caldaia d’acqua fino al livello della valvola si sicurezza, poi macchinalmente caricò il filtro inferiore della moka con la polvere di caffè del discount, lo introdusse nella caldaia, avvitò il raccoglitore e accese il fornello a gas. Poi si sedette in attesa che borbottasse, non essendoci una donna seduta nello stesso tavolino che facesse altrettanto. Lucio non si era mai voluto sposare, e si che di occasioni ne aveva avute; la Carla, un’amica di gioventù che abitava nel suo stesso cortile, e che gli aveva fatto il filo: un gran pezzo di ragazza, soda e di bella presenza, e sopratutto milanese purosangue. Ma lui niente, aveva la sua teoria. E la Giovanna, quando ormai lui aveva superato i trenta, una divorziata che aveva però due figli a carico. Nulla a che vedere con i suoi principi. Aveva fatto i suoi conti lui, già tanti anni fa, che di spirito era sempre stato parsimonioso. Si era chiesto se fosse più costoso mantenere una moglie, un’estranea di per sé, con vitto, alloggio, un’automobile, regali, parrucchiere, vestiti, visite mediche e tutto ciò che occorre al giorno d’oggi o spendere di tanto in tanto, alla bisogna, in meretrici per saziare l’appetito senza stagione di cui la natura ci aveva dotati. Ne aveva concluso che le puttane costano meno delle mogli. E poi avrebbe potuto ogni volta scegliere una donna diversa, e non subirne a casa le paturnie. Se fosse stato un bevitore sarebbe potuto tornare a casa ubriaco senza dover rendere conto a nessuna, ma spendere per bere gli era sempre parso uno spreco. Per strada poi, si sarebbe potuto girare, e così è stato, a guardare le femmine che facevano

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girare la testa senza che nessuna lo rimproverasse. Concluse che avrebbe potuto vivere senza una donna fissa accanto, pur se una «donna è soggetta all’uomo per la debolezza che ne contraddistingue sia il corpo, sia la mente» come gli aveva detto una volta l’amico di adolescenza che aveva ricevuto l’ordinazione di prete, citando San Tommaso. Sempre lo stesso amico, Don Giovanni, lo aveva messo in guardia citando Sant’Oddone di Cluny, Medidationes «Come mai chi rifiutadi toccare lo sterco o il pus di una piaga può desiderare di baciare una donna che è un sacco di sudiciume?» e San Bernardo «Se poni mente a ciò che ti fuoriesce dalla bocca, dalle nari, da ogni tuo meato, dovrai convenire che non c’è nessun letamaio più repellente del corpo umano». Ma su questi ultimi adagi Lucio non era affatto d’accordo.

I figli però...ecco cosa avrebbe voluto, ma dai figli non si prescinde da una moglie, almeno lui la pensava così, seduto da solo al tavolo della cucina in attesa che il borborigmo della caffettiera lo contraddicesse. Non c’era mai stata nessuna donna accanto che mai lo contrariasse e faceva ancora fatica a concepire che qualcuno o qualcuna potesse avere un’opinione diversa dalla sua.

Il caffè eruttò dal camino inondando il bricco, e Lucio si alzò per spegnere il gas e versarsene una tazzina che ripose sul tavolo: quindi si risedette davanti alla tazzina fumante, incrociò le braccia, e la testa tornò lentamente ad appog-giarsi al petto. In attesa che il caffè si raffreddasse aveva ripreso il dialogo con se stesso. Ripensava a quando all’oratorio, dove di quando in quando si recava essendo l’unico passatempo gratuito, Don Giovanni era di abitudine istruirlo sulle verità della fede religiosa, citando il Vangelo: «La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio», e dopo Timoteo i Corinzi: «Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio»; quindi con l’amico, concordava anche. Ne risultava un catechismo curioso, ma lui non sapeva con chi altri parlare; con le prostitute c’era poco da ciarlare. Poi aveva fiducia nel suo amico, meno quando lo vedeva giocare con i bambini, impegnato con troppo ardore oltre l’ordinaria missione. Ma era pur sempre un suo amico, e non gli aveva mai chiesto soldi in prestito.

«Chissà che fine avrà fatta?» pensò. Dopo che era stato trasferito, sposta-mento di routine si disse, ne aveva perso le tracce. Gli sarebbe piaciuto andare all’oratorio e parlare un po’ con lui. «Ma ormai appartiene al passato» concluse, ma, poi si disse «il passato è finito quando lo dimentichi, e allora anche Don Giovanni faceva ancora parte della sua vita».

Intanto la temperatura del caffè si era abbassata; andò alla finestra e sbirciò ancora verso le altre finestre, ma non gli si offriva nulla di interessante. Le strade iniziavano a brulicare di mezzi e uomini come un formicaio dopo la pioggia, come ogni mattina da quando era nato. In fondo Cristo non era ancora nato, e si racconta che le cose andassero già in questo modo. Il caffè gli parve amaro, e aggiunse un poco di zucchero. Pensò che la quantità di dolcificante che aveva

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messo nella tazzina era la medesima di ogni mattina, e che forse era la sua perce-zione del gusto che stava cambiando.«Si cambiano opinioni, gusti ma solo le donne ti rimangono in testa» rimuginò «a tutte le età; forse anche loro con perce-zioni diverse. Le donne come le tazzine del caffè...» ghignò della sua trovata e si compiacque che nessuna donna potesse sentire i suoi pensieri.«Chissà se esistono donne che possono ascoltarti i pensieri ?» si domandò «Non certo quelle che frequento io». Ghignò di nuovo tra sé, ancora più soddisfatto delle sue arguzie. Era in vena di filosofeggiare. Si ricordava dei suoi studi e di come suffragasse il suo amico sacerdote con le citazioni che ricordava anche lui, come ad esempio Aristotele quando dice che la donna è materia, esclusa dal logos, mentre l’uomo è spirito. Non voleva essere certo da meno del suo compagno di un tempo. Sorseggiò ancora del caffè e si disse che amava il silenzio attorno. Se ci fosse stata una donna non sarebbe certo stato così. Le donne, pensò, ignorano ciò che diceva Sofocle «Alla donna il silenzio reca grazia»…

Si alzò a riguardare alla finestra sempre nell’attesa che qualcosa accadesse. Ma nulla accadde. Si accorse che in bocca avvertiva un sapore amaro, nonostante avesse aggiunto dello zucchero in più. Si sentì anche imperlare di sudore la fronte, nonostante non facesse caldo. «Ci fosse almeno stata una donna accanto» pensò ritrattando quanto finora sostenuto «mi potrebbe essere d’aiuto». Ghignò per la terza volta, ma questa volta le labbra si sforzarono.

Si risedette per prendere fiato, incrociò nuovamente le braccia, e la testa tornò lentamente ad appoggiarsi al petto. Una bava biancastra, come il liquido salma-stro da cui aveva prelevato la protesi dentaria, si riversò dall’angolo sinistro della bocca; pareva un ultimo ghigno nell’atto di citare Napoleone, con quelle ultime parole che stava per proferire: «Il faut que les femmes tricotent».

Primo appuntamento

Un’ora dopo si aprì nervosamente il portone e Gatsby, vestito di flanella bianca, con la camicia color argento e la cravatta color oro, entrò di corsa.Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby

Dopo il terzo bicchiere, già mi trovosulla Gran Via.Li Po

Dopo il terzo aperitivo tutto è possibile. Vorrei che chiunque fosse contento di avermi incontrato, e al mal di testa ci penserò domani: con una bustina di ibuprofene sarò come nuovo. Certo avrò difficoltà a dormire e mi sveglierò con nausea, secchezza in bocca e gola e odierò la luce e il maledetto cane del vicino

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che sembra sia stato programmato per torturarmi. L’indomani i Negroni sareb-bero stati solo un brutto ricordo.

Speriamo ne valga la pena. Sono su di giri, forse è anche la bamba, una sola striscia stesa sul vetro dello smartphone, ma ora non l’ho con me. Non la conosco ancora bene, potrebbe prenderla a male.

Parcheggiare in zona darsena non è un’impresa da poco; meno male che la Smart si infila dappertutto.

«A proposito di infilare dappertutto, Alice è proprio un gran pezzo di ragazza!». Mattia si girò per ammirarla, non prima di essersi guardato i pettorali pronunciati e depilati visibili dall’apertura della propria camicia.

«E’ proprio bella» le sorrise compiaciuto per entrambe le visioni e per averci messo poco tempo a trovare un parcheggio in zona Darsena, di venerdì sera. Mattia camminava sfiorandola per via Vigevano dove, per un colpo di fortuna, aveva trovato un buco grazie ad un’auto che si era appena immessa nel flussostradale. I tre Negroni se li era scolati al bar con gli amici, vantandosi della serata che lo attendeva. Lavorava ormai da tempo con Alice negli uffici della stessa ditta e l’aveva subito adocchiata. Dopo averci lavorato pazientemente era finalmente riuscito ad invitarla per trascorrere una serata insieme. Imboccarono a piedi via Gorizia e presto girarono in Ripa di Porta Ticinese dove una moltitu-dine di locali illuminati costeggiavano le due sponde del naviglio, le cui acque verdognole assumevano un’apparente eleganza notturna. Un barcone addobbato da lampade illuminate come un albero di Natale galleggiava inerme nonostante la folla lo calcasse alla maniera di un natante sovrappopolato da profughi. Era venerdì, ma la Milano notturna non distingueva i giorni sella settima, essendo un eterno brulicare di uomini e mezzi per ogni via come larve della mosca nel formaggio. Mattia, dopo l’ultimo tiro alla sigaretta, e dopo averne gettato in terra la cicca, calcò le mani in tasca come a cercare qualcosa da dire; trovò solo lo smartphone. Camminava come se avesse smarrito il cammino, fuorché avesse sempre pensato che una strada giusta per lui non esistesse; guardò ancora la ragazza, che indossava un vestitino corto di cotone leggero con motivi geome-trici variamente colorati, poi mirò l’intorno. Si ritenne un perdigiorno di strada, che sorride alla gente che incontra.

L’energia andava e rimontava, a fiotti caldi nelle arterie. Aveva sete, ancora.«Beviamo qualcosa?». Guardò i tacchi a spillo della ragazza ed è come se

li vedesse per la prima volta. Realizzò solo allora come il rumore del trafficoavesse finora coperto il ticchettio.

«Che ne dici?».«Volentieri. Potremmo entrare qui» rispose Alice indicando uno dei tanti

locali che si susseguivano per la via. Entrare fu più facile che districarsi all’in-terno, dove una moltitudine di persone gremiva ogni angolo del bar. Prese per mano la ragazza e puntò il bancone con la determinazione di un giocatore di rugby, ed a forza di malleabili spallate vi giunse.

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«Cosa bevi?» le chiese.«Uno spritz andrebbe proprio bene».Mattia intercettò con sguardo supplice il barista che, dopo qualche minuto di

attesa, si presentò gongolante.«Ciao ragà, che prendete?».Il caldo nella massa iniziava a farsi sentire. Il ragazzo aveva sete, un’arsura

inestinguibile.«Uno spritz e un negroni, grazie».Dopo che Mattia afferrò i bicchieri innalzandoli come un profeta per evitare

gli scossoni ad altezza gomito, si allontanarono di due passi dal bancone e si posizionarono nella figura immaginaria tracciata dalle quattro piastrelle trovate libere.

Le porse lo spritz con fare affettato.«Alla tua».«Alla nostra» le rispose Alice, utilizzando le donne il plurale con più dime-

stichezza degli uomini. Bevvero un sorso.«Hai una certa grazia nell’avvicinarti il bicchiere alla bocca » le disse il

ragazzo, sinceramente.«Sai, ogni azione, piccola o grande, deve essere eseguita con grazia, con

buona intenzione, a partire dalle piccole cose».«Approvo. Le azioni sono basate sulle intenzioni. Se vuoi bere uno spritz

devi allungare la mano per abbrancare il bicchiere. La stessa cosa accade con l’amore: se vuoi conquistare una donna devi bussare alla porta del suo cuore, e se non si apre devi continuare a bussare. E magari aspettare per anni...».

Il volume della musica all’interno del locale era alto, ma Mattia sperava che la ragazza lo avesse udito bene. Quando i bicchieri furono vuotati Alice mani-festò la volontà di andare alla toilette.

«D’accordo» le disse. «Se non ti dispiace, io ti aspetto fuori, così intanto mi fumo una sigaretta». Attese qualche secondo che la ragazza si incamminasse verso il bagno, che nelle serate dei locali milanesi, con le dovute proporzioni, è un tragitto paragonabile all’esodo del popolo eletto verso la Terra Santa o alla partenza per le vacanze estive: non sai mai esattamente quali imprevisti troverai e se riuscirai a raggiungere la meta, e dopo si diresse verso l’uscita sempre incal-sando come un rugbysta.

Una volta fuori si accese una sigaretta, che placò per poco la sua irrequie-tezza. Prese a fumare con veemenza a boccate profonde, tant’è che la bocca gli pareva insensibile, quasi anestetizzata. Più in là due automobilisti si insultavano per contendersi un parcheggio, la maggioranza pigiava sul clacson dando sfogo a primordiali istinti musicali, strumentando una danza tribale di auto. Attraversò la strada e e si posizionò sullo stretto marciapiede in testa alla riva verticale; si appoggiò con i gomiti sul parapetto in ferro e guardò l’impercettibile corrente del naviglio, l’unico ad essere indolente. Quando percepì il gusto della siga-

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retta alterarsi ne gettò il mozzicone appoggiandolo sul pollice e lanciandolo con l’indice. Ne osservò la traiettoria parabolica, e poi la brace in punta spegnersi mentre affondava nella semioscurità; una vampata di caldo lo fece sudare, anche all’aperto. Si sentì chiamare.

«Mattia!». Alice era uscita dal locale, e stava controllando lo smartphone.«Aspettami lì, che arrivo io».Percorsero sempre la stessa via sfiorandosi.«Mi stavo già sentendo da sola, sai».«E’ normale nella ressa; capita anche a me spesso. Per me dieci persone sono

già una moltitudine».«E’ vero, credo sia più facile percepire la solitudine quando si ha molta gente

intorno, che quando si ha nessuno vicino. Quando invece si è soli si impara ad apprezzare i propri pensieri, che ci fanno compagnia».

«Vero...ma parliamo di cose serie: hai fame?». Lui non ne aveva affatto. Così era la coca, a volte lo assaliva una fame chimica, in altre occasioni era del tutto inappetente. Ma non poteva di certo dirglielo.

«Si. E tu?». Mentì: «Anch’io».«Guarda, non ho prenotato nulla, non conoscendo i tuoi gusti». Mentì anche

in quest’occasione.In realtà si era ripromesso al bar di telefonare e prenotare, ma un po’ il

coinvolgimento della compagnia, un po’ per i tre negroni e la striscia, se ne era completamente dimenticato.

«Tanto qui è piano di trattorie, ed una vale l’altra. Proviamo ad entrare e incrociamo le dita..».

«D’accordo».Quando uscirono dalla quarta trattoria erano sfiniti, più per la delusione che

per la fatica.«Se vuoi lasciamo perdere, io mi accontento anche di un panino» disse Alice,

perché anche a lei in fondo l’appetito stava passando.«No, non se ne parla nemmeno. Che figura ci farei con te? Al primo appun-

tamento poi..».«Ma non me ne importa, davvero».Mattia si arrestò tra l’insegna del locale della trattoria da cui erano appena

usciti e la successiva e la guardò; intanto la vita frenetica in strada ed all’interno dei locali proseguiva, incurante di loro, e sarebbe proseguita per tutta la notte. Poi con spossata dolcezza le disse:

«Sai, non ci si conosce finché non si ha bevuto e mangiato insieme. Dobbiamo finire ciò che abbiamo iniziato. Dai, facciamo un ultimo tentativo».

Gli era venuta in mente un’idea, uno dei tanti espedienti appresi alla scuola del bar, una storiella tra il reale e il mito che gli aveva narrato il Pino, e si ripro-mise di provarci.

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Quando il cameriere rispose anche questa volta che erano al completo, trasse lo smartphone di tasca, e fingendo di effettuare una telefonata lo appoggiò all’orecchio e, ad alta voce, con l’intento di farsi sentire il più possibile dagli avventori seduti ai tavoli, disse:

«Vieni è qui con un’altra!». Poi, sfidando gli sguardi, guadagnò l’uscita accompagnandosi con Alice. Appena fuori, in posizione ben visibile dall’interno, si accese una sigaretta.

«Anche qui tutto occupato...». Alice sembrò sconsolata. «Ma cosa intendevi dire prima al telefono?»

«Aspetta un attimo...» le disse rigirandosi il telefono nella mano libera, come se attendesse una chiamata. Alcune persone gli passarono accanto, frettolose e con lo sguardo basso.

Dopo qualche istante il cameriere che li aveva rifiutati uscì.«Signori, se volete favorire, si sono liberati tre tavoli».

Il misantropo

Non ero un misantropo o un misogino ma mi piaceva star solo. Si stava bene seduti tutti soli in uno spazio ristretto a fumare e a bere. Avevo sempre fatto ottima compagnia a me stesso.Charles Bukowski, Panino al prosciutto

Esiste in natura l’idea di Dio? Forse che i cani credono in Dio? Ma sono più protetti degli uomini: provate a sferrare un calcio ad un cane e sarete immediata-mente denunciati alla pubblica autorità da peripatetici di periferia e associazioni protettrici di qualsiasi bestia vivente. Nessuno vi biasimerebbe se lasciaste affon-dare profughi, magari di colore, in balia di marosi al largo delle vostre coste, ma molti inorridirebbero se solo immaginaste stroncare la vita di una petulante zanzara. Non credono forse alcuni di questi uomini in un Dio, magari il vostro stesso Dio? L’impiegato di quinto livello Alfonso Malgrati invece, nel momento in cui scese dall’auto, parcheggiata a lato dell’aiuola come faceva tutte le sere rincasando dal lavoro, avrebbe sterminato qualsiasi cane esistente sulla faccia della terra ed i loro insulsi padroni: «Voi.. voi che fate defecare impunemente i vostri canidi sui marciapiedi e nelle aiuole, siate dannati!» così imprecò a denti stretti con tutto l’odio possibile, sollevando il piede sinistro che calzava un nuovo mocassino marrone scamosciato, la cui suola aveva impudentemente e involon-tariamente affondato nelle deiezioni di un quadrupede smodato. Adirato riflettèche se dalle impronte delle orme ci si può fare un’idea della corporatura dell’es-sere, così dalle dimensioni del deposito stradale si potesse fare altrettanto.

«Luridi cani!» inveì ancora generalizzando l’insulto per animali e uomini. Alfonso non aveva mai avuto molta stima del prossimo, a prescindere della

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specie a cui appartenesse. Se avesse avuto in mano una qualsiasi arma da fuoco ne avrebbe scaricato le munizioni sul primo essere incontrato. Cercò di pulire la suola strofonandone la superficie con moto pendolare sull’erba dell’aiuola, nella speranza di non aggravare il problema per qualche mina dissotterrata. Lo sguardo cadde sulla targa della sua auto che terminava con un numero dispari. Quel giorno potevano circolare solo auto con targa dispari, l’indomani con numero pari. Una delle soluzioni pensata dall’amministrazione cittadina per limitare il forte inqui-namento che attanagliava la città nel secco novembre.

«Dovremmo uscire di casa a giorni alterni; un giorno io ed il successivo la gente» pensò convinto.«Luridi cani!» continuò a imprecare «Il diritto di soppri-mere tutti quelli che ci infastidiscono dovrebbe figurare al primo articolo della costituzione di qualsiasi stato che si definisca civile». Poi si decise ad incammi-narsi verso il portone di casa appoggiando il piede sinistro solo con il tallone, deambulando lentamente come uno sciancato; scartò altri depositi fecali sul marciapiede procedendo a zig-zag e per poco, sulle strisce pedonali, non fu inve-stito da un’auto. «Fanculo!» si salutarono vicendevolmente certi delle proprie ragioni, dimenticandosi subito dopo dell’avvenimento perché odiare tutta l’uma-nità gli era sempre parso più semplice che odiare una sola persona. Aprì con la chiave il portone e ne varcò la linea pregustando un senso di sicurezza, imboc-cando la rampa delle scale ed ignorando l’ascensore. Prima si tolse la scarpa e la sollevò per la linguetta tra il pollice e l’indice, e ne fu disgustato per il fetore. Alfonso amava gli ascensori, perché gli permettevano di salire le scale a piedi senza essere disturbato da nessuno. Salì come sempre i gradini a testa bassa per evitare incontri con i condomini certo che non ci possa essere più infelice su questa terra di un misantropo costretto a vivere in un condominio. L’ascesa fu scomoda a causa del piede scalzo che gli trasmetteva una sensazione di freddo per tutto il corpo. Quando raggiunse la porta percepì il trillo del telefono fissoproveniente dall’interno del suo appartamento; sperò che fosse qualcuno che avesse sbagliato a comporre il numero, o qualche operatore pubblicitario, ormai gli unici a disturbarlo sulla linea fissa, a cui staccare la linea in faccia. Non aveva mai amato rispondere al telefono, e decise di lasciarlo squillare. Posò la scarpa capovolta sullo zerbino e si accinse ad entrare. «Sono un asociale» si disse fieroe ormai sicuro di entrare in casa senza aver incontrato nessuno «E pensare che alcuni da bambini si creano pure l’amico immaginario! Non ne hanno a suffi-cienza di scocciature che sentono l’esigenza di crearsene da soli...». Entrò, solle-vato e sollevando la scarpa immonda, poi richiuse la porta dietro di sé appagato come un’anima che entri in paradiso, e chiudendo l’icidente: «L’inferno sono gli altri».

Gianluca Di Stefano

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Garrula narrativa giovani

All’interno della proposta editoriale della Fermenti si colloca la collana “Garrula” diretta da Antonella Calzolari e dedicata a testi di e per giovani lettori. Nella sezione più spiccatamente attenta alla fascia adolescenziale si pongono in primo piano, oltre al piacere della lettura, la ricerca dell’autonomia e l’abilità nell’addentrarsi attraverso i percorsi della narrazione.

Per quanto riguarda i generi e le tematiche la collana si pone l’obiettivo di sviluppare la fantasia e sollecitare un certo gusto nei confronti di un concreto sostrato letterario. Accanto a testi prettamente giocosi o di invenzione trovano spazio, quindi, anche opere ispirate a tematiche della gamma più ampia, dalla poesia all’attualità, alla saggistica.

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Hai mai pensato all’infinito?di Chiara Albonetti1

L’infinito si può ritrovare in varie forme: in un paesaggio che ti riempie il cuore, nell’orizzonte del mare che sembra non finire mai, in una parola che apre ad immense possibilità o anche nel bene infinito che si vuole a qualcuno.

È molto affascinante pensare a qualcosa che non ha e che non avrà mai fine,anche se certe volte l’idea di infinito può sembrare un po’ soffocante, perché non c’è sicurezza, non si sa quali sono il punto di partenza e quello di arrivo.

L’infinito, non avendo una fine, più che altro si può immaginare e questo è uno dei suoi aspetti che amo di più. Fa entrare in gioco la fantasia, l’immagi-nazione, fa spaziare i pensieri e ci fa viaggiare in un mondo ricco di speranze, possibilità ed emozioni.

L’infinito si può anche ritrovare nel tempo. Per esempio quando non sappiamo cosa fare e ci annoiamo il tempo sembra non finire mai, mentre quando stiamo con qualcuno a cui vogliamo bene e ci divertiamo sembra che passi in un attimo. L’infinito è un modo per evadere dalla realtà ovvero da qualcosa di concreto. Esso, nella sua vaghezza e grazie alla messa in gioco dell’immaginazione, ci fa scoprire illusioni che, come affermava Leopardi, sono frutto della nostra fantasia, ma ci aiutano comunque a sopportare la vita.

Dell’infinito si può ragionare profondamente, dedicandosi a se stessi e pensando a quello che ci piace di più. Questa condizione ci dona pace e ci cata-pulta in qualsiasi luogo preferiamo. Nell’infinto, però, ci si può anche perdere,

1 Chiara, romana, frequenta il liceo classico e, citando Vasco Rossi, le piace studiare. Ama la musica, la cioccolata e gli amici. Da sempre ha mostrato un animo sensibile a ciò che sta oltre la superficie delle cose. Suona il pianoforte e studia danza e recitazione.

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perché magari ci si comincia a porre così tante domande a cui non si sa dare una risposta, fino a ritrovarci spaesati.

Molte volte, per esempio, mi è successo di chiedere a me stessa se veramente esistevo, se era una persona in carne ed ossa o se fino ad oggi avevo soltanto un lungo sogno. Penso che a tutti sia successo di porsi domande sulla vita e su tutto ciò che comprende. Tali domande mi sorgono soprattutto quando mi trovo davanti ad un orizzonte sconfinato, per esempio quando viaggio, con il mondo al finestrino.

Uno dei luoghi che mi fa pensare all’infinito è Ceri, una località vicino Roma, dove mi reco ogni anno per festeggiare l’anniversario di matrimonio dei miei genitori, che si sono sposati lì. Questo piccolo borgo, arroccato su una collinetta, è circondato dalla natura e da lì posso ammirare uno spettacolo che vale più di qualsiasi moneta e che mi suscita un’emozione indicibile.

In questa circostanza penso che, nonostante sia faticosa, la vita è veramente un qualcosa di stupendo, in tutte le sue forme, e che siamo fortunati a potercela e vivere in un mondo ricco di meraviglie.

Alcune volte vorrei che tutto fosse infinito, la nostra vita, tutte le persone al mondo, perché ci sono così tante cose da poter fare e poter scoprire … Soprat-tutto a volte penso che vorrei rimanere per sempre una ragazza o anche ritornare bambina e vivere nel mondo dell’ingenuità e delle speranze. Anche se poi quando ci rifletto mi rendo conto che è giusto crescere un po’ alla volta e cominciare a diventare maturi e responsabili della propria vita e che anche se magari non ci saranno per sempre l’apertura immaginativa e lo svago mentale della gioventù, essere adulti è bello, perché si possono compiere le proprie scelte e vivere molte-plici esperienze.

Credo che tutti noi siamo infinito e che anche se la nostra vita non lo è noi rimarremo infinitamente vivi, in un ricordo, nel cuore di qualcuno.

Noi siamo infinito perché ci sono dei nostri aspetti che neanche noi stessi conosciamo, che esistono ma essendo così profondi, così infiniti, sono difficilida catturare.

Noi siamo infinito perché siamo sempre noi stessi ma allo stesso tempo non lo siamo mai. Non c’è un’età in cui una persona è veramente definita. Qual è la vera immagine di tutti noi? Quando io sono o sarò veramente me stessa? Da bambina o da adulta?

Magari sempre, magari infinitamente.Chiara Albonetti

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Segni & segni“Fuoripagina”: opere e mostre della Collezione Roffi

di Giovanni Fontana

Durante il suo percorso, autonomo ed originale, ironico ed elegante, di indagatore edotto ed allenato alla pratica sperimentale della poesia sonora e visuale, sempre fuoripista, ma mai arrogante nella conduzione del gioco poetico, Gian Paolo Roffi (classe 1943) per circa quarant’anni ha tenuto rapporti con i maggiori esponenti dei più impor-tanti movimenti di ricerca espressiva che hanno tessuto la storia dell’avan-guardia in ambito internazionale. Come si può ben immaginare, nello studio bolognese dell’artista si è gradualmente raccolta, giorno dopo giorno, anno dopo anno, una preziosa documentazione fatta di libri e cataloghi, di riviste e fotografie, ma anche di ricchi carteggi e di numerose opere rispondenti ai criteri delle arti verbo-visuali. Da ciò è scaturita l’idea di costituire, dapprima un vero e proprio archivio visitabile (lo studio “Segni & Segni”), e poi l’ipotesi di mettere in mostra le opere raccolte, curandone gli aspetti espositivi in spazi particolar-mente interessati a questo tipo di sperimentazione, con il titolo “Fuoripagina”.

Roffi ha scelto lavori per lo più in formato A4 (quello più diffuso nella pratica dello scambio tra artisti), aggiungendo, alla prima serie della sua collezione, nuove acquisizioni ottenute grazie ad amichevoli scambi o rintracciate paziente-mente e faticosamente, e poi acquistate, con la precisa intenzione di documen-tare i percorsi di relazione tra le diverse correnti di ricerca, per poterne evidenziare le interconnessioni, artisticamente e concettualmente fondate, al fine di valoriz-zare il significato della raccolta nel suo insieme. Ne è venuta fuori una prima mostra al Museo di Arte Contemporanea del Novecento di Monsummano Terme [07 marzo – 02 giugno, 2015]; una seconda alla Spezia, nella storica Galleria “Il Gabbiano”, giusto in tempo prima della definitiva chiusura, avvenuta con la piena costernazione dell’ambiente della poesia verbo-visiva, che aveva eletto quello spazio a luogo simbolico per questo tipo di ricerche [19 novembre 2016 – 05 gennaio, 2017]; infine, con nuove acquisizioni, alla Fondazione Tito Bale-

Copertina del catalogo della mostra “Fuoripa-gina”, a cura di Pasquale Fameli.

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stra, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, nel Castello Malatestiano di Longiano [19 luglio – 15 settembre 2019], a cura di Flaminio Balestra e Pasquale Fameli; quest’ultimo curatore anche delle precedenti edizioni.

Per l’occasione è stato dato alle stampe un catalogo nel medesimo formato A4 delle opere esposte, che documenta l’intera collezione: centoquaranta opere per cento nomi, da quelli storici a quelli più recenti, incluso il mio.

Si tratta di un percorso unico, non certo esaustivo, che traccia, però, in maniera chiara il quadro della situazione della poesia sperimentale nella seconda metà del Novecento. Troviamo qui rappresentata la Poesia Concreta di Augusto e Haroldo de Campos, il Lettrismo di Isidore Isou, la Poesia Visiva del Gruppo 70, la Nuova Scrittura di Ugo Carrega, la Poesia Sonora, il movimento Fluxus, la Mail Art.

Si tratta di un contesto figu-rale sfaccettato, ricco di forme e di colori, dove il denominatore comune è costituito dalla parola: una parola, però, che travalica la concezione tradizionale di testo, ponendosi come elemento cataliz-zatore di ben più complesse tessi-ture di segni di estrazione diversa. Si tratta di texture in cui trama e ordito impegnano prospettive interdisciplinari, che spingono la parola “fuoripagina”, al di là dei vincoli della consuetudine libresca, anche se oggi, tutto sommato, non possiamo più considerare l’oggetto libro particolarmente penalizzante dal punto di vista formale e struttu-rale, considerati i grossi progressi del design grafico e dell’arte della stampa; siamo ormai da tempo

abituati anche alla pratica del libro d’artista, dove la parola vive e respira a pieno senza dover soffrire i condizionamenti della routine tipografica; del resto sta a dimostrarcelo il Discorso aritmetico alla fidanzata di Fortunato Depero e Giovanni Gerbino, del 1931, presente in mostra, dove si mette bene a frutto la nozione di rivoluzione tipografica espressa in area futurista.

In ogni modo, paradossalmente, il clima innovativo costituisce ancora un’ec-cezione nella pratica comune dei media, essendo la regola ancora molto legata a modelli di testualità tradizionali. Ciò è verificabile persino nel web, dove invece, date le enormi risorse dell’elettronica, si potrebbero raccogliere risultati migliori

Giovanna Sandri, Cifrare le previsioni, 1974.

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e di ben maggiore ampiezza. C’è una pigrizia mentale di fondo che stenta ad accettare il rinnovamento, proposto in questa chiave a partire almeno dal concetto baudelairiano di “correspondence”.

La sperimentazione verbo-visiva ha agito sinesteticamente negli ambiti più disparati, riuscendo a diffondere una produzione creativa di notevole consistenza, che ha saputo crearsi un pubblico curioso e competente. Partendo dalle tavole parolibere futuriste, la ricerca ha attraversato i territori più diversi, passando per la poesia oggetto, per il già richiamato libro d’artista, per le scritture interme-diali, per tutta la vasta gamma delle videografie e via discorrendo, fino all’at-tuale asemic writing. Nei social, tranne qualche GIF intelligente, imperversano le semplificazioni figurali del linguaggio attraverso l’uso degli emoticon; mentre si concede ben poco ad articolazioni verbo-visive e sonore di qualche qualità.

Sfogliare il catalogo, frutto della passione e della lucidità di Gian Paolo Roffi,significa ripercorrere in sintesi le più interessanti tappe della ricerca novecen-tesca. Emblematica la copertina, che ritrae Flipper (1972) di Corrado Costa, uno tra i più ironici ed irriverenti autori dell’area del Mulino di Bazzano, abituato a giocare con la parola scritta, detta o disegnata che fosse. Costa, anche disegnatore e performer, incarna perfettamente la figura del poeta sperimentale. Specialista nella pratica della lateralità, è il poeta delle sorprese, è l’autore di un capolavoro sonoro come Retro (pubblicata a mia cura nel 1992 su Baobab n° 21), una sorta di antipoesia sonora costruita comunicando con insistenza all’ascoltatore di aver sbagliato il lato della cassetta. “Questa non è una poesia. Questo è il retro”, dice Costa lanciando con insistenza il suo messaggio dal nastro magnetico. Ma il tentativo di dissuadere l’ascoltatore non raccoglie frutto: “retro / siamo nel retro del nastro / siete veramente dei testoni se continuate a insistere / bisogna voltare per ascoltare la poesia / questa non è assolutamente una poesia / questo è il retro / retro / ecc”.

La logica è identica a quella adottata da Paolo Albani nel suo Fuoripagina(2018), dove l’autore scrive: “Qui la poesia visiva di / Paolo Albani non c’è; / si è dileguata, furtiva, / fuori di questa pagina; / in attesa che vi rientri / sviluppate in libertà le / vostre fantasie oppure, / se lo ritenete più vitale / e corroborante per voi, / immaginatevi pure che / la poesia visiva di / Paolo Albani sia già di / fatto rientrata dentro il / breve spazio di questa / pagina e formi il testo / che avete letto ora qui”. È l’idea magrittiana di “ceci n’est pas une pipe”, dove si gioca con l’opposizione e sull’opposizione udibile/inaudibile, visibile/invisi-bile. E Albani ci regala anche uno Scacciapensieri portatile (2008), costruito secondo la modalità concreta, sottraendo alla parola “PENSIERI” una lettera alla volta, fino a spegnerli, questi pensieri, in una semplice “P”, e applicando in calce alla pagina indicazioni, controindicazioni e modalità d’uso: “leggere in caso di cattivi pensieri almeno tre volte al giorno, lontano dai pasti”. Mi viene da dire che funziona veramente!

Nella sequenza delle opere, raccolte in catalogo secondo l’ordine alfabetico

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degli autori, è possibile confrontarsi con una vasta gamma di trattamenti della parola o di processi di trasformazione. È presente il jeu de mots nell’opera di Massimo Mori, dove la parola-valigia “Librellula” suggerisce il distacco dalla pagina, della poesia che “vola via”, “fuori testo”, in quanto immagine dell’in-setto con le ali disseminate di lettere.

Si passa dalla ipergrafia lettrista di Maurice Lemaître alle cancellature concet-tuali di Emilio Isgrò. Una sua tavola senza titolo del 2014 assume valore partico-larmente enigmatico. Le cancellature investono una lettera di Vittorio Sereni che scrive, dalla Mondadori, a Paul Celan nel 1967, ma dove, tranne qualche parola affiorante che accende l’interesse, i contenuti restano un mistero.

Luciano Caruso invece adotta una sovrascrittura che mima la cancellatura in un lavoro del 1995, Jupiter sur son throne, mentre è ancora presente, con valore di ripensamento, di ripiegamento, di testimonianza del processo creativo, nelle opere di Roberto Sanesi e di Giancarlo Pavanello, nel cui lavoro risalta anche l’aspetto calligrafico, che spicca per la singolarità della forma. Al contrario, la grafia minuta e pressoché illeggibile di Vincenzo Accame (in Luogo linguisticodel 1989) rivela l’importanza della trama testuale, il cui valore sintattico figuraleassume il ruolo di protagonista, riconducendo le forme risultanti alla dimen-sione dell’asemic writing. Questa tipologia di scrittura è stata praticata per anni da Irma Blank, presente nella collezione con Global writing (2008). Di lei si occupò Gillo Dorfles, il quale mise in evidenza il fatto che nel suo caso il segno non è veicolo d’un concetto, ma veicolo di sé stesso. Il che riconduce ad un momento pre-linguistico e pre-semantico. Io credo che nel suo lavoro sia molto importante il valore del gesto, come lo è, ma con valore del tutto differente, nell’opera di Ugo Carrega. Qui, i suoi schizzi di colore, le sue tracce rapide sulla superficie rientrano nei giochi semantici, come in una delle tavole in collezione (Il mio sangue, del 1991), dove Carrega scrive “io sono colui che scrive”, con in premessa “io sono eterno”, accanto ad una strisciata di colore che potrebbe ben essere una traccia di sangue. È l’affermazione dell’essere e dell’esserci, con tutta l’estrema fragilità dell’uomo e la sua vana superbia.

Ma l’asemantismo si manifesta anche in altri tipi di scritture che si appog-giano a tecniche diverse, come la combinazione, la fusione o la disseminazione di ritagli di caratteri di stampa. È il caso di Signografia del 1969 dell’uruguaiano Clemente Padin, delle opere di Giovanna Sandri o degli Zeroglifici di Adriano Spatola, in un certo senso anche del monogramma Eva di Ladislav Novák (del 1974), dove il nome si scompone e si ricompone cedendo al puro gioco delle forme. E poi c’è ancora l’asemantismo nell’opera del ceco Jiri Valoch o in una tavola del tedesco Klaus Groh del 1996, dove minuti frammenti di caratteri tipo-grafici sono disseminati nello spazio, ma anche nel lavoro di Nanni Balestrini che rivisita le sue antiche “cronoscritture” (allora legate a precise chiavi di lettura politica) in chiave del tutto asemantica.

Sul versante opposto c’è una delle opere classiche di Mirella Bentivoglio, Il cuore della consumatrice ubbidiente (1975). Si tratta di una icona degli anni

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Pagine del catalogo: opere di György Galántai (1995) e di Giovanni Gerbino con Fortunato Depero (1931).

Pagine del catalogo. Opere di Geoffrey Hendricks (s. d.) ed Emilio Isgrò (2006).

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Settanta, dove il movimento elementare di una lettera deter-mina tutta la consistenza del senso: la “C” del marchio Coca [Cola], riprodotto a fronte della sua imma-gine speculare, racchiude al centro le tre lettere residue del logotipo che offrono, così, la parola “oca”. Quale migliore critica all’avven-tura consumistica di quegli anni!

Occupa un posto di rilievo la “poesia visiva” in senso stretto con le opere della compagine fiorentinadenominata Gruppo 70, ma già operativa fin dal 1963, qualche mese prima del famoso Gruppo 63.Lamberto Pignotti, che operò sui due fronti, ci offre i suoi classici divertissement. C’è un esercizio tautologico verbo-visivo di Eugenio Miccini (Il poeta incendia la parola, 2006), con evidente allu-

sione all’Incendiario palazzeschiano, dove il fuoco purificatore della poesia incenerisce l’inutile ciarlare e il dire serioso e conformista: “gli uomini ànno orrore delle fiamme, / gli uomini seri, / per questo ànno inventato i pompieri”. Ci sono le tavole di Michele Perfetti, di Lucia Marcucci, Roberto Malquori. Ci sono i genovesi Luigi Tola e Rodolfo Vitone, il napoletano Stelio Maria Martini, il gruppo dei torinesi Carla Bertola, Alberto Vitacchio e il maestro della poesia concreta e sonora italiana Arrigo Lora Totino. C’è lo zoccolo duro del gruppo spezzino: Fernando Andolcetti, con una delle sue divagazioni paramusicali, Mario Commone, con un testo di taglio concettuale, Cosimo Cimino che, con mitezza e ben lungi da simbologie aggressive, con la sua Giacchetta poetica(2016) sembra offrire un contributo complementare al dettato del manifesto del “Vestito antineutrale” di Giacomo Balla, pur rispondendogli in pieno quando proclama che gli abiti futuristi saranno “Gioiosi”. Il dettato è “Stoffe di colori e iridescenze entusiasmanti. Impiegare i colori muscolari, violentissimi, rossis-simi, turchinissimi, verdissimi, gialloni, aranciooooni, vermiglioni”! Completa la rappresentanza Mauro Manfredi con La parola avvolgente, un’opera del 1988, dove il nastro di carta che reca l’enunciato si avvolge su sé stesso. Si tratta di un’operazione di transcodificazione, nella quale un messaggio viene trasformato in un codice diverso da quello di partenza: operazione piuttosto frequente in ambito verbo-visivo. Nella collezione abbiamo un esempio di salto triplo

Gian Paolo Roffi, Recovered Words, 2014.

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Nanni Balestrini, Senza titolo, 2002-10.

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nell’opera di Eugene Gomringer intitolata Silencio, uno degli incunaboli della poesia concreta, che, in ragione del suo valore storico, raggiunge anche un quadro di riferimento intertestuale. La parola “silencio” è ripetuta in una struttura formata da cinque righe; al centro, però, viene omessa creando un vuoto, cioè un silenzio di ordine visivo. Ma in questo caso specifico l’opera è riprodotta in una foto-grafia accanto al suo autore che si porta l’indice alla bocca in segno di “silenzio”, operando, così, una conversione di segnali da un sistema simbolico ad un altro e transitando da un modello formale ad un altro.

In una simile chiave possono essere lette quelle opere che sono realizzate dando seguito all’enunciato di partenza, come accade, per esempio, in Fuera de la página (2014) dello spagnolo Bartolomé Ferrando, dove le lettere di una non ben definita parola abbandonano lo spazio della pagina per raccogliersi e sovrap-porsi l’una sull’altra in un angolo; o come in S’io fossi foco (1992) di Sarenco, il quale avendo la vocazione dell’incendiario (tutti hanno ben conosciuto il suo carattere forte, passionale, dirompente), brucia un angolo dell’opera stessa; o come in Dichiarazione di poetica (2001), dove Mauro Dal Fior scrive “e il naufragar m’è dolce in questo mare”: la dichiarazione è tracciata su un “mare” costituito da una pagina densa di nomi di poeti a lui vicini, tra i quali amerebbe confondersi per affinità elettive.

Pagine del catalogo: opera di Paolo Pasetto (1997-2008) e di Gian Carlo Pavanello (2007).

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Le tracce del suono, sia in chiave di partitura, sia sotto forma paramusicale, sono evidenti in molte opere, tra le quali citerei Il silenzio è oro da ascoltare (2008) di Tomaso Binga, Klare Erhöffnung (1984) di Henri Chopin, uno dei padri della poesia sonora, Dissonanze (2014) di Claudio Francia, Voce (2008)di Nicola Frangione, Ciclotimia (1987) di Gian Paolo Roffi, la mia Partition(2015), e poi l’affascinante costruzione a raggiera dell’americano Andrew Topel, Soundless (1984), il prezioso Andantino (1974) di Giuseppe Chiari, ma anche la tavola senza titolo del 1984 di Bernard Heidsieck, altro padre del sonoro, dove la scrittura scorre parallela ad un frammento di nastro magnetico, rendendo implicito il valore fonico e sostituendolo con la materialità feticistica del nastro stesso.

E poi ci sono molte altre presenze importanti, alcune delle quali hanno svolto un fondamentale ruolo teorico nell’arte del Novecento, da Julien Blaine a Jean-François Bory, da Ben Vautier a Alain Arias Misson, da Jirí Kolár a Joseph Beuys, passando per un maestro leggendario quanto enigmatico come Emilio Villa o per uno degli antesignani del concretismo come Paul De Vree, il quale nella sua Mata Hari (1970) cede alla tentazione del processo analogico, secondo una tecnica che fu di Apollinaire, trasformando la parola in immagine equipollente: le lettere del nome “Mata Hari” assumono forma e disposizione tali da comporre il ritratto della celebre spia.

Non potevano mancare l’americano Richard Kostelanetz, animatore di Assem-blings negli anni Settanta, i tedeschi Joseph Beuys, Timm Ulrichs e Jochen Gerz, l’inglese John Furnival, gli italiani Maurizio Osti, Nanni Menetti, Pablo Echau-rren, William Xerra, con un’opera del 1973 (Non c’era vento) appartenente alla ormai classica serie “vive”, indicazione che nel gergo del correttore di bozze ridà pieno valore originario a qualcosa che è stato modificato: una segnalazione che, sottratta alla sua funzione transitoria, si pone tra due possibili eventi testuali, ribaltando lo spessore della provvisorietà in favore di un fragile stato definitivo,che finisce per assumere, però, valore di terzietà preminente.

E non poteva mancare uno spazio dedicato alla Mail Art, disciplina che, pur con carattere di piena autonomia creativa, ha veicolato, con spirito interartistico e con soluzioni intermediali, opere di poesia visuale e concreta. Presenti in mostra lavori di Vittore Baroni, animatore e spirito inquieto della mail art, Ruggero Maggi, grande organizzatore di eventi, György Galantai, direttore dell’archivio Artpool di Budapest, il collagista belga Luc Fierens, Emilio Morandi, animatore di festival, Guglielmo Achille Cavellini, maestro dell’autostoricizzazione.

Il catalogo riporta in appendice l’elenco completo delle opere, con i dati tecnici e la dichiarazione esatta della loro provenienza, che non solo aggiunge un pizzico d’interesse storico, ma stabilisce un evidente tratto di rarità, in quanto risulta che il 50% dei lavori è stato appositamente eseguito per Gian Paolo Roffi.Stando alle sue intenzioni e dichiarazioni, la collezione è in fieri. Direi che c’è da aspettarsi a breve una nuova esposizione!

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ARTISTI PRESENTI IN COLLEZIONE

Vincenzo ACCAME, Fernando AGUIAR, Paolo ALBANI, Fernando ANDOLCETTI, Davide ARGNANI, Alain ARIAS-MISSON, Nanni BALE-STRINI, Vittore BARONI, Gianfranco BARUCHELLO, Alessandro BENFE-NATI, Mirella BENTIVOGLIO, Carla BERTOLA, Joseph BEUYS, Tomaso BINGA, Julien BLAINE, Irma BLANK, Jean-François BORY, Anna BOSCHI, Antonino BOVE, José A. CACERES, Ugo CARREGA, Luciano CARUSO, Guglielmo Achille CAVELLINI, Sergio CENA, Giuseppe CHIARI, Henry CHOPIN, Cosimo CIMINO, Mario COMMONE, Vitaldo CONTE, Carlo Marcello CONTI, Corrado COSTA, Mauro DAL FIOR, Augusto DE CAMPOS, Haroldo DE CAMPOS, Paul DE VREE, Chiara DIAMANTINI, Marcello DIOTALLEVI, Pablo ECHAURREN, Alberto FAIETTI, Mariapia FANNA RONCORONI, Fernanda FEDI, Bartolomé FERRANDO, Gio FERRI, Luc FIERENS, Giovanni FONTANA, Claudio FRANCIA, Nicola FRANGIONE, John FURNIVAL, György GALANTAI, Giovanni GERBINO & Fortunato DEPERO, Gino GINI, Jochen GERZ, Eugen GOMRINGER, Klaus GROH, Elisabetta GUT, Bernard HEIDSIECK, Geoffrey HENDRICKS, Emilio ISGRO’, Théo-dore KOENIG, Jirí KOLAR, Richard KOSTELANETZ, Maurice LEMAÎTRE, Arrigo LORA TOTINO, Ruggero MAGGI, Roberto MALQUORI, Mauro MANFREDI, Lucia MARCUCCI, Stelio Maria MARTINI, Nanni MENETTI, Eugenio MICCINI, Giorgio MOIO, Marianna MONTARULI & Beniamino VIZZINI, Emilio MORANDI, Massimo MORI, Giulia NICCOLAI, Ladislav NOVAK, Nahl NUCHA, Maurizio OSTI, Clemente PADIN, Paolo PASETTO, Giancarlo PAVANELLO, Michele PERFETTI, Lamberto PIGNOTTI, Gian Paolo ROFFI, Giovanna SANDRI, Roberto SANESI, SARENCO, Alba SAVOI, Greta SCHOEDL, Adriano SPATOLA, Shohachiro TAKAHASHI, Luigi TOLA, Andrew TOPEL, Timm ULRICHS, Jiri VALOCH, Ben VAUTIER, Emilio VILLA, Alberto VITACCHIO, Rodolfo VITONE, William XERRA.

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Il sogno e le trasposizioni fantastichenelle opere di Lillo Messinadi Claudio Strinati

Lillo Messina è arrivato nella fase della sua piena maturità e ha affinatosempre più quella tecnica incisiva e acutissima grazie alla quale il suo lavoro ha assunto una presenza notevole nel panorama italiano contemporaneo. Messina è un pittore dotato di una mano cospicua che gli consente di realizzare stesure nitide e convincenti e di costruire un insieme di segni e simboli perfetta-mente coerenti con la sua immagina-zione.

Ma il suo valore va ben al di là dell’ec-cellenza tecnica per calarsi in un sistema iconografico e stilistico che manifesta una personalità spiccata e una intelligenza singolare del fenomeno figurativo.Tutta la critica che si è occupata della sua opera ha rimarcato il legame tra l’ arte di Messina e la sua terra siciliana. E non c’è dubbio sul fatto che il pittore sia ripieno di quelle immagini di cielo, terra e mare riscontrabili in continuazione nel peregrinare lungo l’isola meravigliosa su cui ha mosso i primi passi. Adesso Messina è arrivato a un punto singolare e inatteso.

È diventato una sorta di pittore-geografo che crea quadri apparentemente topografici che descrivono luoghi ben precisi dove l’ immaginazione dell’ artista ama soffermarsi. Ma c’è di più: predilige da un po’ di tempo a questa parte le visioni a volo d’ uccello, quasi che egli guardasse la terra sottostante da un satel-lite e ne rendesse la descrizione con gli strumenti del pittore.

Oggi, realmente, le proiezioni visive dal satellite sono di impressionante nitore e precisione per cui lo sguardo di ciascuno di noi può avvicinarsi, calando dall’alto, fino a dettagli minuziosissimi a terra. Lillo Messina, naturalmente, non lavora al computer e le sue immagini sono, come è sempre stato nelle sua carriera, trasposizioni fantastiche da visioni tecnicamente precisi e ineccepibili ma modificate da un afflato poetico che non ha di mira la esattezza o la verosi-miglianza ma intende esprimere la suggestione visiva in una specie di sogno non definibile con altri strumenti che non siano quelli della pittura.

Messina sente molto l’ idea dei transiti e effettivamente lo si vorrebbe defi-nire un pittore-astronomo che vuole rendere vividi per ciascuno di noi i grandi

Lillo Messina, Dall’altra parte del mondo da qualche parte nel mare, 2002, olio su tela, cm. 120x135

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transiti dei mondi sulla mappa del cielo, alla scoperta di nuove dimensioni che esaltano la mente e rallegrano lo spirito. Artista di profonda onestà e umanità, Messina concepisce la sua opera come un grande sforzo di sintesi condotto su un materiale fragile e denso da cui il maestro vuole estrarre una sorta di quintes-senza in bilico tra la fisica e la metafisica, ripiena di echi arcani e remoti ma ben incardinata al quotidiano e alla concretezza della vita di tutti.

Nicola Micieli, commentando qualche anno fa gli elementi fondamentali dell’ itinerario di Lillo Messina, lo ha paragonato a Ulisse o meglio ha richiamato il mito del vagabondo Ulisse per spiegare meglio certe motivazioni profonde dell’artista oggi arrivato a una consapevolezza e una profondità di sentire da additare all’at-tenzione di tutti coloro che non sono troppo disposti, per naturale disposizione o per formazione, a ridurre il lavoro di un artista a una vuota formula, senza smet-tere di cercare una ricchezza di contenuti e di fattori espressivi che, nel caso di Lillo Messina, debbono ancora in parte emergere chiari. Ne scaturisce una mostra come quella attuale dove ciascuno di noi è messo in condizione di conoscere gli elementi costitutivi della poetica di un maestro di tal fatta.

E il sogno delle isole di Lillo Messina diventa un itinerario condiviso di una avventura della mente che spazia senza limiti e senza confini come sognando un approdo, per altri versi impossibile, dove riposare dopo un viaggio avventuroso e accidentato per poi rimettersi in cammino e così proseguire instancabilmente con gli occhi rivolti a una meta che si sposta sempre più in là.

Claudio Strinati

Lillo Messina, La vita inquietante del mare, cm. 70x100

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Lillo Messina, Arcipelago, 2014, olio su tela, cm. 90x90

Lillo Messina, Pacifico Orientale, 2011, olio su tela 150x135

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Linea della vitaParagrafi per Bordoli

di Vincenzo Guarracino

Un pittore di confini

Bruno Bordoli è un pittore di confini:non soltanto perché vive al confine in senso geografico e territoriale, tra l’Italia e la Svizzera, a Porlezza, in provincia di Como, ma perché si è scelta una dimen-sione che culturalmente lo colloca ai “confini” (giusto il titolo di una mostra del ’99, tenuta a Lugano), in giudizioso bilico cioè tra tensioni nordiche e mito-logie mediterranee, tra visionarietà e classicismo, tra compostezza e dramma-ticità, portandolo a praticare una pittura di realtà, senza compiacimenti e incu-rante del “bello”. Confini da abbattere e scavalcare o dinanzi a cui fermarsi: un’ambivalenza essenziale, davvero, che non lo condiziona o blocca e determina un modo di essere e di operare, inducendolo a scelte drastiche, non di rado perfino tormentate.

È un artista insomma Bordoli che i margini li vive, non come un limite, bensì come una risorsa, morale e creativa, e che, a partire dalla metà degli anni ’60, dall’inizio cioè della sua avventura artistica, ha saputo investire un mondo creativo maturato nel silenzio, in una solitudine laboriosissima, anche se forse dolorosa, che a tutt’oggi si è tradotta in un numero incredibile di opere, ben oltre 10000, tra dipinti, collages e disegni: una mole considerevole e impres-sionante, davvero, in cui si traduce e condensa una vita, con assoluta incuranza nei confronti del mercato, del successo commerciale. “Blade runner”, precario, seriale e compulsivo: è così che si è definito in una recente intervista, nel cata-logo della sua mostra, fino ad ora, più importante presso il Credito Valtellinese di Sondrio (2014), per significare che si sente estraneo ad ogni catalogazione e irreggimentazione in “scuole” e raggruppamenti. Fedele, se mai, e replicante soltanto di se stesso, a costo di apparire incoerente e discontinuo: ecco è in questi termini che vuole essere inteso e valutato. Ed è proprio a questo che forse voleva alludere il titolo della mostra del 1999, Linea della vita (alla Galleria La Casa, Vaglio-Lugano), che mi è sembrato giusto eleggere a insegna ed emblema di questo saggio: come filo conduttore, traccia di un percorso narrativo e fantastico, emotivo, perseguito con fedeltà, con scelte e tappe sempre rigorosamente moti-

Bruno Bordoli

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vate, dettate dal profondo, in risposta a stimoli e motivazioni personali. È questo che c’è nel sintagma del titolo nell’elemento di specificazione, il concetto cioè di “vita”, che rivela l’interesse precipuo per il vivente, per l’individuo (da un certo punto in poi, più esplicitamente, per l’Uomo), con i suoi conflitti esistenziali, il suo tormento e la sua ricerca, che si traduce nella rappresentazione di figureumane sofferenti, così come la pratica Bordoli in linea più o meno esplicita-mente debitrice di illustri modelli (Ensor, Nolde, Munch, Bacon): al “confine”tra pulsioni diverse, ai margini di un mondo visionario-evocativo, che urge conti-nuamente per uscire allo scoperto sulla tela. Come non pensare a una definizionedi “vita” data dal poeta latino Ennio, il “pater Ennius” della romanitas, che la definiva “vitalis”, ossia “degna di essere vissuta”, quali che ne fossero doveri e conseguenze?

Con un’avvertenza preliminare necessaria, intorno a cui, non senza una punta di sorridente e compiaciuta ironia, è lui stesso a fornirci una risposta: “Non comunico principi, teorie, non enuncio alcun credo artistico”. Così almeno dice lui. Ma se è vero che, di ogni artista quel che conta è ciò che la sua opera comunica e rivela (Charta loquatur, come diceva Catullo, c.68), non possiamo che prendere atto e registrare un dato che emerge dai suoi quadri. E cioè che, a denunciare il suo peculiare modo di essere e di intendere l’arte, ci sono delle costanti sia tematiche che formali, che non solo la critica più avveduta non ha mancato di registrare ed evidenziare ma che saltano all’occhio di ogni attento spettatore: elementi che rivelano una sua voluta “diversità”, un suo voler stare ai margini, tale da autorizzare il giudizio che di lui ha detto nella premessa della sua ultima fatica, La Bibbia illustrata (Electa, Milano 2018), un critico d’eccezione, Philippe Daverio, nel definirlo “un fuori pista, un fuori moda, un fuori consenso”. Una definizione su cui ritorneremo ma che qui per ora basta registrare.

Un’opera-teatro

Dicevo prima di costanti formali e tematiche che si possono individuare in un’opera che può non impropriamente essere definita una sorta di Theatrum,di una intrigante messinscena di un pensiero che interroga se stesso e i propri fondamenti, sviluppandosi in larghi cicli per dare corpo a una panoplia di forme e colori all’interno di scelte formali e tematiche sempre rigorosamente moti-vate.

Ecco, a proposito delle prime, delle scelte formali, c’è da dire che quella di Bruno è, fin dal primo sguardo, una pittura forte di impasti cromatici violenti. Mastica e combina sulla pelle dei quadri i suoi elementi linguistici in un’alchimia di insorgenze oniriche e allucinate, che se richiamano i modelli dell’espressio-nismo o quelli più recenti della transavanguardia lo fanno per dire di un personale approccio alla vita e alla sua raffigurazione attraverso un consapevole attraver-samento dei depositi di energia in essi contenuti e che lui ha assimilato e rivive con personale coinvolgimento.

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L’opera diventa così linguaggio del corpo, dove tempo e memoria realizzano e al tempo stesso annullano la forza erompente e discontinua del sogno e della vita, fissandola in un presente allucinato, immobile, che è teatro di vitalistiche pulsioni e paure, sulla scena di una natura, lacustre o campestre che sia (rara-mente urbana), eletta ad alveo compiacente dei propri frammenti di storia: è in questo spazio che il quadro ha una sua liturgia, un ritmo di accensioni e rimandi, che fa emergere dal torbido della vita un inquieto immaginario grondante di tragica vitalità, ma questo è solo per dire l’urgenza di un fatto, di un qualcosa che avviene nell’attimo della sua apparizione sulla tela, che non chiede alcuna pate-tica complicità.

A proposito delle seconde, delle costanti cioè tematiche e operative,premesso che l’interesse primario è sempre la figura umana, i temi sono quelli del viaggio e del Sacro, inteso come “fonte di stupore e di scandalo”, come lo definiva lo scrittore franco-ru-meno Emile Cioran, e insieme a questi una costante attenzione alla parola letteraria come fonte di ispirazione e di confronto, come una sorta di viatico essenziale. Come dire che ciò che gli importa evidenziare sono storie, un modo di starci da parte della figura nella scena, come in un teatro, e di modificarlacon la propria presenza. È per questo che di lui la critica ha parlato di “vocazione fabulatoria” (cfr. Daniele Astrologo Abadal, in Bruno Bordoli Con Anima,Galleria Credito Valtellinese, Sondrio 2014)? Di un modo cioè di incarnare la propria esigenza espressiva in un racconto che si sviluppi per cicli, in una serie di riquadri che facciano vivere le figure come tessere di un interminabile polittico.

Per capirlo, è utile rifarsi alle sue stesse parole, da cui si evince anche la sua prassi elaborativa: “Osserviamo un luogo vuoto (paesaggi o ambiente delimi-tato): se in esso entrano una o più figure umane la visione assume immediata-mente un’altra valenza. Lo spazio vuoto, prima neutro, si declina e diviene elemento connotativo della presenza umana che ci immette immediatamente nella dimensione spazio/temporale che le è intrinseca e che contestualizza la nostra visione. Essendo per me il dipinto “luogo” ne consegue che, nella quasi

Bruno Bordoli, Neonato maschio, 2006, olio su tela grezza, cm 201x119.

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Bruno Bordoli, Piazza con tre alberi, 1990, olio su tela,cm. 60x50

Bruno Bordoli, Piccola testa gialla, 1996, olio sucartone telato, cm. 55x44,5.

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totalità della mia produzione, sono rappresentate figure umane, quali archetipi e simboli delle proprie fisicità e interiorità, che vengono a confronto con l’esterno contingente rivisitato nella precarietà della dimensione temporale”.

Nello specifico, per quanto riguarda il primo, ossia il viaggio, non si tratta di una rappresentazione, per così dire, descrittiva ma piuttosto di un modo di perce-pire e di filtrare il tema in direzione di una interpretazione intesa come “attraver-samento”, più che di luoghi, di sensazioni, con conseguente messinscena di un mondo-altro, alternativo.

È in questa direzione che vanno letti certi ambiziosi progetti figurativi, lontani nel tempo l’uno dall’altro, che con intenzioni diverse la tematica la mettono in evidenza se non dal titolo dal modo di disporsi dell’ar-tista di fronte alla materia trattata. Mi rife-risco a Tavole cabalistiche da viaggio (2003) e la serie del Camino di Santiago (2013-2017), e prima ancora di questi, archetipi del suo lavoro successivo, la serie dei Collages esposti alla Galleria La colonna di Como nell’81.

Il dato che salta immediatamente all’oc-chio, tanto nelle prime quanto nella seconda, è la serialità di ideazione e struttura delle opere, che lascia per un momento in secondo piano la tematica prescelta, proponendosi come qualcosa a metà tra poema visivo e grande mosaico della vita, in cui potenzial-mente potrebbero trovar posto un numero sconfinato di immagini, tutte più o meno della medesima impostazione e dimensione, caratterizzate da un acceso e talora dramma-tico cromatismo che si tramuta non di rado nel nucleo comunicativo dell’immagine e dell’operare artistico.

Strutturate dunque in modulare sequenza, le diverse tavole, in particolare nelle prime, rispettano uno schema pressoché identico, ognuna presentando un soggetto diverso sovrastato o sorretto da una scritta, che entra a far parte del quadro stesso non come didascalia bensì come elemento integrante e visivo della stessa.

I soggetti rappresentano cose, persone, paesaggi e situazioni della vita quoti-diana: chessò, un suonatore di tromba, un profilo di montagna che si specchia in un lago, una maschera, degli occhiali, un gallo “vispo”, un nido di vespe, un serpente, un vulcano che sputa fiamme e lapilli, un fraticello “buono”, un paio di

Bruno Bordoli, Uomo seduto, 1993,olio su tela cm. 120x60.

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calze, un secchiello pieno e grondante di acqua, un bersaglio multicolore, come quelli dei tirassegno delle fiere paesane di una volta.

Figure evocatrici, che richiamano infanzia e sogni? Fantasmi di un rassicu-rante o allarmato repertorio di memorie, affioranti da un immaginario denso di personale pathos, o anche semplicemente fantastici prontuari di forme di una civiltà in via di estinzione ad uso di future generazioni?

Certo è che appaiono un po’ come le tavole alfabetiche che un tempo correda-vano le nostre aule scolastiche, buone ad avviare alla comprensione delle parole ma anche ad accendere allora la fantasia dei bambini e ora dell’eterno bambino che persiste in ognuno. Cariche ognuna di un proprio suggestivo e multiplo spessore, anche se in apparenza collocate in una dimensione di evidente norma-lità: per questo le possono “leggere” e capire tutti, ognuno alla propria maniera, ognuno nei parametri della propria moralità e immaginazione. Salvo prestarsi anche a interpretazioni un po’ più complesse, se soltanto ci si lascia per un attimo coinvolgere nel gioco della loro ambiguità. Del resto, l’aggettivo “cabalistiche”, ancorché accompagnato dalla giocosa allusione al “viaggio”, lascia proprio intendere questo: che ognuno di noi, ingenuo o razionalista che sia (chi non ha mai letto un oroscopo scagli la prima pietra!), è propenso a interrogare elementi semplici o enigmatici della vita per decifrare il futuro e il destino.

Proprio per completare questo gioco molto serio, intervengono le parole che si prestano a secondare o indirizzare giocosamente la comprensione: a metà tra didascalia e chiave di lettura, nel caso che l’immagine appaia incongrua con l’at-tesa dello spettatore, la scrittura vive comunque anche per proprio conto, come un motivo puramente figurativo che si aggiunge agli altri elementi del quadro, immagini e colori che siano, per definire un elemento in cui il “lettore” dell’opera possa riconoscere un qualcosa di familiare, un elemento simbolico della propria fantasia e della propria esperienza. Come un qualcosa che possa accompagnarlo nel “viaggio” della propria vita.

Una divagazione, a tal riguardo, e poco più, dedicata alla serie che dà il titolo a questo capitolo su Bordoli, ossia Linea della vita (1999) più volte citata, a partire dalla stranezza (un certo e proprio “capriccio”) della lingua inglese, “Do you get off at this stop?”, che per uno profondamente radicato nella propria terra appare come un modo singolare e impensabile di prenderne le distanze. Do you get off at this stop? “Scende a questa fermata?”: come dire che nell’oggi che si sporge sull’abisso la domanda che veramente sorprende è non quella più inquietante ma l’impensabile. È impensabile consentire agli idola, seducenti ma ingannevoli, di un reale involgarito a mercimonio, agli idola che imprigionano e snaturano esigenze e sentimenti, svilendo vita e di emozioni in una religio pagana ridotta a vuota adorazione di feticci: su tutto campeggia l’orrore (della guerra ma anche degli interni coniugali), ma non al punto di non lasciare affiorare almeno una speranza, benché timida, di salvezza.

Nella seconda serie, quella legata a un motivo ben preciso e circostan-ziato, ossia al Camino di Santiago, la serie delle opere si dispongono come un

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Bruno Bordoli, Prigioniero lungo la via, 1997,olio su tela cm, 90x60,

Bruno Bordoli, Guarda in alto, 2004 olio su tela grezza cm. 202x140.

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Bruno Bordoli, Viandante e fregio, 2006, olio su tela, cm. 70x50.

Bruno Bordoli, Paesaggio con orsi buoni, 2004, olio su tela, cm. 60x80.

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tragitto di simboli, frasi e sogni, che trovano il loro punto di collegamento in una sequenza narrativa, che non parte da un’intenzione turistica e illustrativa, tanto meno devozionale, ma si giustifica come esperienza in un certo senso iniziatica: come una continua illuminazione a partire dall’assunto indicato dal progetto, ossia il “cammino”.

Per quanto riguarda la serie dei Collages, che si collocano in un ambito ben circoscritto di tempo, gli anni Settanta, il legame con la tematica è dato dal fatto che a farla da padrone è il paesaggio, evidente o alluso, il cui “attraversamento” avviene per forza di scomposizione e manipolazione delle immagini, per così dire deterritorializzate in uno spazio in cui tra interferenze e accelerazioni giocano ad annullarsi reciprocamente in una vera e propria liturgia di non-senso: tratte come sono prevalentemente dai rotocalchi, il risultato è quello di dar vita a teatrini dal forte sapore di denuncia (per esempio, della mercificazione del corpo femmi-nile), ma senza rinunciare a far risaltare la propria umbratile sensibilità lirica.

Per quanto riguarda la tematica del Sacro, è necessario porsi preliminarmente una domanda, vista anche l’importanza che la sua trattazione riveste nell’in-sieme dell’opera di Bordoli: ha davvero smesso il Cristianesimo di “essere fonte di stupore e di scandalo”, come preconizzava già più di mezzo secolo fa, nel 1956, lo scrittore franco-rumeno Emile Cioran dietro il lucido usbergo del suo nichilismo? e ancora, è davvero, il Senso Religioso, scomparso dall’orizzonte del nostro tempo, cessando di “fecondare intelligenze” e di costituire il potente lievito morale e creativo che sempre è stato per secoli nella storia? e più in gene-rale è necessario essere credenti, per affrontare il tema del Sacro, per celebrarne la presenza attiva e sotterranea nella vita propria e altrui, in forme nuove?

Oggi, che a distanza di oltre sessant’anni sappiamo che “è religione anche non credere in niente”, come affermava Cesare Pavese, una siffatta affermazione risulta quanto meno limitata e limitante e si impone un radicale ripensamento del problema.

Certo, è sotto gli occhi di tutti il degrado e il progressivo inabissarsi dei valori nel più bieco e cinico consumismo, però dall’altro lato è altrettanto evidente il prepotente ancorché confuso, ambiguo e contraddittorio risveglio del Sacro, mezzo secolo fa assolutamente imprevedibile. Se il Sacro sulla scena della vita quotidiana sembra perdente, su quella delle coscienze certamente no, non è scom-parso. Tanto meno dalla scena dell’arte: non cessa di “fecondare intelligenze”, di sperimentare e ritrovare sempre nuove vesti e nuove forme per trasmettersi e donarsi alla sensibilità contemporanea.

E l’opera di Bruno, tra le tante, non ne è che un’ennesima riconferma e in una maniera veramente tutta sua e peculiare. Senza enfasi fideistiche e trionfalistiche. Bordoli lo fa immedesimandosi nel Dolore del mondo, dolore nel Dolore, dalla parte della Croce. Non narrando ma lasciando(si) narrare. Immagini di talvolta drammatica interpellanza, provocatorie. Quasi che la sua mano di pittore fosse

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agita da una forza misteriosa, da un impulso a dar corpo a un sentimento, senza preoccupazioni estetiche ed estetizzanti, senza consentire a un’attesa di bello. Certo, il tema prescelto favorisce un taglio siffatto dell’immagine, rinunciando al cliché che impone un’oleografica rappresentazione in forme e posture patetica-mente edificanti, tali da riflettere e imporre una commozione a buon mercato, da beghine. Il brutto, lo strazio dell’Evento, in altri termini, non consentono una pietas rappresentativa, un commento volto a suscitare emozioni rassicuranti: è per questo che i toni si esasperano, si fanno drammaticamente concitati, lace-ranti. Diventano urlo, esplosione di colore, contorcimento delle forme.

È questo il Sacro per Bordoli e in questo consiste il suo approccio religioso al suo tema, qui ma anche altrove (penso alla serie recente delle Tavole cabalistiche da viaggio,2003), con il suo neoespressionismo visio-nario e rigoroso, che trae la sua linfa da autori antichi o moderni: con assoluta dedi-zione e originalità, nell’inseguimento di una totale fedeltà ai propri fantasmi, in una sorta di itinerarium Mentis.

C’è un episodio fondante che vede Bordoli tra i suoi protagonisti. A Casalpuster-lengo (Lodi), nel Santuario della Madonna dei Cappuccini, settembre 2001, tre artisti, Bruno Bordoli di Porlezza, assieme allo svizzero Mauro Valsangiacomo e al rumeno Istvan Gyalai, tre artisti diversi per percorsi formativi e linguaggio, si misura con un tema al limite dell’ineffabilità, l’Ascensione di Cristo risorto. Gli esiti, al di là dello speci-fico dei tre artisti, dimostrano con evidenza la volontà e capacità di far rivivere nelle forme del moderno un mistero sublime e suggestivo, quale è quello di Gesù che, pren-dendo congedo dai discepoli per far ritorno

alla Casa del Padre, affida loro il compito di testimoniare fino alla fine dei tempi la sua Parola. Mistero di fede e di salvezza, l’Ascensione, tema poco frequen-tato dell’arte, prende corpo, rivelandosi un itinerario di segni straordinariamente ricco e significativo, potenziato com’è dal fascino di un linguaggio figurativo in grado, nonostante la diversità di approcci e tecniche, di rappresentare in modo nuovo lo stupore di ciascuno di fronte al Miracolo, in un “inginocchiamento” simbolico che volti e figure di dolore e tragedia a poco a poco li trasforma, se non in momenti di luce, almeno ne attenua l’asprezza facendone sprizzare bagliori di interiorità, emozioni. È proprio questa idea di “percorso”, che fa dell’intervento

Bruno Bordoli, Uomo bianco, uomo nero,2004, olio su tela grezza, cm. 175x94.

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di Bordoli un momento fondante di tutta la sua ricerca artistica: per il fatto di voler cogliere “il peso della Separazione del visibile e dell’Invisibile”, come sottolinea Liliana Casiraghi in una nota critica. Una volontà che si traduce in immagini e colori (colori e immagini forti, tragici) che inquietamente perseguono un’idea di comunione, di saturazione della lacerazione tra Storia ed Eternità, tra realtà e sacralità della vita, il tutto in un linguaggio volta a volta lirico ed espressionista, sempre attento allo spessore dell’umano, all’impronta casuale e al tempo stesso necessaria della creatura del progetto di salvezza, tra illuminazione e dispera-zione, con reminiscenze che il critico Licio Damiani ha voluto ricondurre, specie a proposito della serie di opere recenti (penso alle opere dedicate a padre Davide Maria Turoldo, nel catalogo Turoldo e le sue poesie, Il Ridotto, Coderno di Sede-gliano UD 2019), alla lezione di pittori quattro-cinquecenteschi, come Masaccio, Pontormo e El Greco, o novecenteschi, come Modigliani, se non, dico io, addirit-tura contemporanei, postmoderni, come i pittori della transavanguardia.

Itinerarium mentisHo usato prima l’espressione itinerarium mentis: come dire un’esperienza che

attiene a una ricerca non tanto semplicemente pittorica, ma piuttosto di profonda immedesimazione con l’oggetto della pratica artistica stessa. In altri termini, l’opera nasce da una profonda meditazione e la mano sembra essere guidata da un Qualcosa o Qualcuno che è al di là della conoscenza umana. Un’esperienza mistica, di contemplazione, ecco, la pittura, con la mente che deve “andare al di là di tutto con la contemplazione e andare al di là non solo del mondo sensibile, ma anche al di là di se stessa”, giusto come dice Bonaventura da Bagnoregio cui si deve il famoso sintagma del titolo (Itinerarium mentis in Deum) qui da noi preso in prestito: almeno in questi termini si configura, da molti anni a questa parte, nella pratica di Bruno.

È un fatto questo che non può non indurre a ritornare alla domanda di prima: è necessario, e fino a che punto, essere credenti, per affrontare il tema del Sacro, per celebrarne la presenza attiva e sotterranea nella vita propria e altrui, in forme nuove? E ancora, quanto rimane, se rimane, un patrimonio e un deposito di immagini ad uso dei fedeli, ma non solo, il “grande codice” che è il Vangelo e la Bibbia tutta?

Abituati come siamo da secoli di devozione popolare a certi simboli, la Croce in primo luogo, siamo stati sopraffatti dal devozionalismo e abbiamo forse perso la coscienza della loro spirituale concretezza e suggestione, il loro portato anche iconico di amore e di Grazia. Non è un caso che già Leopardi, per fare un esempio, rilevasse non senza un moto di intimo disappunto l’uso, per così apotropaico, che ai suoi tempi, se ne faceva, rasentando la blasfemia, col raffigurarla nei luoghi più impropri e con funzioni tutt’altro che ad essa convenienti.

È per questo che la sfida delle immagini di Bordoli, immagini che nulla o poco concedono al decorativo e al piacevole, a quello che si definirebbe un convenzionalismo devozionale, appare quanto mai innovativa e necessaria.

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Innovativa, perché costringe chi guarda a confrontarsi con un cortocircuito di senso generato dall’incontro tra immagini ricono-scibili (desunte dal Racconto, da una Storia fatta di amore e di sangue) e la materia a tratti bruta della sua raffigurazione, il suo linguaggio figurativo senza fronzoli e leno-cini. Necessaria, perché tesa a interrogare e far emergere i paesaggi della mente, le crepe della coscienza, i fantasmi dell’anima, le polluzioni insomma più ambigue e distur-banti del suo “altrove” più privato e sogget-tivo. Come dire che impone di guardare in faccia l’Inguardabile, lo scandalo del suo mettersi di fronte al Mistero, quello dell’Uomo dei Dolori ma anche il suo, il proprio oscuro pozzo di pulsioni, agitato dal dolore e bisognoso di riscatto, di redenzione. Tra l’uno e l’altro, tra l’Uomo della Croce e l’uomo che della sua croce quotidiana non sempre è capace di caricarsi con dignità, si stabilisce così un collegamento, di bisogno e di amore, che passa attraverso un abbraccio che vuole stringersi, due braccia orrenda-mente insanguinate, Mani forate che attra-

verso gli osceni buchi prodotti da chiodi assassini promettono di lasciar filtrarespiragli di luce, capaci di penetrare anche la materia più umana e refrattaria della vita.

Affrancato da ogni sudditanza ad un realismo puramente retinico e descrit-tivo, Bordoli dà così vita, nel realismo più bruciante della sua necessità pulsio-nale, a una dimensione tragica e al tempo stesso epica, in cui si gioca il destino di ogni uomo nella sua lotta alla ricerca di un’essenziale salvezza. Il risultato è lì che conturba e fa riflettere.

Un momento centrale nella rappresentazione del Sacro è quello che vede impegnato Bruno nella rappresentazione del tema della Crocifissione, all’interno soprattutto di un ciclo dal titolo quanto mai pregnante e singolare.

Non mi dimentico il tempo che verrà, infatti, raccoglie buona parte delle tavole dedicate da Bordoli al tema della Crocifissione, al tema dell’umiliazione e del trionfo del Cristo Uomo-Dio sulla Croce, quale appare dal catalogo dell’esposi-zione presso la Facoltà di Teologia di Lugano, in Svizzera, nel 2008.

In che consiste la sua singolarità? Consiste nel fatto di rompere lo schema temporale, chiamando in causa, da parte di chi guarda-dipinge l’Evento, un’at-

Bruno Bordoli, Run for it! (scappa, scappa),1999 olio su tavola cm. 214x117.

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titudine in bilico tra passato e futuro sulla scena di un qui e ora che è presenza, volontà di resistenza nell’instabile dell’attimo e al tempo stesso proiezione e certezza in un futuro acquisto di Grazia in virtù della propria stessa presenza e testimonianza. Dice: Io so, non lascio cadere dalla mia mente (la parola “dimen-ticare” etimologicamente è imparentata proprio con mens, “mente, ragione, razionalità”) e dunque ho una concreta e razionale consapevolezza che ci sarà un domani, un tempo nuovo che mi aspetta e mi spetta. Lo vedo chiaro davanti a me come se lo avessi già vissuto e lo conservassi nella mia memoria, e per questo sono deciso a pensarlo come un diritto da andar meritandomi giorno dopo giorno, azione dopo azione, immagine dopo immagine. Proprio così, gesto dopo gesto, pennellata dopo pennellata.

È un’attitudine, questa, in cui anamnesi e speranza reciprocamente si sosten-gono e potenziano integrandosi: come dire che non ci si può pensare nel domani, in un domani quale che sia, di luce e di gioia o anche di grigiore quotidiano ma comunque di vita e consapevolezza, se non avendo già ben chiaro ciò che si ha alle spalle, avendo preso cioè coscienza del peso stesso della vita, del dolore che per definizione l’accompagna (militia est vita hominis super terram, come ammonisce il Salmista), di ciò che genera e comporta l’umana iniquità propria e di tutti. Nihil volitum quin praecognitum, “non si può volere niente che non si sia prima conosciuto”, come recita un antico aforisma. Senza il desiderio di vedere, non si vede. Io vedo e mi vedo nello specchio del Dolore, ma da esso alimento la mia fede nel trionfo che verrà: ecco, il tempo che verrà è questo, il tempo del Trionfo che viene dalla Morte. Morire è “renacer”, rinascere, diceva Unamuno. Non ci può essere, in altri termini, Resurrezione senza una Morte, una Passione. La condizione della Vittoria è la coscienza e l’elaborazione della Sconfitta. L’Es-sere che verrà, l’Infinito Essere, pone necessariamente le sue radici nel Finito della sofferenza e della morte.

Tra figure e parole

Da tutto quanto si è detto si può ben capire che quella di Bruno è un’espe-rienza intellettuale e figurativa che non ha avuto paura di misurarsi con linguaggi e con tematiche, anche i più diversi e contrastanti, nella fedeltà ad un progetto di esplorazione e di essenziale definizione del proprio mondo fantastico, in ugual misura, nutrito di realtà e di sogno, di concretezza lombarda ma anche di nordici e notturni perturbamenti, capace di interrogare e far emergere “i paesaggi della mente, le crepe della coscienza, i fantasmi dell’anima”, come ha sottolineato Philippe Daverio già prima ricordato.

Attraverso un linguaggio che dall’astrattismo geometrico è andato nel tempo evolvendosi in direzione dell’espressionismo, ha accettato infatti, a partire dalla fine degli anni Settanta, dapprima la lezione della pittura gestuale (action-pain-ting), per approdare, infine, con convinta e definitiva adesione, a una sorta di personale primitivismo rappresentativo, ad un neoespressionismo paradossal-

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mente visionario e rigoroso, parente in senso lato della “transavanguardia”, ma temperato e corretto da moduli razionalistici, in un gioco di equilibri formali e concettuali dal forte impatto suggestivo, in cui ciò che conta sembra essere la rappresentazione non della realtà oggettiva bensì della realtà della coscienza, la registrazione, più che della trasparenza e della somiglianza delle cose (figureumane, animali e paesaggi), del loro lato inquietante, di ciò che insomma si nasconde dietro la loro spoglia di opacità.

Sono maturati in tale temperie i cicli rappresentativi ispirati dalla lettura e suggestione di testi di scrit-tori amati e congeniali (Pavese. 1978, Kafka, 1980, Turoldo, 1992, Lucrezio, 1998, Stevenson, 2002, tra i tanti), e ambiziose operazioni figura-tive, quali quella legata nel 2002 alla figura della Monaca di Monza (cap.IX e X dei Promessi Sposi manzo-niani), e nello stesso anno Tavola pitagorica di Lorenzo Morandotti, in mostre rispettivamente alla Galleria Blanchaert di Milano e Il Salotto di Como, per non citare l’intrigante e suggestivo mosaico di forme e colori, volto a interrogare e sollecitare il destino proprio e altrui, costruito sulla scorta di “tessere” poetiche e narrative di diversi autori (Cecilia Liveriero Lavelli, Stefania Briccola, Alessia Bordoli, Angelo Aschei, tra gli altri) nella mostra Magic House,ospitata nel 2004 dalla galleria Offi-

cinaArte di Magliaso, in Canton Ticino, in cui sembra essersi definitivamenteaffrancato da ogni sudditanza ad un realismo retinico e descrittivo per dar vita a una dimensione epica e tragica (è intuizione critica di Maria Will) fortemente personale attraverso la litanica ritualità delle immagini.

A voler identificare un elemento di coerenza in un simile variegato itinerario pittorico, mi pare che possa essere proprio quest’attenzione all’irriconoscibile, alla dis-identità, a partire da un dato apparentemente evidente indiscutibile, ciò che rende omogenea e necessaria tutta la sua ricerca: dagli esordi degli anni ’60 e dalla scelta della pittura come linguaggio in cui investire capacità e tensioni (ricordo una mostra, a cavallo degli anni Ottanta, presso l’ormai scomparsa Galleria La Colonna di via Manzoni, con antropomorfici paesaggi fotografici),fino alle opere più recenti, penso al Trittico 2005, nato certo da una specifica

Bruno Bordoli, Ritratto, angelo bianco e coppia, 2008, olio su tela grezza, cm. 203x142.

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occasionalità (la mostra-evento biellese “Sul filo di lana”, 2005), ma intimamente legato ai fantasmi del proprio immaginario più profondo, c’è la determinazione a interrogare dalla specola di una soggettività sempre allertata il mondo e le cose, sia che si tratti di ben concreti elementi visivi sia che si tratti di lacerti letterari o di brandelli di miti, come nelle tre tavole realizzate per la rassegna biellese.

Ultimo in ordine di tempo e perciò dotato di una sua sostanza ancora magma-tica e per così dire “in formazione”, il Trittico dà molto e ancor più promette nella scansione delle sue allusive visioni, autentiche allegorie del destino umano nella sua precarietà con radici tenaci e ben riconoscibili nella cultura greco-cri-stiana: la prima, Il filo reciso, inscenando la funzione delle Parche, con Atropo, “l’immutabile”, colei che taglia lo stame della vita, a simboleggiare l’inelutta-bile della morte; la seconda, Storia di Giasone, con il suo complesso ordito dei simboli riconducibili al mito cantato da Apollonio Rodio e in cui campeggia il gesto di Giasone, il condottiero degli Argonauti, a indicare il valore di impera-tivo categorico dell’esperienza di sé attraverso l’impresa, riassunta nell’imma-gine emblematica del Vello d’oro, come destino ineludibile di ognuno; la terza, la più complessa, Angelo azzurro, dove una sorta di Angelo della storia alla Klee disegna in una sorta di parabola tra antico e moderno (il paesaggio di Biella con le sue tradizioni imprenditoriali legate alla lana) il destino di un’umanità protesa al progresso attraverso il lavoro.

Più che una storia (o se si preferisce, un flusso di storie), è una geografia che si delinea e progressivamente si evidenzia, in questo singolare connubio creativo, un vero e proprio accoppiamento giudizioso, tra parola e immagine, tra segno e suono, quale è quello che si istituisce tra le 17 “carte dipinte” di Bruno Bordoli e la Tavola pitagorica di Lorenzo Morandotti.

Una geografia e, si capisce, un’aritmetica, intesa quest’ultima come un gioco, serio e faceto al tempo stesso, in cui i numeri ( intesi come cifre e come misure metriche) si reinvestano creando un paesaggio fisico e contemporaneamente mentale, astratto quanto basta per vedervi agire un progetto che si costruisce a poco a poco, tassello dopo tassello, immagine dopo immagine, attraverso un sistema di arsi e tesi, accenti e cesure, sistoli e diastoli del segno e del sogno, nel delirio dei colori.

Dicevo, a ragion veduta, una geografia anche perché ciò che appare e si dispone nella pagina, nell’intersezione e contaminazione tra parola e immagine, tra ciò che si dice e il come viene detto, dà luogo a uno spazio molto nordico e familiare, abitato da veleni e forme di un immaginario tragicamente vitali-stico dai netti e accesi contrasti tonali, che rimanda per la parte propriamente poetica ad atmosfere vagamente testoriane, e per la parte pittorica ad una sensi-bilità gestuale e visionaria, che trova i suoi ascendenti in certo “maledettismo” di stampo espressionista, abituato a pensar(si) per immagini e non per concetti.

Innescata da una sorta di liturgico “ingredior” (“Minuendo e resto / lavagna risposta / mi scrivo dettato / eseguo da solo “), in cui per via di linguaggio come in uno stralunato scioglilingua si esorcizzano e fissano infantili fantasmi di impo-

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tenza e solitudine, e conclusa da un salutare richiamo alla concretezza, a una “naturalità” cosciente di limiti e risorse ( “Natura mi basta / per fiume per mano / qua e là mi conduce / chino su cosa / guida ogni dì / la mia piccola vita”), la laica “via crucis” che prende qui corpo per immagini e suoni è una sorta di memoritmo onirico e fantastico, in cui ad essere chiamati in gioco, da parte di entrambi gli “artefici” (Bordoli e Morandotti, congiunti in ragione creativa), sono le imma-gini consuete del proprio mondo, i lemuri e fantasmi che insorgono letteralmente ai margini (della ricerca poetica, come dell’esperienza figurativa), nello spazio (diurno o notturno che sia) dove si allentano i controlli di una ratio troppo dispo-tica e autoritaria, per tradursi in “illuminazione” della realtà e dell’esperienza, oscurissima e chiarissima al tempo stesso.

Il risultato è come l’affacciarsi improvviso e subito cancellato dell’identità di un reale sempre instabile e in movimento, di un’apparenza che è misteriosa nell’attimo stesso che pensi di aver colto e posseduto, illuso di aver fissato in una formula dell’occhio il suo flusso inarrestabile di energia, il clinamen di segni e di emozioni, che trascina e fa precipitare le cose.

Per concludere, provvisoriamente…La pittura di Bruno Bordoli, una pittura forte di impasti cromatici violenti,

mastica e combina sulla pelle dei quadri i suoi elementi linguistici in un’alchimia di insorgenze oniriche e allucinate, che, se richiamano i modelli dell’espressio-nismo o quelli più recenti della transavanguardia, lo fanno per dire di un perso-nale approccio alla vita e alla sua raffigurazione attraverso un consapevole attraversamento di depositi di energia in essi contenuti.

Il corpo allungato e ferito diventa linguaggio. Diventa tempo che si fa teatro di vitalistiche pulsioni e paure, memoria che realizza e insieme annulla la forza erompente e discontinua del sogno, natura eletta ad alveo compiacente dei propri frammenti di storia. Il quadro acquista così una sua simbologia, un ritmo di ascen-sioni e rimandi, che fa emergere dal torbido della vita un inquieto immaginario grondante di tragica vitalità, che non chiede alcuna patetica complicità.

È da qui che nasce la costante strutturale che colpisce in questi quadri: l’ele-mento che si ripete di opera in opera, determinando da un lato il modo di disporsi delle figure, dall’altro l’angolo di penetrazione e fruizione del suo spazio da parte dell’osservatore. Tale elemento è la linea, in un sistema di relazioni tali con l’immagine da diventare fattore di senso, fatto etico: qualcosa che dice e decide come, piuttosto che cosa guardare, spostando indefinitamente il punto d’approdo, la conquista di un univoco significato, per privilegiare il ruolo del significante, di ciò che nell’atto di dire esalta la propria libertà.

È un elemento forte, la linea, che attraversa il quadro, solcandolo perpendi-colarmente o orizzontalmente, dall’alto al basso, da un verso all’altro, da destra a sinistra, come una sonda o una livella, seccamente campendone colori e atmo-sfere: giallo-verde, grigio-azzurro, nero-bianco, segnati spesso da strie di ocra confettosi e stranianti.

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Bruno Bordoli, Ballo dinanzi al bosco, 2018, olio su tela grezza,cm. 200x167.

Bruno Bordoli, Temporale prossimo e angelino, 2009, olio su tela,cm. 50x70.

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Ferma ma non conclude, la linea: punto mobile ed instabile, proiettato oltre l’attimo e la sua narrazione, eppure drammaticamente e ossessivamente analitico, spezza e segmenta continuamente la visione in tanti punti successivi imponendo un continuo ripensamento sulla grammatica della scena e sui meccanismi stessi del sogno consistenti in un processo continuo di condensazioni e spostamenti.

Chi guarda il quadro non può non restare catturato da una simile intenzio-nalità, dal gesto che separa con un taglio zenitale il fantasma della sua storia, il soggetto della sua scena, facendolo vivere come epifania ero(t)ica e inquietante di un insensato vacuum esistenziale, appagato dalla propria effimera e occasio-nale esemplarità. Fantasmi senza tempo e senza qualità; lemuri svuotati d’ogni significatività, a dispetto di certe esibite identità, che siano il “diacono” o le “girl friends”, il “miope” o il “vieil ami de la maison”.

Guardarli galleggiare con la loro inesistenza nel liquido amniotico del colore, aspettarsi dalla loro vertigine stralunata un’impennata decisiva di esistenza, un risveglio di verità: è questo il modo di porsi di fronte ad essi, salvandoli dalla mummificazione e dalla necrosi. Solo così, come dice Mauro, “aspetteranno che Bruno finisca / per vedere dove da vivi troveranno posto”.

Porta d’Ade e sutura, crepa e transito, la linea, verticale o orizzontale che sia, dice prossimità e repulsione, il bilico sull’abisso della caduta nel ritratto senza cornice dell’Altro o anche l’estasi oltre il tragico-gioioso dell’“effondrement”, dell’inabissamento nell’alchimia erotica e femminile della notte.

Un di qua e un di là, nel discrimine di un oltre: spazio di verità e di perdi-zione. Di fronte all’intrico del “boschetto”, nel tempio vivente del suo mistero, l’uomo si divide tra stupore e reticenza, imponendosi un rito di silenzio alla sua soglia: “non ogni verità è bene che sveli sicura il suo volto e spesso il silenzio è per l’uomo il miglior proposito”, dice Pindaro nella quinta Nemea.

È in questo “proposito” da rispettare, in questa genuflessione all’enigma, che si cela il segreto della vita e dell’arte: della vita che si fa arte inscrivendosi in un sistema di incroci ortogonali che trovano al loro punto di intersezione il cuore.

“La parola è preziosa ma per chi tacecome l’aria alle mosche chiuse in bottiglia:che vale che tu sia pavido o pugnacese ovunque la vita si somiglia?”Il silenzio, quando è essenziale, quando cioè tocca le grandi questioni (la

vita, la morte, l’amore), è più eloquente e fragoroso di tante parole, quello che si scrive nelle tele di Bordoli è “fragoroso” ed eloquente come raramente è dato di constatare in tanti artisti, a testimonianza di una vitale maturità.

È questo che la pittura di Bordoli denuncia, anche se sostiene di non averne l’intenzione. Giusto come si ricordava già prima, in principio, con le sue parole: “Non comunico principi, teorie, non enuncio alcun credo artistico”.

Vincenzo Guarracino

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BRUNO BORDOLINasce a Porlezza (Como) il 27 maggio del 1943, inizia a dipingere nel 1965

e ad esporre dal 1967. Il linguaggio di matrice espressionista-figurativa dei primi anni, affrancato da barriere ideologiche o solo formali, negli anni settanta si evolve nella ricerca e riconquista di espressività pura e primitiva con opere nelle quali, abbandonati i riferimenti a forme e oggetti visivamente riconoscibili, si indirizza sempre più versi i segni veloci della pittura gestuale, per cui razionale ed istintivo si fanno parola primordiale.

Negli anni ottanta il suo fare artistico trova nuova linfa in una sorta di misti-cismo laico reso stilisticamente mediante la contrapposizione e contaminazione formale e contenutistica di immagini che, pur desunte dall’esperienza sensibile, vengono indirizzate, con l’uso di colori e forme liberi dal procedimento logico ed oggettivo del dato visivo, alla ricerca dei significati reconditi ed a volte inquie-tanti del non evidente della coscienza individuale, sulla via tracciata in epoche recenti da Ensor, Munch, Nolde, dal boemo Kubin e da Bacon.

Dagli anni novanta con l’accorpamento tematico in cicli o serie di opere, pone al centro della sua preoccupazione espressiva la necessità di conquistare una nuova libertà di linguaggio evidenziando la rimessa in discussione dei fondamenti dell’espressione visiva ove forma, colore e superficie sono mezzi per deviare l’immagine verso esiti iconografici anarchici in oscillazione tra reale e simbolico, tra connotazione e virtualità. L’iconografia, spinta oltre la superficieretinica, è densa di strutture simboliche e pungenti che ribadiscono narrazioni visive metaforiche, antropologiche e spirituali veicolate dalla cronaca contem-poranea reale o possibile.

Nella scelta dei temi espressivi praticati a partire dal nuovo millennio, note-vole rilievo viene dato all’immaginario che indaga sull’iconografia spirituale e religiosa che è presenza costante nella tradizione europea.

Dal 1974 al 1980 si dedica al collage: nascono opere nelle quali gli elementi visivi, mutuati da fotografie pubblicate su riviste di largo consumo, vengono corretti e compensati con altri requisiti noti od ipotetici che generano, in tal modo, immagini inattese. Dal 1972 illustra testi letterari di numerosi autori, tra i quali: Lorca, Orwell, Turoldo, Marin, Pasolini, Flaubert, Manzoni, Dante, Collodi, Kubin, Strindberg.

Dal 2010 al 2016 dipinge le opere che interpretano i versetti tratti da tutti i libri della Sacra Bibbia.

Nel 2012 percorre a piedi il “Camino di Santiago” ed inizia la realizzazione di una serie di opere dedicate all’argomento che viene portata a termine nel 2017.

Vive e lavora a Porlezza, sulla sponda lombarda del Ceresio .

Elenco delle principali mostre

1967 GALL. FORCESSINI - Monfalcone (GO)1968 GALL. H. DETROIT - Monfalcone (GO)

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1969 GALL. IL SAGGIATORE - Monfalcone (GO)1970 ASS. CULT. S. MAURIZIO – Porlezza (CO)1970 GALL. BOLAFFIO - Lenno (CO)1970 GALL. IL SALOTTO A - Como1971 GALL. PATER - Milano1973 GALL. TRIADE - Torino1973 GALL. IL GIORNO - Milano1973 GALL. PLURIMA - Portogruaro (VE)1974 GALL. PIC-PUS - Firenze1975 GALL. MOSAICO - Chiasso (Svizzera)1975 GALL. LA COLONNA - Como1977 GALL. PIANELLA - Cantù (CO)1980 GALL. PERSEO - Firenze1981 GALL. LA COLONNA - Como1982 GALL. MOSAICO - Chiasso (Svizzera)1984 GALL. STUDIO 10 - Chur (Svizzera)1986 GALL. FALASCHI - Passariano (UD)1987 GALL. LA COLONNA - Como1989 GALL. MAURI - Mariano Comense (CO)1990 GALL. MOSAICO - Chiasso (Svizzera)1991 GALL. STUDIO 10 - Chur (Svizzera)1991 GALL. STUDIO 78 - Parma1992 GALL. LA CASA - Vaglio-Lugano (Svizzera)1993 GALL. 9 COLONNE - Bergamo 1994 GALL. ART LIGHT HALL - Trieste1995 GALL. APT - Grado (GO)1996 GALL. EOS ARTE CONT. - Lugano (Svizzera)1997 GALL. SHAKAN - Lausanne Ouchy (Svizzera)1997 GALL. S.PIETRO IN ATRIO - Como1998 GALL. STUDIO 10 - Chur (Svizzera)1999 GALL. LA CASA - Vaglio-Lugano (Svizzera)2000 GALL. SPAZIO SANTABARBARA - Milano2002 MUSEO D’ARTE M. PAGANI – Castellanza (VA)2002 GALL. A. C. CASCINA ROMA – San Donato M. (MI)2003 GALL. BLANCHAERT - Milano2003 GALL. IL SALOTTO - Como2004 GALL. OFFICINAARTE - Magliaso- Lugano (Svizzera)2007 GALL. BLANCHAERT - Milano2008 FACOLTÀ DI TEOLOGIA DELL’UNIVERSITÀ – Lugano (Svizzera)2009 MUSEO DIOCESANO - Milano2009 CENTRO STUDI “P. EBNER” – Ceraso (SA)2010 MUSEO DELLA CARALE - Ivrea (TO)2011 GALL. ACCADEMIA CONTEMPORANEA - Milano2012 GALL. IL SALOTTO - Como2014 GALL. CREDITO VALTELLINESE/ MVSA - Sondrio2014 GALL. CREDITO SICILIANO - Acireale (CT)2014 SPAZIO XX SETTEMBRE CARIFANO - Fano (PU)2015 LIBRERIA BELGRAVIA - Torino2019 IL RIDOTTO (ESPOSIZIONE PERMANENTE) - Coderno di Sedegliano (UD)

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Sogni di spettri/narrazione di un lavorodi Enrico Pulsoni

Sogni di spettri sono sei figure scultoree a grandezza umana, realizzate in cartapesta, sulle quali lavoro da svariati anni.

Queste sculture si presentano come un lavoro autonomo anche se alcune di esse sono la diretta continuazione di un altro ciclo denominato Calcioperetta.

Calcioperetta/Finale, dipartita è stato uno dei tanti eventi che avevano luogo nella mia casa-studio durante gli incontri al TERRAZZOalTERZO, nel quartiere romano di San Lorenzo.

Le serate al TERRAZZOalTERZO nello studio di Enrico Pulsoni sotto la luna di San Lorenzo e nascevano in collaborazione con Gianmaria Nerli, già autore dei racconti sul ciclo dal nome VOLTItraVOLTI.

Calcioperetta/Finale, dipartita era strut-turata come una partita di football in verti-cale, nella larga tromba delle scale dello stabile, ma di certo assomigliava di più ad una caduta degli angeli. Il pubblico salendo le scale si trovava a contatto con queste figure ridotte all’osso, ricoperte di giornali e stracci, che avrebbero voluto dire tante cose ma, per uno strano incantesimo, la loro comunicazione era impedita.

Da queste riflessioni, quasi in contempo-ranea, lavoravo su altre figure che a poco a poco presero la forma attuale di spettri, in totale sei, realizzate in cartapesta, stracci colorati e teste in filo di alluminio che ci appaiono, da subito, come materia viva in movimento nella loro intensa, inso-stenibile precarietà.

Sono personaggi deprivati dal contesto, pirati colti ognuno nella propria posa instabile, in quella ossessione che un tempo li ha resi vivi e che ora li fissa in forme spettrali.

Pian piano mi rendevo conto che essi mi imploravano sommessamente che dessi loro voce, al contrario di Michelangelo con il suo Mosè.

Gianmaria Nerli, riconoscendoli come esseri giunti dall’altrove, ne intuì il loro recondito messaggio e lo tradusse in parole.

Sei figure, ciascuna di esse depositaria di un segreto, portatrici di esperienze diverse e con un nome ed un carattere specifico:

La Messaggera, che preferisce essere uno spettro senza sogni piuttosto che il sogno di uno spettro;

Enrico Pulsoni, La Messaggera

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Il Trafitto, che vive il dubbio di essere condannato a un ciclo empatico, o se riuscirà a sfuggire o sarà sfuggito, al suo destino epatico;

L’Innesto, che, in sua interna dualità, contrappone l’intestino desiderio che lo muove e lo rinnova al desiderio che è anche destino che lo cova e lo rimuove;

La Monocolamonogamba, che incessantemente ci martella con batte la lingua per spartire l’oro e, nel contempo, la lingua batte per spartire loro, batte la lingua, affonda il dente, batte la lingua sul grande stomaco parlante;

Le Treteste, consapevoli che le città accumulano, stratificano, si insediano l’un l’altra, lasciando vedere la catena che le tiene unite o la figura che le spezza, ma mai cosa le alimenta;

La Trampoliera, che si chiede se bisogna sparire prima ancora di abitare, o di essere abitati, nel mondo che abitiamo tutti, quel mondo che altro non è che un modo.

La consapevolezza che gli spettri non fossero più solo sculture ma figure che avevano qualcosa da narrarci ha fatto sì che il lavoro prendesse anche una deriva di natura tecnica.

Come fare parlare codesti spettri che non fosse solo un registratore all’in-terno?

Sono passati diversi anni prima che potessimo presentare Sogni di spettri,che in origine dovevano essere una delle serate del TERRAZZOalTERZO.

Problemi di natura tecnico-acustica e traslochi dalla casa studio di San Lorenzo hanno allungato a dismisura la tempistica della presentazione e della rappresentazione.

Gli spettri prendevano sempre più una deriva teatrale e scenografica. Da un lato era importante mostrare queste figure come in un percorso ideale, dall’altro contrappore e conciliare presenze attoriali che rendessero più plastica la presen-tazione del tutto.

I sei spettri non sanno se prendersi sul serio oppure non sanno se prendere sul serio il mondo, o farsene beffe con i loro corpi di fantasmi, con lamenti, litanie, invocazioni e profezie.

Tre attori, due uomini e una donna, interpretando il testo originale di Gian-maria Nerli, danno voce a questi spettri sconfitti dall’esistenza e propongono ognuno il proprio immaginario, senza sapere però se a parlare sono effettiva-mente loro, o quello che si sente è soltanto il riverbero meccanico dei loro sogni di un tempo.

Per quanto concerne la parte di registrazione, ci siamo avvalsi della collabo-razione di Stefano Sasso, che ha studiato un sistema di altoparlanti dedicati da cui provengono le differenti singole voci corredandole, in questo impianto multi-

Enrico Pulsoni, L’innesto

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fonico, con una serie di paesaggi sonori con il preciso compito di valorizzare le variegate gamme espressive-linguistiche delle registrazioni.

Due fasi caratterizzano la presenta-zione e la rappresentazione di Sogni di spettri: inizialmente i visitatori seguono un normale percorso espositivo poi, ad un segnale visivo e ad un’ora presta-bilita, vengono radunati in uno spazio attiguo dove sono già presenti gli attori con maschere di cartapesta sulla nuca, elemento congiungente tra le statue parlanti e i corpi recitanti.

Il pubblico, posto al centro del triangolo formato dagli attori, segue la recita e, come in una partita di tennis, sposta continuamente lo sguardo dall’uno all’altro.

Sogni di spettri sono stati presentati e rappresentati nella loro forma completa per la prima volta nei Giardini della Scala Santa di Roma, grazie all’Associa-zione TRAleVOLTE, il 25 maggio 2019 con la messa in scena del trialogo di Gianmaria Nerli “I tre pirati” con la regia di Giulia Randazzo e i corpi di attori di Matteo Francomano, Francesco Laruffa e Alma Poli.

Successivamente sono stati riproposti a Berna, Spettri e trialogo, nei giardini della residenza dell’Ambasciatore italiano Silvio Mignano e nel Consolato Italiano di Basilea, rispettivamente il 28 e il 29 di ottobre 2019, con gli attori Benedetta degli Innocenti, Matteo Francomano e Francesco Laruffa.

Tutte le immagini di Sogni di spettri sono state prese nel Consolato Italiano di Basilea il 29 ottobre 2019.

Note al testo: TERRAZZOalTERZO, era la mia casa studio all’ultimo piano, in via degli Umbri 20 a Roma, dove invitavo di volta in volta musicisti, artisti, poeti e affini per stare insieme allegramente fino a notte fonda. Attivo fino al 2013.VOLTItraVOLTI, una miriade di disegni di grandezza variabile in cui affrontavo e seguito a farlo il concetto di identità: a volte, volti tra altri volti o, in molti casi, volti travolti.TRAleVOLTE, associazione culturale di Alessandra Scerrato e Francesco Pezzini, luogo espositivo e di dibattito da decenni, sito nel Complesso della Scala Santa, in Piazza di Porta San Giovanni 10 a Roma.

Enrico Pulsoni, Triaslogisti

Tutta la compagnia e l’Ambasciatore

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Enrico Pulsoni, Il Trafitto

Enrico Pulsoni, Le Treteste

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Enrico Pulsoni, Il Trafitto

Enrico Pulsoni, La Monocolamonogamba

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Giuseppe Modica (tavole)

Giuseppe Modica, Anticoronavirus, 2020, olio su tela, cm. 100x150.

Giuseppe Modica, Piazza del Popolo, 2014, olio su tela, cm. 120x180.

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Tito: prolifico ricercatore di misteri da fondere

Ferdinando Amodei, in arte Tito. Pittore, scul-tore, incisore nato a Colli al Volturno (Isernia) nel 1926. Membro della Comunità passionista della Scala Santa, ha vissuto dal 1966 a Roma. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Firenze con Primo Conti, inizia nel 1964 attività espositive in Italia e all’estero. Molta della sua produzione artistica è stata assorbita dalle grandi decorazioni in spazi pubblici e chiese, con affreschi, vetrate, mosaici ed elementi scultorei. Privilegiando la passione di Cristo, sia in pittura che in scultura, ha eseguito importanti opere come la Via Crucis in bronzo dei Sassi di Matera, il grande fregio di 30 metri in terracotta del Collegio Massimo all’EUR e il mosaico (250 metri quadrati) del Santuario di S. Maria Goretti a Nettuno. E’ stato impegnato anche in opere di carattere civile, come il monumento ai caduti di Colli al Volturno.

Del suo lavoro si sono occupati scrittori e critici notissimi, pubblicando monografie sulla sua arte.

Nel 1970 fonda a Roma, attiguo alla Scala Santa, il centro di arte contemporanea sperimentale, Sala 1. Nel 1962 pubblica un’antologica sulla Passione del Signore nell’arte contemporanea da cui viene tratto un documentario premiato alla Biennale di Venezia.

Tito è stato accademico pontificio dei Virtuosi al Pantheon e consulente alla CEI per l’edilizia sacra. Ha inoltre redatto diversi studi sulla Scala Santa e scritto d’arte e in riviste di informazione religiosa.

Le sue opere sono presenti in importanti colle-zioni private e pubbliche e nelle raccolte di prestigiosi musei del mondo, tra le quali: Albertina di Vienna; Art Gallery e Museum Kelvingrov di Glasgow (Scozia);

Museo di Arte Moderna di Tel Aviv; Museo di Gand, Belgio (Raccolta di Jan Hoet); Musei Vaticani; Museo Stauros di San Gabriele; Museo Bargellini di Cento; Museo Nazionale della Grafica di Roma; Collezione della Farnesina - Ministero degli Affari Esteri; Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contempo-ranea di Roma; MUSMA- Museo della Scultura di Matera

Tito, Autoritratto, 1966

Tito

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Didascalia

Didascalia

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Didascalia

Tito, Piatto con pesce, 1978, bronzo (collezione privata)

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Tito, Mela in contenitore, 1978, legno (collezione privata)

Tito, Bimbo e pesci, 1978, bronzo (collezione privata)

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Silvia Venuti, poetessa/scrittrice

Se il fine della vita, prima ancora dell’arte, è scoprire, cristianamente, il segno chiaro, inequivocabile della presenza di Dio, anche quando perce-pibile in maniera non immediata, rinve-nuta fra le pieghe dell’apparentemente ordinario, Silvia Venuti, poetessa e pittrice varesina, non può concepire radicali distinzioni fra i suoi modi di esprimersi. La poesia è anche pittura, la pittura é anche poesia, come d’al-tronde suggeriscono, esplicitamente, alcune opere della Venuti in cui imma-gini e versi scritti convivono in perfetta simbiosi visiva. Certo, cambiano gli strumenti di cui ci si serve, visuali da una parte, verbali d’altra, e con essi, di conseguenza, anche i linguaggi che impli-cano, che non possono essere coincidenti, ognuno rivolgendosi a una diversa grammatica, un diverso universo della forma. Nei dipinti della Venuti, formatasi all’Accademia di Brera, si annoverano, per esempio, anche esperienze non figu-rative, di prevalente carattere informale, volte a rappresentare, intuitivamente, il caos primordiale nel quale si manifesta la scintilla divina da cui tutto deriva, che non possono trovare, per via della loro peculiarità tipicamente pittorica, un preciso equivalente in poesia, se non per una vaga via analogia. Non cambia, però, lo spirito con cui la Venuti, in pittura come in poesia, cerca fi confronto col creato, uno spirito francescano capace di rinvenire la bellezza del mondo non nell’eclatante, nell’abbagliante, nel fenomenale, che potremmo incrociare solo in occasioni eccezionali, ma, al contrario, in ciò che c’è di più silenzioso, minuto, appartato, albergando regolarmente nel nostro quotidiano. L’apparenza non è la meta, è solo un passaggio, il viatico che introduce alla profondità delle cose, che può essere colta solo mettendo in comunicazione la nostra anima con quella del tutto in cui insistiamo. Eccolo, il miracolo, ogni volta che nell’anonimo stelo di un fiore siamo in grado di avvertire il segreto dell’amore universale per cui noi stessi esistiamo. La meraviglia del divino è sempre davanti a noi, dentro di noi, se solo la vogliamo vedere.1

Vittorio Sgarbi

1 Dal catalogo monografico Silvia Venuti a cura di Vittorio Sgarbi, EA Editore Palermo, 2017.

Silvia Venuti, L’azzurro scende sugli alberi, 2017, acrilico, cm. 80x80

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La ricerca pittorica di Venuti approda a risultati di sorprendente lirismo in cui l’uso di colori ben accostati restituisce ai suoi lavori tutta l’espressività e la poetica di una figurazione colta chiaramente, identificabile nella verosimi-glianza. Venuti infatti, grazie anche a una solida preparazione tecnica, non si adagia tanto nella contemplazione oggettiva del mondo, quanto piuttosto sa trascenderne l’esteriorità, ritrovando la meraviglia che si nasconde nelle cose di tutti i giorni, la natura, gli alberi, traducendola con la propria arte in un delicato canto alla vita.

Le tonalità delicate degli azzurri si muovono con delicatezza sulla tela donando solido equilibrio alla composizione.2

Marco Rebuzzi

Silvia Venuti istaura nelle sue opere un rapporto meditativo e intimistico con la natura, interpretata tramite il linguaggio figurativo, ma intriso di poesia e dalle valenze metafisiche.

Le sue tele sono in realtà poesie visive che hanno come scopo la connes-sione con la Grande madre Gaia. Silvia ci fa passeggiare lungo valli, pianure, montagne solo con la forza dell’immaginazione, conferendo alle sue opere un’atmosfera romantica, che si traduce in un idillio naturalistico. Affinché nulla turbi questo momento introspettivo, in un costante parallelismo tra macrocosmo e microcosmo, la presenza umana in questi lavori è assente, se non come linea dorata del ricordo o come pensiero, che emerge tono su tono tra le ariose cromie. A questo risultato contribuisce anche la tavolozza adottata dall’artista, sempre ricca di sfumature, dominata da colori vibranti e sempre declinati in tonalità luminose e cristalline.

Nelle vedute paesaggistiche di Silvia Venuti si percepiscono gli umori, gli aromi e i toni della sua terra trasfigurati dalla sua visione interiore: l’artista ha infatti la capacità di trasformare il mondo che la circonda in autentica poesia visiva, restituendoci il senso utopico di una vita migliore di quella cruda e brutale che troppo spesso ci appartiene.

Artista sensibile ed espressiva, predilige una pittura intimista che rielabora le emozioni della sua anima. I paesaggi sono interpretati con poesia meditativa, frutto di un attento studio gestuale.

La Venuti evoca nei suoi dipinti i sentimenti della sua terra natia, con stile intuitivo, personale e ricco di contenuti visivi, fortemente caricati da riferimenti mnemonici. I suoi colori accesi indicano il suo intenso amore per la natura, costruendo paesaggi ambientati in fantastiche scenografie, abitate unicamente dalle sue emozioni.

Una pittura silenziosa e penetrante, che scopre, senza dubbio, la sua impronta caratteriale.

Paolo Levi2 Da Effetto Arte collection, Numero Speciale, 2018.

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Silvia Venuti, Brughiera, 2018, acrilico su tela, cm. 25x30

Silvia Venuti Ritratto di lago. Cadrezzate. 2017, acrilico, cm. 50x70

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Silvia Venuti, Natura, la vera ricchezza, 2014, acrilico, cm. 80x80

Silvia Venuti, Un cielo di bianche nuvole, 2015, acrilico, cm. 40x40

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Dell’ignoto: Euridice non abita più quiGiovanni Baldaccini

“Questo esilio che è proprio del poema fa del poeta l’errante, il sempre smarrito, colui che è privo della presenza stabile e della vera sosta. E ciò deve essere inteso nel senso più grave: l’artista non appartiene alla verità, perché l’opera è ciò che sfugge al movimento del vero, perché sempre, da qualche parte, essa lo revoca, si sottrae alla significazione, designando la regione dove niente resta, dove ciò che è avvenuto non è tuttavia avvenuto, dove ciò che ricomincia non è ancora mai cominciato, luogo della più pericolosa indecisione, della confusione da cui niente sorge. Questo di fuori eterno è evocato efficacementedalle tenebre esterne, in cui l’uomo è messo alla prova di ciò che il vero deve negare per divenire la possibilità e la via.”

(M. Blanchot, Lo spazio Letterario, Einaudi, Torino, 1977, p. 207)

In un’epoca come la nostra dove tutto è merce e la logica del capitalista (J. Lacan) domina le nostre vite senza che ce ne rendiamo conto; in un’epoca come la nostra dove la tecnologia non è più servizio ma padrona e investe la nostra incon-sapevolezza assimilandoci allo strumento di turno, l’arte – che dovrebbe costituire baluardo certo (d’incertezza) – è asservita a sua volta alla logica spersonalizzata e spersonalizzante della merce e si trasforma in oggetto di esibizione, di potere, di violenza contro il senso nascosto all’interno di uno stupore che non suscita più. Dove, all’interno dell’arte, un segnale di resistenza, un rimando a un altrove scomparso, a un senso sommerso che ci protegga dalla banalità del letterale, dalla ripetizione che “cosifica” dall’appiattimento massificante nella ripetizione dell’uguale; dove la meraviglia e il vuoto, da riempire di vissuto straordinario (al di là dell’ordinario)? Dovremo forse comportarci come quel personaggio di Bernhard che ogni mattina si recava al museo, sedendosi sempre di fronte allo stesso quadro (T. Bernhard, Antichi Maestri)? Sarebbe inutile: quel personaggio non ne traeva altro che la ripetizione vuota della vita. Dove, allora, un moto di resistenza, se l’arte stessa si trasforma in espressione del banale, ripetitività e apologia della catena di montaggio (Warhol) in cui noi stessi siamo inseriti?

“La nostra cultura dominante, l’immensa impresa di stoccaggio estetico, di risimulazione e reprografia estetica di tutte le forme che ci circondano. Questa è la più grande minaccia, è ciò che io chiamerei il grado Xerox della cultura” (J. Baudrillard, La sparizione dell’arte).

Eppure l’arte non è quello che la abbiamo fatta diventare; siamo noi che, con la nostra visione asservita, la riduciamo a quei termini minimi. L’arte allora reagisce. Come? Se osserviamo la sua espressione, ci accorgeremo che è vuota.

Si guardi, ad esempio, Hopper che, nelle sue tele, riproduce la paralisi del tempo e il nostro esservi invischiati senza averne coscienza. L’arte reagisce allora con la violenza di un’espressione diventata muta che comunque parla a chi la sa

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ascoltare. Il suo “altrove” si impone, proprio di fronte a noi che siamo “qui”, in un luogo strettissimo, del tutto insufficiente. Tuttavia, per rintracciare un “altrove” che rimandi a un senso sempre sfuggente, e dunque a una ricerca, occorre interrogare. Dove l’assente? Forse in una presenza che è soltanto apparente mentre, in realtà, restituisce altro. Si prenda Van Gogh, “fino al terribile quadro finale, l’autoritratto, l’ultimo, quello in cui Van Gogh è assente, ma in cui parlano in modo terribile le sue tracce che si scavano in esso” (F. Rella, Forme del sapere). La sua è una presenza “assente”, rivolta altrove, ma non verso l’infinito: ci ricorda la morte.

Si consideri l’opera di Kafka. Come scrive Adorno “Da nessuna parte in Kafka traluce l’aura dell’infinito, da nessuna parte si dischiude l’orizzonte. Ogni proposizione è letterale, ogni proposizione è significante. Le due cose non sono fuse, come vorrebbe il simbolo bensì separate da un abisso. E da questo abisso barbaglia il crudo raggio della fascinazione” (Adorno, Appunti su Kafka).

Dunque, arte rimanda a abisso. L’abisso non è riducibile a concetto; occorre una visione diversa. “Si considera un oggetto da molti lati diversi senza compren-derlo tutto – perché un oggetto preso in tutto il suo insieme perde di colpo il suo volume e si riduce a concetto” (Musil L’uomo senza qualità). Sembra allora che anche la presa di coscienza di un oggetto (artistico) sia insufficiente e ne stra-volga il messaggio riducendolo ad un unico aspetto. Come procedere?

“... il saggio procede in questa resistenza al concetto frantumando l’oggetto stesso, frantumando ogni pretesa di totalità e compiutezza... L’oggetto verso cui il saggio si china viene scheggiato. La sua superficie è incrinata. Di lì esso si sporge verso chi lo interroga e di lì entrano in lui le domande che di fronte ad esso si sono generate. Le domande si incorporano così all’oggetto, ed è questo che ora ci interroga: interroga noi che lo interroghiamo” (F. Rella, op, cit.). Viene in mente Picasso e il movimento cubista, ma non escluderei neppure il tratta-mento della luce da parte degli Impressionisti.

Cosa ci chiede l’oggetto (dell’arte)? Di non ridurlo a cosa, a oggetto di mercato. Di non ridurlo affatto, ma lasciarlo vagare nell’assenza di ogni bisogno di compiutezza, per compiere il suo destino di “rimando”. Di ascoltarlo e, facen-dolo, ascoltare noi stessi, lasciandoci penetrare dalla sua incompiutezza per compierlo, generando in noi un vissuto significante che la coscienza tradurrà in significato. Da informale a forma, da immagine a parola.

Il potere costituito, oggi la finanza e il denaro, ha sempre tentato di assimilare l’arte ai propri canoni. I potenti della terra si sono sempre circondati di artisti da ridurre al proprio capriccio. Spesso ci sono riusciti, spesso no. Caravaggio ha dipinto il “sacro”, ma rivestendolo di un umano dissacrante che non si lascia ridurre a semplice contemplazione metafisica. Michelangelo è stato costretto a piegarsi al potere del papato, ma ha dimostrato, in un contatto ineludibile, che Dio ha bisogno dell’uomo per esistere e che l’uomo senza lo Spirito è solo “cosa”.

Il potere ottuso, il Leviatano, pretende che l’arte vesta i suoi stessi panni e si lasci comprare. Spesso ci riesce . “Eppure, anche appese alle pareti di un museo, le opere di Francis Bacon o di Mark Rothko continuano a proporre

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un’altra storia rispetto alle narrazioni omologanti. La scarnificazione di Alberto Giacometti ci riporta comunque a un livello dell’umano abissale” (F. Rella, op. cit.) e dall’abisso, come abbiamo visto, sale una domanda che chiede di essere interrogata. Non ci si siede a contemplare un’opera o a leggere un libro; si lascia che essi ci contemplino e ci leggano, per quanto quell’operazione possa risultare “perturbante” (S. Freud, “Il Perturbante”).

In questa nostra modernità senza senso, che uomo siamo diventati? Deleuze risponde che siamo “macchine anonime, macchine desideranti, macchine mole-colari e macchine del potere (F. Rella, op. cit.). Macchina allora l’arte, ripetuta meccanicamente, metodicamente, messianicamente nel dio senza nome della rete, in attesa di un consenso che non si rifiuta mai.

“E alla fine”, scrive ancora Rella citando Deleuze, “un processo di disuma-nizzazione: il gioioso divenire altro, il divenire inumano dell’uomo”.

Dunque nella disumanità del mostruoso cui il Leviatano pretende di ridurre l’uomo e l’espressione, “l’arte chiude in sé, come un tempo anche il mito, mostri. Sono i mostri che comunque possiamo agire contro l’immane mostro del potere, contro il Leviatano, il quale sembra non poter mai essere sconfitto. Eppure è attraverso le parole che le arti e le filosofie ci hanno insegnato che possiamo parlarne, metterlo in questione. Sono queste parole che ci hanno convinto a non esserne complici” (F. Rella, op. cit.)

La poesia (…) in quanto poesia non esiste nemmeno, è una assenza di signi-ficato altamente organizzata.

(G. Manganelli, “Discorso dell’ombra e dello stemma”)

“Scrivere è in primo luogo un atto egoistico, un gesto che separa e isola chi scrive dagli altri. E’ ciò che Proust sottolinea a lungo nel Tempo ritrovato. I libri sono figli del silenzio, della notte, della solitudine. Una conversazione tra amici o anche tra amanti non è, rispetto all’opera, che diversione e dispersione” (F. Rella, Forme del sapere, Bompiani, 2014).

Possibile, si chiede allora l’autore, che la scrittura non generi in chi scrive un senso di colpa? Come porsi di fronte al vomito di cui parla Thomas Bernhard?

Eppure la scrittura non è solo solitudine e tormento; genera piacere in chi la pratica, osserva ancora Rella, e Leopardi sosteneva che certe opere, rappre-sentando la nullità delle cose e pur mettendo a contatto con il vuoto e la morte, “raccendono l’entusiasmo” (G. Leopardi, Zibaldone, Garzanti, 1992).

Dunque contrasti. L’opera è solitudine, colpa, abisso, violenza, fascinazione. Non si tratta di un

oggetto unitario che accompagna il lettore verso un senso compiuto, ma di un oggetto frantumato che interroghiamo e ci interroga.

Questa doppia interrogazione attraversa ogni forma espressiva, a meno di rimanere indifferenti. Molti affermano che la pratica artistica consista nel portare alla luce il rapporto dell’autore con il “tremendo” (Kafka, Rilke, Bernhard e

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altri). Di fronte a un senso del tremendo mi sembra difficile restare indifferenti. In cosa questo “tremendo” consiste? Spesso in un innominato, non nomina-

bile, ignoto senso di vuoto. L’alterità dell’ignoto, rappresentata da qualcosa di non presente e, per questo, inconoscibile.

“Ritroviamo questa sconcertante prospettiva nelle accecanti strisce di buio che attraversano le tele bianche di Franz Kline. Ritroviamo violenza e un metodo altrettanto violento per contenerla ed esprimerla, in Jackson Pollock, che passeggia sgocciolando colore sulle tele stese a terra, e che poi chiude il suo gesto in una fittissima trama che tiene tutto insieme”. (F. Rella, op. cit.)

Le ritroviamo nella Stanza da letto di Arles, dove van Gogh rappresenta la violenza della propria assenza, il suo essere ormai altrove, mentre “i quadri sono appesi sghembi, paurosamente inclinati. Non si appoggiano a una parete piana ma scivolano inarrestabili, pronti a precipitare verso il letto vuoto, il letto in cui non giace nessuno. Il letto di chi ha già lasciato l’umano e viaggia verso un altrove” (F. Rella, op. cit.).

Dove questo altrove? In una promessa di infinito, di eternità, di gioia suprema dopo i tormenti dell'esistere? O non sono proprio questi tormenti a generare il “tremendo” dell'esprimere, lo sforzo della scrittura, la fatica di dire quel che non esiste fino a quando non è detto e che, forse, comunque, anche allora non resisterà?

Il tremendo della tragedia, dove ogni aspetto presenta il suo contrario, l'ombra e la luce, l'umano e il divino, il dionisiaco e l'apollineo, nell'assurdo di contraddizioni che non risolvono ma sempre rimandano a un mistero, una sollecitazione scono-sciuta, quel pathos che precede il pensiero e se ne pone alla base, ma può anche provocare una vertigine che annulla il Logos. In ogni caso, non si potrà evitare di provare un sentimento perturbante (S. Freud, “Il perturbante”, op. cit.) un “conosciuto non pensato” (C. Bollas), una traccia dell’ignoto di noi stessi che sappiamo esistere ma non riconosciamo mai.

Un’assenza presente, dunque, come il letto vuoto di Arles, dove l’uomo “è posto egli stesso, con il suo fragile essere, come il luogo di tensione tra questi contraddit-tori irriducibili: è vissuto e si vive come un limite e una soglia” (F. Rella, op. cit.).

Il letto vuoto, il limite e la soglia dove l’opera si forma e converge, dove scom-pare per ritornare ancora. Non è quel letto vuoto il luogo dell’altrove dove non c’è nessuno eppure l’assente parla mentre tace? L’arte, allora, si presenta come sforzo di esistere, una tensione irrisolta e irrisolvibile, da seguire senza sperare di capire. L’opera è notte, l’opera è silenzio. Nessuno la può dire: Euridice non abita più qui.

Giovanni Baldaccini

Vincent Van Gogh, La camera di Vincent Van Gogh ad Arles, 1889

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Alcuni sonetti di Shakespearea cura di Silvano Agosti

Ho deciso di tradurre in italiano i 154 sonetti di William Shakespeare. Mi è sembrato di pagare un debito nei confronti di questo raro genio della letteratura riproponendo una sua opera unica e nel suo insieme sconosciuta.

Ho tenuto presente, nel tradurli, che fossero garantite tre diverse caratte-ristiche:

1: Massima semplicità del testo e quindi alto livello di comprensibilità2: La garanzia di un ritmo costante nello scorrere dei versi.3: Un permanente poetica capace di rendere presente un alone di mistero.

IFrom fairest creatures we desire increase,

That thereby beauty’s rose might never die,But as the riper should by time decease,His tender heir might bear his memory:

But thou, contracted to thine own bright eyes,Feed’st thy light’st flame with self-substantial fuel,

Making a famine where abundance lies,Thyself thy foe, to thy sweet self too cruel.

Thou that art now the world’s fresh ornament,And only herald to the gaudy spring,

Within thine own bud buriest thy contentAnd, tender churl, makest waste in niggarding.

Pity the world, or else this glutton beTo eat the world’s due, by the grave and thee.

*Alle creature più soavi chiediamo di moltiplicarsi,perché il fiore della bellezza non si estingua mai,

o quando un dì dovrà sfiorire,possa un suo tenero germoglio portarne il ricordo:

ma tu, devoto agli occhi tuoi colmi di luce,nutri la fiamma solo con te stesso,

troppo crudele nemico del tuo dolce io,creando miseria dove l’abbondanza regna.Ora che nel mondo sei il fiore più fresco,

e sei tu il solo messaggero di festose primavere,nel tuo stesso germoglio imprigioni il tuo seme

e, tenero spilorcio, nell’egoismo ti consumi.Se non avrai pietà del mondo, sarai tanto avido

da divorare con la morte ogni tuo debito.

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II

When forty winters shall beseige thy brow,And dig deep trenches in thy beauty’s field,Thy youth’s proud livery, so gazed on now,Will be a tatter’d weed, of small worth held:Then being ask’d where all thy beauty lies,

Where all the treasure of thy lusty days,To say, within thine own deep-sunken eyes,

Were an all-eating shame and thriftless praise.How much more praise deserved thy beauty’s use,

If thou couldst answer ‘This fair child of mineShall sum my count and make my old excuse,’

Proving his beauty by succession thine!This were to be new made when thou art old,

And see thy blood warm when thou feel’st it cold.

*

Quando quaranta inverni ormai ti avran travolto,scavando rughe taglienti nella tua bellezza,

la veste regale della giovinezza or tanto amata,sarà un cencio consunto e di nessun valore:

e se qualcuno chiederà dov’è la tua bellezza,o dove sia il tesoro dei tuoi giorni fioriti,sarebbe la vergogna di uno sciocco vanto

dire che tutto è nascosto nel fondo dei tuoi occhi.Se potrai rispondere “Questo mio figlio soavepaga i debiti e giustifica i miei capelli bianchi”lasciando intendere che la bellezza, in fondo,

sei tu che alla fine gliel’hai trasmessa!Solo così potrai vederti nuovo nella vecchiaia,e sentir scorrere caldo l’ormai tiepido sangue.

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III

Look in thy glass, and tell the face thou viewestNow is the time that face should form another;Whose fresh repair if now thou not renewest,

Thou dost beguile the world, unbless some mother.For where is she so fair whose unear’d womb

Disdains the tillage of thy husbandry?Or who is he so fond will be the tomb

Of his self-love, to stop posterity?Thou art thy mother’s glass, and she in thee

Calls back the lovely April of her prime:So thou through windows of thine age shall see

Despite of wrinkles this thy golden time.But if thou live, remember’d not to be,

Die single, and thine image dies with thee.

*

Osservati allo specchio, e dì al volto che vediche tempo è ormai di costruirne un altro:

perché se non rinnovi ora la sua freschezza,offendi il mondo e inganni qualche madre.

Qual donna infatti può dirsi così rarada rifiutar nel grembo il crescer del tuo seme?

O chi è quell’uomo cosi folleda diventar la tomba dei suoi amori,per non avere attorno a sé un erede?

Tu sei lo specchio di tua madre, che in terivede, la dolce stagione della giovinezza:

cosi a dispetto delle mille rughe,dalle finestre del passato rivedrai,

lo scorrere di questo tuo tempo doratoma se preferisci finire nell’oblìo

muori privo d’amore, e tutto svanirà con te.

A cura di Silvano Agosti

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Un poeta greco contemporaneo: Dinos SIOTISa cura di Crescenzio Sangiglio

Premessa

Certamente non si dice nulla di nuovo riconoscendo qui la molteplice e multi-forme attività, in Grecia e in particolare negli Stati Uniti, correlata a più livelli d’interesse, del poeta Dinos Siotis, e intesa a produrre la maggior possibile proie-zione internazionale delle lettere greche.

Dinos Siotis è di sicuro uno dei più fecondi e preziosi autori della c.d. gene-razione del ’70, per molti aspetti tuttavia differenziandosene per una singolare, e si direbbe sanguignamente cronachistica, diegetica visione di cose, ambienti e uomini oltre che di tutto quello che attiene alla loro reciproca, reale o apparente, azione interconnettiva.

Una ampia cronaca, davvero, ma non semplicemente espositiva, bensì este-samente e con la massima cura nei particolari corredata da precisi e puntuali commenti con funzioni di decifrazione ed illustrazione politica, sociale e storica, così che la precisa osservazione, non tanto dei fatti della storia, quanto degli innumeri atti e omissioni della presenza umana, dei progetti e delle rovine dei progetti, degli statuti antropici e delle loro multivalenze oggettuali nel tempo e nello spazio, perviene a radiografiche lastre di rappresentazioni di lampante realismo nutrito di istinto severamente critico.

Siotis ignora il passato, non se ne cura più di tanto, ovvero non gli interessano in quanto tali gli eventi che hanno avuto luogo anni fa e/o secoli fa. In sostanza e in prima istanza, cioè, eventi ed esiti trascorsi non possono che aver interessato l’umanità di quegli anni e di quei tempi, sicuramente però ed obbiettivamente per lo più non l’immediato nostro presente.

Immanenza, quindi, e immediatezza, imminenza – anche per eventuale diretta o indiretta conseguenza di un passato più o meno lontano o vicino – sono gli impulsi e le ragioni di avvio e di sviluppo della sua “carrellata poetica”. Implici-tamente inoltre gli avvenimenti con protagonisti, in genere negativi, gli uomini si riflettono scarni ed essenziali nelle loro linee portanti, epperciò nella loro più diretta quiddità e più naturale forza d’impatto.

Chiaramente e, per così dire, “tradizionalmente” nei secoli dei secoli la menzogna, e tutti gli “attributi” ad essa accessori, règola le trame comportamen-tali di ogni società, di ogni suo strato componente e sopra tutto di ogni “supervi-sore” dominante.

Nella irrimediabile fluidità del tempo – primo e potente alleato dell’uomo, ma anche irriducibile avversario – la menzogna, la bugia, si diluisce sfilacciandosiper diventar pura e semplice dimenticanza, oblio, innocenze senza colpa alcuna,

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sino alla successiva menzogna dipinta o cammuffata da verità, per sempre neces-saria alla quotidiana illusione di un mondo felicemente paranoico nella anticon-venzionalità del proprio caos

abbiamo imparato a vivere senzacalcolare nulla giacchè ormai non abbiamo nullatranne i nostri fragili sogni e...questiridotti a pezzi

In un’altra poesia, tra le più caratteristiche e indicative di Dinos Siotis, Albergo L’Insonnia, leggiamo

e i cani checorrevano per non perdere l’ultimo boia peril riformatorio

dove, nella metafora canina, è più che palese la facile propensione (che è follia o persuasione occulta?) degli uomini ad acconsentire acriticamente a falsamente conturbanti sirene, a lasciarsi convincere (o meglio: a voler lasciarsi convincere) dalle contingenti promesse di impressionanti “schiavitù” apofanticamente dorate e foriere di assolute libertà di “progresso”: appunto il nuovo “riformatorio” per il nuovo ”uomo” telecomandato e teleguidato.

Una nuova “versione” di purgatorio verso un finto paradiso. Così, lentamente e inesorabilmente, svaniscono “i nostri sogni” nelle altrui

(ignoto mondo damocleo) dimensioni nomotetiche. E se pur, “ridotti a pezzi” dovessero persistere, quindi disutili e vani, nella sospensione di una conscia o inconscia determinazione impersonale finiscono per installarsi dal momento che

altri si sono incaricati di gestire in appaltoi nostri sogni altri regolano le cose della nostra vita

e

abbiamo imparato a vivere senzacalcolare nulla giacchè ormai non abbiamo nulla

quando l’alienante mnemotecnica delle tensive relazioni, che imprigionano personalità e menti in moltitudini di individuali illibertà prende il sopravvento lungo il percorso verso una ineliminabile introiezione sempre dall’esterno indotta e regolata.

Ed è così che accade che:

non abbiamo mai saputo che fine hanno fatto gl’inquilinidell’appartamento accanto

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e ancora

dove sono finitii preziosi beni che coprivano unmucchio di necessità

e

dove i vincitori hanno venduto il bottino.

Pare di scorgervi l’interpretazione poetica di diffuse realtà sociali e politiche nel mondo, rievocazioni memoriali di un’esperienza imposta per forza di cose da entità sfuggenti e proteiche, interminabili teste lernèe che nessun Ercole riesce a recidere, bruciare e neutralizzare.

Nè vi si prospettano plausibili vie d’uscita, scorci salvifici o idonee dina-miche assiologie alternative.

Persino l’arte – forma di liberazione e di elevazione catartica per eccellenza – è troppo “pudica” per ispirare processi di autoconoscenza costruttiva, di demi-stificanti reazioni a invasivi, globalizzanti artifici e sedicenti archetipi.

Riassuntivamente, il Poeta riscontra e confessa una realtà gravissima, effet-tiva, forse irreversibile, comunque d’incalcolable impatto: l’incapacità della poesia, in particolare (v. Paralleli), di affrancare l’uomo riscattandolo finalmentedalla servitù di ogni oppressivo potere, specialmente e con più incisività politi-cantico ed economico-utilitaristico, prosseneta di mortali disorientamenti, e in ultima analisi eliminare dalla dimora terrena i vari generi di “nero” che lordano la natura, le anime, i pensieri dei dominati e sopra tutto dei dominatori.

Sembrerebbe allora evidente che non esiste:

nessuna notizia dal Paradiso

perchè

forse (che il) paradiso non l’hai trovato?

E ci sarebbe allora da chiedersi: cosa ci rimane?, per poter, sia pure come consolazione, fregiarsi del titolo d’onore “ad immagine e somiglianza” e magari aspirare o pretendere(!), nell’ora dell’estremo giudizio, un qualche “trattamento di favore”.

Domanda senza risposta, piuttosto inesistente risposta, come del tutto alea-torio per l’uomo e soggetto alle limitatissime condizioni di attuazione riserva-tegli appare ogni suo “progetto / di un certo / eterno orizzonte”.

Non rimane che l’estrema domanda, preliminare alla finale evasione identi-taria:

Chi ha paura della propria morte?

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forse un inatteso, indefinibile timore di rivelatrice autoconoscenza o autoco-scienza, finale e irreversibile.

La poesia di Dinos Siotis si equilibra fra devastante realismo e tonica escur-sione lirica, si avvera in una diretta, luminosa esplosione di realtà nell’oriz-zonte linguistico seminato di asseverante lirismo che il pur sorgivo sarcasmo non riesce a temperare nonostante aleggi, quasi semanticamente, su tutto il paesaggio poetico dell’autore.

ANTOLOGIA

Piccola storia

Indossò di nuovoil sorriso sommersodel sogno,e poi,nel mezzo del viaggioe dell’inamovibile presente,la sua fronte incompletas’incrinò.Cosìtanto insistette nel suo progettodi un certoeterno orizzonte,che la morteinvidiòla sua grandeperseveranza.

Lì rimasenell’impenitente vuoto.

Sette enunciazioni per una convenzione unilaterale

3. Quasi amoroso

Li hanno trovati sedutisu una panchina del parcomentre ipotecavanoil polo d’attrazione dell’erernità.Era proprio il momentoil grande momentodel silenzio degli innamorati.Nessuno osò obiettare.Tutti concordavanoche si trattava di due speranzea bruciar nella fluida realtàin volo sopra gli eventi.Come una rondine.

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Variazione per quattro temi, i due ignoti

3.

Come ti sei reso conto,ti stanca perfino l’autonomia del pensieroin qualche parte cerca di diventar dipendentegiustificar la sua utilità.Tutto inevitabile.Gli avvenimenti fischiano alle tue spalle.Pubblicità pietra nelle scatole di cerini.Interventi a norma di legge.Protezione terrorista.Chi ne tiene conto?Chi ha paura della propria morte?Ogni notte muori insieme alle foglie del piopposotto lo sguardo adesso insistentedi una luna operatatranquilla la notte nel parcomalessere per l’umidità della serae gli starnuti delle statue.Senti solo lo spirito della pudica- come già detto – e aritmica nottementre sta crocidando nomi e indirizzi.Il mattino dopo bussano alla tua porta:“Entri, signore, cerchi di adattarsi”,ma tu sei già morto e inadattabile.

Forse

Forse alle otto del mattinocol fumo della sigarettail caffè versatosul tavolo rotondo il vasocoi pesci legati a grosse funiforse più tardiquando gli uccelli affamatiritornano nelle loro gabbie per un cielo azzurroforse più tardi a mezzogiornoquando il vento penetra nei tirettisollevando vecchie scartoffie

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spargendo per le strade e sulle scalenomi senza un vestitoforse il pomeriggioquando le ambulanze con le tasche stracciatestridono salendo le disceseforse la sera tardiquando la luna diventa lucernanella testa vuotadi un abbuiato poeta.

This isn’t Aloha baby

a Nassos, ancora una volta

Col naso tappatole scarpe scioltee l’uccello sazio

Si trascina ancora sui piediinfantile caffè di studentessedi ritorno sulla via Telegraphun po’ a comprar libri da Moe’sun po’ a bere un espresso da Med

This isn’t Aloha baby disse morbida vocequi è Barclay delle allucinazionidelle tenere sensazionidegli spari sui residuiabitanti accusati di aver vissuto nel passatocercando dietro alle rovineil violino perduto di Ionesco

La giornata si lasciava alle spalle un angolo apertoe successive curve – alcune in inglesealtre in spagnolo

Ancora più indietro, nel pomeriggio,con un paio di canocchiali avresti potuto distinguerele spiagge argentate di Alohascalzocol naso stappatoe il cane affamato

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Paralleli

Unicamente scrivendo una poesia l’azzurro del cielonon si spargerà sopra la terranon troveranno un tetto i senzatettonon si sazieranno gli affamatinon potremo sottrarci alla vista dei guerrafondaidi tutti i Pentagoni

Unicamente scrivendo una poesia non crollerà la Borsanon se ne andranno una volta per tutte i Contrasnon andrà là da dove è venuta la Guerra degli Astrinon ci dirà la verità il Presidenteunicamente scrivendo una poesia

Unicamente scrivendo una poesia il vecchio Withman non si sveglieràMajakovskij non finirà le sue poesieNeruda non butterà giù PinochetGinsberg non sarà proclamato eroe nazionale

Unicamente scrivendo una poesia gli emarginatinon procederanno a prelievi in Svizzerai ghiacciai non copriranno i parossismi dei politicil’ideologia dell’ombelico continueràle sue guerre rimborsata in dollari

Non cambierà granchè unicamente scrivendo una poesianon mi troverà simpatico la classe dominantenon aprirò gli occhi del mondo- d’altronde, chi sono io? -esigerò però il ripristino delle cose ecome polvere pensandoti TREMERÒ

Unicamente scrivendo una poesia non si fermerannole nascite di uomini sinteticinon smetterà la gente di star in pessime condizioninon verrà abolito il terrorismo statalele tue tette non si ergeranno più in su eio continuerò a interessarmi di tuttoscrivendo una poesia

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Paradiso (o quasi)

Nessuna notizia dal Paradisodicesti che avresti scritto una volta giùntovi- dobbiamo supporre che stai ancora viaggiando?

tranne che tu sia gia arrivatoe stai sistemando le tue cosevestiti, scarpe, cappelli, libri

forse sei uscito per conoscere i vicinicomprare giornali, mangiar qualcosafors’anche ci hai dimenticati, se te la passi bene

qui le solite cose, un caffettuccio in piazzail cane a passeggio due volte al giornoun po’ di questo, un po’ di quello

con l’aliscafo andiamo alle isoletanto per cambiar aria e paesaggivedere le luci del porto

ma perchè questo ritardo a darci qualche notiziaforse che il Paradiso non l’hai trovato?e quindi noi...

Kansas City Blues

a Paul Rishell

Ufficialmente il silenzio ci ha abbandonatoufficiosamente sta ancora insieme a noiattraverso i blues di Kansas City

con le fisarmoniche e i mandolinidell’umido Sud, coi passi che affondanoin remote o inesistenti spiagge

ufficiosamente il silenzio sta dentro di noi e

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ogni sera di domenica si annidanell’ultimo respiro del vespro

ed è qualcosa come una malinconiaqualcosa come oleandro che si trascinanelle nostre viscere lasciando un sapore

di pernice ferita perdutain un fitto bosco cercandodi volare con l’ala spezzata

Albergo L’Insonnia

Dopo le tragedie del pianeta ci fermammoa riposarci all’albergo L’Insonnia milionii morti e i feriti e i cani che

correvano per non perdere l’ultimo boia peril riformatorio il fuoco era sceso fingiù al mare il mare era sceso fino

alla foce dell’oscura notte aveva perso la bussolae non sapeva da dove passare per arrivare all’albergo L’Insonnia ci condussero in una suite con vista i campi

delle battaglie degli abissi delle guide senz’occhidei dilemmi e dunque la suite aveva un bar con tuttii conforts sbiancanti per i denti creme per la disperazione

rinfreschi per la depressione bevande forti per farcisalir la pressione le cameriere loquacissime ci dicevano(senza utilizzare vocali) più di quanto avremmo

voluto sapere ma tutto un caos incalcolabile el’insonnia a non voler chiuder occhio il giorno dopole strade (erano) stanche per il troppo andirivieni e le

scintillanti mercedes scivolavano sull’asfalto trasportandoi generali e i politici al Pentagono il paesefaceva le prove per le elezioni anticipate e noi vedevamo

la crisi (che orrore!) che si trascinava preparandosi per

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la sfilata il primo ministro parlare con voce pacatagli sinistrati sfiorar la sventura con lo sguardo smarrito

Non abbiamo saputo

Non abbiamo mai saputo che fine hanno fatto gli inquilinidell’appartamento accanto che fine hanno fattole vittime della guerra dove sono finiti

i preziosi beni che coprivano unmucchio di necessità se erano sufficienti i settemetri quadri di compassione per guarire

l’insopportabile tristezza della pioggia nonabbiamo mai saputo cosa volevano i manifestantidavanti al ministero dove hanno portato

i feriti degli scontridove i vincitori hanno venduto il bottinoe se davvero i vinti hanno perso

I nostri sogni

Altri si sono incaricati di gestire in appaltoi nostri sogni altri regolano le cose della nostra vitahanno imposto le leggi del mercato dovunque

in tutte le varianti dell’impudicizia molte voltelitighiamo polemizziamo con loro veniamo alle maniferocemente come cani però dopo dimentichiamo tutto ed

è allora che ci ammazziamo di botte quelli di noiche sopravvivono raccolgono le ferite e le macchie di sanguele mandano per esami per conoscere il DNA di chi

ha subìto una sedimentazione gli spezzoni di quelli rimastiinsepolti per anni nel tempo arido senza oracoli senzapartenze senza compagno abbiamo imparato a vivere senza

calcolare nulla giacchè ormai non abbiamo nullatranne i nostri fragili sogni e anche questiridotti a pezzi un giorno senza luna

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Oroscopi di defunti

Là dove il passato si allarga eil presente si restringe là dove ilfuturo s’infila nelle pozze e si nasconde

non assicurato lì paludi abbiamo trovatosventrate eravamo giunti da moltovicino e andavamo molto lontano con noi

volpi avevamo portato per far la guardiaalle galline che non scappassero dopo quarantagiorni di marcia eravamo giunti ad una città

piena di campanili profonde caverne pozzibassi rovine e i biglietti per il ferry“Acheronte” già obliterati, era

una città vuota: le folle erano uscitelà fuori e sui pali del telegragafo legge-vano gli oroscopi dei morti

Premessa e traduzione Crescenzio Sangiglio

’900 OUTScrittori italiani irregolaridi Stefano Lanuzza

Petrolini e Dario FoDrammaturgia d’attoredi Simone Soriani

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Biblio/Caravan

LETTERATURA

Edoardo Lombardi Vallauri, La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione, pp.285, 2019 Il Mulino, € 16,00

Nel sistema democratico si fanno i conti con scelte mirate per attuare e gestire le quali vengono delegati persone, gruppi, condizionati dalla pubblicità. E tutto questo genera manipolazioni e forzature su relazioni impersonali. In questo contesto possiamo divenire vittime di espedienti legalizzati.

La democrazia è l’ideale per soddisfare decisioni, fin quando queste non restano tali. Non basta ogni libera iniziativa per condizionarle e domarle. Tutto può divenire falsificazione, influenza, suggestione, non libere e coscienti a favore di qualcuno o qualcosa. Le masse non sono quindi autonome grazie alle pubblicità martellanti, di date da campagne e impiego di mezzi finanziari. Tutto si riferisce al terrore della povertà e al raggiungimento di aperture che dominano coscienze e volontà. Gli orientamenti poggiano sul negativo o positivo, mai oggettivati e considerati obiettivamente. Tutto raggiunge un fine, a favore o contro, mai nel verso equo che spesso viene influenzato da scopi non basato sul bene universale, che resta obiettivo illusorio. In ogni realtà c’è il trucco che va al di là delle parole, mere rifiniture che giovano parti specifiche. Non esiste il prodotto buono e bello, ma quel che appare tale.

Di che libertà usufruiamo? Di decisioni di parte, a favore della schiera. Valori non esistono in quanto prevalgono vantaggi nostri o collettivi, determinanti il valore della convenienza.

Quando modifichiamo opinione, sperimentiamo il particulare del momento, del periodo o della fase. Lato positivo può essere la libera scelta. Negativo il condi-zionamento che varia da persona a persona. Determinando il vivere a occhi chiusi. Aperti solo al vantaggio dell’occasione, dipendente dal capriccio della presuppo-sizione. Tutto si basa sul dettaglio, sulla capacità dell’espositore per favorire il prodotto, mai giusto, ma utile. E ogni utilità soddisfa chi incassa, penalizzando il fruitore abbagliato che non ha il tempo di vagliare il meglio possibile.

Il raggiungimento dipende dalla preferibilità, non dalla qualità di scelte manovrate da scopi, tempi, modi, preferenze del momento. Spesso bastano uno sguardo, un segno vocale e un atteggiamento a convincere. Per non parlare di

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qualità fisiche o di pregi anatomici. E la lingua incide non certo quanto i gesti o descrizioni dettagliate. Contano di più sorrisi, pronunce, esposizioni descrittive del prodotto. Al riguardo esiste la credenza che l’erba del vicino è sempre più verde. Basta provare arti di persuasione. Le convinzioni sono sempre abbagli. Non è difficile ricorrere alle prove, al di là delle certezze.

Non si dimentichi che senza pubblicizzazioni non si concretizza nulla, purché ci si riferisca a beni di necessità nelle performances che risultano reiterate. Non ci sono limiti temporali. Più si spende. Più si ottiene. Più si vende.

Occorre però riferirsi a un prodotto, a un partito, a una saponetta, a un profumo o a un film da vedere. Per scopi culturali si ottiene meno, dato che i possibili frui-tori sono di numero inferiore.

Come difendersi? Usare oculate attenzioni, non trascurando di “vagliare bene gli elementi che ci sembrano meno importanti, oppure quelli che ci vengono presentati...in modo da farceli sembrare meno importanti...”.

Scopo del volume è di rendere evidente che attraverso l’ascolto o l’uso del linguaggio si possono evitare certe distorsioni, cercando di non farsi usare come marionette in balia dei persuasori. Scelti o incaricati per distogliere le nostre decisioni, sempre per volontà altrui, contravvenendo le basi di fondo della democrazia. Ma al di sopra dovrebbe influire il senso educativo di ciascuno, non restando impantanati nel gergo di luoghi comuni di vetusta applicazione. Ben vengano quindi libere attenzioni per non restare in balia di marpioni o incantatori di serpenti. (Velio Carratoni)

Ema Stokholma, Per il mio bene, pp.192, Editore Harper Collins, 2020, € 18,00

Dopo Marianne Paulot che nel 1993 aveva sfornato a sedici anni il romanzo d’esordio La bouche d’ombre, un’altra storia contro la madre che, sia pure tra nessi e connessi, ripropone una ribellione questa volta più cruenta. Un libro che sembra preconfezionato per eventi, situazioni più cronachistiche che di approfon-dimento. Più per esteriore tentativo di svelare che per coinvolgere inaspettatamente. Ema sembra dire: “A me è capitato e a te?”. Perché tacere su certi misfatti che vengono sbandierati come un vessillo da issare? Ema sembra proseguire: “Mia madre è stata una degenere. Dopo tanto silenzio, per timore di compromissioni o complicazioni, ne dico di tutti i colori, proprio perché lei non c’è più a precisare o contraddire”. Per questo è giusto condannare chi non può difendersi? E giù a riferire particolari degenera-tivi: “L’avrei anche uccisa per ribellione. Mi violentava con botte e schiaffi. Mi lasciava segni dappertutto. Godeva nello sfogare le sue violenze”, subite anche dal fratello, cui invece è rimasta legata per solidarietà. A quindici anni è scappata

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di casa per salvarsi dall’inferno di crudeli angherie. E da quell’età ha trovato protezione ovunque, fin quando ha fatto la modella, la cantante, la conduttrice di un programma radiofonico serale che la RAI manda in onda tutti i giorni. Dopo aver vissuto a Londra, Parigi, Berlino, Milano, Roma, ove ancora risiede.

Si duole di non saper vincere la pigrizia. Ha amato, è stata riamata, ma ora non si fida degli uomini, confessando che ancora aspetta l’amore. Teme le trafile, lo svolgersi e la fine di ogni possibile legame. A vederla sembra soddisfatta, anche se parla di dolori provati o di ansie patite, nonché di altre sofferenze capaci di sfiancare il fisico, ben curato, tranne una serie di tatuaggi che ne coprono parte delle braccia e altre zone. Tenta di farli sparire ma non è facile, essendo doloroso ogni intervento per ritornare al fisico di cui vorrebbe reimpossessarsi, dopo essere stata in balia dei curatori di moda, di un pubblico bramoso di esteriori esibizioni. Ama anche dipingere ciò che proviene dalle sue foto, o da spunti che le derivano da occasioni più varie. Ovunque parla e straparla di questa sua opera prima, pubblicata a trenta-sette anni. E alla domanda, se intende scrivere altro, risponde: “Mi piacerebbe ma non so come trovare il tempo per farlo”. Intervistata da Vespa, Marzullo e altri ha ammesso di gradire le attenzioni esterne, anche se teme di apparire troppo.

Ema Stokholma, pseudonimo di Morwenn Moguerou si mostra una creativa lieta e impossibile che non riesce a stare fissa in un luogo, anche se si sente legata ad esso. I suoi frequenti ritorni in Francia a trovare il fratello o altrove lo provano.

Del romanzo c’è poco d’aggiungere. Dalla sua loquacità tutto sembra svelato. Ma quel che sorprende è una preferenza a superare ogni cruccio o contrasto di una vicenda in linea di massima documentata sin dalle prime battute. Anche se lo stile, terso, asciutto e lapidario alleggerisce crucci e fardelli a cui siamo abituati in altri testi di autori già collaudati.

Certo esibizionismo fin quando può essere utile,avendo inserito nel libro perfino i dati del suo Instagram? (Velio Carratoni)

MUSICA

Leonard Bernstein, Lettere ai familiari, 1945-1990, pp. 158, Archinto, 2019, € 25,00

Arthur Rubinstein lo aveva definito “il più grande pianista tra i direttori, il più grande direttore tra i compositori, il più grande compositore tra i pianisti...un genio universale”.

I giudizi altisonanti, di vero contengono la non frequente statura di un dotato alla musica, non per eclettismo, ma per un’inclinazione non insolita nell’emi-sfero delle note. Nei suoi 72 anni di vita si è prodigato a diffondere composizioni di ogni genere, anche se come autore non è stato certo allo stesso modo apprez-zato. Lo si ricorda per lo più per la commedia musicale “West Sides Story”, 1957. Ma la sua forza era l’aspetto che ispirava fiducia e aperture verso autori e repertori. Eppure in famiglia aveva risentito di contrasti con il padre, da lui defi-

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nito “essere umano molto complicato”. Fu la madre a sostenerlo per i suoi inte-ressi artistici. Lui che si era formato una cultura, risentendo di preferenze per la direzione, anche se si era distinto come pianista.

Tra gli autori da lui diretti: Copland, Reiner, Beethoven, Britten, Messiaen, Mahler, Schubert, Schumann etc.

Venendo alle lettere ai familiari, significativa quella di Felicia (cinquan-tenne), la sposa che così si esprime: “...tu sei un omosessuale” e come tale “non potrai cambiare-non ammetti la possibilità di una doppia vita, ma se la tua pace interiore, la tua salute, il tuo sistema nervoso generale dipendono da un preciso modello sessuale, cosa ci puoi fare?”. Nè contribuisce a possibili chiarimenti la nascita della prima figlia, Jamie...colpisce il suo giudizio affrettato su De Sabata, poi superato dai fatti. “Ho assistito...alla direzione di una specie di selvaggio, uno che fa sembrare Mitrop (oulos) una femminuccia...”.

Le missive riguardano manifestazioni, esecuzioni orchestrali, viaggi attraverso il mondo, di un perso-naggio apparentemente ridanciano, comunicativo, ma all’interno tipico ricercatore di effetti imprevisti. Si sente un navigatore del mondo, un comunicatore che incontra Pasternack, frequenta i Kennedy, dirige in occasione di eventi dolorosi o rievocazioni. Parla anche di cibo, animali, mare. Ci sono anche stati d’animo su esecuzioni concertistiche, resoconti su interviste durante giri intorno al globo. C’è anche un’elencazione di esponenti dell’ambiente dello spet-tacolo: sceneggiatori, scrittori, attori. Si cimenta anche nel ruolo di librettista. Il compositore non ha mai supe-rato l’esecutore.

Felicia Montealegre, così si rivolge a Leonard “Mi manchi terribilmente”. Giudizio meglio puntualizzato in altra circostanza: “...mi sono sentita in qualche modo abbandonata...perché ero rimasta sola di fronte a me stessa e a tutto questo guazzabuglio che è la nostra vita coniugale”.E ancora: “forse ci siamo sposati troppo presto, e tuttavia avevamo bisogno di sposarci e non avevamo fatto un errore. È una cosa buona per noi, anche se in questo momento entrambi stiamo soffrendo e rendiamo l’altro infelice...dopotutto siamo tutti e due più importanti come individui di quanto lo sia un matrimonio”.

Anche Leonard non manca di scrivere a Felicia: “Mi manchi terribil-mente...”.

L’amore agognato viene manifestato in fasi fuggitive anche in Italia, in occa-sione della direzione di Medea di Cherubini, in sostituzione di De Sabata. Prota-gonista Maria Callas. E di Felicia in Italia, testimone Leonard, si diceva: “Molto più bella della natura”. Le reminiscenze di Leonard, riguardanti l’Italia si riferi-scono alle riunioni con Luchino Visconti o alla regia de La sonnambula (1954)da lui definita “agile e leggera, perfetta in ogni dettaglio stilistico”.

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Felicia torna di frequente nel pensiero di Leonard.Nel 1955 l’affezione per Felicia sembra acuirsi, mentre le bizze della Callas

vengono ricordate nella loro puntigliosa cronistoria. Non mancano i trasferi-menti improvvisi, le differenze tra Milano e Londra. Tra le elencazioni sono inseriti anche Biringhelli, i Ricordi etc. E tra gli scrittori Malaparte e gli attori, Lilla Brignone, Gianni Santuccio, la Lollo, etc.

La parte della corrispondenza dedicata all’Italia esprime stati d’animo entu-siastici per l’ambiente, il tempo, le attività trovate e realizzate. Altri tempi? O solo entusiasmi che del resto si sentivano in altre parti del mondo?

Tra riferimenti ai bambini (figli) definiti meravigliosi, lavoro frenetico, il rapporto Leonard/Felicia sembra umanizzarsi, divenendo sempre più affettuoso. Segno della lontananza di città o della vicinanza che separa lo stesso per il lavoro impegnativo. Leonard parla di trionfi ovunque che rasentano il Paradiso in Giap-pone (1961).

Felicia dà notizie, nel 1964, del ruolo svolto da protagonista ne L’Oratorio di Janne Darc (tutto bene!) 1966.

Leonard menziona Felicia (amore polposo). Dà notizie da Vienna di Maazel alle prese con Carmen (deludente). Definisce la vita musicale più frenetica che a Milano. Visconti è stanco e cupo (...è un pazzo scatenato ed è circondato da una miriade di giovani assistenti italiani e questo gli fa piacere).

Non mancano riferimenti a Leonard ebreo. Le sue pratiche nella sinagoga di una Vienna dai ricordi razzisti. Ma il musicista messo in evidenza nelle sue corri-spondenze concernono tournée alcune anche lunghssime. Ma la parte rilevante si riferisce a Felicia, il cui rapporto diventa vibrante, sia pure contraddittorio, ma intenso e inappagante.

Leonard nelle sue presenze dà l’idea di un giovanilismo duraturo, di una prestanza che sembra un invito alla musica. E il suo sorriso incita a un ottimismo verso la settima arte di abbandono e di fusione spontanea. Le lettere conten-gono un’esigenza che sa di un pedagogismo umano, artistico in senso eclettico, condito da un ottimismo che va dal periodo kennediano all’esigenza di raffronti e rari scontri. (Velio Carratoni)

LEGGI

Paola Di Nicola, La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio, pp.254, 2018, Harper Collins, € 17,50

Sottotitolo: quando il pregiudizio è più importante del giudizio. Questo è l’equivoco di fondo che nessuna legge potrà superare. Perché prima della legge dovrebbe prevalere il rispetto di sé e degli altri. Tante belle parole che non risol-vono i problemi, dato che spesso le leggi vanno per proprio conto. Prevedono sanzioni, senza stimolare buon governo, famiglie modello, prassi da seguire.

Tutti sono convinti che le sanzioni incitino a comportarsi meglio, ma dire ciò

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va contro la realtà delle situazioni. Coercizzare, ammonire, per evitare il peggio di ogni possibile accadimento? Il discorso potrebbe divenire ancora più drastico se si affronta a una dimensione. E sfiorarlo non invoca certo il blandismo nell’ap-plicazione delle sanzioni. No. La legge deve avere la sua applicazione, ma non si dovrebbero distorcere fatti e circostanze, interpretando i fatti in maniera perso-nale. E distorcere il significato della equa osservanza crea tanti deleteri pregiu-dizi, che la magistrata Di Nicola cita in nome dell’applicazione delle norme.

In molti casi, tanti si avvantaggiano dei misfatti compiuti per farla franca. O per diseducazione, inconsapevolezza, ignoranza incappano nelle trappole. E di fronte alle sprovvedutezze esistono anche gli incentivi a delinquere. Ti punisco, creando lo scontro per sfida e provocazione. E non solo. Ci sono politici o perso-naggi creduti sì forti o invincibili che favoriscono ogni intralcio per vanterie o per consolidare la propria forza, anziché governare per servire o amministrare Paese o gente.

Questi esempi, presi a caso, come li interpretiamo? Lo stereotipo esiste, ma anche la sfida del più forte. E se si prova a denunciare i così detti forti, costoro si accaniscono nelle loro prosopopee contrarie. Certi avvocati politici, eletti dal popolo, svolgono le loro funzioni per difendere il proprio capo, per permettergli di divenire ancora più spocchioso e forte. Quindi non è solo in campo femminile che si determinano i pregiudizi, ma in ambiti più inaspettati.

Le donne vanno difese e rispettate. Ma non si dimentichi che il sessismo fa parte della peggiore forma di pregiudizi derivanti da regole di costume arcaiche e anacronistiche. Altro quindi che usare la mia parola contro la tua, divenendo fatto unilaterale d’interpre-tazione giuridica, rimasta in molti casi provinciale e gretta. Il costume si è evoluto ma molti equivoci derivano da alcuni termini o questioni che risultano pregiudizievoli, prima ancora di essere pronunciati o trattati. I tribunali, con tutta la migliore maestria o capacità dei giudici non sempre riescono a rispettare esigenze e a soddisfare prerogative di parte.

La parola nella sua discutibile pronuncia rappre-senta un enunciato che non può essere a senso unico, grazie al dialogo, al raffronto tra affermazioni e

contraddizioni, punti di vista che possono divenire astruserie o versioni da para-gonare o raffrontare. Da qui nasce e si sviluppa la dialettica che rappresenta asserzioni, reali condizioni di esternazioni mai per seguire assiomi universali o personali. Il personale determina il raffronto tra le varie posizioni. E tutte le impo-stazioni rappresentano ragioni. C’è però bisogno dell’arbitro o di chi diagnostica ciò che può essere condiviso o meno. La legge fa da spartiacque o da applica-zione di ragioni plausibili, per pianificare realtà multiformi, contraddittorie o conciliabili, o a favore del congruo e dell’apparentemente legittimo. Un modo

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di superare scontri, diversità o opposte interpretazioni. Ogni deliberazione giuri-sprudenziale non può avere un significato universale, ma almeno di tendenza e di moderazione per superare contrasti, cavilli, contraddizioni che, restano o che in nome della legge si superano per non rimanere allo stallo o al blocco delle risoluzioni. A meno che tutto sia così lampante da determinare la flagranza.

Paola Di Nicola, giudice penale, già autrice de La giudice , Sulla differenza di genere in magistratura, ne La mia parola contro la sua si sofferma sul significatodel pregiudizio, per esempio contro le donne, secondo cui sono isteriche, esage-rate nelle aule di tribunale o altrove,per ricordare chi fuorvia o imposta diversa-mente. Pregiudizio è impedire di procedere contro chi usa misfatti, violenze o altro. La donna è considerata esca. Ma non manca chi vorrebbe ritenerla provoca-trice o sfruttatrice di situazioni. Nessuno è infallibile o perfetto, ma non è giusto impostare tutto su equivoci e luoghi comuni. Dalla differenza di genere si arriva al ruolo di subordinazione agli uomini. E molti si adattano alle strutture simbo-liche. Così si arriva alle credenze naturali. Altra estensione delle differenze: la donna è parte basilare della procreazione, che viene tramandata tramite nostro padre (frutto di maternità). L’atto di partorire esplicito nella donna, si trasmette automaticamente nell’uomo. Altro travisamento. La donna d’ufficio viene defi-nita debole, timida, esagerata, fragile. Chi la tramanda tale sono (storia, lette-ratura, filosofia, liturgia, poesia, arte...). La convinzione,è talmente diffusa da appellare mascoline quelle che non lo sono “tanto da indurle a diventare tali”:

Altro pregiudizio: non esiste l’equivalente al maschile di misoginia. Altro termine: governante. Al maschile significa governare un paese, al femminile tenere in ordine una casa. Da tali esempi si arriva a dimostrare che al femminile tutto viene sminuito, al maschile valorizzato. Altro luogo comune, riguardante uomo e donna: il maschio deve sfogarsi per la sua natura prorompente. Per le donne il no significa sì, per applicare la tendenza che la donna che si concede è facile. Per questo deve farsi desiderare. Per garantire la difesa delle donne si dovrebbero applicare le leggi che ci sono che spesso vengono eluse per valuta-zioni dissimili, per essere considerata la violenza un fenomeno insito nella natura del maschio, tollerato e giustificato.

Secondo la nostra mai imporre modelli educativi prestabiliti, permettendo a maschi e femmine di quanto sia basilare essere ciò che si è.

La Di Nicola, nella sua attività di giudice, è risultata rivoluzionaria. In un processo sulla prostituzione di due minorenni nel centro di Roma, ha sentenziato che il risarcimento in denaro venisse applicato attraverso l’obbligo di leggere libri sul pensiero delle donne.

Nel volume ci sono molteplici esempi di storie di donne, di maltrattamenti nell’esercizio del potere in famiglia. Ormai le parole, le sentenze, le leggi servono a poco se non si entra di più nel mondo femminile, attraverso esempi concreti, analisi psicologiche sul ruolo e la presenza della donna. Universo conosciuto, spesso in parte o per equivoco. (Velio Carratoni)

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RICOGNIZIONI

La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, a cura di Anna Vinci, pp, 576, prefazione di Dacia Maraini, una testimonianza di G. Ciommo, postfazione di Giovanni Turone, Chiare Lettere, 2018, € 14,00

Un’ampia documentazione ricorda Licio Gelli, promotore della loggia masso-nica P2 con il suo amico Umberto Ortolani, che arrivarono a avere copiose elar-gizioni di denaro, tramite il Banco Ambrosiano. Bastava aprire il rubinetto, ammise Bruno Tassan Din, collaboratore di Angelo Rizzoli. L’unione tra ras del sistema dell’informazione era rappresentato dal connubio citato anche da Calvi. Scopo precipuo, acquistare giornali, assicurando la gestione e il controllo de “Il Mattino” di Napoli, de “Il Piccolo” di Trieste, de “Il Messaggero”, del “Resto del Carlino”, arrivando a “La Nazione”. Perché questo coagulo informativo? La scoperta, nel 1981, delle liste della P2, contribuirono a motivare scopi, presup-posti, intenzioni. 192 nominativi di generali, colonnelli, politici, magistrati, alti gradi della burocrazia dello Stato, vertici dei servizi segreti. Senza armi e carri armati si tentava un Golpe, devastante ai fini della sorte della democrazia.

Gli appunti della Presidente della Commissione Parlamentare Tina Anselmi, ex partigiana, cattolica e coraggiosa ministra che, nel pantano di tante nuove figure e di tromboni carrieristi della politica, è stata oscurata, ma neanche citata. Grazie alle indagini il Banco Ambrosiano andò sull’orlo del fallimento. Calvi scappò a Londra. Il suo cadavere fu trovato penzolante sotto il ponte di Blackfriars sul Tamigi. Cominciarono processi, arresti. “Il Corriere della Sera” per lungo tempo uscì in regime commissariale, controllato dalla banca creditrice. Non certo una bella pagina dell’informazione. La Maraini ricorda che nel 1976 l’Anselmi fu la prima donna ministro nella storia politica. L’occasione per il libro in questione è quella di fare cenni anche sulla Jotti, che diede alle donne uno spazio attivo e cosciente, senza facili sogni o illusioni. Quello che sorprende è che lo scandalo della P2 non ha messo al bando sparizioni di fondi pubblici, ad opera di certi politici che, sfacciatamente, ancor oggi, abusano della pazienza della gente, ricevendo anche preferenze scontate.

Di Ciommo nel suo intervento di A volte ritornano ricorda quei mesi squal-lidi, depistaggi e indiscrezioni. Ma la ricerca dell’Anselmi ammonisce: bastauna sola persona che ci governa, ricattata o ricattabile, perché la democrazia sia a rischio.

Pia Luisa Bianco nel 2004 così concludeva una sua puntualizzazione sull’An-selmi: gli interminabili fogli...tacciavano streghe e acchiappavano fantasmi. Non

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illudiamoci, quindi. Ma l’elenco esiste e si commenta da sé. Sono quindi super-flue difese o ovvie condanne.

L’elenco degli iscritti alla P2 viene riportato alla pagina 537. Lo stesso ritro-vato a Castiglion Fibocchi, consultabile presso la biblioteca de La Camera dei deputati. Lo indichiamo per dare conto di quanto inserito nel volume, non per esprimere ovvie condanne o giudizi.

Informare significa prendere atto dei fenomeni. Sono gli enti preposti a rendere conto e a svolgere inchieste e a emettere sentenze. Quello che sorprende, però, è che certi nomi svolgevano compiti tra i più delicati della vita nazio-nale. A volte chi dovrebbe salvaguardarci che garanzie offre? Noi ci occupiamo di informazione, che non può risultare avulsa dai problemi attuali e sociali. Ce l’insegnano la storia e la vita nazionale. A volte strumentalizzate e svilite. Per fortuna che non mancano fonti, persone, documenti che possano farci ricordare. (Velio Carratoni)

PERSONAGGI

Marco Palladini, Strasognando Fellini, (attraverso nove stazioni/stagioni filmiche), pp. 54, 2019 La Camera Verde, € 18,00

Non sappiamo se la scelta delle stagioni abbia un legame o sia avvenuta a caso. Anche se certi adden-tellati dimostrano come all’autore piacciano più le scandite fruizioni che le moderate descrizioni. Dallo Sceicco bianco (1952) alle Notti di Cabiria (1957),Giulietta degli spiriti (1968), Toby dammit (1968),Casanova (1976), Prova d’orchestra (1979), Gingere Fred (1986), Intervista (1987) a La voce della luna (1990), c’è un legame di intossicate inevasioni, di nullificazioni discontinue. Di manipolazioni divertite, di gioco da funamboli impazziti. Nell’elenco manca il Fellini di Agenzia matrimoniale (1953), del Bidone(1955) delle Tentazioni del dottor Antonio (1962), ma gli altri titoli, anche se non citati, risentono del malato di fantasia, del patito della parola che non resta muta, anche se ammetta quanto sia basilare il silenzio che fa di tutto per evitarlo, limitandosi ad agognarlo nella Voce della luna. Ma se ne avesse fatto a meno addio teatrino della vita o stri-dori del ritmo quasi ossessivo dei cortei o agglomerati di folle boccheggianti e frenetiche. Il rievocatore non dice se ricordare Federico sia dipeso dal clima del centenario o da una necessità di scovare nella multiformità di inaspettate rievocazioni. Prevalgono sogni ieratici del clima dei misteri o dei palpiti istan-tanei. Un sogno duraturo che sa di apparizioni vibrate o di allucinazioni iera-tiche. Questo è il Fellini che appare nelle visite alle stazioni filmiche, che sono

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apparizioni o barlumi saettanti di stati tra il confusionario e lo stravagante, di una ricerca dall’impossibile all’intersecato nelle traiettorie di una visionarietà che va al di là di ogni decifrazione. Annota i barlumi. Rifugiandosi in un dialettismo di apparizioni che divengono accecanti di lembi fuori mondo, pur risultando ogni cenno sprazzo riassuntivo, senza inizio e fine,arcobaleno di apparizioni fanta-smagoriche.

Una realtà che resta rapita da disgregazioni-ricostruzioni, tendenti alla dissi-pazione di ciò che si vorrebbe decifrare o localizzare senza scopo e tempo.

I personaggi descritti o osservati vanno al di là dello scoppiettio generativo/disgregativo. Una realtà ricostruita in nome del tutto e di più di un mondo da ricomporre, non certo nella realtà, ma neanche nella stratosfera. A proposito de Lo sceicco bianco: “La vera vita è quella del sogno, ma a volte può essere un baratro...”. E il baratro, in questo caso è il fotoromanzo anni cinquanta, un mondo di fantasie che partono dal banale per divenire pietrificazioni della bambola appas-sionata” che ricercando Lo sceicco bianco lo trova manipolandolo, come fosse una divinità da rubacuori. E tutto diviene sovrarealtà, frutto di un fremere inutile. La vita dei sogni è anche questo. Si arriva quindi al solito gioco degli specchi, da baraccone da fiera permanente, tra veli e vele, cespugli della pineta e luoghi consueti della capitale, che da punto centrale diviene occasione di incontro de Er Ciriola per farsi riconoscere. Non mancano le trafile per agevolare carriere e capricci. E i personaggi si scambiano o si espandono fin a raggiungere la Buonafortuna per una vita grama e per il ritorno a sé dal monotono al sacro e profano dei visitatori di luoghi arcinoti, simboli di localizzazioni volute e ineluttabili. Lo sceicco è l’emblema dell’avventura senza scopo e metodo per raggiungere la monotonia di emblemi e parassitismi per rientrare “nel ventre torbido della città-simbolo”di una religiosità che non si può cancellare, anche se resta, frutto dell’eterna materia che nasce e muore, si trasforma, rimanendo nel suo guscio semi immobile.

L’escursione prosegue con Le notti di Cabiria, in cui emerge il personaggio, faccino da donna ragazzina non certo nata dalla normalità che diviene assue-fazione a una vita di arrangiamento di un contesto di costrizione ad osservare la società dal basso. E spesso il basso sembra lo specchio dei perdenti , che almeno hanno la sorte di vivere contro, ma non certo per elevazione o piacere. Per un bello che se c’è diviene lontano e triste. Anche se il bene di fondo e una grazia insostituibile restano Giulietta, sopraffatta dall’ambiente disfatto e torbido degli emarginati, condannati a vedere in basso. Lei, che pur essendo diffidente e selvatica resta una candida “pronta ad illuminarsi e commuoversi per un minimo barlume di speranza”. Il rievocatore, abitualmente freddo, quando arriva ad elevarsi, supera chi lo fa per moda e convenienza. Così presenta le scene del candore per mettere in risalto quanto ci sia in lei di Gelsomina, la protagonista de La strada, altra anima pura di contesti onirico-reali.

Tali prototipi sfiorano il male, pur rimanendo leggiadre e intoccabili, essendo creature di una positività mai banale.

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In Giulietta degli spiriti, la protagonista, abbandonati i ruoli da sottoprole-taria, diviene personaggio della ricca borghesia, adusa a frequenze con amiche o parenti fumosi o chic, futili e costruiti. Di fronte a loro resta una fonte di aggra-ziate tendenze, appiattite da un copione infarcito di fantasmi interiori, processi da elaborare blocchi psichici infantili. Per il rievocatore sembra un film “minore” rispetto a La dolce vita e a Otto e ½, ma invero centrato nell’esprimere anche limiti storici dello spazio d’azione...e Giulietta risente del clima degli anni in cui esplode la psicoanalisi e il ‘68, risultando alquanto appiattita e raffreddata da eventi esteriori.

Palladini a questo punto abbassa le sue qualità evocativo-espressioniste di una componente da volume tenuto in frigorifero. Anche la creatività felliniana resta invischiata da Toby dammit, film più di circostanza che di qualità. Ma con il Casanova si verifica un’altra occasione mancata. Un film realizzato per sviluppare attività in fieri, dimostrando quanto sia non sempre possibile conci-liare arte e creazione. Casanova sembra andare contro il regista, non amando il personaggio. Limitandosi a presentarlo come un freddo osservatore della statica esigenza di esibizione che si sgretola. Le pratiche sembrano distaccate astru-serie ginnico-erotiche, vanitosamente fallocratiche, traboccanti una sessuomania incessante e competitiva... Quanto diverso il clima di Arthur Schnitzler de Ilritorno di Casanova.

La rievocazione palladiniana dimostra come un grande regista non possa prevalere per consuete elaborazioni. Ogni successo è un fenomeno a se stante. Il vero autore sembra quello originario, anche se la grandezza si conferma con Lacittà delle donne, riuscendo a riproporre prerogative di creativo del caos in ebol-lizione, attraverso un clima da stordimento contemplativo di ritorno al giocoliere che cerca, accetta il suo mondo o quello degli stridori, non certo delle puntualiz-zazioni ideologiche che contraddicono doti di circense dell’irrequietezza frene-tica, di sapore da maschere del camuffamento. Il cineasta si abbandona al mistero prezioso più di mille predicatori all’azione.

Le ricerche focalizzano un giocoliere d’istinto, un curioso che non si ferma, proseguendo con Longanesi, Pannunzio, Rossellini, i tempi che scorrono tramite documenti piovuti addosso, riguardanti altresì Scalfari, Zavoli, Rota, le bellezze da lui inventariate come fossero apparizioni fenomeniche. Prosegue con Anita, Sandra, Magali, Anout, Sofia, Anna, Claudia e tra queste, come nessuna mai, Giulietta e tra le figure maschili, Marcello, Nino, Nicola, Tonino.

In che modo concludere l’elenco? Non resta che sfumare, alla maniera di Marco Palladini con questa ricerca che, nella sua brevità, dice più di quello che avrebbero potuto rievocare certi soliti biografi del settore precostituito, che spesso sorvolano sulla sua attività che si impedì venisse proseguita, facilitando l’avan-zare dell’ictus. Su tale particolare sarebbe utile saperne di più. (Velio Carratoni)

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Leopoldo Pirelli, Esperienza e riflessioni, pp.128, € 12,00, Archinto, 2017

Leopoldo Pirelli del 1925 discendeva da una fami-glia di industriali di una casata fondata da Giovanni Battista, 1848.1932, cui appartennero i figli Piero, 1881-1956 e Alberto 1982-1971. Tutti provenienti da Milano. Solo Leopoldo era nato a Velate nel 1925. Lasciò la presidenza del gruppo nel 1999 al genero Marco Tronchetti Provera. In vita non nascose la delusione di non essere riuscito a realizzare la riforma aziendale che prevedeva 40 ore settimanali, turni di lavoro flessibile, lavoro ridotto per le donne, scaglio-namento delle ferie, condizioni sindacali a causa di procedimenti affrettati e mal compresi. In fondo i suoi crucci si risolvevano nelle spire salvifiche di Claudio Abbado, tramite tante trasfigurazioni musicali. Lui esponente di un’azienda in attività redditizia, l’altro un famoso direttore d’orche-stra di cui ricordava esecuzioni memorabili. Preferiva ascoltare, rievocare più che parlare. O avere punti fermi su cui basarsi come quello che lo legava all’ar-chitetto Giò Ponti che nel progettare il grattacielo non voleva restasse solo il simbolo della Pirelli, ma della Milano tout cour. Al riguardo affermava: “Bisogna considerare l’edificio come esso chiede di essere. Ossia forma finta, cui non gli si può togliere o aggiungere nulla”. In Dinastie di Enzo Biagi i contatti con altri imprenditori come gli Agnelli, i Lauro, i Rizzoli, i Ferruzzi-Gardini, restavano di sapore cordiale, privi di attacchi da sfida. Risentivano di intuizioni sublimate, del suo egocentrismo tipico delle dinastie.

E il ricordo che lo riguarda derivava da appunti della sua segretaria, Claudia Ferrario, che per 47 anni lo ha assistito. Le sue considerazioni su personaggi del tempo denotano misura, riserbo, estreme accortezze. Qualche esempio, su Agnelli: intelligenza, intuito, fedeltà, umanità. Di lui riferiva incontri relativi ad altri assetti aziendali o problemi del Paese. Ma tutto sfociava in un sentirsi parte-cipe in qualità di un potere che non si manifestava per ambiti separati. Il potere dell’uno si trasmetteva in quello di altri che assolvevano per un’azione comune. E per spirito di solidarietà. Era come custodire una staffetta che passava di mano in mano. In nome della causa della ricostruzione che ha giovato a tutti. A favore e contro, sostenitori e critici del sistema. Quando ci fu l’attentato delle B.R. nel 1977 a Montanelli, espresse il suo sdegno. Mentre nel 1979 quando Baffi venne incriminato e arrestato con l’accusa di favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio (questione anche capitata a Sarcinelli, risolta nel 1981) che costò a Baffi le dimissioni dall’incarico, non si astenne dal mostrarsi solidale e provato come prova che la barca, che remi da una parte e dall’altra, nella colpa e nello spirito d’impegno, tende a raggiungere gli stessi porti.

Al 1982 appartengono lusinghieri giudizi su Fortebraccio dopo aver avuto

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alla fine degli anni sessanta attacchi di ben tre colonne su “L’Unità”.Nel 1982, scrivendo alla Confindustria proponeva la sua non disponibilità

circa la carica a presiedere il consiglio direttivo. Nell’occasione si esprimeva contro i così detti incarichi oligarchici. Optando per quelli di significato propul-sivo. Riconosceva ritardi a favore di tante innovazioni; rassegnazione circa il degrado dei servizi.

Il 10 maggio 1982, il Direttivo della Confindustria lo eleggeva, su proposta di Vittorio Merloni, a membro permanente della giunta. Nel 1986, durante la rela-zione introduttiva al convegno dei dirigenti Pirelli di Losanna, riconosceva come il gruppo “lo si identifica attraverso il suo bilancio,,,ma anche attraverso il codice di comportamento...”Dobbiamo essere esigenti verso noi stessi e gli altri...a beneficio (o a scapito) dei dipendenti, degli azionisti, della comunità...Il tempo dell’azienda chiusa in se...è un ricordo non sempre bello, del passato...L’onestà paga sempre.

Nel 1995 in un’intervista a “Mondo economico” puntualizzava che nel pur modesto ruolo dell’industria italiana rispetto ad altri paesi più avanzati “la Pirelli prosegue a mantenere il suo sviluppo internazionale, riuscendo a raggiungere un rapporto di crescita da 1 a 4, tra attività interne e internazionali. Il riferimento riguardava le esportazioni (presenze commerciali su vari mercati).

La Pirelli non si è solo occupata di gomma, avendo fabbricato conduttori elettrici isolati, cavi per telecomunicazioni, pneumatici, materie plastiche.

Scott Fitzgerald puntualizzava disinteressatamente come certi ricchi possie-dano e godano, lasciando una traccia. Rendendoli teneri là dove siamo fiduciosi.Vale così per tutti? A sentire la storia di Leopoldo sembra di sì. Ma almeno si può ammettere che chi è schivo cerca di mostrarsi più di tanto come è avvenuto nel 1998, in occasione della proposta rivoltagli dal Rettore dell’Università Bocconi di Milano, Roberto Buozi, di tenere una relazione su Etica a capitalismo. “Non mi sento di accettare”, rispose. Oggi, era di prezzolini e saputoni, che effetto fa, sentire certe parole?

Nel 2003, a proposito dell’ammirazione, così si esprimeva su Claudio Abbado: “Non saprei dire per quali ragioni abbia provato simpatia per lui. Sarà per ragioni di consonanze? Dal suo silenzio sembra nascere il suono.

Oggi in un periodo di crisi permanente, di economia bloccata a causa del coronavirus, che effetto fa ricordare personaggi come Leopoldo? Certamente un effetto di sproporzione e di vuoto. Se qualcuno potrà cambiare a causa di tale contingenza c’è da ammettere quanto ci sia bisogno di figure come lui per ripartire, considerando come la crisi del partitismo, della penuria di certi valori, contribuiscano a manifestare certi sfaceli. Alcuni magnati dell’industria fanno ricordare la ricostruzione, avvenuta grazie anche al risveglio di certe coscienze di fondo. I ricchi hanno i soldi ma la gente comune può avere slanci, oltre a dipendere dalle esigenze. E in questi casi, oltre ai soccorritori, occorre ripensare a qualche caro estinto consistente o meno che può interessare tutti. Potenti o deboli. (Velio Carratoni)

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Biblo/Sound

TRADUZIONI

Seamus Heaney, Sweeney smarrito, pp.252, Archinto, 2019, € 16,00

Sweeney smarrito (Astray),a cura di Marco Sonzogni, pubblicato da Archinto (aprile 2019) è la traduzione italiana, con testo inglese a fronte, di una rielaborazione in poesia e prosa narrativa di una leggenda irlandese medievale, Buile Suibhne, (poema composto tra il 1200 e il 1500) che Seamus Heaney pubblica nel 1983. Heaney ritiene che sia “una delle massime opere del canone letterario medievale”. Lo sostiene in una prima postilla (anonima) e successi-vamente in maniera esplicita:

“La storia di Sweeney inizia a circolare tra l’VIII e IX secolo in testi di vario tipo, principalmente in versi, tra cui annotazioni da amanuense a margine di altri scritti. Come, per esempio, Prima Postilla, ripresa dal copista in una abbazia pavese, Albino Zanacco:

Impugna la penna come una vanga.Continua il primo solco lasciatodal margine giustificatodentro la pagina.”

Questo paratesto ci rammenta, in modo singolare, la poesia Scavando, ripor-tata nel volume del 1991, Scavando. Poesie scelte 1966-1990, a cura e tradu-zione di Franco Buffoni, per la Fondazione Piazzolla, con ampia scelta da tutte le raccolte di Heaney sino ad allora apparse:

“...E mi torna in mente l’odore freddo della terra Delle patate, lo scalpiccio sulla torba fradicia,I colpi risoluti della vanga tra le radici vive.Ma io non ho la vanga per seguire uomini così.

Tra l’indice e il polliceHo la penna.Scaverò con quella.”

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Heaney fu insignito nel 1995 del Premio Nobel della Letteratura “per opere di lirica bellezza e profondità etica, che esaltano i miracoli quotidiani e il passato che vive”.

Ritornando a Sweeney, Heaney precisa che “non è una figura mitologica o leggendaria ma un personaggio storicamente situato, benché resti da vedere se sia basato sulla figura realmente esistita di un re di nome Sweeney. Ma la fantasia letteraria che si è coagulata intorno alla sua immagine è chiaramente da ascrivere alla tensione tra la più recente e dominante morale cristiana e il più antico e resi-stente temperamento celtico”:

Il suo cervello fu stravolto,la mente si lacerò.Vertigini, isteria, tremorie spasmi l’assalirono,prese a barcollare e si dibatté disperato.Gli ripugnava l’idea di luoghi notie sognò di strane migrazioni.Le sue dita si indurirono,i suoi piedi annasparono agitati,il suo cuore trasalì.

I suoi sensi erano ipnotizzati,i suoi occhi stralunati,le armi gli caddero di manoe con frenesia e fatica si libròcome nell’aria un uccello.E la maledizione di Ronan si compì.

Marco Sanzogni insegna traduttologia alla Victoria University di Wellington in Nuova Zelanda. Ha dedicato la sua attività scientifica allo studio e alla tradu-zione della poesia di Heaney e fa parte del gruppo di lavoro internazionale che sta curando l’edizione definitiva delle opere del poeta, nordirlandese, deceduto a Dublino nel 2013, considerato il massimo rappresentante contemporaneo del rinascimento poetico irlandese. (Gemma Forti)

EPISTOLARI

Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia, Essere o no scrittori, Lettere 1963-1988, pp. 86, a cura di Rosalba Galvagno, Archinto 2019, € 14,00

Sciascia, nel contesto letterario italiano non è un indagatore della società siciliana, mai distaccata dal contesto nazionale. E le sue posizioni sono di un pensatore, di un ragionatore da trattato filosofico o da ideologo. Materie spesso evitate dai narratori o letterati della sua epoca. C’è chi descrive, ma Sciascia,

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mentre scrive i suoi romanzi, pensa, sentenzia, cerca ragioni o pretesti per dimo-strare come interpretare l’essenza del costume italiano, che ha influenzato interi strati di tante comunità internazionali. C’è chi ha il coraggio di dire che la mafianon esiste, per risolvere il problema o per attenuarla, e gli scopi del pensatore lo mettono a confrontarsi con intellettuali o scrittori, a confermare ruoli, atteggia-menti, posizioni.

Nel caso di Consolo si è trattato di una corrispon-denza, prima più formale e distaccata, che, mano a mano si scioglie e famigliarizza. Sciascia risponde con solerzia alla richiesta di un parere su La ferita dell’Aprile. Dalla normale richiesta si passa al quesito sulla lingua usata e su altri solleciti di chiarimenti riguardanti la sua residenza al Nord. Un altro sici-liano al nord, che diviene scambio di punti di vista. Il più esplicito è spesso Consolo, quando si riferisce al gesuita Rao (cospiratore-delatore, amante della poesia eroica e di versi amorosi). E la scoperta di Tommaso Aversa, autore dell’ Eneide serve per puntualizzare riferimenti culturali e storici. Nel carteggio non può mancare Lucio Piccolo, come Vittorini, Paolo Mauri, Mario Lunetta, collabo-ratore allora di “Paese Sera”. Ci sono anche Emilio Greco, Bruno Caruso. Non mancano le partecipazioni e i temi letterari dimostrando Sciascia nessuna forma di occasionalità, ritenendo Vincenzo amico e scrittore da preferire. Leonardo: “Quando puoi, quando vuoi, vieni a Caltanissetta. Io sto buttando freneticamente una commedia (L’onorevole)”. I riferimenti tra i due riguardano spesso notizie su attività di romanzieri. Consolo: “...ho capito quale sia il metro della mia scrit-tura. Puoi chiarirmi quanto posso risultare angusto e liberticida?”.

Altri argomenti del libro: inviti tra i due, viaggi, resoconti di scritture, di tempi di consegna, affettuosità scambiate, malesseri, ripetizioni di giudizi entusiastici di Sciascia per Consolo: Il tuo “Ferita dell’Aprile” è bello, nuovo interessante...Ma gli inviti a vedersi superano tutto. Anche se gli incontri non avvengono. Altro autore ricordato è Antonio Veneziano, Ottave, testo e traduzione a cura di Aurelio Rigoli, introduzione di L. Sciascia. Ulteriori autori: Addamo, Vanni Roncisvalle. Ancora su Vittorini, Consolo: “Come capo di una rivoluzione letteraria, non poteva essere che Robespierre e che le sua vittime sono stati i Gattopardi...”.

Consolo ampia le collaborazioni. Fa parte della RAI, come addetto ai programmi culturali, curando tra l’altro la trasmissione “Tutto libri”, ai tempi della direzione di Angelo Romanò, politico, intellettuale, scrittore. Nel 1968 Consolo concede un’intervista a Sciascia, asserendo di essere lusingato del libro di Raffaele Crovi.

Spesso nelle lettere ci sono notizie che confermano interessi comuni sulla letteratura. E sono i personaggi citati a rendere l’ambiente letterario dinamico. Nel 1971 si cita lo Sciascia siciliano di Luigi Barzini o la vita pubblica di Salva-

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tore Battaglia. Non mancano cenni sulla mostra tenutasi al Palazzo dei Normanni su Guttuso con interventi di Russoli, Grasso. Seguono citazioni su articoli apparsi su altre testate.

Insomma una conoscenza tra due scrittori divenuta quasi amicizia, basata su attività ordinarie, a lungo andare quasi frequenti. Sciascia risulta impegnato e circostanziato; Consolo, puntuale a manifestare forme di presenze, in nome anche della comune sicilianità. (Gemma Forti)

COMPORTAMENTI

Remo Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, pp. 408, Il Mulino, 2019, € 28,00

Regola che si tramanda da secoli. Se non domini vieni schiacciato. Parafrasando la prassi di emergere per meriti propri o per apparati imposti, la questione è la stessa, arrivando a metodi remoti o recenti con cui si sono raggiunti scopi pratici, servendoci di animali, macchine, intelligenze artificiali, per ottenere trasfor-mazioni pratiche prestabilite o finte. Risultati gli stessi?

Deriviamo da substrati, regole, tradizioni a favore della ragione di essere e operare. Itinerari o questi fruibili: Guerra e schiavitù, Comandare ed essere comandati, Il destino di tre continenti, Libertà, Animalità, Dignità, Libertà o morte, Animalità e umanità, Le vicissitudini della dignità, La civiltà delle macchine, La schia-vitù nelle piantagioni degli Stati Uniti, Intelligenza artificiale, Logos, Volontà, Educazione, Tempo di lavoro, Tempo della vita. Il buon uso del tempo, Non ci sono vie di fuga.

Un itinerario di tappe, presupposti collegati con percorsi che possono variare per raggiungere identiche finalità. La vita non è un’utopia o un’illusione, Tutto procede, si avvia e giunge alle medesime finalità. I classici restano per le loro scoperte e lezioni. Se ne sono fatti progressi. Aristotele legittimava la schia-vitù. Tutto tende ad agevolare per alleviare sforzi fisici o sofferenze umane. Le semplificazioni sono le stesse e i risultati confacenti all’evoluzione della vita.

Si tratta di palliativi arrivare a risultati analoghi ma come identificarli? Di domande o riserve ne nascono tante, anche se le spiegazioni possono trarre in inganno.

Ma la domanda di fondo è la seguente: possibile che il logos non si è fatto carne, ma macchina...Quali sfide porrà la coabitazione tra intelligenza artificiale e umana?

Il libro non dà risposte anche se le anticipa, ponendo in sottofondo interroga-tivi cui si sottopone l’esistente se vuole legittimare se stesso. (Gemma Forti)

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Edoardo Bruno, Critica del gusto. l’immaginazione al potere, a cura di Michele Moccia , pp.86, Bulzoni 2018, € 12,00

Alcuni presupposti della ricerca. Ciò che può accadere è la scelta creativa; la critica del gusto è solo soggettiva, rispetto alla rappresentazione con cui è dato un oggetto. Con il cinema, la critica del gusto coglie l’esprit del film; l’attenzione a un parti-colare, al rigore ripetitivo delle cadute e dei gesti: propedeutica kantiana ad ogni arte bella. La poetica segue itinerari nascosti, non enunciati dal linguaggio o nei film. La verità è bella perché l’eros ha il corpo giovane...carico di desiderio; l’immaginazione al potere è una forte immersione nell’immaginario; l’arte si esprime attraverso le immagini, la visione del mondo non è un’astrazione, è metaforicamente, la nostra; la speranza è una follia (alcune note di Michele Moccia nella prefa-zione riguardante la Critica del gusto. L’immaginazione al potere di Edoardo Bruno, già ordinario di Storia del cinema e dello spettacolo presso l’Università di Firenze. Nel rileggerli il curatore ha rivissuto quanto da lui acquisito durante gli anni di collaborazione nella redazione di “Filmcritica”, rivista – laboratorio da cui dal ‘66 in avanti, ha reperito i materiali. Tra i quali ciò che riguarda Nelmagico potere dell’immaginazione, concepito come un potere laico del micro-scopio, strumento che aiuta a vedere, a trascendere l’esperienza sensibile. Per motivarlo ricorre a Rossellini, Kubrick, Lynch, Bertolucci.

Nel capitolo L’invenzione della storia Bruno si sofferma a trattare Novecentodi Bertolucci, attraverso avvenimenti storici che divengono avvenimenti fanta-stici, realizzati nel momento stesso in cui accadono in una rievocazione tra sogno e realtà “sogno utopico dentro l’impossibile”.

Le parti più significative riguardano fatti familiari, ricordi inventati attra-verso lo schermo per proteggerli dai pericoli dell’inverosimile in cui cade il cinema americano. L’invenzione viene così giustificata da una storia plausibile. Inconscio, desiderio, vissuto sono catena significante di una storia inventata e i personaggi, simboli di luoghi immaginari. In tutto ciò prevale lo stampo del tempo che il film rende suggestivo, attraverso violenze di montaggio ricche di effetti imprevisti regolati dalla macchina da presa.

Insomma un’invenzione tenuta a bada o contrastata dalla rappresentazione a volte realistica, altre magica, surreale e simbolica. Questo secondo il nostro lo scopo di un film, non restando quindi solo documentario, divenendo così azione e rievocazione.

“Ci siamo nutriti di cinema...” sapeva ripetere. Da qui il ritorno immagi-nario all’inquietante malinconia di Prima della rivoluzione, per il quale ritorna la complessa frase di Talleyrand: “È prima o dopo, l’età della dolcezza?”.

Da qui la lettura politica di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Secondo

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Straub e Huillet viene interpretata in una dimensione antropomorfica in un alveo tra l’epica e il mito. Il discorso, denso e allusivo, riempie di verità l’allegoria del paesaggio e i personaggi sono focalizzati attraverso lo studio del parlato. Le cadenze dei gesti, ricollegate a componenti arcaiche indelebili. Da qui si arriva alla tradizione del cinema russo, facendo riferimento alla trilogia di Alekander Sokurov su Hitler, Lenia e Hiro Hito, tra declino storico e declino esistenziale. E nella trilogia la Storia non è mai trascorso, ma immanente e attuale. Si arriva, tralasciando altro all’apocalisse rovesciata de La notte dei morti viventi diRomero, in cui prevalgono le contraddizioni dei morti-viventi. Rivivono lotte di classe, apprensioni, miserie di un’esistenza in cerca di ribellioni.

Nel proseguo della ricerca ci sono Pedro Costa (Dove giace il nostro sorriso sepolto?), Abel Ferrara (The funeral), Ciprì e Maresco (Lo zio di Brooklyn), attraverso Pasolini, Buňuel, Cameron, Scorsese, Kazan, Ruiz etc.

Una miniera di fatti, rievocazioni, riproposte di trame in un volumetto di appena 84 pagine. Una specie di summa di un’estetica mai statica o rigida, appli-cata alla storia del cinema di anni recenti divenuti classici o da tenere presenti. (Gemma Forti)

ARTE

Alfredo Accatino, Outsiders 2, Giunti 2019, pp. 240, € 29,00

Alfredo Accatino, scrittore, autore televisivo e polemista con “Outsiders 2”, rinnovando il successo del suo precedente volume “Outsiders”, ci propone cinquanta artisti che, rimasti finora in disparte, sia per storie personali e temi trattati, meritano invece di essere ricordati e “immortalati” più di altri, a volte, immeritatamente noti.

Una raccolta di profili di artisti italiani e interna-zionali, raccontati in un’originale “storia dell’arte” romanzata con 163 foto a colori e B/N, con un piglio vigoroso, dove le immagini giocano un ruolo fonda-mentale, intrecciandosi con il mondo dell’artista, contestualizzandolo storicamente e socialmente.

Pur non amando gli elenchi, in questo caso è necessario farli.Qui di seguito i personaggi trattati nei vari capitoli:Hilma af Clint (L’astrattismo del solo pallido -Svezia); Harue Koga (Monaco,

buddista, surrealista – Giappone); Delva De Angelis (La pittrice nella fossa di pubblica pietà -Italia); Pan Yuliang (Pittrice prostituta – Cina); Albert Müller (Nero a colori – Svizzera); Alfonso Ponce de León (Conosco un tipo che ha ritratto la sua morte – Spagna) ; Stefano Tamburini (Roma 16° livello – Italia) ;Robert Lenkiewicz (Il pittore con lo scheletro nell’armadio – UK); Willem van

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Genk (La paura ha il cappotto di pelle – Olanda); Jorge Selarón (Duecentocin-quanta gradini - Brasile); Arturo Nathan (Il disordine dell’Io, Italia); George Ohr (Il vasaio pazzo di Biloxi – USA); Eric Hebborn (Il re dei falsari e altre storie di falsità – UK); Nicolas De Staël (La morte arriva da una tela bianca – Russia – Francia); Maria Blanchard (Come un ramo di quercia – Spagna); Hans Prinzhorn (L’uomo che vide gli uomini e non la malattia – Germania); Hannah Höch (La donna artista odiata dagli uomini – Germania); Concetta Scaravaglione (La calabrese più famosa d’America -USA); Maria Izquierdo (La sposa del colonnello – Messico); Sebastiano Carta (Futurista espressionista street artist – Italia); Arshile Gorky (Il pittore triste – USA); Carlos Federico Sáez (Unamacchia di colore che diventa un mondo – Uruguay); Francesco Lo Savio (Nero – Italia); Friedrich Schröder Sonnenstern (Attenti al buffone – Germania); Gluck (Hannah Glukstein (Arte androgina – UK); Gustav Wunderwald (La città che uccide chi ama – Germania); Nils Dardel (La morte del dandy – Svezia); Paul Citroen (L’inventore di “Metropolis” - Olanda); Maximo & Bartola ( Gli ultimo Atzechi e altre storie “freaks” - El Savador); Aloïse Corbaz (Pazza per il Kaiser – Svizzera); Vito Timmel (Il diavolo nella bottiglia – Italia); Congo, Koko & Co. (Quel pittore è una bestia); Marcelo Pogolotti (Italiano cubano. Sconosciuto in Italia – Cuba); Bettie Page (E una donna creò il corpo – USA); Johannes Baader (Il dadaista presidente dell’universo – Germania); Tomaso Buzzi (Progettare l’impossibile – Italia); Karl Schwesig (Nano maledetto – Germania); Austin Osman Spare e Rosaleen Norton ( La strega di King’s Cross e altri amichetti di Satana – Australia e UK); Thayaht & R.A.M. (Gli ultimo geni del Rinascimento – Italia); John Currie (Amore e morte – UK); Camille Bombois (Venghino. Signori, venghino... - Francia); Jeanne Hébuterne (Chiamatela solo pittrice – Francia); Esther Nikwambi Mahlangu (Mamma Africa – Sudafrica); Zdzislaw Beksiński (Dal purgatorio all’inferno. Nella vita vera – Polonia); Alberto Martini (Bizzarro e crudele – Italia); Henry Darger (Il custode – USA); Beppe Domenici (Piegare la ceramica ai propri sogni – Italia); Walter Spies (Due vite possibili – Russia – Indonesia); King Robbo versus Banksy (La morte del Novecento – UK).

Tutte storie egualmente interessanti, degne di essere raccontate.“L’arte non esiste, esistono le persone” afferma con convinzione Accatino.

“...l’arte può esprimersi in qualsiasi forma e categoria espressiva, e la creatività se ne infischia delle distinzioni..”.

Su questo concordiamo pienamente con l’autore.Alla fine della sua breve prefazione, Accatino ci rivela perché ha scelto di

parlare di outsiders:“Per far vincere una volta almeno, chi non ha mai vinto. Perché gli outsiders

sono perdenti per definizione. Non scelgono mai i luoghi e le date giuste per nascere, creare, amare, morire. Vivono in mondi paralleli. E hanno sempre l’in-dirizzo sbagliato”.

Lo ringraziamo per averceli segnalati per eventuali approfondimenti.(Gemma Forti)

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PERSONAGGI

Carla Maria Russo, Una storia privata - La saga dei Morando, pp. 352, Piemme 2019, € 18,50

Con quest’ultimo libro Carla Maria Russo, autrice di romanzi storici di successo, affronta attra-verso il racconto la saga familiare dei Morando, trat-tando uno dei periodi più controversi della nostra storia recente, nell’arco temporale che va dal 1932 ai giorni nostri (2008).

Poiché ogni famiglia nasconde dei segreti più o meno inquietanti, il venirne a conoscenza, casual-mente, non può che sconvolgere il malcapitato, dando un impulso imprevedibile alla sua vita, in una sorte di nemesi storica. Ciò avviene a Emanuele Morando, ultimogenito della famiglia, forse prediletto dal padre, al quale assomiglia fisicamente, quando costui muore improvvisamente, lasciando in eredità un impero immobiliare.

Ma chi era veramente Pietro, il capostipite? Come è riuscito, da povero ragazzo cresciuto in ristrettezze in una casa popolare del Ticinese, a Milano, a mettere insieme, nel dopoguerra, una consistente fortuna economica?

Dall’archivio di famiglia emergono scritti e lettere che rivelano come il capostipite sia stato profondamente diverso da quello che tutti credevano di conoscere, risultando invece, arido, avido, interessato a qualsivoglia storia poco trasparente.

Il racconto si dipana su due piani temporali: il presente (quello) di Emanuele e gli anni Trenta, in cui è nato e cresciuto suo padre Pietro, ricostruendo, oltre la storia di una famiglia, con i suoi litigi, passioni, bugie e verità, anche quella di una stagione difficile e di una città (Milano), divenuta nel tempo una moderna metropoli.

Parti salienti sono i misteri che incombono sulla figura del padre, come vengono palesate dal figlio Emanuele. Misteri che hanno indotto Carla Maria Russo, appassionata di ricerche storiche, a porsi domande che hanno fatto risal-tare collegamenti con la politica, gli affari, per lo più loschi e temerari. Tutto ciò conferma come spesso ogni affare recondito può essere fonte di sorprese, che restano impigliate in una matassa posta come presupposto per mettere in risalto connivenze che sembrano non facilitare soluzioni. (Gemma Forti)

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A tutto Scotellaro

di Sergio D’Amaro

Più si allontana il tempo che fu di Rocco Scotellaro, più sentiamo il bisogno di ritornarvi con rinnovata umiltà d’ascolto. Ce lo impone la consapevolezza, anche se smerigliata dal benessere circostante, di come sta andando il mondo e di dove ci può portare un’ulteriore pressione sull’acceleratore del processo di modernizzazione, che abbia forma di capitale finanziario, consumismo sfrenato, sfruttamento delle risorse o cambiamento climatico. È come se il tempo fosse ritornato in circolo a dire che è urgente cambiare ciò che sembrava progresso immodifica-bile, ragione indubitabile, necessità metafisica della para-bola dell’antropocene.

Ci volevano Tutte le opere di Scotellaro, curate da Franco Vitelli, Giulia Dell’Aquila e Sebastiano Martelli per gli Oscar Moderni Baobab della Monda-dori (2019, pp. 816, € 28) per risollevare questioni che non sono solo affare del Mezzogiorno, ma riguardano i rapporti complessivi tra i Sud e i Nord del mondo. Diciamola tutta: è un libro bellissimo anche nella sua fattura editoriale, un monu-mento offerto al pubblico sia di studiosi che di lettori comuni, in cui l’opera di Scotellaro finalmente riacquista la sua integrità di progettazione e di realizza-zione, consentendo di riunire tutte le strade della sua breve vita all’incrocio di un unico slancio umano e artistico.

Lo dice molto bene Vitelli nella sua introduzione, sottolineando lo spirito militante del poeta sindaco di Tricarico, impegnato nell’imbuto storico tra gli anni ’40 e ’50 a rivendicare la bontà del mondo contadino, bisognoso di accom-pagnare armoniosamente l’evoluzione della civiltà industriale. Non un mondo opposto all’altro, ma integrato in una collaborazione vantaggiosa per tutti, secondo un aggiornato concetto di coesione tra territori diversificati ed epoche stridenti. Se un messaggio c’è, è quello di non uccidere il passato, ma di trasfon-derlo nelle forme del moderno: non è forse quello che oggi si sta tentando con l’orizzonte «bio» o con gli appelli alla sostenibilità, con gli allarmi sempre più frequenti per la distruzione incombente degli ecosistemi?

Nel magma arroventato del dopoguerra, Scotellaro si offrì coraggioso di fronte alla realtà in cui viveva. Nelle sue poesie (raccolte nei due libri mondado-riani È fatto giorno e Margherite e rosolacci, rispettivamente nel 1954 e 1978), nelle sue prose (L’uva puttanella e Uno si distrae al bivio, presso Laterza nel 1955 e presso Basilicata ed. nel 1974), nella sua ricerca socio-antropologica (Contadini del Sud, presso Laterza nel 1954) circola contraddittoria un’atmosfera di continua sperimentazione di linguaggi e di metodi, che egli apprende dalle

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sue frequentazioni letterarie così come dall’esperienza vivificante dell’Osserva-torio di Economia Agraria di Portici. Letteratura, politica (è sindaco di Tricarico dal 1946 al 1950), antropologia diventano i tre grimaldelli per entrare appro-priatamente nella modernità, accompagnati da un intimo, drammatico dibattito coscienziale che davanti a sé vede continuamente bivi, incroci, scelte, oscilla-zioni, paure. La dimensione tutta esemplare di Scotellaro, uomo e intellettuale, che sente il mondo al centro di una trasformazione e guarda tutto questo da un piccolo paese meridionale, sta nel tentare nuove strade.

Altro che levismo o nostalgia della povertà contadina, così come vollero interpretare a suo tempo i leviani «luigini comunisti» (Mario Alicata, Carlo Sali-nari, Carlo Muscetta) accanendosi con machete ideologici contro il Nostro e i suoi due maestri (Carlo Levi e Manlio Rossi Doria): nelle sue opere Scotellato testimoniò la linea mobile di una scossa storica che avrebbe deciso il futuro italiano, portando con sé progetti di riscatto e inevitabili abbagli deflagrati nel modello americano del boom economico. Di fronte agli inviti a demolire, ecco per Scotellaro l’attenzione alla scuola (e Scuole di Basilicata s’intitola la sua pregnante analisi apparsa postuma sulla rivista ‘’Nord e Sud’’), alla lotta contro l’analfabetismo (partecipò attivamente all’UNLA, ente preposto a questo scopo), nell’intento invece di costruire una nuova civiltà armonizzata consapevolmente, culturalmente, tra vecchio e nuovo. Ed ecco anche la sua angoscia di fronte alla vita meccanica della città, alla disumanizzazione, alla sua scarnificazione.

La circolarità di questo libro complessivo riunisce finalmente le sfaccettature della vita di Rocco, arricchendo i percorsi nei commenti e nelle note che accom-pagnano impeccabilmente la lettura dei testi, alcuni qui finalmente recuperati e riarticolati. È uno stradario tutto scotellariano, che è piacevole ed estrema-mente istruttivo ripetere in tutte le molteplici direzioni a cui invita, senz’altro da integrare con l’altra straordinaria messe di studi offerta dagli stessi curatori nel fascicolo speciale della rivista americana ‘’Forum Italicum’’ (Vol. 50, 2, August 2016) col titolo Lucania within us. Carlo Levi e Rocco Scotellaro. Si scoprirà, ad esempio, anche la fascinazione di Rocco per le tecniche del cinema, i cui sugge-rimenti non sono secondari per il «montaggio» delle sue opere narrative. Chissà dove sarebbe approdato Rocco se fosse andato oltre i suoi pochi trent’anni di vita, ma anche così non smetteremo mai di sorprenderci di fronte alla sua poesia che ha qualcosa di ruvido e di sublime, è come una pietra che si leviga in un ruscello di sensazioni senza riuscire a liberarsi di qualche durezza.

Giaime Pintor, un costante piacere di vivereQuando, nel 1944, i servizi segreti inglesi consegnarono alla famiglia di

Giaime Pintor il fascicolo che lo riguardava, inclusero anche un certificato di patriota oltre ad una somma di risarcimento e ad una lettera di condoglianze. Il motivo che aveva condotto Pintor alla tragica morte del 1° dicembre 1943 a Castelnuovo al Volturno, sulla linea del fronte su cui combattevano tedeschi e

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americani, sarebbe rimasto come il simbolo di una vita eccezionale, interrotta ad appena 24 anni nella speranza di una rigenerazione.

Molto bene ha fatto l’editore Ensemble di Roma, nella ricorrenza del centenario della nascita il 30 ottobre 1919, a pubblicare in una nuova veste due libri che contribuiscono ad approfondire la conoscenza di Pintor: la raccolta di arti-coli e saggi Il sangue d’Europa. Scritti politici e letterari,a cura di Andrea Comincini (pp. 292, euro 15), arricchita dell’introvabile prefazione alle Considerazioni sulla storia di Nietzsche, e la biografia romanzata, anzi Il vero romanzo di Giaime Pintor (come recita il sottotitolo) di Carlo Ferrucci, discendente dell’autore, La mina tedesca (pp. 228, euro 16), anch’essa con l’appendice dell’ultima lettera scritta al fratello Luigi Pintor (il futuro fondatore e diret-tore de Il manifesto). Leggendoli insieme – ma bisognerebbe aggiungere le tante lettere di un folto epistolario e almeno il Doppio diario – se ne ricava tutto lo spes-sore di questo personaggio dotato di un sicuro fascino intellettuale e di una salda tempra morale. Italo Calvino, anche lui impegnato nell’ardua prova giovanile della Resistenza, ha detto che la generazione a cui appartenevano entrambi ‘’è quella che si riconosce nell’esame e nel programma di Giaime Pintor: la nostra forza non potrà essere sete di trascendenza, non dramma interiore, alla presenza d’un dramma esteriore così imponente; la nostra forza può essere solo l’esperienza di questo dramma’’.

E, in effetti, la formazione di Pintor lo indusse a non evitare di schierarsi, alla maniera in cui avevano fatto Beppe Fenoglio o Nuto Revelli e, in altra epoca, Renato Serra o Piero Gobetti. A prescindere dall’estrazione sociale, ciò che tutti accomuna è il senso di un dovere che si tempra di fronte ad una storia incombente. Ecco allora spiegato perché un giovane come Pintor, nato in una famiglia benestante, trasferitasi a Roma negli anni dell’ascesa del fascismo, possa essersi avvicinato con sempre maggior trasporto alla cultura tedesca, portàtovi dalla sua passione per la musica dei grandi romantici ascoltata alla radio. Ben presto la fame di cultura e la

curiosità vorace del viaggio, unita ad un’intelligenza brillante, farà di Pintor un enfant prodige, capace a 19 anni di tradurre Rainer M. Rilke per la rivista IlFrontespizio. È solo l’inizio di una fortunata serie di collaborazioni alle maggiori riviste di quel tempo: Circoli, Aretusa, Corrente, Oggi, Letteratura, Campo di Marte, Primato. La mirabile profondità culturale e l’uso di una lingua fuori dagli schemi bellettristici porterà questo giovane laureatosi nel 1941 ad entrare d’au-torità nel dibattito letterario e politico del tempo.

Un passaggio cruciale per Pintor fu Torino, con la casa editrice di Giulio Einaudi

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ricca delle presenze di Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Felice Balbo e Massimo Mila. Dirà più tardi quest’ultimo: ‘’Pavese ed io eravamo esterrefatti della maturità e della precocità di questo giovane, in tutto, nella letteratura, nella politica: la preci-sione delle sue vedute, la sicurezza delle sue opinioni. Noi eravamo pieni di dubbi, pieni di frane, forse anche lui, mah! Non appariva assolutamente’’. A leggere, infatti, alcuni brani del Sangue d’Europa si resta sorpresi da questa ricchezza di giudizi e di riferimenti, dalla secchezza e quasi perentorietà delle opinioni, dalla finezza e insieme robustezza dello stile. La curiosità del lettore subito corre alla lunga recensione di Americana di Elio Vittorini (con cui il Nostro condivideva l’ospitalità editoriale alla Bompiani) e al resoconto, per contrasto, del convegno dell’Unione degli scrittori europei svoltosi nell’ottobre del 1942 nella Weimar nazista. Se ne deduce facilmente il confronto tra la denuncia della vacua ampollo-sità del cupo ambiente tedesco e l’aperta adesione al nuovo costituito dalla cultura americana. Distinguere Germania da Germania significò per Pintor individuare, come scrisse il suo più caro amico, quel Misha Kamenetzky con cui condividerà lo pseudonimo giornalistico di Ugo Stille, ‘’l’ideologia che aveva prodotto il mostro nazista: condusse l’attacco contro l’irrazionalismo e le sue diverse espressioni, dal mito del sangue e della terra alla mistica nietzschiana del Superuomo, dall’esalta-zione del demoniaco alla celebrazione degli orrori’’.

Ciò che fece precipitare la situazione, trasformando l’Italia in un feroce campo di battaglia e sollecitando scelte ormai indilazionabili, furono gli eventi legati all’estate del 1943 tra il 25 luglio e l’8 settembre. Fu allora che Pintor dovette abbandonare l’amata attività letteraria e le frequentazioni di parte importante dell’élite intellettuale e politica del tempo (da Lucio Lombardo Radice a Giovanni Gentile, Benedetto Croce, Gioacchino Volpe, Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti, Giacinto Spagnoletti) per gettarsi nella mischia. Riconobbe subito l’inadeguatezza del regno del Sud, spostandosi da Brindisi a Napoli appena liberata dai tedeschi e progettando di riattraversare la linea del fronte per organizzare milizie pronte alla resistenza. ‘’Senza la guerra io sarei rimasto – scrisse nella lettera-testamento al fratello Luigi tre giorni prima di morire – un intellettuale con interessi prevalen-temente letterari […] A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune’’. La mina tedesca che il 1° dicembre ’43 mise fine ai suoi 24 anni interruppe crudelmente qualsiasi futuro, che sarebbe stato senz’altro quello di uno scrittore e di un critico di primissimo piano nella cultura non solo italiana. (S. D’A)

Per approfondire la conoscenza di Giaime Pintor (1919-1943) occorre consultare, oltre le opere citate nel testo, il suo Doppio diario. 1936-1943, a cura di Mirella Serri, con una presentazione di Luigi Pintor (Einaudi, 2000) e Giaime Pintor e Filomena d’Amico, C’era la guerra. Epistolario 1940-1943, intr. di Luisa Mangoni, a cura di Maria Cecilia Calabri (Einaudi, 2000). La Calabri è anche l’autrice della biografia Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor (Utet, 2007), mentre per un inquadramento più largo soccorre il volume curato da Giovanni Falaschi, Giaime Pintor e la sua generazione (Manifestolibri, 2005) con testimonianze di amici importanti del Nostro.

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Libri tra i libridi Marcello Carlino

Alessandro Carandente, Giuseppe Pontiggia. Dalla scoperta dei classici alla critica del linguaggio, Marcus Edizioni, 2019, € 20,00

L’orientamento di metodo è dichiarato in premessa e conferma una scelta che, da sempre, è propria di Ales-sandro Carandente. L’argomentazione è svolta assai da presso alle opere prese in esame, seguite passo passo; e la voce che ne dice sembra come fatta levare dal loro interno. Il criterio mostra una somiglianza spiccata con quello della parafrasi critica, che ha un marchio d’ori-gine depositato, come è noto; e la parafrasi critica ha per suo fine statutario il comprendere e il transcodificare – mentre si comunicano l’esperienza della comprensione e il percorso che la realizza – senza che il comprendere e il transcodificare, nondimeno, escludano la possibilità di giudicare, concordando o divergendo.

Una prassi analitica siffatta si giova molto, ciò che è facile arguire, di una lunga consuetudine, meglio se amicale, con le opere passate in rassegna e con il loro autore. Allora non soltanto si può disporre di materiali informativi ulteriori e di documenti di prima mano, che arricchiscono la proposta critica e frattanto sono inventariati in vista di eventuali successive letture, ma ha anche modo di profilarsi una sorta di osservazione partecipe che per alcuni tratti interviene a rimodellare la forma del saggio, indirizzandolo verso un genere più composito, mistilineo, affabile. Intriso di discrezione, mai supponente.

Così è specialmente, per Carandente, nel caso di Giuseppe Pontiggia. Una lunga vicenda di scambi culturali e di rapporti umani sorregge e corrobora questo libro dedicato allo scrittore comasco. E l’apparato delle lettere, di andata e di ritorno, che punteggiano l’opera e ne accompagnano il corso componendo una sorta di corposa intervista, sono, ben più che semplici eccipienti, molecole attive del testo: un testo che si rifà ad un modo di intendere la critica in ripulsa di ogni algido esercizio e quale frutto, piuttosto, di una attiva frequentazione e di una continua interlocuzione, rinfocolata da non rare incursioni fuori dai domini stretti della letteratura: una prassi che apparteneva ad una stagione letteraria di alcuni decenni orsono – si pensi, quanto alla tipologia, a Contini e alla sua lunga fedeltà a Montale – e che Carandente ha il merito di rilanciare in un contesto culturale, l’odierno tanto asfittico quanto standardizzato e svuotato di sostanza, in cui se ne avverte non poco la mancanza.

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È in questo quadro di rappresentazione che Giuseppe Pontiggia, nel libro di Carandente, è chiamato a recitare la sua parte, tornato ad occupare da protagonista la scena, mentre – e non è davvero il solo caso in quest’epoca di oscuramento della cultura – è fortissimo il rischio che se ne perda completamente la memoria. Tornato con la ricchezza e il prestigio del suo articolato lavoro intellettuale e con la personalità di grande spessore che nel libro gli è riconosciuta in pieno.

Per darne attestazione, Carandente riattraversa i romanzi di Pontiggia avendo cura di segnalarne il rigore costruttivo, la capacità di lettura dei contesti inscenati spesso investiti da folate di ironia (per esempio nel Giocatore invisibile), la rimo-dulazione degli usi attanziali (esemplarmente in Vite di uomini non illustri), la perizia e la pulizia linguistiche, la verità e la profondità dei sentimenti (in specie in Nati due volte). Ma uno sguardo attento e acuto è soprattutto puntato sulle opere di critica (a cominciare dalle recensioni di alcuni libri di poesia per finirecon alcune dettagliate schede di francesistica) e sulle linee culturali che esse tracciano e che emergono dal complesso dell’attività intellettuale di Pontiggia, tra saggi di ampio respiro e annotazioni militanti sui giornali.

È posto in risalto, così, un itinerario di rilievo, che si connota per il passaggio dalla neoavanguardia – la presenza sul “Verri”, che è la rivista di premessa e di riferimento – ad un recupero della tradizione, riconsiderata anche alla luce dei classici e di una rivisitazione della loro realtà; ed è segnato, al contempo, il clima generale di un’epoca di transizione, che comincia dai tardi anni Settanta del Novecento, nella quale Pontiggia ha ruoli tutt’affatto primari.

La ragione della suddivisione di Giuseppe Pontiggia. Dalla scoperta dei classici alla critica del linguaggio in capitoli, con al centro proprio i temi indi-cati nel sottotitolo scelto per battezzare il libro, si ritrova in questa lettura di un’esperienza individuale di notevole spicco e insieme di una stagione, della sua atmosfera, delle sue proiezioni ideologiche di cui Pontiggia è testimone atten-dibilissimo e attore di prima fila anche nell’ottica e dalle postazioni della critica militante.

Nella ricostruzione operata da Carandente dalla specola della sua parafrasi critica, affinata da un’osservazione partecipe, appare nodale il confronto con la classicità. Che, mentre è indice di una riabilitazione convinta della tradizione, è garanzia per Pontiggia di coerenza, di serietà e di responsabilità della scrittura letteraria, e dunque di impegno e di coscienza critica del linguaggio (coscienza che si esercita anche a riguardo di alcune semplificazioni teoricistiche avvenute in seno al Gruppo 63; coscienza che sembra avvicinare i territori, mappati in quegli anni, del grande stile), che tengono a distanza ed anzi interdicono ogni scapricciamento postmoderno accordato su di una totale deregolazione e su di una scapata autoreferenzialità della letteratura.

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Michele Fianco, Un semplicissimo universo inespanso, Nino Aragno Editore, 2019, pp. 100, € 12,00

La specie è quella è quella degli ipertesti. Michele Fianco procede, infatti, ad una raccolta antologica dalle opere sue: una raccolta orientata, però, che ipertestual-mente, in tutta evidenza, ritaglia un nuovo ed altro testo. Il modello sulla cui esemplarità il montaggio delle diverse sequenze è agito, si ispira alla lettera-tura interessata alla scienza, sedotta dal suo mondo: il “luogo”, cioè, nel quale le due culture sembrano ritro-varsi in sintonia e, tornate a parlarsi, si prestano vicen-devolmente i loro uffici. Pertanto, dal titolo passando alla sequenza progressiva dei capitoli fino all’affaccio su di un futuro possibile, che è sporto su di una nota dell’autore scaturita da una intervista (una auto-inter-vista fuori schema, una intervista impossibile: l’annuncio di una poetica espli-cita che ironicamente rimane coperta), per momenti apicali sembra comporsi e “distendersi” una storia della specie umana nei secoli, a cominciare da miliardi di anni fa. Come in un’antropologia sociale e in un’astronomia che un tempo si usava esporre al popolo.

Sennonché questa storia – Calvino, ben lo sappiamo, seriamente ne amava il racconto tra il cosmico e il comico – si connota per una parodia discreta e in punta di fioretto, mossa da una fiammeggiante intelligenza, che si esercita sul genere: sul cosmico, sul comico, sulle loro intermittenze referenziali, sul loro meticciato.

La parodia si legge tutta nel titolo di coda, futuro remoto, in cui l’accompa-gnamento aggettivale sembra piuttosto – stando ai prontuari lessicali della gram-matica e alle nominazioni di norma delle forme verbali – riandare ad un passato, per giunta lontanissimo; e si legge per altro, facendosi così cornice, nel titolo di testa: perché, rimettendosi indietro le lancette del tempo, l’universo inespanso suppone che il big bang non si sia mai prodotto e che l’esplosione e l’espan-sione della materia su questo schermo ipertestuale non possano affatto registrarsi quali azioni/eventi costitutivi dell’universo e quali prodromi della vita. Ergo, il movimento in nessun modo si è innescato a garanzia di operazioni centrifughe di scissione e di particolareggiata riaggregazione formante; e non si sono date opportunità per un determinarsi di processi di differenziazione e di correlata individuazione; e la storia non ha svolgimento e tanto meno progressione; e il presente resta presente nell’assenza del tempo.

L’universo inespanso è, battezzato da un superlativo assoluto, semplicissimo;ovvero, nell’opera di Fianco, trattenuto al di qua di una complessità che ne arti-coli e ne indirizzi la diatesi, esso è un conglomerato colloso nel quale tutto si

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tiene compatto, densamente rimestato, vischiosamente adesivo parte con parte e tutto si rinviene sempreuguale, al punto che raccontarlo equivale a ripetere enne volte il même senza che si dia facoltà di profilare e neppure di accennare un autre.

Dunque intorno all’io, che, ecco, è qui la voce narrante, in base ad un prin-cipio fisico che sembra potersi richiamare alla forza di attrazione gravitazionale, si accumulano in ressa cose, materiali di esperienze e di scritture. E l’io non ha agio né ha spazio che gli conferiscano identità; anche i tagli geometrici, che, procurati da una logica binaria, dovrebbero localizzarne la presenza e misurarla in rapporto ad altri dall’io, non vanno a buon fine.

La sfera privata del soggetto che dice di sé (la fenomenologia prima di un universo fermo, inespanso, sempreguale: l’analogo di un romanzo di formazione abortito, impossibile), bocconi delle vicende pubbliche che hanno travolto i diritti di cittadinanza e un solidale convivere come da umana compagnia, pollu-zioni ambientali che sono per tutti indistintamente capi di imputazione e pros-sime definitive condanne, logiche e tipologie di comunicazione legate a nuove tecnologie e a sistemi operativi eterodiretti, videate (per addensamenti di imma-gini nel linguaggio del testo) derealizzanti di una realtà deprivata e defedata e rubata alle coscienze, altalene di amori che si dichiarano e che finiscono (fram-menti depotenziati di un discorso amoroso), scampoli di una città disarticolata in pochi siti che rimangono frequentati e noti (e che lasciano impervie, escluse altre zonizzazioni), gerghi ritornanti da miti d’oggi (ancora trattati con lo sgrassatore dell’ironia): in sequenze che a volte rifrangono ritmi jazzistici (con evenienze di scat) e a volte si riconducono al basso continuo del rap, tutto fa corpo intorno all’io in un lento fluire che presto ristagna.

Ma l’io, per effetto di congestione affoltente e costipante, finisce annullato. L’io che conduce la partita è il vuoto dell’io; e il vuoto dell’io è il pieno di una scrittura che in piena lucidità, e senza mai arretrare di un passo, sperimenta col e nel montaggio – e con la esibizione di un presente senza storia, senza memoria e senza un futuro che non sia la traccia di un passato remoto – la sua oltranza, la sua resistenza attiva alla koiné letteraria, sempre più attardata e corriva, sempre più arresa alla moda e al mercato.

C’è un paradossale respiro epico nelle lasse, tra versi e prose, di Un semplicis-simo universo inespanso: nell’opera di uno scrittore di grande consapevolezza e di fine talento come Michele Fianco, tra i più interessanti nell’odierno panorama, è l’epos di un mondo in arresto e sospeso sull’abisso, è l’epos contenuto da una ironica e tragicomica conversazione (un inespanso romanzo di conversazione) su un tutto che è nulla. È l’epos intonato a un minimalismo straniato. E critico.

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Stefano Lanuzza, L’arte della realtà. Prime note sulle scritture di Velio Carratoni, pp.124, 2019, Fermenti Editrice, € 15.00

In capitoli dedicati ai racconti (cominciando da quelli di Mara, la raccolta d’esordio), al romanzo Legrazie brune (riscrittura di Seminale compiuta nel 2003, a sette anni di distanza dalla precedente pubbli-cazione) e, nella misura breve di schede, al teatro e ai recentissimi aforismi (in appendice un racconto inedito e alcune pagine tratte della bibliografia della critica), Stefano Lanuzza analizza l’opera letteraria di Velio Carratoni, di cui è noto l’impegno sul piano della promozione e della animazione di imprese culturali con la rivista “Fermenti” e con l’editrice dallo stesso nome: si tratta di iniziative, come è noto, di speciale rilevanza, che costituiscono una sacca di resistenza e una ricca fonte di proposte alternative nell’odierno grigiore di cultura e società. L’arte della realtà. Prime note sulle scritture di Velio Carratoni si annuncia, per altro, come un saggio che, con indubbio merito, s’avvia a colmare la lacuna di una ricostruzione comples-siva e di un ritratto intellettuale finora mancanti; e si presenta, al tempo stesso, come uno scritto critico in itinere, che promette o attende un “continua”.

Attento ogni volta a delineare il contesto di letteratura nel quale i racconti e il romanzo anno dopo anno si situano, Lanuzza procede con letture di stretta aderenza ai testi, seguiti in dettaglio nella determinazione dei loro temi e nelle dinamiche attanziali che vi si svolgono.

La poetica di Carratoni è vista confrontarsi con le diverse stagioni del realismo, quella ottocentesca europea – e infatti accade che si ascoltino non di rado echi dostoevskiani – e quella italiana di riconversione tra primo e secondo Novecento. In particolare, considerato che qui la borghesia è il milieu sociale prioritariamente portato in scena, Moravia in forza del suo percorso e della sua ideologia letteraria appare un interlocutore spesso frequentato.

Il bisogno di una considerazione ravvicinata della realtà, con inquadrature in primo piano, è il movente, assecondato con passione, della narrativa di Carra-toni; la consapevolezza della deprivazione e dello svuotamento delle esistenze, prese nei meccanismi della alienazione ed eterodirette dal denaro e dal profitto,è pertanto arruolata da scorta alla progettazione letteraria dello scrittore. Il programma di una critica serrata della condizione e della ideologia borghesi e, in contemporanea, l’intenzione di profilare un argine possibile alla derealizzazione dei vissuti, ai quali il récit accosta la sua lente, definiscono l’architettura dei testi.

Come nota puntualmente Lanuzza, in una prospettiva nella quale la filo-sofia esistenzialistica e la psicoanalisi giocano un ruolo determinante, Carra-

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toni candida il corpo e le sue esplicitazioni sessuali a temi dominanti, nella cui orbita ruotano le azioni dei personaggi. E il sesso, mentre è risucchiato nella reificazione che accompagna la mercificazione della società, pure manifesta un vitalismo residuale, che disperatamente e disforicamente contravviene allo svuotamento di identità, alla diluizione e allo sfinimento dei rapporti umani: la sua natura bipolare e la sua diatesi ambivalente segnano la chiave di volta della narrativa di Carratoni e la dotano di una peculiare nota caratteristica (a netta distanza da Moravia, che pure attraversa una tematica simile), nonché di una emblematica coerenza. Tanto più perché, a supporto, lo stile è aspro, privo di qualunque piacevolezza, a volte asciutto come nell’école du regard : lo stile di un crudo analista.

~Ferruccio Brugnaro, Las locuras ya no son locuras. Antología poética,

Traduccíon de Teresa Albasini Legaz y Carlos Vitale, Zaragoza, Pregunta, 2018

Non si smentisce Ferruccio Brugnaro. La sua poesia fila un terreno di denuncia, di presenza, con la sua voce chiara, forte, sempre come un punto di non ritorno, meglio di partenza, di fronte a chi meno ha e meno ha sempre avuto e che, al contrario, ha il diritto di avere. La sua cadenza, in una scrittura mossa, inquieta, entra nei gangli della vita di oggi e di chi la soffre per posizione sociale o per sensibilità al grido contro guerre, più o meno lontane.

«Se lottare perché tutti abbiano / una casa / un lavoro più umano / e nessuno subisca più / crudeli ingiustizie, / se metterci contro la guerra / quotidia-namente / buttando avanti sempre gli sfruttati; / se incomodare i politici, l’ordine / costituito, i vescovi / per l’uguaglianza di tutti gli uomini / significa essere estremisti, pazzoidi / pericolosi, / incapaci, infantili / ebbene, io allora sono un estremista / un pazzoide pericoloso / un incapace, un infantile. / Non mi vergogno. Ditelo ovunque. (…)», (“Non mi vergogno, grida-telo ovunque”).

La voce di Brugnaro, dalla prima uscita del 1965 (Vogliono cacciarci sotto)fino a La mia poesia nasce come rivolta del 2008 e alla silloge in questione, è stata diversamente modulata sulle lotte degli operai, sulla rivolta contro le sopraffazioni, le prevaricazioni, testimoniando un impegno civile direttamente e apertamente riscontrabile nei versi.

Contemporaneamente, in questa antologia in spagnolo, l’autore mestrino (tradotto negli Usa, tra altri, da Jack Hirschman, da Jean Luc Lamouille in Francia, in Germania da Felix Balhause e Letizia Fuchs-Vidotto, ecc.) allarga il

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respiro della terra, la luminosità delle stagioni, il bene-stare umano, come naturale contraltare di massacri e di condizioni precipitate addosso o vissute da lontano, per cui quel respiro – estensibile a chi vive il negativo sulla propria pelle – diventa un sogno, un “frammento di sogno”, come l’amore (Il loro odio verso l’amore). L’amore: che non sia, però, subordinazione dell’una all’altro, la ferita sempre da sanare, ma che nasca e cresca nella libertà fino in fondo di chi lo vive.

Chi salverà il mondo? Una politica diversa, una consapevolezza differente in chi ha il potere sulla terra, l’umanità se potrà veramente contare, la consapevo-lezza di essere su uno stesso gradino nella relazione a due o nei rapporti fami-gliari… E, certamente e inoltre, la poesia (la letteratura, l’arte per estensione) che gridi forte, sempre più forte, che non si perda dietro i tramonti e gli amori finiti, dietro un passato individuale di supposta felicità; che si guardi intorno e porti nelle sue parole – da sempre scandite in versi brevi, a cascata, lapidari, fuori di ogni metafora in Le follie non sono più follie – il male politico, sociale, perché risulti punto irrinunciabile a contrasto e in opposizione alla disumanità.

Maria Lenti

Gemma Forti, S/VAN/AR/EGGIA, pref. di Marcello Carlino, Roma, Fermenti, 2019, pp. 80, € 14.00

Chi farà la storia (se sarà ancora possibile) della poesia italiana dei decenni ultimi del Novecento e di quello appena iniziato troverà una tale quantità di autori, che hanno esordito appunto dal 1990 in poi, e una tale diversità di poetiche da avere qualche perplessità a iniziare l’opera o non poche difficoltà a proseguirla. Dal frammento al poemetto, dalla verbo-visività all’aggancio di classicità, dal lirismo rievocativo ad una quotidianità restituita al ribasso, da un neoermetismo di metafore e analogie nebulose all’intreccio sul “male di vivere” mai abbando-nando la scoperta di Leopardi, dai mali sociali, calati sui viventi non si sa da chi ma vissuti in termini di sconfitta epocale, agli intimismi, a… I più vari sentimenti poetici in metri e ritmi vòlti a sottolinearli ma non a spostarli, tesi sul piano di una consolatorietà, raramente confliggenti con la materia di cui sono fatti, più capaci di aprire stupore dentro la lettura e meno di suscitare nel lettore l’indigna-zione portata a consapevolezza.

Alcuni autori, almeno fra quelli avvicinati in cartaceo (ché la quantità delle uscite da innumerevoli editori indipendenti e dai pochi editori per dire così storici impedisce assunti e assoluti), fanno eccezione.

Tra questi Gemma Forti che dal 1996, anno della sua prima pubblicazione in poesia (Zeffiro cortese, titolo-paradosso per dire il contrario, un vento ghiacciato e sferzante, per esempio), percorre la strada dell’osservazione acuta dell’intorno reale per restituirne il malaffare, la miopia (di chi dovrebbe avere a cuore la polis), l’assurdo della facciata e la realtà del crollo (“Niente è come appare. / Fitto il velo”, exergo di “Per caso” in S/van/ar/eggia) e del tempo che consuma.

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Versi a cascata anche in quest’ultima raccolta che già dal titolo (chiarito in altro modo, nel prosieguo: «svanareggia // è la Comare Secca / che arrota l’unghie / le lima lucida smalta / di nero seppia». Così in “In fondo”, in cui c’è emersione, peraltro, di un “tu per tu”, declinato in personale risonanza con quel soggetto inevitabile e indesiderato) fa incontrare il dubbio delle consistenze e l’interrogativo su di esse, aprendo ogni sezione con citazioni mai gratuite (Orazio e Gramsci, Bismarck e Boccaccio, Buonarroti e G.B.Shaw, la Bibbia e Alan Sorrenti, …) e con riproduzioni di quadri non quietanti di Umberto Luigi Ronco, Francesco Tomei, Mino Maccari, Giacomo Porzano.

A tratti irridendo, a tratti disperando di passi in un dopo («…la marea ribol-lente / sale sale / in massa nera /avvolgente sudario / intorno /alla più vicina / riva /ove turisti ignari / indifferenti / ballano / in acque calme / ridanciane / piegando la testa a terra / come struzzi / nella sabbia», “Oltre”), o dicendo la irrimediabilità di capestri o solo registrando ciò che è lapalissiano («C’era / c’era una volta / un luogo molto bello / sepolto / poi / da smottamenti frane / edifici di cartapesta / a terra», “C’era”); ma anche legando attimi a fili di speranza (“Greta”) lì dove appare un agire altruistico, non compromesso con i poteri deleteri del mondo e della Terra, anzi vòlto a scardinarli, o dove sembra resistere limpidità d’intenti negli umani, gli s/connessi fermi e tenaci ma non statici davanti ai sempre connessi.

Gemma Forti non descrive né narra, come fanno molti connessi “Poets”(masochisti, Felici, Atomi solitari) della poesia omonima. Crea, al contrario, in questa “tragicomica composizione” (Marcello Carlino), con versi concitati lo spazio socio-civile invivibile e mortifero, individuandone ragioni e contraltari, mancanze e negatività, sfiati e riprese di calore. Versi di tre-quattro lemmi, talora lapidari (come i pensieri degli scrittori, pur lontani tra di loro, presi a riferimento per conferma o sconferma del nucleo di verità) come una sentenza: il troppo d’intorno non ha bisogno, espanto come è in chiarezza, di superflue espansioni, mentre il vuoto viene riempito talora da versi-lampo di fugace illusorietà: « (…)Si tocca allora il fondo / sempre più giù / sino agli inferi / nello sprofondo // Nulla di umano / resta // Solo una effigie / bambola di pezza / che contorni esangui / trasmuta / & / discolora» (“Quando una fiamma”).

Maria Lenti

~Niente è da prendere troppo sul serio, perché sovente la tragedia finisce in

ilare commedia; la parola è un gioco di perenne inno alla vita e alla morte: con questi nuovi testi Gemma Forti esce dai canoni consueti, dalla falsità dei facili sentimenti e si tuffa nel polisenso, nella poliedrica sfaccettatura farsesca della realtà, come una partitura musicale divertita di un tempo che si sfarfalla e ci cattura irrimediabilmente.

Ma dietro il gioco, la scanzonatura dei saccenti, trapela la realtà delle eterne ingiustizie, dei barconi che affondano, del magna magna di un mondo allo

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sfacelo, non solo per i cambiamenti climatici, ma per l’ottusità di una società al declino: si assiste così a una misurata danza macabra, intessuta di colpi di fiorettoe di scompassate sceneggiate da melodramma, perché forse non ci è rimasto che lo sberleffo e il ballo in punta di tacchi per non far di tutto una Carta S/traccia.

Forse alla poesia non è rimasto che il riso, la canzonatura dei velenosi stereotipi, dei tic e le para-noie della falsità, quando l’inganno è assunto a principio della vita e la parola vilipesa: in un mondo dove conta di più il pil e l’apparire, che cosa può fare la poesia se non sbattere in faccia una commedia esilarante che si prende beffa di tutti gli assolutismi e gli eterni qualunquismi?

Forse per smuovere “I Poeti/ uniti nel mondo/ da un filo sottile/ di seta” occorrono delle randellate scherzose, degli elettroshock mascherati da riso: uscire di scena, facendo i guitti e fingendo senza pudore o se si vuole trasformarsi in santi, in sardine o in verdure dell’orto di montagna, perché in fondo “è la Comare Secca/ che arrota l’unghie/ le lima lucida smalta/ di nero seppia”.

Una scrittura poematica che trascina in un vortice di battute e di rimandi, di sottintesi e frastagliamenti, in una sarabanda del dire che è anche non dire, a volte è evidente denuncia, calibrato sberleffo in contrappunto senza “nessuno sconto”.

C’è nella scanzonata protesta, nell’andare in una direzione contraria a “Isempre connessi”, una vena dolceamara che conforta e accarezza nel suo sottile canto: “Impara ad assaporare/ una nuova dolcezza/ navigando verso il circolo/ polare”.

Ma il canto ha anche il suo controcanto, la purezza sognata si trasforma in rivolta: “Neve bianca/ lattea/ pura/ per ricoprire/ sangue/ morti/ eccidi”...

Emblematici i versi di “NESSUNO SCONTO”: la vita la si guadagna con la sofferenza, con il travaglio, col sogno maciullato “Tutto ha un peso/ Tutto un costo/ Niente gratis”.

La testardaggine di fare poesia comunque e in maniera sempre diversa, qui con l’intersezione di una “epigrafe” pittorica, come scrive giustamente Marcello Carlino nella sua introduzione al libro.

Con la combinazione dei diversi moduli di scrittura, a tratti il testo assume il tono della protesta, seppure molto controllata, perché siamo in un “Paese di cartastraccia/ ponti che crollano come fuscelli/ morti 43/ feriti 100/ sfollati 600”…

In un tracollo dei sentimenti, nelle catastrofi quando piove, nella terra dei fuochi e delle siccità, dei ponti crollati e dei politici imbalsamati “Rimane solo/ amaro/ dispiacere/ disincanto/ per aver estinto/ un sogno/ ad occhi aperti”.

Mario Rondi

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Insolite quotidianità

di Marco Furia

L’evidente propensione al surrealismo di “Racconti altri” (Edizioni Empirìa, Roma, 2019, pp. 128, euro 15,00), brevi narrazioni di Bruno Conte, crea una pecu-liare atmosfera in cui il fantastico tende ad assumere valenza quotidiana per via d’una scrittura concisa quanto esatta.

Si legge a pagina 36“In questo spaccato di mondo, abitato da soli umani,

l’invecchiamento avviene per diminuzione di statura”e, a pagina 53 (a proposito di un individuo, uscito

per comprare un francobollo, che, poco dopo, al suo ritorno, “trova la casa vuota”, priva di tutto, eccetto muri, soffitti e pavimenti)

“Si tratta del solito singolo abitante, accumulatore di cose, oggetti di vario stile, di varia natura, libri, libri fin sotto il letto, in un appartamento non angusto, di varie stanze in origine spaziose”.

Come si vede, il riferimento al mondo reale non è assente (la stessa scrittura appare piana, comprensibile), tuttavia un inopinato scarto conduce in territori lontani dall’esperienza concreta.

Inaspettate contingenze emergono in modo spontaneo, quasi naturale (a dire: le cose, qui, stanno così, proprio così).

Bruno pare un “accumulatore” d’idee, d’immagini, di parole, che, nello scostarsi dal comune discorso, crea una sorta d’idiomatico ponte con un assurdovia via sempre più familiare: i suoi personaggi – avvertiamo – abitano nel nostro caseggiato, compiono azioni simili alle nostre, frequentano i nostri stessi ambienti e amici.

Quei personaggi, forse, siamo proprio noi?Lo siamo non in parte, ma anche, poiché il surrealismo, se davvero tale, è

vero e proprio aspetto dell’essere.Non mancano tratti in cui una vena poetico-filosofica si mostra con quasi

noncurante consapevolezza:“Non è un momento che appartiene all’orologio ma un punto da catturare nel

colore del tempo.Si continuano a trascorrere giorni punteggiati da questo caso ricorrente”.Il tempo ha un suo “colore” (non soltanto una misura) e il Nostro ben se ne

accorge.Così, di sbalordimento in sbalordimento, di meraviglia in meraviglia, di

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arguzia in arguzia, si leggono con sempre rinnovato, stimolante, interesse queste brevi narrazioni in cui, come scrive Elio Pecora nella poesia iniziale

“L’uomo saltella sull’abisso e mostraNella destra uno scettro: ché s’illude[ … ]Forse soltanto questa è la sua impresa:inventarsi un teatro”.L’ordinario modo di vedere (e di parlare) è già, di per sé, un “teatro” accanto

al quale possono essere immaginate, come fa Bruno Conte, altre messinscene?Sì e le raffinate, enigmatiche, fisionomie, opera dello stesso autore, che s’in-

contrano tra le pagine, sono una conferma, aperta ed evocativa, di tale umana condizione.

Insomma, una buona lettura.Marco Furia

Sul filo dell’attesadi Maria De Lorenzo

Scritture d’attore Rifrazioni artaudiane nel teatro italiano(Carmelo Bene, Rino Sudano, Socìetas Raffaello Sanzio)di Alessandro Dessì

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Il Consiglio d’Egitto. Un romanzo-pamphlet che ha affascinato il cinema e il teatrodi Rebecca Marcucci

Non è un libro di facile lettura il Consiglio d’Egittodi Leonardo Sciascia (Adelphi, pp. 168). È un “roman-zo-pamphlet” dove ritroviamo i grandi temi dello scrittore di Regalmuto, ossia la storia, la storiografia,la giustizia e la morale. In questo libro è molto forte l’influsso della filosofia di Voltaire e di Diderot e soprattutto di Courier, a cui dedica questo lavoro. Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1963 (nella collana “I Coralli” ed. Einaudi). Il libro ha susci-tato l’interesse di Guglielmo Ferro che ha pensato di realizzarne una riduzione teatrale, andata in scena, per la prima volta, al Teatro Verga (sede del Teatro Stabile di Catania) nel 1995. La storia o una storia nella storia - pensando agli intricati casi di Luigi Pirandello - ha affascinato anche il cinema, infatti nel 2002 è uscito l’omonimo film di Emidio Greco.

La storia è ambientata a Palermo nel 1782. Dopo il naufragio, mentre cerca di ritornare in patria, l’ambasciatore del Marocco, Abdallah Mohamed ben Olman, viene accolto dal viceré Domenico Caracciolo. L’ambasciatore chiede che gli sia mostrato “tutto quello che in Palermo c’è di arabo”, perciò il viceré gli affianca monsignor Airoldi, amante della storia di Sicilia e delle cose arabe, e don Giuseppe Vella, un monaco maltese che funge da interprete. Ben Olman viene condotto nel monastero di San Martino, dove da cento anni è custodito un misterioso codice arabo. Dopo averlo esaminato, l’ambasciatore capisce che si tratta del semplice racconto di vita di un profeta, non legato alla storia della Sicilia. Questo fa scattare nella mente di Giuseppe Vella l’idea di mettere in piedi “la grande impostura”, che sarà la protagonista del romanzo. Infatti, il monaco afferma che il codice è un’importantissima raccolta di documenti sulla storia della Sicilia, ricevendo poi il compito di tradurre tale codice, col nome di “Consiglio di Sicilia”.

Ma chi è Giuseppe Vella? È un uomo che appare semplice, ma in realtà è furbo e ambizioso, il quale coglie nella proposta di monsignor Airoldi l’occa-sione di condurre una vita più agiata e il cui sogno è quello di fondare una sua scuola di arabo. Eppure viene deriso dall’aristocrazia, considerato “un uomo senza cultura, sprovveduto […]”, un ignorante che “[…] nel nostro volgare non è nemmeno capace di mettere in fila una lettera”. Tale pregiudizio lo aiuterà a portare avanti la sua menzogna, perché monsignor Airoldi lo riteneva incapace

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di una messa in scena così intricata, nonostante ci sia comunque qualcuno a spar-gere il seme del sospetto tra la nobiltà.

Dopo che la sua fama era giunta alle orecchie del viceré, Vella decide di dedicarsi alla traduzione di un nuovo codice, “Il Consiglio d’Egitto”, che era stato donato dall’ambasciatore del Marocco Abdallah Mohamed ben Olman. Il manoscritto era importantissimo per la storia di Sicilia in quanto vi si potevano leggere delle lettere del Sultano di Persia, di Roberto Guiscardo, del Gran Conte Ruggero, fratello di Roberto Guiscardo, e del figlio di quest’ ultimo, Ruggero II, il quale divenne primo re di Sicilia nel 1130.

Lo scopo di Vella, tuttavia, era quello di “incenerire […] quel complesso di dottrine che la cultura siciliana aveva in più secoli […] elaborato per i baroni, a difesa dei loro privilegi”. La nobiltà palermitana era molto preoccupata di ciò che era scritto nel Codice d’Egitto, dato che avrebbe potuto perdere diversi privi-legi, decidendo di ingraziarsi il monaco con sontuosi regali.

Interessante è anche la figura dell’intellettuale e giurista Francesco Paolo Di Blasi, visto con enorme sospetto dalla nobiltà a causa delle sue idee illumi-nate. Molto evidente è il contrasto tra i due personaggi: da un lato Di Blasi, il quale tenta di illuminare il diritto, il diritto di tutti a essere uomini, senza alcuna distinzione di classe sociale, ideale per il quale si batterà fino alla sua condanna a morte; dall’altro lato Vella, che tenta di imbrogliare la realtà per un semplice tornaconto personale, arrivando però a non reggere più il peso dell’impostura, decidendo così di autodenunciarsi. Sebbene sottile sia il riferimento alla morale e all’uguaglianza, Di Blasi è un vero e proprio paladino della giustizia, nonché l’alter ego di Sciascia.

Il romanzo rispecchia la dicotomia tra il bene e il male che troviamo in altri libri. Sciascia è uno scrittore cupo, pessimista con un piglio polemico. La disamina sulla realtà è rivolta ai vari problemi sociali che sono affrontati con umorismo tetro. Del resto, il testo ha un finale tragico ed è scritto con una lingua complessa, che si aggruma sul senso delle cose e soprattutto sulla giustizia che sembra non assolvere mai fino in fondo i suoi compiti. I dialoghi tra i personaggi sono intrisi di termini aulici, dialettali e latini, che permettono al lettore di cono-scere i personaggi anche dal punto di vista espressivo.

Sciascia è riuscito a raccontare la sua terra attraverso personaggi carismatici, in una prospettiva moderna: l’iniquità di chi amministra lo Stato e la ricerca della verità, in un mondo in cui “La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell’essere, frondeggia al di là della vita”. (R. M.)

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“Donne” di Andrea CamilleriUno sguardo fugace sull’universo femminile attraverso gli occhi dello scrittore

Quello delle donne per molti è un universo imperscrutabile, incomprensibile, perché ha dei meccanismi tutti suoi. Attraverso il libro “Donne” di Andrea Camilleri, pubblicato per la prima volta nel 2014 (edito Rizzoli), viene concessa l’occa-sione di osservare questo mondo con gli occhi dell’autore stesso che presenta donne di cui ha letto, donne che ha incontrato e donne che gli sono state raccontate.

Dalla nonna Elvira, persona semplice e mera-vigliosa, che viveva in un mondo tutto suo e del quale spesso rendeva partecipe Andrea, a Ingrid, ragazza conosciuta durante uno stage all’univer-sità di Copenaghen, dal cui nome deriva quello dell’amica del Commissario Montalbano. Da Maria, il suo “soavissimo primo amore”, a Quilit, ragazza brasi-liana conosciuta a Rio, la quale gli ha mostrato “un’umanità a un tempo disperata e disperatamente felice di esserlo”. Trentanove nomi di donne, ognuna diversa, ma in qualche modo simile all’altra. Donne che lo scrittore siciliano ha amato, di cui è stato amico ed estranee che gli hanno raccontato la sua vita in cerca di un consiglio. Ogni donna ha avuto il suo capitolo dedicato, un piccolo spazio in cui l’autore racconta brevemente le dinamiche del primo incontro e le prime parole che si sono rivolti. La lettura risulta piacevole e affascinante, seppur frammen-taria, alla scoperta di donne feline, focose, ribelli, determinate, tenaci, riservate, anonime, solitarie; senza mezzi termini o giudizi, semplici vicende. Difatti, nella Nota dell’Autore, Camilleri scrive che questo libro “non ambisce quindi ad essere un trattato sulle donne, non intende tirare somme o far consuntivi, proporre inter-pretazioni psicologiche, addentrarsi nei labirinti dell’universo femminile”.

Famoso principalmente per la sua collana di libri sul Commissario Montal-bano, Andrea Camilleri è stato uno degli scrittori più meritevoli della letteratura italiana contemporanea e che ha avuto, solo in tarda età, un successo strepitoso anche all’estero. Difatti, le oltre cento opere che ha scritto sono state tradotte in circa 120 lingue. Nato in provincia di Agrigento nel 1925 e morto a Roma lo scorso luglio, con questo libro sembra permettere al lettore di conoscerlo più a fondo, raccontando come si è posto verso queste donne, che definisce “enigmi irrisolvibili”, ricche di sfaccettature. Tristemente, alcune di queste sono storie fatte solo di violenza, umiliazione e denigrazione, rispecchiando una realtà purtroppo ancora fortemente attuale. È forse anche per questo motivo che Camil-leri, nella conclusione della Nota dell’Autore, denuncia con parole taglienti ciò

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a cui siamo costretti ad assistere quotidianamente: “Sinceramente non avrei mai pensato di pubblicare un libro così intimo sulla figura della donna, ma altrettanto sinceramente non avrei mai pensato che in Italia nel 2013 fossimo costretti a varare una legge sul ‘femminicidio’”. (R. M.)

Il fascino di Don Fabrizio Salina Riflessioni su Il Gattopardo

Il Gattopardo è “un libro che ci affascina, che ci diverte, che ci fa riflettere - e, soprattutto, che ci lascia ancora di più radicati nelle convinzioni nostre, nel nostro modo di essere siciliani [...]”. Così scrive Leonardo Sciascia, nel libro pamphlet Pirandello e la Sicilia, sul romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, opera pubblicata postuma per la prima volta dalla casa editrice Feltrinelli nel 1958.

Il libro narra i mutamenti della Sicilia durante i moti garibaldini del maggio 1860. Il primo perso-naggio che l’autore ci presenta è Don Fabrizio, Principe di Salina, il cui stemma familiare è quello di un gattopardo dorato. Da qui in poi, emerge la componente autobiografica del romanzo, dato che Tomasi stesso apparteneva alla nobiltà siciliana.

Don Fabrizio è un nobile feudatario, indifferente ai mutamenti sociali che stanno travolgendo l’Italia. Vive in una realtà fittizia, come avvolto da una aurea dorata. Non distoglie i suoi occhi da ciò che la sua famiglia ha conquistato, ossia terre, palazzi, privilegi e non è disposto a trattare con la nuova classe politica che si sta affacciando sulla scena.

Tomasi descrive gli interessi e i sentimenti contrastanti di un uomo sulla soglia dei cinquant’anni che si vede ancora affascinante e potente, al punto che, coltivando la sua passione per l’astronomia e la matematica, si ritrova a pensare che gli astri stessi obbediscano ai suoi calcoli.

Nonostante ami molto la sua famiglia e la moglie Stella, il suo sfrenato indivi-dualismo gli fa compiere una serie di azioni discutibili (come la relazione extra-coniugale con una contadina). I suoi sette figli, con cui vive nel Palazzo Salina, non instaurano alcun rapporto filiale con Don Fabrizio, che sembra pensare a tutt’altro. Il rapporto che ha con il nipote è invece molto più intenso, tanto che l’affetto per il giovane rivoluzionario è più forte di quello provato per i figli,specialmente per l’unico figlio maschio.

Emblematica è la scena del Principe allo specchio, intento a rasarsi la barba, mentre alle sue spalle compare il nipote Tancredi Falconieri che gli annuncia il

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suo desiderio di unirsi ai moti garibaldini. Don Fabrizio, stordito dalla notizia, lascia andare il ragazzo, sentendosi rispondere da quest’ultimo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.

Quando Tancredi se ne va, diretto verso Corleone con i suoi compagni gari-baldini, il Principe pensa che il nipote sia un grand’uomo. Don Fabrizio si rivede nel giovane Tancredi, ma ormai le sue ispirazioni e i suoi ideali si sono assopiti.

Il Principe di Salina è un uomo molto colto e intelligente, ma ignaro di cosa si celi al di là della nobiltà: la condizione degli umili e le classi sociali minori non rientrano tra le sue preoccupazioni, tanto che pensa a loro per la prima volta quando, durante una battuta di caccia, nota dei formicai e li associa mentalmente a un plebiscito.

Sciascia fa una sorta di confronto tra Tomasi di Lampedusa e Verga, ponen-doli in netta contrapposizione: il primo sa far parlare la nobiltà, ma non gli umili; il secondo sa far parlare gli umili, ma non i nobili. In ogni caso, Don Fabrizio è conscio dei cambiamenti radicali dal punto di vista storico e delle conseguenze che questi avranno su di lui e la sua casata, ma lo vediamo incapace di reagire a tali eventi. Dopo l’avvenuta unità d’Italia viene proposto a Don Fabrizio di entrare a far parte del Parlamento, ma egli rifiuta, affermando che avrebbe prefe-rito un titolo da poter mettere solo su carta, senza alcuna necessità di partecipare attivamente alla vita politica.

Il decadimento della nobiltà siciliana si fa sempre più evidente nel corso del romanzo, fino alla conclusione, nel maggio 1910.

Concetta, una delle figlie di Don Fabrizio, alla morte del padre ha ereditato la villa dei Salina, che ci viene descritta come una casa abbandonata, logora, guscio vuoto delle antiche glorie familiari.

È circondata da reliquie, senza più alcun valore emotivo che la spinga a conservarle nel palazzo. Tra queste vi è anche la salma di Bendicò, l’amato alano di Don Fabrizio, che viene gettata dalla finestra perché ormai piena di tarli. È in quel volo, nella caduta del cane dalla finestra, che ritroviamo il metaforico declino della casata dei Salina, fino a quando “tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida”. Il Gattopardo può essere apprezzato appieno, grazie anche a una lingua colta ed elegante che permette di fare emergere il pensiero dei perso-naggi talvolta l’interiorità..

La terra descritta da Tomasi, tuttavia, non sembra talvolta essere la Sicilia perché il racconto pecca per Sciascia di “astrazione” o meglio ...”l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano...”. E persino il rapporto con la gente di Sicilia non è autentico per lo scrittore di Recalmuto. Infatti,Tomasi, tramite il personaggio di Don Fabrizio, “... guarda solo di sfuggita [i poveri] in quanto sgradevole manife-stazione della condizione umana”.

Rebecca Marcucci

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Una introduzione alla poesia di Marco Palladini

di Francesco Muzzioli

C’è una generazione di giovani critici usciti da poco dall’università (alcuni di loro stanno colla-borando proprio alle pagine di questa rivista) che promettono bene perché, oltre a possedere gli stru-menti per approfondire il discorso sul testo, sanno anche occuparsi dei contemporanei sapendo trovare gli autori “giusti”, al di là della cortina fumogena della attuale confusione mediatica. Una di questi critici è Ilenia Appicciafuoco che ha pubblicato nella collana di Entroterra una monografia sulla poesia di Marco Palladini: Nei sentieri della lingua-virus. Saggio sull’opera poetica di Marco Palla-dini (Edizioni Novecento, 2019, pp. 198). Il libro è diviso in due parti: nella prima l’autrice segue il percorso di Palladini raccolta per raccolta, dalle prime degli anni Ottanta, fino alle recenti come Iperfetazioni,Attraversando le barricate, È guasto il giorno; mentre nel secondo capitolo, più breve, svolge il rapporto con la vocalità del teatro e tratta delle collaborazioni con i musicisti. Resta fuori il Palladini narratore di romanzi e racconti e il Palla-dini critico della letteratura e del teatro; ma intanto questa è la prima prova di approccio complessivo all’autore e direi che per il momento il piatto è più che ricco.

Bisogna dire subito che Ilenia Appicciafuoco, a partire dalla definizionecentrale della linguavirus (confermata per altro dall’autore in sede di intervista conclusiva), si muove sempre con grande sensibilità per i valori testuali, sotto-lineando opportunamente le evoluzioni nel tempo della scrittura palladiniana. Molte sono, oltre alle dovute informazioni, le considerazioni che la lettura suggerisce, gli spunti critici e riflessivi, le direzioni di indagine e le segnalazioni di rilevanza di un autore che ormai si è affermato come un importante rappre-sentate della ricerca poetica tra fine Novecento e inizio millennio. Innanzitutto, mi sembra che la ricostruzione dell’intero percorso valga a dimostrare la matrice di fondo, cioè il carattere anarchico di Palladini e della sua poesia: infatti, Ilenia Appicciafuoco sottolinea la volontà di «sfuggire a qualunque definizione» e di conservare, tappa dopo tappa, una posizione “sovversiva”. Mi sembra che tale carattere fondante possa spiegare la congiunzione della visione pessimistica sul presente con la vocazione alla contrapposizione: perché è proprio la contrapposi-zione, rivolta ‒ come anarchia richiede ‒ anche verso le blande misure della sedi-cente sinistra e anche alle poetiche trascorse dell’impegno (l’attraversamento

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delle barricate significa anche questo), proprio tale contrapposizione ad ogni costo, dico, comporta la registrazione di una difficoltà di comunicazione con un pubblico sempre più diseducato e aduso a prodotti quanto mai “culinari”. Invece della sfiducia che inclina al rientro, in questo caso la “visuale del disastro” è lo stimolo per superare sempre nuove difficoltà. Quella del pubblico, della sua rare-fazione e allontanamento è questione sempre all’ordine del giorno, ma in certo qual modo irrisolvibile. La stessa autrice del libro, parte proprio da una simile considerazione: «Quindi è chiaro. Palladini non è uno scrittore per tutti, e lo sa». Ma si può essere “scrittore per tutti”? Lo stesso Palladini ribatte, nell’intervista conclusiva, alludendo al lettore e alla pigrizia intellettuale di massa: «Non si capisce perché uno si debba arrendere alla prima difficoltà». Ecco, qui abbiamo un autore per il quale la constatazione della marginalità attuale della forma-po-esia non porta affatto a una resa al mercato delle ovvietà (il “poetese” melenso e vuoto di tanta versificazione diffusa oggi), quanto piuttosto a uno scavo su tutta la marginalità sociale indotta dalle disuguaglianze capitalistiche. L’equivalentesociologico ‒ se si può usare questa espressione ‒ della poesia di Palladini è molto spesso il sottobosco notturno metropolitano, dove si sperperano le forze-lavoro che la società non sa e non vuole riassorbire. In questo non lontano da Pasolini, da sempre uno dei suoi “fari”, anche nel fatto di accorgersi della dege-nerazione di questo strato “antisociale”, incattivito nel disagio delle periferie in un underground di commerci malavitosi e di conflitto parossistico ma tribale.

Il testo dipende dall’insorgenza di una carica “somatica”. E ciò comporta prima di tutto la convergenza della scrittura poetica con il teatro, il luogo dove lo specifico artistico è esattamente il corpo. Palladini ha compreso molto presto quanti vantaggi offra alla poesia il mettersi in azione. Nella recitazione e messa in scena delle poesie di altri (in particolare, nel libro, si ricorda la predilezione per Emilio Villa e Gianni Toti, due sperimentali non inseriti nel solito pantheon neoavanguardista), così come delle sue proprie, Palladini fattosi “Poetattore” dimostra la necessità dello sbocco nell’oralità. Scrive Appicciafuoco:

Il ritmo, la cadenza, la musicalità o il rifiuto della stessa nelle parole e nei versi dalla viva voce dell’autore, se da un lato costituiscono un’eco che si pone a metà strada fra la messa in scena e l’avvento della canzone tout court, dall’altro simboleggiano una sorta di richiamo ad una delle fondamentali ed originarie peculiarità della poesia: l’oralità.

Si potrebbe anche parlare di un fondamentale dinamismo, che penetra nella stessa voce rendendola ‒ direbbe Bachtin ‒ “bivoca”. Ho spesso percepito nella vocalità di Palladini l’interferenza di due voci: una drammatica e tesa fino all’urlo e al pathos e una ironica, in falsetto, straniata. È come se la voce da un lato si facesse carico del “soggetto in rivolta” perfino nel suo fallimento individuale, dall’altra sentisse la necessità di espellere da sé il “soggetto omologato”, rigi-randolo in parodia. Qualcosa di simile a tale “dualità” riscontra anche Appiccia-

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fuoco nelle diverse “tinte” dell’autore, quelle «sarcastiche ed amare» e quelle «del Palladini più ludico e vivace».

Il fenomeno davvero eclatante è come la carica somatica vada a deformare l’assetto del linguaggio. La linguavirus è appunto questo sconvolgimento portato alle estreme conseguenze. Ilenia Appicciafuoco intitola il capitoletto dedicato a Ovunque a Novunque (la raccolta del 1995) “L’esplosione del logos” e vi enumera tutta una serie di procedimenti che si sovrappongono e si incalzano in «una continua catena di assonanze e allitterazioni, rime interne, neologismi, parole ad innesto, onomatopee, metonimie e sineddochi. (…) è tutto coagulato, mescolato in un’atmosfera senza tempo e dispersa in innumerevoli e difficil-mente identificabili spazi». È il Palladini più villiano e più totiano, che non lascia fermo alcun membro del testo senza averlo spostato dalla sua configurazioneprevista dal codice. Il “virus” a questo livello ha un effetto deformante: non elimina la comunicazione, ma la utilizza per portare lo sconcerto e lo scarto dalla norma, per costringere il lettore a un continuo riposizionamento. Scrive Ilenia Appicciafuoco, facendo richiamo a certi scritti di Artaud: «I neologismi, il bombardamento continuo di citazioni, i riferimenti velati, i collegamenti da snidare risultano impenetrabili, assurdi e sembra che ad ogni verso si moltipli-chino»; malgrado ciò è evidente che il rapporto con il lettore non è così distrut-tivo come sembra, perché, se il lettore aderisce al movimento, ne può ricavare una esperienza di forte intensità emotiva.

Un particolare punto che il libro tocca di tanto in tanto è la presenza delle tematiche dell’amore, dell’eros e della sessualità. Lungo i “sentieri” di Palladini queste tematiche assumono sfumature e funzioni diverse; soprattutto, mi pare che l’autore si trovi ad affrontare una grande trasformazione. Infatti, all’inizio del suo percorso quei temi costituiscono una irruzione dal “basso corporeo” di cariche compromettenti per la cultura benpensante, con tutta la provocazione della crudeltà, basti pensare all’uso che Palladini ha fatto della figura di Sade; ma proprio Sade è il grande rivelatore della connessione della cieca pulsione con il potere: e lo sviluppo della società dei consumi cambierà la collocazione della trasgressione, la ridurrà a merce tra le altre nella “fabbrica del desiderio”. Il verso anarchico di Palladini dovrà fare i conti con questo intreccio e questa contraddit-torietà della politica del piacere. Così come ‒ ne dà conto Ilenia Appicciafuoco ‒ nella parte del percorso più vicina all’oggi si troverà ad attenuare il lavoro sul significante per assumere un assetto maggiormente discorsivo, ragionante, in cui la vocazione alternativa si configura come dispregio etico, contraddistinto (cito il libro) da «un acre, triste e disincantato sarcasmo». E inoltre:

Le parole valigia, i calembour e le inversioni sintattiche vengono inseriti all’in-terno di un discorso che procede rispettando un andamento complessivamente molto più decodificabile anche a una prima lettura. La tensione avanguardistico-sperimentale permane, anche se qui lascia che sia l’importanza del significatoad estrinsecarsi maggiormente (…). Le poesie di Palladini, in Iperfetazioni,

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assumono le sembianze di un discorso filosofico-didascalico, diventano una sorta di monito che il poeta vuole fortemente esprimere e rispettare.

Dove istanza politica e critica della prassi politica si muovono di pari passo.Nel corso del suo studio, l’autrice ricorda anche le due antologie curate da

Palladini sotto il titolo Resistenze. Pare effettivamente che la “resistenza” (con tutto il precedente storico che evoca) sia l’unica cosa che resti da fare di fronte a un corso del mondo che regredisce sempre di più. Non a caso la formula di Palladini, che mi sento di sottoscrivere, è (ottimo calembour) il “materialismo stoico”. Ma c’è resistenza e resistenza: i suoi stessi “sentieri” ‒ seguiti con preci-sione da questa monografia critica ‒ dimostrano come si può resistere con vita-lità, passione e tesa creatività.

~Epicedio sul suddi Gualtiero De Santi

Ventilabro è un poemetto di Francesco De Napoli finito di stampare nel giugno 2019 per la collana ‘All’insegna dell’occhiale’ (seconda serie) ideata da Emerico Giachery (peraltro autore della prefazione al testo di cui sopra) e da Andrea Rivier. Il tutto per i tipi delle romane Graphisoft Edizioni.

Il sottotitolo del poemetto suddiviso in 4 canti è Scotellariana: che diremmo un sicuro omaggio al poeta di Tricarico al quale è comunque costan-temente dedicata una pagina della rivista che De Napoli dirige, «ΠΑΙΔΕΙΑ», tutt’accanto all’altra riservata a Leonardo Sinisgalli. Testimonianza di fedeltà a due autori fondamentali nell’area del nostro Mezzogiorno nella quale Francesco De Napoli svolge un ruolo significativo di operatore culturale e di intellettuale.

Ma anche traccia dell’ispirazione o almeno delle linee portanti che hanno stimolato e poi guidato alla stesura dei versi. C’è intanto come abbiamo già osservato una ideale correlazione con Rocco Scotellaro, “numen praesens” della intera composizione (questo scrive Giachery), nel fatto in primo luogo che fu lui a raccogliere il compianto di Salvatore Quasimodo (il giustamente celeberrimo Lamento per il Sud) traducendone i sensi nella poesia e nella cultura meridiona-lista degli anni ’40 e ’50 del Novecento.

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Francesco De Napoli sviluppa un proprio “lamento” sull’oggi attivante una operazione di modifica del linguaggio. Laddove il dettato espressivo di Scotellaro tendeva a una lingua familiare e libera anche perché rivolta alla più vasta platea popolare e ispirata a un’attesa di futuro, la cifra espressiva che sembra accompa-gnare la stesura del poemetto ricorda in un qualche modo tradizioni affondanti nel tempo. La scelta del distico e della tonalità elegiaca, la suddivisione in canti e insieme la lessematica e una modanatura strutturata circolarmente, collocano il suo epicedio nei calchi di una lingua che non appartiene ormai più a nessuno, non parlata e neppure compresa, inattuale per scelta e però anche per necessità.

In fatto Ventilabro presenta una struttura ad incastro, che contempera e confronta il passato con l’oggi e rovescia il presente in una tragica atemporalità destinale. E in ogni caso la lezione poetica si misura rigorosamente almeno in partenza sulle immagini di Scotellaro, su quel suo “eterno presente” che continua a parlare e offrire spunti e energia. Il lamento del “tardivo copista e scrivano” in cui De Napoli incardina il soggetto parlante della lirica, è sulla miseria di un oggi che fa seguito alle speranze del passato, idealità e prefigurazioni di un futuro immaginato diversamente.

L’intonazione della voce è sempre alquanto sostenuta, l’elegia come già s’è fatto osservare sembra quasi a maggior ragione un epicedio; il lessico pretende ad una elevatezza che è sembiante di una classicità un tempo radicata nell’uni-verso della Magna Grecia.

«Scivola il sole, stordisce i giorni su dilatate / spoglie di coscienze frantu-mate: aggraziati // e muti luoghi comuni, livellati docili sfinimenti / inesplicabili e scombinati, liturgie sacrificali // senz’angoscia né fede. Chiuse oppresse parvenze / rinnovano oltraggiate piaghe: schietto ne svelavi // abbandoni e rinunce, attento ai commiati / solitari replicati con impudico svilito pianto».

Tutto è fermo, solenne. Ma – come scrive il nostro autore – è immergen-dosi nella dimensione del “noumeno” che indizia uno dei contrassegni della sua poetica, e quando quella “cantillazione”, cioè l’espressione esitante, viene come raccolta da Rocco, dal suo spirito, dal suo esempio, che la poesia si concede a un passaggio lirico sciolto da durezze e asperità. Così compaiono la «strinata vite gemellata con l’ulivo», il «ciliegiolo ellenico», l’ «aleatico turchino». Evocati con la gentilezza del linguaggio in contrapposizione alla volgarità che imper-versa adesso ovunque.

Dentro la struttura austera dei distici e del loro allacciarsi, dove la ricogni-zione espressiva fa i conti con l’oscurità, entrano in forma di frammenti e frustoli luminosi le estensioni di un favoleggiare mitico-poietico anche in questo caso affidato alla evocazione di figure essenziali della cultura e dell’arte del sud. Non semplicemente elencate ma evocate per via sinestetica e con il cognome che antecede il nome.

Ecco i “soporiferi unguenti di rafano e melissa, / spiritati e lacrimosi, di Fini-guerra Assunta”, o a riscontro di una memoria tutt’altro che sopita della classi-

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cità, “la pulsanda tellus di Flacco Orazio Quinto” (che è un modo per riconoscere materialmente e vorrei anche dire gramscianamente un’appartenenza), e poi la “lectio” di Pasolini, le “oleate tele e fruttate carte di Levi Carlo” e la mitopoiesi dell’altrove di Ernesto De Martino. E insieme a tanti altri (Riccardo da Venosa, Giustino Fortunato, Danilo Dolci e Franco Fortini), il “tenace” Rocco Scotellaro si lega alla cordata dei “pionieristici viandanti” che transitarono per quelle terre armati dell’occhio fotografico, Henri Cartier-Bresson, Fosco Maraini e l’intenso e esigente Arturo Zavattini coi “loro sofferti / reportage” nondimeno “ da cliché e battage oscurati” e sommersi.

Torna infine l’epicedio sul presente. E con esso, il congiungersi della sequenza sintattica con quella che diremmo l’intonazione elegiaca, che significa il fondersi dei suoni coi sensi in una sequenza non arbitraria di contenuti culturali e psichici, cioè a dire di sentimenti ed immagini.

Elena, Ecuba e le altredi Gualtiero De Santi

Mi è appena occorso di ripercorrere le tracce lungo le quali, scorrendo con gli occhi e la mente Iperionee le vicende che lo hanno accompagnato, Friedrich Hölderlin saggia in qualche modo il destino e la propria vocazione di poeta. Come è ben noto a tutti i lettori di quel capolavoro, la tensione alla sintesi a cui con strenua fermezza si sono inclinate la filosofiae la poesia dell’idealismo tedesco, avrebbe trovato la più esatta collocazione nel quadro di assolutezza della Grecia classica incorniciandosi in un ambito entro cui in rapporto reciproco stavano le due forme dell’esistenza, la “suprema semplicità” della natura e la “cultura” appannaggio di uno spirito scampato impetuosamente ai naufragi esistenziali.

In questo universo nel quale dominavano amicizia ed amore e insieme le più ardenti ispirazioni, il ruolo spettante alla donna si ritrova rappresentato da una misteriosa e affascinante creatura, che compare nel Frammento con il nome di Melite. Nondimeno ora essa è Diotima, come nella Giovinezza, ora invece depri-vata di nome si rivela perduta. Tutto ciò sino al momento in cui sarà lei stessa la figura rivelatrice dell’assoluto ma insieme l’oggetto della rivelazione medesima. Stando a mezzo tra ciò che è mortale e quel che è invece divino, Diotima, la donna di Mantinea, è voce e simbolo di una natura che, come narra la Lettera 2, offre vita a tutti, lettori inclusi, non mostrando alla fine nient’altro se non amore.

Mi sono attardato su questi passaggi hölderliniani perché in essi appaiono

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innegabili l’autenticità e insieme il privilegio che il grande poeta tedesco accorda allafigura femminile, in quella comunione di luce e tenebre che esige uno stile alto, elegiaco, e un pensiero altrettanto alto, il pensiero della poesia. Questo pensiero e questo stile sono tornati nella nostra letteratura moderna ogniqualvolta si siano evocate le immagini di eroine e donne dell’antichità. Con un lirismo effuso e trascinante che si incontra nei testi tanto di uomini che di poetesse dell’otto-novecento, anche in quelle che hanno denunziato una condizione di sostanziale quando non totale sudditanza al potere maschile, quasi mai fuoriuscendo dalla prigione dove erano recluse.

Tale condizione è stata vera per una lunghissima porzione di tempo e si è sviluppata – come abbiamo accennato - anche attraverso le figure dell’antichità più remota dentro un tessuto di risonanze emozionali e insieme di rivendicazioni. Ė ad esempio un fatto che, a partire da un certo momento, una specifica ermeneu-tica della differenza femminile si sia concentrata su personaggi quale Antigone, assoggettata lancinantemente e contemporaneamente a una religione dell’umanità e della consanguineità (penso alle analisi di María Zambrano), o come Diotima, e ancora Medea e Cassandra, come peraltro ci viene espressamente ricordato da Alessandra Pigliaru nel suo testo di prefazione a un libro che si presenta in netta discontinuità rispetto a quella tendenza imperante per secoli.

Ci riferiamo a Elena, Ecuba e le altre. Una raccolta di versi di Maria Lenti che non segue – a differenza di tanti altri volumi – un itinerario filosofico perché non trasforma le figure femminili in simboli, se non di una condizione che non è comunque metaforica ma all’incontrario esistenziale e storica. Ovviamente, per intelligenza e sensibilità, le pagine di questo libro sono pur sempre attraversate da uno spirito avvertito di quei destini e con essi perciò consuonano. La realtà già adempiuta delle molteplici figure, da Arianna a Erifile, da Galatea ad Ebe, viene a traslarsi su un terreno di contemporaneità, nell’ottica di una riflessioneche potrebbe ben definirsi avanzata quanto alla parte analitica e ai presupposti che la sorreggono.

Il discorso poetico si conduce infatti sul filo di una ancipite direttiva: da un lato arriva in luce una piena nostalgia delle cose e delle vicende precipitate nel tempo; dall’altro entrano in azione le forme icastiche di un giudizio che è critico ed è ovviamente schierato. Talchè le figure femminili si prodigano in un modulo conservativo stando pur sempre nella cornice che storia e cultura hanno loro desti-nato: ma si confessano e si esprimono secondo il linguaggio della differenza e del rifiuto di ogni schematismo tradizionale (il che ingenera un modo di esprimersi impreveduto e insieme innovativo sul piano dell’elaborazione poetica).

Quelle eroine che riprendono le loro vite nei versi di Maria Lenti, non oblite-rano le loro esistenze e mai ne traducono le vicissitudini in una sorta di pensiero impersonale e trascendente, entro cui si riscattino e però anche cristallizzino le loro inquietudini. La buona via della conoscenza non suppone mai in esse alcuna attitudine alla passività invece importando sempre un contingente di nutrimenti morali e spirituali.

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Così, in primo piano, si affaccia una poesia che non si compiace e non si affinain una superficie smaltata, scolpita, né tantomeno riconduce se stessa alla tecnica archeologica di figure meramente allineate secondo lo “stile tappeto” di cui ebbe a discettare più di cent’anni fa Alois Riegl. Una poesia riagganciante le proprie ragioni non a uno stile araldico o elegiaco, ma al punto essenziale del conflittosiccome origine e radice della propria necessità. Così la lingua non si circoscrive nelle linee pur azzurrine della tradizione o dello Stilfragen, ma invece recupera voci e suoni (ossia metrica e prosodia) dai dati di un’immediatezza materiale che non può negligere, anzi invece persegue, il valore della propria verità.

La stesura ritmica che ne deriva arricchendosi delle risonanze di senso che si attivano da scaturigini lontane, offre spunto a singolari aperture di giudizio, o per meglio dire a un tono modale che si gioca in un fraseggiare allocutorio e operante. Così che il sistema della storia e della tradizione trapassa e risorge in una imagerie che lascia fluttuare sul rovescio i preziosi fili della tradizione con le sicure e nette parole e argomentazioni della diversità femminile.

Pertanto Antigone può dire in replica a Creonte: «Non seguo la tua legge. / Ė legge di guerra. // La mia del cuore». E Ipsipile a Giasone, con quella densità epigrammatica nella quale si tematizzano tenerezza, orgoglio e passione: «Ti ho amato per te stesso, / per la parola della nave Argo, / per una lingua che portava / vento d’altrove».

Un’estetica dell’inquietudine di Gualtiero De Santi

A nessuno è stato mai concesso di vivere in una camera anecoica: in un luogo isolato dal mondo, serrato entro pareti infeltrite e senz’eco, bloccate ermeticamente. Ciò che un grande saggista d’ol-tralpe oggi scomparso ha identificato nei termini di “graine de la voix” ha assunto infatti il significatodi una presenza: è attestazione di stile e ancor più afflato e prosòdica soggettiva. E comunque – riflet-tendo sull’arte della modernità (e della collegata postmodernità) - il compianto Harold Bloom ha potuto osservare che siamo tutti immersi, lettori e scrittori, nel flusso delle sensazioni con lo sguardo rivolto all’esterno, inclini però a inseguire un nostro tempo interiore.

Ciò che un Rilke poteva circoscrivere in quanto avvertimento dell’indicibile s’incunea infatti nell’io ma cerca una esplicazione in una parola poetica che non

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sempre raggiunge il proprio fine. Così il dato saliente è che soltanto il sentimento della perdita o l’avvertenza di qualcosa di contraddittorio, renda davvero possi-bile una qualche compensazione. Il che avviene attraverso la rappresentazione consentita dall’arte, in altri termini grazie alla scrittura. Perciò stesso il barthe-siano timbro sonoro che sopra abbiamo richiamato, è in primo luogo impressione e emozione, ma poi si fa materia espressiva: mutandosi in linguaggio oscillante tra estensione e vivezza, tra forma che si lascia assorbire da una precipua anatomia del silenzio e liberazione delle immagini stesse.

Quella speciale modularità del linguaggio è anche una rappresentazione di se stessi ottenuta con l’approccio all’intelligenza sensibile di un personaggio, che nel caso di una raccolta di versi è l’io poetico intrinseco a quei versi stessi ma è insieme la voce dell’autore. Così (intendendo percorrere il cammino di inquieta ricerca tracciato in una lirica de L’impazienza, l’ultima raccolta di Renato Pennisi uscita sul finire del 2019 per i tipi di Interlinea), la possibile “rivelazione” e la “riflessione intermittente” non stanno più dentro un qualunque partitario espressivo («si è smarrito il filo / è un oggetto ingombrante, un atlante / curioso da vedere»), ma sono all’opposto le pagine mancanti di un’opera da ricomporre.

Sul momento, nell’immediatezza dell’accadere, quel che è dato scorgere, o anche soltanto percepire, è il fiotto dei dispositivi personali: quando posati sulle cose all’intorno, rivolgendosi al passato («C’è il bucato da stendere / nella cesta di zinco / e la terrazza è bianca, e c’è mia madre»), quando reattivi nei riguardi del presente. Percepiamo ne L’impazienza luoghi ed ambienti velati dalla coscienza epperò sempre lambiti dalla precipua corporeità del poeta: il quale attraversa stanze, scopre finestre aperte, contempla una porta bloccata da una sedia. Avvertiamo infine sensibilmente il continuo rimescolarsi del soggetto lirico con la propria materia.

Ed è in questo tratteggio – un impressionismo memoriale e mentale che si fa percezione e che aspira a divenire coscienza – che si potrebbe decifrare la natura vera di quella impazienza che si incardina nel titolo della raccolta pennisiana. La quale è se non attesa almeno speranza in un possibile dipanamento delle incer-tezze circostanti: tensione garante di una riserva enigmatica di quella materia stessa e per ciò stesso anche del linguaggio.

Va da sé che il territorio espressivo dell’ultimo Pennisi competa alla lettera-tura ma in quanto luogo di trascrizione di un’assenza, o di un’inquietudine, nella quale ricade il quotidiano. Gruppi o frammenti di frasi in stato di pervasività non rispondono a un discorso compiuto che contempli l’unità tra la frase sintattica e quella poetica, ma invece a una pratica di scrittura istantanea e sovrapposta, a domande che celando l’apporto di una risposta immediata obbligano la materia a un rimescolamento. Mantenendo la dialettica tra necessità e insufficienza, tra ricerca e incompiutezza, tra la frase poetica e la sua risonanza naturale.

Ciò nonostante, per quanto non istituzionalizzato, permane pur sempre un rapporto tra il livello semantico e il livello linguistico. Considerando il primo

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nei termini di un inseguimento della verità e l’altro, quello della lingua espres-siva, quale momento formale che interessi il ritmo e lo stile. E dappoiché quella trascrizione e circoscrizione di immagini singole e di suggestioni impressioni-stiche fanno da accompagnamento alla ricerca di senso, si potrebbe ragionare di una fenomenologia dello stile, giusto nell’ottica di una crisi che è sì in funzione di simbologie personali nondimeno rappresentate in un contesto più vasto e immanente.

Da cui il passaggio dal giudizio egocentrico a un piano appunto più generale e ergocentrico. E un’orchestrazione delle frasi poetiche in forma di figurazioniche utilizzino il linguaggio non a fini estetico-retorici, ma invece quale tessuto di figure costitutivamente imperfette («la perfezione è noiosa», recita non a caso la frazione di un verso della prima lirica della sezione in explicit) ma ad ogni buon conto intrinsecamente essenziali.

Figure di senso che agiscono a modo di evocazioni memoriali o analogiche, ma anche di arrischiate immersioni espressive e che tuttavia, nei momenti di marcatura maggiore, sono le linee specifiche di versi dotati di autonomia la cui tensione metaforica tende pur sempre a liberare una qualche possibilità dalla posizione inerte a cui sono state costrette.

L’impazienza è allora la temperatura che offre calore al susseguirsi delle diverse scene liriche come altrettanto alla coloritura complessiva della parte cui reca titolo (quattro le ripartizioni della raccolta: la Disaffezione, l’Impazienza appunto, la Gentilezza e finalmente una Leggera euforia serale). Ed è in pari grado l’ansia di raggiungere la rivelazione – un disvelamento dell’enigma che è superamento dell’incertezza - nelle varie definizioni che ci vengono incontro. Un impressionismo poetico, come abbiamo detto, che aspira a farsi stato di coscienza e unitamente percorso reale, ma insieme progresso di un discorso che evolve correndo in parallelo con lo scorrere delle cose e del tempo.

Rileva il nostro poeta in una lirica che giudicherei essenziale: «Il rimando dei suoni / dissennati, un senso / teorie, banali anestesie / la natura dei fenomeni». Su tale linea, esplicitamente impregiudicata e comunque aperta, si assesta quel che si direbbe poesia. Anzi, la «linea del confine è la poesia», il che equivale a una ricchezza e multiformità dell’esperienza e – per utilizzare un’altra immagine di Pennisi – il tratto conforme al movimento tra una “stanza” e l’altra, con l’am-bizione, tra scale cunicoli e corridoi, tra anditi e passaggi interiori, di «tornare a essere tra le cose» magari tenendosi stretti alle proprie verità di ogni giorno e se del caso – dato che si parla di letteratura - ricucendo «una pagina / a un libro intero» e mai comunque perdendosi d’animo.

Nella parte più sperimentale (e anche più suggestiva) del libro, si hanno fram-menti di discorso che procedendo alla volta di quelli contigui fanno ostacolo a una visione di sintesi e di compiutezza, recuperate però nel quadro di sezioni chiaramente definite. Ognuna delle quali intesa a definire un proprio aspetto canonico: così il viaggio è uno scivolare verso il “non ancora”; e il Maghreb indizia un presente ma al contempo l’altrove cui ci si volge; e nel caso della IV

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sezione, si ha un esercizio quasi al contrario, per il fatto di ricondursi al futuro, o di aprirsi al possibile, sempre nella coscienza di uno scarto, della distanza come metodo psicologico e filosofico.

Una scrittura, infine, intimamente moderna, che almeno nella parte centrale del libro traduce il sensibile a essere oggetto di riconoscimento e la parola a una risonanza veritativa e compartecipativa che permane al fondo del vissuto. O per dirla con il pensiero analitico di un valido studioso, Franco Cambi: «la poesia [e a nostro vedere la poesia di Pennisi] conduce l’esperienza interiore verso un ‘luogo’ dove tutta la realtà (e noi in lei) si riafferma ab imis, in forma primigenia, si salda a un linguaggio che ri-dice e ri-fonda il mondo».

Il fatto si è comunque che alla base del lavoro espressivo di Renato Pennisi si ritrova pur sempre l’affido di senso alle parole: così nelle liriche in italiano come in quelle neo-volgari o nelle esperienze narrative e teatrali. Questo non avviene sotto la spinta di un orientamento aprioristico oppure aderendo al desiderio di elaborare una unità solamente formale.

Il procedimento è invece quello della seriazione delle cose in un tempo nel quale venga inseguito e ancor più marcato ciò che si conserva di importante e di eterno in un’esistenza. Il legame è anzi tra i temi messi in campo e il procedere in avanti, qualcosa che sembra quasi spillarsi dalle pagine di un personalissimo journal o da un racconto fenomenico ed esistenziale, con motivi e tratti episodici presentiti e quasi afferrati al volo.

Ma quel che appartiene al contingente o a una biografia personale, scorrendo nell’ordinato e insieme imprevisto tumulto della scrittura, è un meccanismo che inscrive le cose transeunti in un quadro sensibile trascendentale. Formulandosi non già nel termine di una perdita d’energia ma invece quale energia che testi-monia una matrice fattuale lasciataci a vestigio dei sentimenti e delle perce-zioni.

È questo che segna il passaggio all’ultima sezione della raccolta. E come recita una delle liriche in essa comprese: «Il cielo è rosso e orizzontale / ma è lì il blu della notte / immutabili i pini dell’infanzia / un po’ spaesati / […] / Un motore che passa per le strade / non sa che l’ascolto / l’essere qui è comunque / una vittoria».

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Materia e sembianzedi Velio Carratoni

C’eravamo disabituati all’idea di finedel mondo. Tutti presi dal sovramondo.Ma il mondo è fragile sporco e cattivo.Come fa quindi a risultare perituro?Chi è eterno sarebbe invincibile resistente a tutti gli usi.Ma il mondo dà segni di decrepitezzaper quanto sia stato usato e abusato.Piagato e tormentato da scarsi dominatoridi un uso per capriccigiochi misfatti. In nome dell’idea d’uomoforte e invincibile. E di donnaregina del creato per astuzia beltàfresca o stagionata propagatriced’umanità sempre più violenta e barbara.E la contraddizione vuole che tra questi ci sia qualche presunto “al di là del bene e del male”.I geni restano nel tempo e nella fama.Ma il male sia geniale o miserevoleinfanga abbatte involgarisceimbestiando e deprezzando.Amore per costruzioni o distruzioniscaturite da rabbie o vendette.L’uomo guarda o mira il genio della donnache concependo crea e possedendo abbatte. Se vuole.E l’uomo rimane controfigura del contesto disorganizzato.Di forza o acquiescenza smodata.Se ogni decisione fosse demandata alla procreatricesaremmo favoriti del creato.Le bizze abbattono ciò che viene edificatoper volontà di dominio e smodatezza.E qui ci si perde a osservare discrepanzedel tempo nelle faide degli umori.Senza intervento a difesada parte di chi potrebbe volere.Per troppa sfiducia verso un genere umanoamante di gioie invasioni strapoteredestinato a devastare ciò che ha amato e voluto.Negli attimi di castrate disillusioni.

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Altro che serpente, disobbedienza, paradisi terrestri immaginati.Ogni sogno è frutto di limitatezze incombentiaccettate per timore di finire nel nulla.Per non distaccare materia e sembianzeda consuete apparenze di naufraghi gonfiati spennacchiati.Tanti dappoco esaltano certo vacuo sopravvivered’ombre alterate in nome di vanesismo alla moda.Rispettando osservanze imperiosel’età diviene verdetto d’estinzione.Rispettando ed esaltando ogni reale o subdola immaginedi fresca beltà. Non conta se vera o alterata.I veri giovani son coloro che si mantengono tali, nel tempo.per doti naturali, non per messe in scena di case del trucco.Per questo la bellezza resta una qualità sconosciutacome una o più giornate di primavera, in pieno inverno.La freschezza degli attimi è superiore ai verdettidi calendari o lancette orarie.Ciascuno, se può, mostri giovinezza interiore.Non di carte d’anagrafe. E le qualità apparentidi spirito e di menti facciano il loro corso.Tralasciando senza ignorare sentenze di apparati burocratici.Che ragionano in nome di numerazioni.Non di genuine doti di natura.E la natura non è la burocrazia.Se lo ricordino certi capi congreghe.

Velio Carratoni

Ci ha lasciato Nino Lo Cascio (Antòn Pasterius), una duplice personalità per noi indelebile.

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“Fermenti” n.241 “Fermenti” n.242

“Fermenti” n.243 “Fermenti” n.245

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“… in ogni individuo Marino Piazzolla trova una risposta all’artefice della creazione, scopre in ciascuno un arricchimento per il mondo, in ognuno sente pulsare la vita laddove essa non è ancora germogliata: ogni essere umano porta con sé freschezza e voce laddove dimora solo l’oblìo…”. María Zambrano, a proposito di Esilio sull’Himalaya del poeta italiano M. Piaz-zolla. Traduzione di E. De Ruvo. Testo originale pubblicato in “Quaderni del Congresso per la libertà della cultura”, n. 6, Parigi maggio-giugno 1954, pp. 102-104, riportato in Luoghi della poesia di M. Zambrano, a cura di Armando Savignano, pp- 578-585, Bompiani, 2011.

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SCOPI E STORIA

La “Fondazione G., M.T. e Marino PIAZZOLLA” prende nome dal suo fondatore Marino Pasquale Piazzolla, poeta, critico, filosofo, pittore.Nato a San Ferdinando di Puglia nel 1910, rimase orfano di entrambi i genitori in giovane età. Nel 1931 si recò in Francia, ove proseguì gli studi sino alla Laurea in Filosofia, conseguita alla Sorbona. Negli anni Trenta lavorò alla “Dante Alighieri” a Parigi, ove conobbe Gide, Valéry, Sartre e tanti altri poeti e scrittori del tempo, e collaborò come critico e poeta a prestigiose riviste letterarie francesi.Allo scoppio della guerra ritornò in Italia e nel 1945 si trasferì a Roma, dove fece parte della Scuola Romana, dedicandosi alla poesia, alla critica e all’insegnamento, collaborando a periodici e diverse riviste letterarie tra cui, in particolare, “La Fiera Letteraria”, allora diretta da Vincenzo Cardarelli.Di lui si sono occupati i più significativi esponenti della critica militante ed accademica ed ha ricevuto prestigiosi premi letterari.Dopo la sua morte, avvenuta a Roma nel 1985, per sua volontà testamentaria, fu istituita la “Fondazione PIAZZOLLA”, ora presieduta da Velio Carratoni, ente non commerciale e apartitico, con riconoscimento D.G.R. n. 6487 del 19/07/1988, con lo scopo di diffondere e tramandare la cultura letteraria contemporanea.In tale ambito sono stati pubblicati molti testi di importanti autori italiani e interna-zionali come Loi, Amelia Rosselli, Pagliarani, Pizzuto, Balestrini, Valverde, Evans, Kirsch, Heaney, Batur, Adonis, Bonnefoy, Takano, Jaccottet, Zlobec, Hamburger, Akin, Xingjian, Eminescu, Bacovia, Sinigaglia ecc. Ha assegnato borse di studio di critica letteraria a studi monografici e tesi di laurea, a ricercatori e accademici.La Fondazione ha approfondito argomentazioni sulla storia e la critica letteraria di valenti autori che vanno da Nino Borsellino a Francesco Muzzioli, Marcello Carlino, Stefano Lanuzza, Mario Lunetta, Gualtiero De Santi, Marzio Pieri, ecc. Ha presentato o riproposto poeti, scrittori e pensatori di chiara fama.Ha assegnato premi per opere di giovani e rinomati autori e organizzato incontri dal vivo su Alberto Moravia, Sandro Penna, Elio Filippo Accrocca, Dario Bellezza, Giorgio Vigolo, Antonio Pizzuto, Giose Rimanelli, Roberto Pazzi, Vito Riviello, Edoardo Sanguineti e altri.La Fondazione Piazzolla ha collaborato con l’Associazione Allegorein per il “Premio Feronia - Città di Fiano” con un’apposita sezione dedicata ad autori della letteratura novecentesca ingiustamente trascurati. Nell’ambito del Premio “Città di Penne” ha istituito la sezione per l’“Opera prima” poetica. Con il Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati ha assegnato premi per tesi di laurea e dottorato.Presso la Biblioteca Nazionale di Roma (Viale Castro Pretorio, 105 - 00185 Roma) è stato costituito il “Fondo Piazzolla” che raccoglie documentazione cartacea di tale autore. A Castelbellino esiste l’Archivio della collezione artistica appartenente all’autore in qualità di critico d’arte e di autore medesimo.

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Dizionario semifilosofico intellettuale1

di Marino Piazzolla

(Più che del sapiente dotato di genio, qui si vuole parlare del fesso italiota che si crede profondo solo perché riesce ad imbrogliare le idee in un mondo di fessi che si ignorano.)

Tipo di uomo dotato di un intelletto pensile, prensile e cavernoso, dove le idee chiare, quasi sempre, si oscurano e dove le idee oscure, invece, diventano definitivamente indecifrabili. L’intellettuale di classe eccezionale dorme, perciò, ad occhi aperti e pensa ad occhi chiusi. E in tal modo crede di avere maggiore dimestichezza con le tenebre di ogni tipo di pensamento. Esso è portato, infatti, da una specie di istinto ermafrodita, a complicare i concetti semplici e a rendere incomprensibili i concetti complicati. Quando scrive, perciò, si considera investito dalla carica di vice-dio; ed è convinto, come Mida, di trasformare le parole in tanti messaggi aurei, i quali, una volta uditi, lasceranno, s’intende, le cose del mondo assolutamente immutabili. Avvezzo al vizio solitario, prima di parlare, tasta e palpa le idee già discinte, indi mentalmente sorride come un satiro che abbia stuprato una vergine. Assicuratosi che esse sono già mature per la libera circolazione, le affida alle parole e te le scaraventa addosso, convinto di sistemare per sempre questa e l’altra vita, su cui sta dissertando con ambigua voluttà.

L’intellettuale casareccio si cerca sempre: si nasconde a sua insaputa, anzi non ricorda quasi mai dove si mette a pensare, tristemente, a letto o in altro loco. Altre volte, invece, data la sua natura di sbirciatore, si occulta dietro un’idea per vedere come va a finire il suo pensiero pensante.

Come un domatore di circo equestre, egli alleva ogni sorta di idee; da quelle politiche a quelle letterarie; dalle idee estetiche a quelle filosofiche ed erotiche. Infatti, egli pende, propende e dipende da sé, ma il più delle volte, venuto a reddi-tizi compromessi, si sorprende a riscuotere, con calcolata distrazione, assegni di ogni taglio. Come tutti i mortali, ha famiglia e figli, suoi e anche non suoi, a cui deve provvedere, più che con Generi Sommi, con generi alimentari. Quasi sempre, al valore filologico delle parole che usa per dare libera uscita alle sue idee, preferisce la filigrana delle banconote, con cifre ben chiare sul davanti e sul retro. Se è un intellettuale misticheggiante, preferirà, ai concetti che riguardano lo Spirito Santo, gli assegni del Banco di Santo Spirito. Se è un filosofo, prefe-rirà, in modo clandestino si intende, i valori borsistici alle idee che non hanno una borsa valori. Se invece è un intellettuale di sinistra, coerente al suo ideale, riscuoterà assegni della Banca Nazionale del Lavoro o del Credito Popolare; ma qualche volta, anziché rubare le idee altrui, preferirà addirittura rublare.

1 Inedito.

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Se è invece un intellettuale patriota si limiterà ad accettare la lira, poetica sempre più del dollaro volgare. Se infine è un intellettuale disponibile, preferirà la inflazione delle idee alla inflazione della valuta, mettendosi a completa dispo-sizione della Banca d’Italia. Nel nostro Paese, perciò, l’intellettuale è sempre in stato di erezione mentale.

Egli pensa, ripensa e malpensa, finché pensandoci, bene o male fino in fondo, scopre che è disponibile in ogni ora del giorno, a destra come a sinistra, sopra e sotto i partiti, al centro o alla periferia della RAI-TV, delle direzioni dei giornali e delle riviste; del cinema o del teatro, delle case editrici o delle case squillo, convinto che la sua missione sia quella di salvare il salvabile di un qualsiasi salvadenaro disponibile. Satollo più che sazio, parla sempre e mestamente di crisi, di enterocrisi o crisette di coscienza; in modo che, alluvionato, si aliena nell’alienazione, di cui parlando va, da mane a sera, restando più che lucido, pitagorico innanzi agli assegni alienabili e di qualsiasi taglio. È giudice impla-cabile di tutto, fuor che di sé, dato che, ben pensando, egli esce sovente fuori di sé, ma per distrarsi. Sventola motti e detti intorno alle avanguardie in ritardo, ma pratica di gusto le retroguardie; o il retro di sé o degli altri degusta. Più che fare pediluvi, e ne avrebbe, l’italiota, tanto bisogno, per decenza di pedone pedante, fa continui ideiluvi, lavandosi, in tal modo, e rare volte, per corrispondenza. Oggi egli contesta e contesticola in modo globale, perché di moda e comodo è accusare sempre qualcuno, a cui si vuole sfilare la lauta prebenda mensile. Perciò, più che poppante di idee, pappa a varie greppie si inghirlanda, beato, di pacchi e di pacchetti Buitoni. Fiuta ministri a distanza, come un pointer; e allora si sottomette, orando ed origliando. Infine, egli mal consiglia editori a pubblicare volumi voluminosi sul modo come annoiarsi, leggendo in piedi o seduti. Disserta infine su tutto ed è facile, dissertando, al rutto fuggitivo: segno, questo, di rapida digestione e di potenza nel ricambio, più che di idee, di globuli perennemente affamati.

Marino Piazzolla

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Fermenti 451

“Sua Maestà” con la camicia rossa1

di Vincenzo Talarico

Nel caleidoscopio delle fogge “beat” di “ambo i tre sessi” (come diceva il povero Peppino Amato, parafrasando senza saperlo il celebre esordio di una conferenza di Tristan Bernard che aveva visto in prima fila Maurice Rostand, il giovane e raffinato figlio di Edmond, amico di Proust: “Messieurs, mesdames e vous, mon cher Maurice”) non dovrebbe, in teoria, aver destato nessuna impressione e nemmeno curiosità l’apparizione a piazza del Popolo del poeta Marino Piazzolla, detto affettuosamente dagli amici, per il suo aspetto fisico,“Il Re Galantuomo”, in un abbigliamento “chiassoso”. Ma l’incrocio tra certi colori “d’urto” della moda yé-yé e altri ritenuti provocatori al tempo della prima rappresentazione dell’ “Ernani” di Hugo, intorno al 1830, quando si combat-teva la battaglia per il Romanticismo, costituisce, senza dubbio, una “eccen-tricità”, tanto più che sul rosso ceralacca della camicia s’impone come negli accordi di una bandiera di un esercito immaginario, il nero della barba, un nero notturno da ballata di Luigi Carrer. I calzoni, poi, d’un giallo vivo, cascanti sulle scarpe come quelli delle statue ottocentesche, riportano l’immaginazione dell’ammiratore alla studiata trasandatezza di un’avveduta bohème incantatrice di signore “innamorate dell’arte e degli artisti”. Non è questo il caso del “Re Galantuomo” che, nel fatto specifico, non ha bisogno di ricorrere a mezzucci e smancerie per mietere successi in campo erotico, essendo egli, felicemente, rimasto fedele alla tradizione di offrire alle belle, insieme, quando è il caso, con un fascicolo di poesie (sempre molto belle, le ultime come quelle vecchie), un pacchettino di dolcetti, pastarelle e bigné. Ma l’abbligliamento: l’altra sera, era così, e nonostante che piazza del Popolo fosse affollata di capelloni e barboni da film western (all’italiana) e da ragazze e signore che ostentavano le più avventate bizzarrie, molti occhi erano fissi sopra “Sua Maestà”, che, con la camicia rossa, impersonava, come in un rifacimento sintetico del famoso quadro dell’Incontro di Teano, Vittorio Emanuele e, insieme, Giuseppe Garibaldi. Due splendide ragazze, intanto, andavano in giro tra i tavoli del caffè a raccogliere “firme per il divorzio”. Naturalmente, prima di avvicinarsi a qualcuno lo studiavano bene per non sentirsi opporre un rifiuto [...]

1 Da “Momento Sera” del 5 Agosto 1967.

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Una filosofia per l’uomo (María Zambrano)1

Su L’uomo e il Divino

di Marino Piazzolla

María Zambrano, benché porti un nome italiano, è spagnola. Ella è una delle menti d’eccezione che oggi fanno onore alla cultura europea. La sua forma-zione spirituale attinge ad un’antica verità; deriva sapientemente dalla tragedia greca. E di questa tragedia ha sentito e sente tutta la sostanza sacra ed umana, facendola infine filtrare genialmente attraverso il dolore cristiano e l’angoscia del nostro tempo. Dopo il mito di Orfeo, che le rivelò la remota sostanza della poesia e dell’amore, intuì la necessità di meditare con purezza mentale sulle verità armoniose di Pitagora. La conoscenza di Platone la iniziò a distinguere il segreto del mondo finito dal segreto dell’Essere eterno. Con un’anima presa ormai dal terrore e dall’incanto della passione greca, giunse alle verità cristiane per convincersi definitivamente che il fondo della vita resta sempre un mistero sacro come l’incarnazione e la croce.

Il suo incontro con Gesù si approfondì soprattutto attraverso la illumina-zione agostiniana. Fu un incontro in un abisso. La vita, il tempo, la presenza del cielo e il grido dell’uomo collocato al centro di una storia assurda la convin-sero, sul piano dello spirito, a riflettere con finezza e passione su quel groviglio di dolore e bellezza che è sempre vivo nella tragedia greca. Come Nietzsche, María Zambrano si ricordò che la origine della verità umana e di quella celeste si trova tutta rivelata in un’antichissima angoscia; ma essa si trova anche plasti-camente viva e rivelata nella Croce. In questo clima di alta investigazione plato-nica e cristiana (cristianesimo eternamente problematico e verticale) questa ispirata scrittrice elaborò la sua opera L’Uomo e il Divino. È questa una indagine compiuta nel segreto del pensiero e della stessa vita quale si è rivelata nella memoria che l’uomo ha del sacro. Non si tratta di un sistema di metafisica; non è, quest’opera, una costruzione teologica; ma si tratta di una ricerca illuminante che ci fa viaggiare in quel paesaggio sepolto che è la passione originaria, “l’im-peto oscuro” che fece nascere da sé il divino e dal divino si staccò perché l’uomo espiasse una condizione assurda ma necessaria. Se Dio viene cercato e creato dall’uomo attraverso il divino che è in noi, ciò vuol dire che è Dio a porre per primo in noi, come un delirio, questo sentimento insopprimibile. Si sente e si cerca ciò che, stando in noi, e necessariamente distinto da noi, essendo fuori di noi come il vertice inarrivabile che ci fa riconoscere la nostra condizione umana di esistenze sconfitte . Infatti: “Quando gli Dèi appaiono si fanno sentire, innanzi

1 Da “La Fiera Letteraria” del 18 Febbraio 1962.

María Zambrano

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tutto occupandosi molto, forse troppo, degli uomini. Questi soffrono di un delirio di persecuzione”. Tale stato di tragica soggezione è la radice stessa di quel senti-mento religioso che opera nell’uomo l’apertura in una dimensione spirituale, che resterà sempre la più alta di tutte, in quanto destinata a sostenere il patto segreto fra l’esistenza finita e la potenza concreta e infinita della divinità. Ed ecco come il problema del delirio viene analizzato da ogni prospettiva terrena.

“Alla luce di questo delirio, il più implacabile di tutti, noi potevamo vedere come si fa sentire all’uomo quello che, più tardi, sarà chiamato Dio… Chi è colui la cui vita si sente oppressa dagli. Dèi? Per quale fine essi sono stati creati allorché non esistevano affatto? Se si sono creati deve essere stato sotto la pres-sione d’una ineluttabile necessità. Ed è questo, senza dubbio, l’aspetto primo, originario di quella tragedia che è la vita umana”.

Il divino, perciò, nasce. nell’uomo e per l’uomo e opererà sull’uomo proprio perché si presenta come condizione drammatica della vita. La stessa presenza di un originario terrore nell’uomo non potè provocare che una propensione al delirio, un misto di timore e di un oscuro senso di colpa che andrà placandosi in virtù di un patto d’amore tra l’uomo e la divinità.

“Gli Dèi sembrano dunque formare una specie di relazione con la realtà, una relazione che placa il terrore primo, elementare, una relazione nella quale l’uomo si sente preso allo stesso tempo che si sente distinto, e che occupa una situazione senza pari. Egli non sente “l’estraneità” che si presenta solo nella coscienza; l’evento nuovo è la vita immediata, priva di coscienza, senza visione della sua situazione ‘strana’ sorgente del delirio di persecuzione. Gli Dèi, identificazioneprima che di funzioni liberatrici – radicate nel loro l’uomo scopre nella realtà, hanno due gran-essere – e di cui resterà sempre qualcosa nelle idee o nei concetti che saranno formulati ben più tardi”.

Così il divino è stato mirabilmente scoperto e collocato in quella zona arcana che è nell’uomo in quanto è al di là della stessa mente umana, a guisa di luce che compone e scompone la vita. Una vita che è tragico lamento, ma anche ricerca di un tempo felice che si fa nostalgia e speranza nel punto in cui l’uomo dispera di sé e del mondo che lo circonda, angosciandolo.

Infatti: “La forza prima sotto la quale la realtà si presenta all’uomo è quella di una totale occultazione, d’un occultamento radicale: poiché la prima realtà che si nasconde all’uomo è l’uomo stesso”.

Chi è sceso in quest’abisso, che è il divino, può finalmente imparare a spostarsi nella vita come in tante dimensioni che hanno come centro attivo non solo la ricerca di Dio, ma la scoperta totale dell’uomo. Tutta la realtà terrestre troverà allora il suo centro in quest’anima che vive in esilio e attende l’ora della fede come un assurdo illuminante e necessario. Ma il divino è anche la vita, la perfetta gioia di un’età che fu dell’uomo e degli Dèi: un tempo fermo in cui vibrano le passioni più alte e quella felicità che lentamente e con pena occorrerà recuperare nel viaggio dalla vita alla morte sulla terra sola.

María Zambrano alla luce di una filosofia senza sterili rigori sistematici, una

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filosofia che è slancio di un recuperato amore per la verità, ci convince soprattutto quando, con estrema sottile cautela ci dice: “L’apparizione di un Dio rappresenta il finale di un lungo periodo di sofferenze e di oscurità. È l’avvenimento piu distensivo di tutti quelli che possono distinguere una cultura: il segnale della conclusione – del patto e dell’alleanza. Il delirio di persecuzione è cessato – almeno nella sua fase iniziale; d’ora in avanti se si è perseguitati sarà per un Dio al quale si potrà domandare una spiegazione”.

Dio, perciò, è stato ritrovato in fondo all’abisso che è nella realtà e nell’uomo; e con l’uomo stabilirà un rapporto di qualità ineliminabile. Ed è qui la ragione di una sacralità penetrata fin nelle radici di quell’Essere da cui emerge l’uomo e in cui l’uomo scompare come in fondo a un lungo lamento, che fa eco nel silenzio eterno di Dio. La vita è movimento dell’uomo verso Dio: è certezza di qualcosa che si matura tragicamente nel cuore, anche quando le ore del tempo terreno possono disorientare o rendere banali gli stati della coscienza. La vera conoscenza di sé l’uomo la compie soltanto nel terrore di perdere la memoria di Dio. Da questo sentimento, che e senza dubbio di natura ineffabile, scaturirà la Grazia cristiana, legittima folgorazione del lamento e della pietà, quali apparvero nella tragedia greca. Se gli Dèi sono perfetti, ciò vuol dire che per essi l’uomo è per destino espiatore. Vi è una colpa originaria che si nasconde e appare come sorgente di sacrificio. “Col sacrìficio l’uomo comincerà a formare parte della natura, dell’ordine dell’universo o si riconcilia o si rende propizi gli Dei…”. “Il sacrificio assumerà delle molteplici funzioni. ma esso aveva un fine principale: suscitare una manifestazione. Gli Dèi sono sempre presenti, ma non li si vede mai; essi non si lasciano vedere. Noi possiamo anche dire che una delle caratte-ristiche delle divinità è quella di non lasciarsi vedere, e si ritrova la sua traccia nella passione dell’anima umana che rivisse la lunga passione preistorica in, lotta con il sacro: l’amore. L’amore è sorto in tutta la sua forza davanti a ciò che non si lascia vedere, salvo in rari e preziosi istanti che si sollevano così alla cate-goria delle manifestazioni divine, quando una folgorante realtà, apparirà nella sua istantaneità come la manifestazione di qualcosa d’infinito”.

E nella nozione tutta segreta dell’infinito apparirà il Dio Padre e Creatore del messaggio cristiano. Appare “Il Signore dell’Orizzonte”. Ma con l’Incarnazione, che è volontà del sacrificio, s’apre nel cuore dell’uomo la via della speranza e della nostalgia. Con la scoperta di queste due vie, in fondo alle quali Dio attende tranquillo e amoroso la creatura sola e singola, María Zambrano intuisce, come in. una veggenza che va oltre il tempo della storia, amara e vana degli uomini, “L’Orma del Paradiso”. Questa orma è reale, ma sepolta, traccia sacra della presenza umana sulla terra e nel Cosmo che ci aiuta a vivere e a conoscere in un senso che ricorda la ineffabilità plotiniana. Il Paradiso, se è perduto, è soprattutto promessa che dilaga intera nella Fede. Si apre il paesaggio di Dio, finalmentel’uomo si completa, cogliendo la unità che è stata esilio e preghiera, lamento e traccia di` poesia assoluta.

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Nuove gioie. Su Apollinaire

Uno dei caratteri più significativi della poesia europea del Novecento si fonda principalmente sulla sorpresa irri-tante che scaturisce dall’amore sconfinato sentito dal poeta per qualsiasi oggetto.

Condizione di questo amore è la libertà d’interpretare o rifare l’universo attraverso il supremo giuoco delle meta-fore e delle analogie. Per il poeta moderno, tutti gli oggetti, dalle nebulose al filo d’erba, dal canto dell’usignolo al silenzio del più insignificante fossile, sono collocati sullo stesso piano e capaci di provocare – come dice Apollinaire nell’Esprit nouveau et les poètes – “nuove gioie, anche se esse sono tormentose a sopportarsi”.

L’essenziale è di chiudere in una poesia quella “ignota infinità, dove rilucono i fuochi delle molteplici significazioni”. Apollinaire, affermando queste, idee intorno alla poesia del nostro tempo, intendeva integrare nello spirito del poeta nuovo quelle realtà che hanno reso più ricco di vibrazioni il panorama ogget-tivo su cui si trova collocato l’uomo d’oggi. Se la poesia nasce da una potente carica di ansia liberatrice, essa non può che aiutare l’uomo a sopportare il suo destino, a includere anzi, in una superiore unità spirituale, il ridicolo e l’assurdo, l’arcano silenzio delle epoche spente come i lamenti strazianti delle macchine, queste “figlie senza madri dell’uomo”. Al culmine di tale disponibilità demiur-gica, operante nel poeta, si trova sempre, folgorante, una sintesi inaspettata: una unità lirica che avvicina le realtà più distanti per provocare lo scandalo e l’incan-tesimo, l’inquietudine dubitativa e una sorta di assoluta gioia.

In questo universo sconcertante si delinea anche il valore di un mito, inven-tato senza restrizioni logiche, che risponde a quel desiderio di favola sentito dall’uomo, costretto a subire gli squilibri della nuova realtà. Guillaume Apolli-naire fu dunque uno dei primi poeti a scoprire la inesauribile funzione consola-trice della fantasia in un mondo che si trasforma, giorno per giorno, dilatandosi in una realtà meccanica da una parte, e in una esigenza di gioia liberatrice dall’altra. Il suo umanesimo fu perciò di natura dinamica e magica. Si trattò al creare nella coscienza del poeta la piena fede nel valore della immagine poetica. Se le macchine, i rumori, la lotta per l’esistenza, le guerre, i conflitti sociali, la crudeltà del dramma quotidiano schiacciano l’uomo, il poeta non può che rappresentare tutto in modo demiurgico. Questa volta si vuole sostituire al caos della realtà oggettiva, che mortifica gli uomini, quel pathos spirituale che è in se stesso archetipo di una realtà mitica. Colpire la fantasia umana con la guerra apparente delle immagini è sollevare la poesia dal piano della descrizione idil-liaca o dell’elegia, al piano delle folgorazioni noumeniche.

Guillaume Apollinaire

Rivista "Fermenti" n. 250

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Creare poesia è un fatto di redenzione e di ascesa. La parola è simbolo di una realtà soltanto umana. Di qui scaturisce quel tono quasi sommesso che fa di Apol-linaire un allegro rapsodo della nostra epoca. C’è nella sua poesia la nostalgia di un paradiso perduto, ma che si ritrova, frammento della vita moderna, collocato in una scattante meraviglia lirica.

Per poter superare quel senso di precisione meccanica della realtà ogget-tiva, quella realtà che la scienza chiude in schemi logici, costringendo l’uomo a spazializzarsi e, molte volte, a identificarsi con la materia, Apollinaire intuisce la necessità di fare della poesia una matematica della fantasia: forza stilistica capace di provocare nello spirito quella gioia profonda senza la quale l’uomo si identificherebbe con la estensione.

La sua poesia fu perciò ricca di humus e di dimensioni temporali. Egli estrasse immagini vergini da una sorgente libera sì, ma che trovò il suo ordine in immagini esatte e rapide come fulmini. Egli ritornò a fondare una sorta d’incantesimo originario.

In quasi tutta l’opera poetica di Apollinaire, infatti, circola un luminoso desi-derio d’ignoto, che genera quasi sempre gioia, e la tristezza soffocata di un trovatore che gioca con le immagini per dare all’uomo la carica di una innocenza smarrita.

Anche Rimbaud, in modo forse assoluto, si era espresso in un messaggio analogo, sottolineando, con formule decisamente misteriose, il destino del poeta moderno.

In Apollinaire, invece, la carica lirica subì quasi inconsciamente la crisi moderna provocata dalla stessa crisi feconda della scienza. Apollinaire fu spetta-tore e attore di una realtà più ricca di sorprese e di mortificazioni. Di qui nacque quel senso di patetica discrezione che hanno le sue liriche più alte.

La novità incantevole delle immagini in cui infuse la sua allegra e disperata avventura umana, quel dire in sordina e con precisione quasi delirante cose che vediamo e tocchiamo in un mondo che si trasforma e ci trasforma, sono a fonda-mento del suo discorso lirico.

Nella sua poesia, “con immagini e formule rare” si trova rappresentato l’im-peto primordiale dell’uomo che afferma la sua innocenza nelle insidie e le jatture della vita più tragica che condizionano la nostra epoca. La sua gioia nacque dunque dal sentimento del coraggio, dalla pazienza tutta umana di osare poeti-camente sul grigio destino che ci rende quasi anonimi. Riscattare, attraverso la libertà e le immagini, l’antico impulso della gioia soffocato dall’apparente progresso della materia fu il suo solo impegno.

Così, in un universo sconvolto, in cui gli uomini continuano ad accettare il compromesso tra le realtà multiple e i piaceri di un’arte comunicabile per il suo carattere ancora descrittivo e aridamente logico, la poesia di Apollinaire, che sembra apparentemente rivolta contro il lettore, ha provocato una rottura defi-nitiva colla vecchia poesia. Tale rottura si poggia senz’altro sul fatto che questo poeta, volendo investigare l’ignoto per dirlo in un linguaggio tutto moderno, restò solo, quasi in esilio, come del resto furono e sono soli, banditi e derisi quei pochi poeti che, nella purezza del loro esilio, continuano liberamente a creare: offrire al cuore umano le gioie più segrete di una esistenza quasi sempre tragica.

Marino Piazzolla

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Il fiore della poesia boliviana d’oggidi Gualtiero De Santi

Si legge in una antologia di poeti boliviani uscita di recente (AA.VV., Il fiore della poesia boliviana d’oggi, volume antologico, introduzione e tradu-zione a cura di Emilio Coco, Fermenti, 2019, pp. 126, € 15,00) una bella sequenza di nomi che penso risultino sconosciuti ai più, anche ai lettori cosid-detti “emunctae naris”. Emilio Coco, che ha curato questa pur concisa pubblicazione per la Sezione lati-noamericana della Collana Nuovi Fermenti / Poesia internazionale (Fermenti Editrice 2019, ma in colla-borazione con la Fondazione Marino Piazzolla), stila nella nota introduttiva un elenco di scrittori boli-viani contemporanei, tra i quali alcuni relativamente giovani, e altri risalenti agli inizi del XX° secolo che egli, con la sua conclamata competenza e una lunga frequentazione di testi e comunque una alquanto precisa conoscenza, dice essere di singolare levatura: Ricardo Jaimes Freyre, Oscar Cerruto e il relativamente più conosciuto Jaime Saénz, posti accanto a poeti di ottima fama (Edmundo Camargo, Eduardo Mitre, Roberto Echazú, Matilde Casazola, Jesús Urzagasti).

Tra i tanti – la lista è ovviamente più corposa rispetto alle figure appena sopra menzionate - viene fatto il nome di Juan Carlos Orihuela la cui opera si è andata sviluppando in parallelo al secolo che abbiamo ormai alle spalle e che egli, Coco, dichiara meritevole di riletture, approfondimenti, studi, traduzioni e antologizza-zioni. Tanto è bastato per suscitare una voglia di più ampia prossimità a questo universo ma senza distinzioni di età, generi, culture (che potrebbe costituire un impegno editoriale a lungo termine della Fermenti: per intanto Coco ha messo a punto una antologia di poeti colombiani).

Ciò accennato, non tutti i poeti in questione sono materia corrente da noi (ricordo che in un’antologia della Feltrinelli del 1970 il solo boliviano presente ma con un unico testo fu Jaime Saénz). Ciò nondimeno, Gabriel Chávez Casa-zola ha un suo libro, Il canto dei cortili, nel catalogo di Raffaelli Editore in Rimini. E, incredibilmente, Norah Zapata Prill ha addirittura fondato a Ostuni la Casa della Poesia “Il Cactus” e vanta al suo attivo un libro tradotto nella nostra lingua da Piera Mattei, Capriccio umano, per Gattomerlino nell’anno di grazia 2014. A tutto ciò deve aggiungersi il fatto che Casazola dirige una collana di poesia, “Agua Ardiente”, nel mentre che Gary Daher è coeditore de ‘La Máquina de escribir’ che a scansione annuale pubblica tre libri: rispettivamente di poesia, di narrativa e di critica, essendo lui stesso saggista. Il fatto che deve rilevarsi è

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come quasi tutti, tra gli autori scelti da Emilio Coco, si dedichino tutt’accanto alla poesia alla riflessione critica.

Sono – quelle snocciolate in rapida sintesi – notizie che abbiamo ovviamente desunto da questo Fiore della poesia boliviana d’oggi. Che ha il suo avvio con un testo straordinario, Pequeñas mudanzas (Piccoli mutamenti), del poeta e gior-nalista Paura Rodríguez Leytón, classe 1973. Testo che reca l’uguale titolo di una raccolta del 2017, sviluppantesi su una sorta di sillabazione incline a accrescersi in un concertato rastremantesi benespesso in versi lunghi. Il tema è la possibilità di sondare gli abissi dell’esistenza con quella che Rodríguez chiama «desmemoria», amnesia oppure smemoramento che agevoli un percorso a ritroso, atto a rinvenire il tempo non presupposto o non soltanto calato nell’origine. «Tiempo dado» che esercita la freschezza di una ciotola d’acqua: che è poi nella traslazione metafo-rica «Agua que se vacía sobre los manos», acqua che si svuota sulle mani.

C’è in Rodríguez una intensità di pensiero che vive nel riflettersi delle cose e dei loro dettagli. Gli uguali – ci sembra di poter asserire – che in Gabriel Chávez Casazola sostengono il traliccio concettuale, o per meglio dire alimentano la profondità del canto: «Un canto hondo, / en un idioma arcano / que hemos olvi-dado pero que comprendemos / cuando cae la lluvia sobre los patios». Anche Chávez sembrerebbe avere a che fare con le essenze minute e elementari e al tempo stesso con qualcosa che rassembra l’universale. E anche in lui, pur da una prospettiva diversa, l’intreccio si articola tra la densità di pensiero e la limpi-dezza delle immagini. Il tutto sino a giungere al punto in cui la vicenda dell’in-contro e poi del distacco dalle cose e dalle persone diventa materia esistenziale tanto quanto ontologica. «Incluso la poesía, a momentos. / Esa desconocida» (e a questo punto la poesia è anche riflessione su se stessa, come del resto lo era in un Rodríguez Leytón).

Non tutte le liriche raccolte nell’antologia si muovono su questa linea, ma è d’altra parte positivo che ogni testo e ogni autore abbiano un loro specificoandamento. La sorpresa è comunque nella denegazione di un comune e corrivo orizzonte d’attesa, incentrato su luoghi convenuti e ben disposto ad accogliere il prevedibile fervore di voci ed immagini che associamo al mondo latinoameri-cano. Quando, all’opposto, emerge in generale in questi versi un fondo di rifles-sione, concettuale e non già concettoso e tanto meno retorico, di una poesia che ancora si alimenti al solco della modernità e delle sue molte partizioni in questa parte del mondo.

Andando però avanti in un’ideale lettura e ricognizione, se pure cambiano tematiche e modalità non viene affatto a scemare la qualità testuale, che a tutta prima si può continuare a tradurre nella non ovvietà del dettato. Anche Benjamín Chávez, che di primo acchito parrebbe atteggiarsi al soddisfacimento delle attese più correnti, allinea materiali che vantano una loro essenzialità, in primis identi-taria. Questo ad es. in una lirica intitolata Cosas nuestras, dove sulla gabbia di un letto apocrifo si dispone un linguaggio guardingo, «cauteloso», atto a insinuarsi nell’ombra spezzata delle cose e a farsi tracciare sulle pietre e sul corpo: «Deja

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que el amor escriba / con piedras / dentro de tu piel» (“Lascia che l’amore scriva / con pietre / dentro la tua pelle”, Poema con scratch).

Come nel nostro Sandro Penna, la scrittura poetica si fissa e si incide sul corpo del desiderio. Anche Oscar Gutiérrez Peña pare procedere secondo una modalità che potrebbe definirsi confidenziale o meglio ancora intima, se non fosse che poi la sua mente si solleva verso una personale Teología domésticache irriverentemente chiama in causa un Dio che si traduce in un imprevedibile «niño azul» in grado di riscattare l’angoscia della fine. La sua Certeza póstumasi intreccia ad anello con la Canción post mortem di Vilma Tapia Anaya che tratteggia un surrealismo lunare e metallico, calmo e cristallino (e in effetti la «Transparencia» sovviene a un minuscolo trittico).

Tale trasparenza distilla visionariamente una realtà mai inerte o unicamente rimessa a se stessa, con invece un filtro della componente interiore che sempre si abbevera alla potenza e alla densità della parola (vedasi Decía las palabrasdi María Soledad Quiroga) e collegatamente delle immagini. Insomma, versi e liriche lasciano tutti insieme un’impronta forte: tale quella demonica ed accesa di Mónica Velásquez Guzmán, dei Cuadros quasi in veste di aforismi di Norah Zapata Prill, o della melanconiosa onda sentimentale del più avanti negli anni tra i poeti presenti in questa silloge: quell’Eduardo Mitre a cui si debbono, tutt’in-sieme a numerose raccolte, ben quattro regesti antologici della poesia boliviana.

Sua è l’ultima composizione de Il fiore della poesia boliviana d’oggi: cioè a dire La clepsidra, il cui incipit («Y, como en un endecasílabo clásico, / llega el año, el mes, el día») arieggia un celeberrimo avvio della nostra più rinomata poesia, per poi però subito dopo ripiegare su uno spazio di meditazione esten-sivamente mondano e psicologico: «el instante en que uno se pregunta / si tal o cual persona conocida / (un viejo amigo, / un antiguo vecino, / una tía) / está muerta / o vive todavía …» (che rammemora ma in forma condensata l’argo-mento de Al salir de la clínica). Qui, con Mitre, si è ricondotti alla più deserta esistenzialità dalle astratte e ad un tempo concrete costellazioni liriche degli altri poeti. Sentiamo in lui qualcosa che ci appare più familiare. Il fatto che viva a Manhattan spiega in parte questa sensazione.

Gualtiero De Santi

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Martedì 27 novembre 2019 - ore 18.00presso Libreria AltroQuando, Via del Governo Vecchio, 80-83 [Piazza Pasquino], Roma

Presentazione

Rivista “Fermenti” n. 249Dal 1971 periodico a carattere culturale, infor-

mativo, d’attualità e costume

Relatori:Marcello Carlino, Francesco Muzzioli

Interventi di:Silvano Agosti, Cesare Milanese, Giovanni Fontana, Mario

Rondi, Marco Palladini, Antonella Calzolari, Renato Pennisi, Luciana Rogozinski, Antonio Francesco Perozzi,

Marco Buzzi Maresca, Emanuele Bucci e altri

Ha coordinato:Velio Carratoni

Letture di Franco Mazzi

Pubblicazione e presentazione in collaborazione con la Fondazione Marino Piazzolla

Il video della serata è disponibile sul sito della Fondazione Piazzollahttp://www.fondazionemarinopiazzolla.it/video.phpAggiornamenti sulle attività della Fondazione si trovano su Facebook e Twitter

V. Carratoni e M. Rondi C. Milanese

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F. Muzzioli

A destra A. Calzolari, insieme a F. Celata e T. Fantini

M. Carlino P. Di Marca

F. Mazzi F. Cecamore B. Pieri

M. Buzzi

C. Pieri A. F. Perozzi

E. Bucci

R. Pennisi

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Video

HUDEMATA O FERITO A VITADalle opere poetiche di Marino Piazzolla

Partitura testuale, regia e interpretazione: Marco PalladiniCon la voce iniziale di Marino Piazzolla registrata per le Conversazioni a Radio France Culture 1condotte da Olivier Germain Thomas e Estelle Schlegel

Aiuto regia, riprese e montaggio: Caterina Giulioli

Colonna sonora: Charles-Valentin Alkan e Franz Joseph Haydn

Video su YouTube: https://youtu.be/9W3naFuhl4k

1 Pubblicate in Le mie teorie eretiche, 2014, Fermenti, pp. 126, € 15,00.

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Le stagioni francesi di Marino Piazzolla di Gualtiero De Santi

Esilio sull’Himalaya di Marino PiazzollaTraduzione greca a cura di Crescenzio Sangiglio

Dalla parola al silenzio La lingua dei diavoli nell’Inferno di Dantedi Marco Lazzerini

ALCUNI VOLUMI PUBBLICATI IN COLLABORAZIONECON LA FONDAZIONE PIAZZOLLA

LA VOCAZIONE SOSPESACurzio Malaparte autore teatrale e regista cinematograficodi Giuseppe Panella

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Cascina e castello di Roberto Sacchettia cura di Francesco Lioce

Giunte e caldaie di Antonio Pizzutoa cura di Gualberto Alvino

Scrivi!di Igor’ Kotjucha cura di Paolo Galvagni

Nel cristallo della stella Mizar diElena Schwarza cura di Paolo Galvagni

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Hudèmatadi Marino Piazzollaa cura di Donato Di Stasi

A raving reveriea substantial anthology of Marino Piaz-zolla’s flamboyant poetry and witty prosedi Marino Piazzollatraduzione in inglese di Pier Francesco Paolini

I fiori del dolore / Florile durerii di Marino PiazzollaEdizione in italiano e rumeno con testo a fronte de Lo strappo, Il Pianeta nero e Lettere della sposa demente

Sole metallico, morbide lune di Marino PiazzollaEdizione antologica di testi in italiano e greco, con testo a frontetraduzione di Crescenzio Sangiglio

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Sconnessionidi Nanni Balestrinia cura di Gualberto Alvino

Peccati di linguaScritti su Sandro Sinigagliadi Gualberto Alvino

I Teatronauti del ChaosLa scena sperimentale e postmoderna in Italia (1976-2008) di Marco Palladini

Parola e travestimento nella poetica teatrale di Edoardo Sanguinetidi Mariafrancesca Venturo

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Il fiore della poesia boliviana d’oggiA cura di Emilio Coco. Con testo originale spagnolo a fronte.

TenoriIl Pavone, l’Espada e il Salice piangente dal Barocco alla fine dell’Operadi Marzio Pieri

LeopardiLa cognizione del verodi Nino Borsellino

Il fiore della poesia colombiana d’oggiA cura di Emilio Coco. Con testo originale spagnolo a fronte.

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Dispacci senza replicaRagionamenti secondari su cultura e società di Mario Lunetta

CRITICA E STORIARendiconti per il Duemila di Nino Borsellino

Le ancelle della regina Mabdi Giorgio Bárberi Squarotti

Per Giovanni Nencionitesti di Gualberto Alvino, Luca Serianni,Salvatore Claudio Sgroi, Pietro Trifone

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Poesie scelte di William Cliffa cura di Fabrizio Bajec

Il digiuno natalizio di Sergej Zav’jalova cura di Paolo Galvagni

Quando il rumore della vita teme la propria eco di Stavros Zafirìua cura di Crescenzio Sangiglio

Enlures di Marzio Pieri

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AUDIO di alcuni eventi organizzati in collaborazione con Fondazione Piaz-zolla che potete trovare sul sito internet www.fondazionemarinopiazzolla.it

La marche à l’etoile: le monde du poète Marino PiazzollaInterviste a Marino PiazzollaProgramma trasmesso sul canale “France Culture” di Radio France - 1978.

29 ottobre 2004 - Le Voci della CittàConferenza suMarino Piazzolla e Ariodante Marianniintervento critico di Donato Di Stasiletture di Roberto Bisacco.

Da “La telefonata” a cura di Gianni Bisiach, conduttore Angelo G. SabatiniProgramma di Radio Uno, trasmesso nel 1982Intervista radiofonica a Marino Piazzollacon rievocazione storica.

15 novembre 2004 - Le Voci della CittàConferenza suDario Bellezza e Valentino Zeichenintervento critico di Donato Di Stasiletture di Fabio Traversa.

Da Parole nuove, a cura di D. Basili, conduce Monica Mondo1993, Radio Italiana, Rete DueLettura in radio di brani di Marino Piazzolla.

17 novembre 2004 - Le Voci della CittàConferenza suEdoardo Cacciatore e Francesco Muzzioliintervento critico di Giorgio Patrizi.

10 maggio 1995 - Omaggio a PiazzollaAntonella Calzolari, Velio Carratoni, Arnaldo Colasanti e Alberto Frattini letture di Walter Maestosi.Incontro a Castelli Arte

24 novembre 2004 - Le Voci della CittàConferenza suGiorgio Vigolo e Mario Socrateintervento critico di Francesco Muzzioli.

27 settembre 2004 - Le Voci della Città*

Conferenza suElio Filippo Accrocca e Lamberto Pignottiintervento critico di Marco Palladini.

26 novembre 2004 - Le Voci della CittàConferenza suGianni Toti e Nanni Balestriniintervento critico di Francesco Muzzioli.

7 ottobre 2004 - Le Voci della CittàConferenza suAngelo Maria Ripellinointervento critico di Aldo Mastropasqua.

1 dicembre 2004 - Le Voci della CittàConferenza suVelso Mucciintervento critico di Marcello Carlino.

11 ottobre 2004 - Le Voci della CittàConferenza suAnna Malfaiera e Alfredo Giulianiintervento critico di Mario Lunetta.

25 ottobre 2004 - Le Voci della CittàConferenza suCesare Vivaldi e Elio Pagliaraniintervento critico di Marcello Carlino.

* “Le Voci della Città”, a cura di Mario Lunetta. Gli incontri si sono svolti presso la Casa delle Letterature di Roma e presso Biblioteche del Comune di Roma (per la seconda serie di incontri).

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VIDEO di alcuni eventi organizzati in collaborazione con la Fondazione Piaz-zolla che potete trovare sul sito internet www.fondazionemarinopiazzolla.it20 novembre 2002Presentazione del saggioELIO FILIPPO ACCROCCAinterprete e testimone del suo tempodi Maria Armellino,edito dalla Fermenti EditriceInterventi di Luciano Luisi, Giuliano Mana-corda, Renzo Paris, Giuseppe Tedeschi.28 febbraio 2003Presentazione del libroRitratto di Zavattini scrittoredi Gualtiero De SantiIntervengono: Silvana Cirillo, Arnaldo Cola-santi, Gualtiero De Santi, Carlo Lizzani, Aldo Mastropasqua, Italo Moscati.13 dicembre 2004Voci della città - Poeti a Roma- Prima edizioneVITO RIVIELLOIntervento critico di Francesco Muzzioli.10 giugno 2005Conferenza-Concerto“Piazzolla Interprete del Novecento”Interventi di: Velio Carratoni, Gual-tiero De Santi, Donato Di StasiCoordina: Antonella Calzolari.28 novembre 2005Presentazionedel n. 227 della rivista “Fermenti”“Dalla gestione del riso alle storie di ordi-naria anglofonia attraverso Eleusi”Interventi di: Velio Carratoni, Pippo Di Marca, Donato Di Stasi, Cesare Mila-nese, Francesco Muzzioli, Roberto Pagan, Marco Palladini, Vito Riviello.7 Giugno 2006Omaggio aGiose RimanelliInterventi di Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo, Giose Rimanelli, Gualtiero De Santi, Velio Carratoni, Sebastiano Martelli, Donato Di Stasi, Antonella Calzolari.5 dicembre 2006Conferenza-concertoIl culto ribelle per la poesia: Dario Bellezza e Marino PiazzollaIntervengono: Velio Carratoni, Gualtiero De Santi, Donato Di Stasi, Renzo ParisCoordina: Antonella Calzolari

Brani pianistici di Chopin, Debussy, Liszt eseguiti da Giulio AlbonettiTesti poetici di Dario Bellezza e Marino Piazzolla letti da Leda Palma.29 maggio 2007HUDÈMATA ACTÀBAT - Suite Nera -reading scenico di e con MARCO PALLADINIdalle opere poetiche di MARINO PIAZZOLLAcon gli attori Tiziana Lucattini e Fabio Traversainstallazione scenica di Luisa Taravella.Giugno 2007Intervista a Hans Werner Henzea cura di Antonella Calzolari.11 dicembre 2007Voci della città - Poeti a Roma (1950-2000) - Seconda edizioneCorrado Govoni – Edith BruckIntervento critico di Cecilia Bello.18 dicembre 2007Voci della città - Poeti a Roma (1950-2000) - Seconda edizioneAlfonso Gatto – Maria Luisa SpazianiIntervento critico di Francesca Bernardini.15 gennaio 2008Voci della città - Poeti a Roma (1950-2000) - Seconda edizioneLuciano Folgore - Tommaso OttonieriIntervento critico di Aldo Mastropasqua.29 gennaio 2008Voci della città - Poeti a Roma (1950-2000) - Seconda edizioneMauro Marè - Mario Dell’Arco (pseu-donimo di Marco Fagiolo)Intervento critico di Marco Palladini.12 febbraio 2008Voci della città - Poeti a Roma (1950-2000) - Seconda edizioneLeonardo Sinisgalli - Tommaso Di FrancescoIntervento critico di Mario Lunetta.23 febbraio 2008Presentazione del volumeParola e travestimento nella poetica teatrale di Edoardo Sanguinetidi Mariafrancesca VenturoRelatori: Francesco Muzzioli, Marco Palladini, Pippo Di MarcaInterviene: Velio CarratoniLetture di Fabio Traversa.

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4 marzo 2008Voci della città - Poeti a Roma (1950-2000) - Seconda edizioneVincenzo Cardarelli – Jolanda InsanaIntervento critico di Aldo Mastropasqua.11 marzo 2008Voci della città - Poeti a Roma (1950-2000) - Seconda edizioneRuggero Jacobbi - Carlo VillaIntervento critico di Mario Lunetta.18 marzo 2008Voci della città - Poeti a Roma (1950-2000) - Seconda edizioneAmelia Rosselli - Biancamaria FrabottaIntervento critico di Marcello Carlino.1 aprile 2008 - Voci della cittàPoeti a Roma- Seconda edizionePier Paolo Pasolini - Renzo Parisintervento critico di Marco Palladini.8 aprile 2008 - Voci della cittàPoeti a Roma- Seconda edizioneElsa Morante - Carla Vasiointervento critico di Francesco Muzzioli.15 aprile 2008 - Voci della cittàPoeti a Roma- Seconda edizioneGiuseppe Ungaretti - Silvia Breintervento critico di Donato Di Stasi.8-10 maggio 2008Atelier Meta-Teatro, RomaHUDÈMATA ACTÀBAT - Suite Nera -reading scenicodi e con MARCO PALLADINIdalle opere poetiche di MARINO PIAZZOLLAcon gli attori Tiziana Lucattini e Fabio Traversa.14 ottobre 2008Prima edizionePremio “Piazzolla-Petrucciani”Interventi: Marta Bruscia, Katia MiglioriDonatella Marchi legge Marino Piazzolla5 novembre 2008Presentazione presso l’Accademia di Romania di RomaIntervengono: Geo Vasile, Velio Carratoni, Donato Di Stasi, Antonella CalzolariLetture di Manuela Cerri e Paolo Gioia.28 febbraio 2009Incontro con Roberto PazziIntroduce: Giulio FerroniSegue dibattito con interventi di: Velio Carra-toni, Donato Di Stasi, Antonella Calzolari

27 novembre 2009Convegno di studi su Vito Riviello16 febbraio 2010Presentazionedel n. 234 della rivista “Fermenti”Interventi di: Antonella Calzolari, Velio Carra-toni, Gualtiero De Santi, Donato Di Stasi, Maria Lenti, Mario Lunetta, Marco Palladini20-21 aprile 20102010 L’anno del centenario della nascita di Marino PiazzollaConvegno presso Univer-sità “Carlo Bo” di Urbino.12 maggio 20102010 L’anno del centenario della nascita di Marino PiazzollaGiornata di studi presso la Biblio-teca Nazionale Centrale di Roma.5 aprile 2011Presentazionedel n. 236 della rivista “Fermenti”Relatore: M. Carlino. Coordina: V. Carratoni14 dicembre 2011Presentazionedel n. 237 della rivista “Fermenti”Interventi di:G. Alvino, S. Aslan, G. De Santi, D. Di Stasi,M. Lenti, M. Palladini, S. Panatta, L. Riommi.Coordina: V. Carratoni27 giugno 2012PresentazioneLo scrigno del dialetto di Nino BorsellinoRelatori: Paolo Mauri, Cesare Milanese.Coordina: Giovanni Russo.04 luglio 2012PresentazioneRivista “Fermenti” n.238Interventi di autori presenti.16 aprile 2013Presentazionedel n. 239 della rivista “Fermenti”Relatori: G. De Santi, P. Neri.Ha coordinato: V. Carratoni29 ottobre 2013Presentazionedel n. 240 della rivista “Fermenti”Relatore: F. Muzzioli. Ha coordinato: V. Carratoni.13 dicembre 2013Scritture in movimentoInterventi di: G. De Santi, D. Di Stasi, F. Medaglia.Ha coordinato: V. Carratoni.Interventi di: B. Conte, G. Forti, G. Giuliani, A. Lo Cascio

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18 giugno 2014Presentazionedel n. 241 della rivista “Fermenti”Hanno partecipato: F. Buffoni, D. Di Stasi, F. Muzzioli,M. Palladini.Ha coordinato: Velio Carratoni.21 aprile 2015PresentazioneRivista “Fermenti” n.242Partecipano: M. Carlino, D. Di Stasi, F. MuzzioliCoordina: V. Carratoni.Inoltre, su Leopardi. La cognizione del vero di Nino Borsellino, ed. Fermenti (Fondazione Piazzolla): conversazione di Giorgio Patrizi con l’Autore.25 novembre 2015PresentazioneRivista “Fermenti” n.242Partecipano: M. Carlino, G. De Santi, F. MuzzioliCoordina: Velio Carratoni.2 dicembre 2015PresentazioneDi traverso il Novecento di Francesco MuzzioliInterventi di: M. Bevilacqua, G. Ferroni.Ha coordinato: V. Carratoni. Presente l’autore.11 maggio 2016Tra qualità e tendenza: le voci di una letteratura che resisteMarcello Carlino e Francesco Muzzioli propon-gono spunti di riflessione e letture di testi a margine delle opere, recentemente pubblicate da Fermenti Editrice, di cui sono autori:La costituzione del testo e Di traverso il Novecento14 giugno 2016Giorgio Patrizi presentaRivista “Fermenti” n.244Partecipano: M. Carlino, F. MuzzioliCoordina: V. Carratoni.Inoltre interventi su: Critica e storia. Rendi-conti per il Duemila di Nino Borsellino25 marzo 2017PresentazioneRivista “Fermenti” n.245Partecipano: M. Carlino, F. Muzzioli, A. Contiliano, F. Medaglia, M. Palladini, I. Scotti.Coordina: V. Carratoni.Inoltre interventi su: Futuro eretico di Nino Contiliano (ed. Fermenti)

21 aprile 2017Francesco Muzzioli e Giorgio Patrizi presentanoDispacci senza replica di Mario LunettaCoordina: V. Carratoni.Letture di G. Adezio14 marzo 2018PresentazioneRivista “Fermenti” n.246Partecipano: M. Carlino, F. MuzzioliCoordina: V. Carratoni.Inoltre, “Omaggio a Marino Piazzolla”, Marco Palladini ripropone frammenti dallo spettacolo Hudèmata Actàbat – Suite nera24 ottobre 2018PresentazioneRivista “Fermenti” n.247Relatori: M. Carlino, F. MuzzioliCoordina: V. Carratoni.Inoltre, intervento del regista Silvano Agosti, in occasione dell’uscita del suo nuovo film Ora e sempre riprendiamo la vita.3 aprile 2019PresentazioneRivista “Fermenti” n.248Relatori: M. Carlino, F. MuzzioliCoordina: V. Carratoni.Interventi: S. Agosti, C. Milanese, Marco Palladini, E. Caporiccio, E. Bucci e altri.- Susanna Schimperna si occupa di Dario Bellezza, in occasione del ritro-vamento del suo Archivio.- Ülle Toode, Direttore Centro Studi sull’Estonia e il Baltico presso La Sapienza di Roma, parla di Igor’ Kotjuch, in occasione della raccolta poetica Scrivi!, edito da Fermenti.- Partecipa Giuseppe Memeo, neo laureato con una recente tesi su Marino Piazzolla.27 novembre 2019PresentazioneRivista “Fermenti” n.249Relatori: M. Carlino, F. Muzzioli, G. PatriziCoordina: V. Carratoni.Interventi: S. Agosti, C. Milanese, G. Fontana, M. Rondi, M. Palladini, A. Calzolari, R. Pennisi, L. Rogozinski, A.F. Perozzi, M. Buzzi, E. Bucci e altri.

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Silvano Agosti, nato a Brescia nel 1938, si trasferisce a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia. Si diploma in regia nel 1962 con il corto-metraggio La Veglia. La sua prima esperienza cinematografica è come montatore per il film di Marco Bellocchio I pugni in tasca. Esordisce alla regia nel 1967 con Ilgiardino delle delizie, seguito nel 1971, da N.P. il segreto. Nel 1975 realizza Mattida slegare, dedicato al mondo dei manicomi italiani. Dal 1976 al 1978 è docente di montaggio al Centro Sperimentale di Cinematografia. Dopo Addio a Berlin-guer (1984), realizza Quartiere (1987). Seguono Uova di garofano (1992) e L’uomo proiettile (1995, tratto da un suo omonimo romanzo finalista al Premio Strega). Per la Rai ha realizzato la serie: 30 anni di oblio e 40 anni di oblio con i materiali da lui stesso girati nel decennio 1968 - 1978. Nel 2018 ha realizzato il documentario Orae sempre Riprendiamoci la vita. Nel 2019 ha ricevuto il “Nastro d’argento” alla carriera. Da anni gestisce il cinema Azzurro Scipioni di Roma, punto di riferimento per gli amanti del cinema d’autore del passato e del presente.Gualberto Alvino, filologo e critico letterario, si è particolarmente dedicato agli irregolari della letteratura italiana contemporanea, da Consolo a D’Arrigo, da Bufalino a Sinigaglia, da Balestrini a Pizzuto, del quale ha pubblicato in edizione critica Giunte e virgole (a cura della Fondazione Piazzolla, 1996), Spegnere le caldaie (1999), Ultime e Penultime (2001), Si riparano bambole (2001, 2010), Pagelle (2010) e i carteggi con Giovanni Nencioni, Margaret e Gianfranco Contini. Fra i suoi lavori più recenti, la curatela della silloge poetica di Nanni Balestrini, Sconnes-sioni (2008); Giunte e caldaie (2008); Peccati di lingua. Scritti su Sandro Sinigaglia (2009), Scritti diversi e dispersi. Saggi (2000-2014). Questi ultimi editi da Fermenti in collaborazione con la Fondazione Piazzolla. Ricordiamo poi La parola verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino (2012). Nel 2008 ha esordito nella narrativa col romanzo Là comincia il Messico e nel 2011 ha pubblicato la raccolta di versi Da caccia, da séguita e da ferma. Collabora con diverse riviste accademiche e militanti, tra cui «Strumenti critici», «Studi e problemi di critica testuale», «Filologia e critica», «Studi di filologia italiana», «Fermenti», «Italianistica», «Filologia italiana», «Ermeneu-tica letteraria», «Giornale storico della letteratura italiana», «L’Illuminista», «Il Caffè illustrato», «Microprovincia», «Avanguardia», «Alfabeta2».Alberto Artosi, professore universitario attualmente in forza alla Scuola di Giuri-sprudenza dell’Università di Bologna, dove insegna Logica, si è occupato e si occupa di logica ed epistemologia con qualche incursione nella filosofia del diritto e nella filosofia morale. È autore di un non enorme numero di libri (tra cui una Breve storia della ragione, Napoli, 2005) e saggi vari. Ha recentemente curato l’edizione inglese e italiana di due opere giuridiche giovanili di G. W. Leibniz (Springer, 2013; Torino, 2015). Da qualche tempo a questa parte ha sviluppato una viva avversione per le valutazioni della siglizzata censura universitaria e i referaggi delle riviste accademiche italiane.Giovanni Baldaccini, psicologo e psicoterapeuta, consulente A.I.E.D. di Roma; traduttore di testi psicoanalitici per le case editrici Astrolabio e Liguori; è autore di alcuni articoli pubblicati su “Rivista di Psicologia Analitica” e “Fermenti”; ha

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pubblicato per la Fermenti Editrice la raccolta di racconti Desiderare altrimenti, il romanzo L’osservatore e la raccolta di aforismi, poesie e racconti 3 d’union insieme a Luciana Riommi e Antòn Pasterius. Ha pubblicato anche tre racconti brevi in AA.VV. Il quasi nulla il praticamente tutto (Antologia Nuovi Fermenti). Ha pubblicato con La Recherche gli e-book Tre notti e Oltre il varco di notte. Alcune sue poesie e saggi sono presenti in rete su “Il giardino dei poeti”, “La Recherche”,“L’EstroVerso”, “Limina Mundi”. Cura il blog personale “Scrivere per immagini”. Vive e lavora a Roma.Mirco Ballabene, dopo essersi laureato nel 2005 in Lettere Moderne presso l’Uni-versità degli Studi di Urbino “Carlo Bo” e dopo aver insegnato in quello stesso Ateneo, ha partecipato a vari convegni in veste di relatore pubblicando saggi che spaziano dal cinema alla narrativa alla poesia italiana del Secondo Novecento (ha studiato in particolare l’opera di Carlo Bernari, autore di cui è in procinto di dare alle stampe una monografia). All’attività critica affianca l’attività musicale di contrabbassista, ha così inciso diversi dischi approfondendo le pratiche improvvisa-tive e compositive della contemporaneità anche attingendo alla propria formazione letteraria come nel caso del progetto musicale di recente pubblicazione dedicato alla poesia di Andrea Zanzotto, dal titolo Oltranza Oltraggio – La beltà.Eleonora Bellini, poetessa e scrittrice, ispiratrice e dedicatoria del volume Unamore senile di Ariodante Marianni come da lui stesso asserito nella nota al volume, uscito nel 2008. In Pagina Picta la Bellini ricorda l’attività di Marianni come pittore. Nel 2017 per Fermenti ha curato la raccolta di inediti, contributi critici e testimonianze: La poesia e la vita. Ariodante Marianni dieci anni dopo.Vive e opera come operatrice culturale a Borgo Ticino. Ha curato il volume Demone di malinconia, antologia di autori che vanno dal IV al XIV secolo e hanno trattato il tema dell’accidia. Sue opere più recenti di poesia: Il rumore dei treni (2007); Le ceneri del poeta (2011); Stanze d’inverno (2012, illustrato da collages dell’autrice); ριζώματα radici (2014).Bruno Bordoli, vedi pag. 358.Emanuele Bucci (Roma, 1992) si è laureato all’Università “La Sapienza” di Roma in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) con una tesi sulla favola come allegoria politica nell’Italia del secondo Novecento, quindi in Editoria e Scrittura (2018) con una tesi sul rapporto tra allegoria e narrazione in Petrolio, vincitrice del Premio Pasolini 2018. Attualmente è iscritto al Master in Critica Giornalistica dell’Acca-demia Nazionale D’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Ha collaborato con vari siti e testate occupandosi principalmente di cinema e teatro. Nei suoi studi letterari ha approfondito la questione dell’allegoria nell’opera di Palazzeschi, Sciascia, Gadda, Pasolini, Volponi.Marco Buzzi (Maresca). Buzzi (milanese), ma Buzzi Maresca nella scrittura, a Roma dal 1989, insegna ‘Lettere’ al Liceo. Laureato in Lettere moderne e psicologia, e psicoterapeuta sistemico relazionale, è attivo nel campo della poesia (Largo e ostinato, 1992 – Poema dello schermo, 2014), della narrativa (Il buio, 2000; Le code

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del drago, Fermenti Editrice, 2019), e della scrittura teatrale (Ricordo di essere, 1997 ). Critico teatrale e letterario, altri scritti, creativi e teorici sono usciti sulle seguenti riviste o antologie : “Uomini e libri” (1978-91), “Il bel paese” (1986), “Collettivo R” (1986), “Fermenti” (1992, 1995), “L’immaginazione” (1995), “Concertino” (1996), “Astolfo” (1997), Kr991 (1998), “Cravatte ai 4 venti. Antologia multimediale” (1998), “Il mantello aperto” (Antologia narrativa Nuovi Fermenti, 2020). Riviste online: “Le reti di Dedalus”, (2012–14), “Fogli e parole d’arte” (2007-19) Sul suo canale youtube (‘Olamor Olamor’) sono presenti sue video letture.Antonella Calzolari, nata e residente a Roma, è docente a tempo indeterminato di materie letterarie. Giornalista pubblicista , ha collaborato con la RAI come redattrice e autrice e si è occupata di adattamenti di testi televisivi per il doppiaggio e di sceneg-giatura per il fumetto. Ha al suo attivo un’intensa collaborazione con quotidiani e riviste specializzate nel campo della scuola e della letteratura, specialmente per ragazzi. Ha compiuto studi musicali e ha organizzato manifestazioni musicali e letterarie. Ha collaborato con la Fondazione Marino Piazzolla ed è autrice del volume critico Piazzolla mistero della parola e del libro di fiabe Voglio raccontarti (Fermenti editrice) . Per lo stesso editore è curatrice del la collana di libri per bambini e ragazzi “Garrula”, nella quale ha pubblicato anche il volume Oltre i banchi, raccolta di testi scritti dagli alunni della classe terza media della sezione F dell’ I.C. Via Crivelli nell’anno scolastico. 2016/2017. Continua a dedicarsi alla scrittura letteraria.Marcello Carlino, insegna alla Sapienza, Università di Roma. I suoi campi di ricerca più frequentati sono le avanguardie e il rapporto tra arti e letteratura. Tra i suoi libri dell’ultimo decennio: Deposizioni, 2001; Scritture in vista, 2005; Dodiciosservati speciali, 2008; Racconto di parte della letteratura italiana del Novecento,2010, Poetica, 2011, La costituzione del testo. Metodo con esercizi di critica lette-raria, (2015, Fermenti, in collaborazione con la Fondazione Piazzolla).Velio Carratoni, giornalista e scrittore. Laureato in Lettere Moderne con una tesi sulla “Critica letteraria e la terza pagina negli anni Trenta”, ha collaborato a quotidiani e settimanali occupandosi di critica musicale, attualità, costume e politica. Nel 1971 ha fondato “Fermenti” con annessa casa editrice che ancora dirige (www.fermenti-editrice.it). Ha pubblicato per la narrativa: Mara (1971,entrato nella rosa dei finalisti al Premio Viareggio), Un mondo di carne (1981),Bolgia e cinguettio (1990), Le Grazie Brune (2003), Il Sorriso Funesto (2003), Haiusato il suo corpo (2009), Passive perlustrazioni (2018); aforismi: Vendette d’amore (1996), Paura della bellezza (2019); saggistica: Da Gluck alla nuova musica (1972). Ha curato la pubblicazione di: Canti famisti (1981) e Omaggio a Piazzolla (1993). Si sono interessati di lui critici e studiosi. Presiede la Fondazione Marino Piazzolla. Per contatti e aggiornamenti: www.facebook.com/velio.carratoniNadia Cavalera nata nel Salento, a Galatone (Lecce), dopo una parentesi a Brin-disi, dal 1988 vive a Modena. Poeta, saggista, è fondatrice del Superrealismo allegorico,nome della sua personale speculazione poetica, concretizzatasi anche figurativamente in alcuni mini-cataloghi (1993, 1995, 1997, 1999). Ha fondato a

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Brindisi la rivista “Gheminga” nel 1988 e nel 1990, con Edoardo Sanguineti, la rivista “Bollettario” (www.bollettario.it). Dal 2005 dirige il Premio Alessandro Tassoni (www.premioalessandrotassoni.it). Fra i suoi scritti ricordiamo: I palazzi di Brindisi (1986); Amsirutuf: enimma (1988), Vita Novissima (1992), Americanata(1993), Ecce Femina (1994), Nottilabio (1995), Stundaia (1995), Brogliasso (1996),Salentudine (2004), Superrealisticallegoricamente (2005, segnalato da Edoardo Sanguineti al “Premio Alfonso Gatto” e tra i vincitori al “Premio L’Aquila”), Spoesie (2010, Fermenti Editrice), L’astutica ergocratica (2011), Casuals. Spoesie 2010-2015 (2016).Fabiana Cecamore, nata a Roma nel 1992, è laureata in Filologia Moderna con una laurea a doppio titolo fra le Università di Roma La Sapienza e Paris IV - Sorbonne. Si interessa di neoavanguardia a partire dalla tesi di laurea triennale, approfondendo sin da subito gli aspetti del suo legame con l’école du regard grazie ai lunghi periodi di studio trascorsi in Francia. Si è occupata della relazione fra sperimentalismo e arte contemporanea nella redazione di articoli e materiali digitali per la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma.Bruno Conte, nato a Roma nel 1939. Tra il 1959 e il 1962 elabora immagini comprendenti testi poetici. Successivamente si svolgono in modo separato la sua attività letteraria e la sua operatività in campo figurativo, di carattere astratto metafisico. Partecipa a mostre nazionali e internazionali tra cui varie Biennali di Venezia. Un suo “libro ligneo” è esposto nel 1992 al Moma di New York. Mostre personali alla Galleria Blu, Milano 1978, Palazzo Diamanti, Ferrara 1987, Palazzo Ducale, Urbino1992, Galleria Niccoli, Parma 1995, Musma, Matera 2007, 2013. È del 2013 una sua personale antologica al Mart di Trento Rovereto. Mostra antologica alla Galleria d’arte moderna di Roma, 2018.Sergio D’Amaro (Rodi Garganico, 1951) ha pubblicato testi di poesia, narrativa e saggistica, tra cui Le caselle mancanti (1986), Il ponte di Heidelberg (1990),Canti del Tavoliere (2003), Beatles (2004), Terra dei passati destini (2005), Il nostro Adriatico (2006), Fotografie e altre istantanee (2008), 20th Century Vox (2009),Romanzo meridionale (2010), Le voci del tempo (2011). Suoi brani poetici sono stati, inoltre, inseriti nel volume antologico Dentro spazi di rarità (2015) edito da Fermenti. È autore, con G. De Donato, della biografia di Carlo Levi Un torinese del Sud (2001; 2^ ed. 2005), di cui ha curato anche il carteggio con Linuccia Saba (Carissimo Puck, 1994), a cui ha dedicato una monografia, Il mondo di Carlo Levi (1998), e una guida biobibliografica, Le parole di Carlo Levi (2010), curandone inoltre due convegni nazionali. Ha realizzato lavori sulla cultura popolare, sulla poesia dialettale e sulla storia dell’emigrazione.Gualtiero De Santi è saggista e critico letterario, con interessi che spaziano dalla Comparatistica alle Letterature, tanto italiana che straniera, dalla storia del filmalle arti figurative, dal teatro alla musica alla filosofia. Tra i suoi libri vanno ricor-dati: le monografie su Louis Malle e Sandro Penna (1977 e 1982), L’Angelo della Storia (1988), I sentieri della notte (1996), Ritratto di Zavattini scrittore (2002),

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Vittorio De Sica (2003), Le stagioni francesi di Marino Piazzolla (Fermenti 2006, in collaborazione con la Fondazione Piazzolla) e Zavattini e la radio (2012). Dirige “Il Parlar franco”, rivista dedicata alla cultura e alla poesia dialettale italiana.Pippo Di Marca, regista, attore, drammaturgo siciliano di nascita e romano di elezione è uno dei protagonisti storici, insieme a Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Leo de Berardinis, Giancarlo Nanni e altri, del più importante, creativo e dura-turo (a tutt’oggi se ne scorgono evidenti tracce nelle nuove generazioni) ‘movi-mento’ teatrale italiano del secondo ’900, il cosiddetto ‘nuovo teatro’, o teatro d’avanguardia. In quasi cinquant’anni ha diretto, e spesso anche interpretato, oltre una sessantina di spettacoli e un centinaio tra performance, monologhi e azioni sceniche in Italia e all’estero, sia in Europa che in America latina. Con un occhio alle avanguardie storiche si è cimentato con Shakespeare, Joyce, Cage, Beckett, Duchamp, Lautréamont, Ribemont-Dessaignes, Huxley, Wilde, Wedekind, Sartre, Genet, Gadda, Cortàzar, Kafka, T. Bernhard, Bufalino, Pirandello, Cechov, Sangui-neti, Manganelli, Rulfo, Bolaño e altri grandi dell’arte scenica, della poesia e della letteratura. La letteratura in particolare è stata la principale e più ampia fonte della sua ispirazione. Ha scritto e messo in scena una dozzina di testi teatrali e pubblicato diversi libri di teatro, soprattutto sull’avanguardia teatrale. Non ha mai perso le sue radici. Questo libro costituisce il suo ‘esordio’ nella narrativa.Gianluca Di Stefano (Rho – MI, 1972), ingegnere, per Fermenti ha pubblicato poesia (I mali del fiore, 2004, vincitore della XXI edizione Premio Nazionale di poesia “Citta’ di Penne-Mosca”, A passo d’uomo, 2005, I segreti del silenzio, 2006, Catalèpton,2010, Bianco o rosso è lo stesso, 2016), romanzi (I punti di Lagrange, 2013, Adrian,2019, racconti nell’antologia Il quasi nulla, il praticamente tutto, 2015). È presente nelle antologie poetiche Riluttanti al nulla, 2007, Il Diavolo a molla, 2010, Suicide Love Killer, 2011, Ghiaccioli Rossi, 2012, La Città, 2013, Sfumature di attimi, 2014, Il paradosso di Teseo, 2014, Inquiete indolenze, 2017. È stato finalista in vari concorsi tra cui: “La Golena” 1999, “Adriano Zunini” 2009, “LiberoLibro Macherio” 2015, “Patrizia Brunetti” 2015, “Cormònslibri” 2015, “Mario Berrino” , “Hostaria delle immagini”, “Le Grazie, Porto Venere e la baia dell’arte” 2017, terzo classificato al Premio “Antonio Amato” di Ciminna (PA) 2019, e secondo classificato al Premio “Capannese 2019-Renato Fucini” di Montopoli in Val d’Arno.Antonella Doria, siciliana di Palermo. Ha pubblicato: Altreacque (1998), mediterraneo (2005), Metro Pólis (2008), Millantanni (2015), Parole in Gioco (2005aa.vv. s.i.p.). Cura: Poesia contro Guerra (2000, 2007 ampl. Nota di D. Fo); per LIBERA, nomi e numeri contro le mafie, la sez. di Poesia della Mostra Int.le d’Arte – Per una “Carta” visiva dei Diritti Civili, (cat. viennepierre 2001). Già redattrice di “InOltre”, collabora con “Il Segnale, percorsi di ricerca letteraria”. È nell’Ass.ne “Casa della Poesia al Trotter” di Milano. Il Dipartimento di Italiani-stica dell’Università della Pennsylvania l’ha inserita nella “PennSound Italiana” - Archivio della Poesia Italiana Contemporanea.Giovanni Fontana (Frosinone 1946), architetto, poeta, scrittore di teatro e autore

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di romanzi sonori, è invitato ai più importanti festival internazionali di nuova poesia e di arti elettroniche in Europa, nelle Americhe, in Oriente. Alcuni suoi testi creativi: Chorus (2000), Frammenti d’ombre e penombre (Fermenti, 2005), Testi e pre-testi (2009). Sulla poesia sonora ha pubblicato diversi saggi in Italia e all’Estero, tra cui il volume La voce in movimento (con allegato cd, 2003), Poesia della voce e del gesto (2004), L’opera plurale: intermedialità, drammaturgia delle arti, poesia d’azione (2009). Ha curato per la rivista «Il Verri» il cd Verbivoco-visual. Antologia di poesia sonora 1964-2004. Ha fondato la rivista di poetiche intermediali «La Taverna di Auerbach» e l’audiorivista «Momo».Gemma Forti, poetessa e scrittrice, vive a Roma dove è nata. Ha pubblicato per la poesia: Zeffiro Cortese (1996, prefazione di Dario Bellezza); Finestra in alto(1997); Gli occhi della genziana (2000, introduzione di Stanislao Nievo); Candidi Asfodeli Vezzose Ortiche (2004, prefazione di Donato Di Stasi); Zeeero (2007,prefazione di Marco Palladini); Il pollice smaltato (2013, prefato da Gualtiero De Santi, con tavole di Bruno Conte); Spille da balia punte di diamante (2017); S/van/ar/eggia (2019), questi ultimi due volumi con prefazione di Marcello Carlino. Per la narrativa: La casta pelle della luna (2002), Ruvido lago (2010). È autrice di numerosi racconti pubblicati su riviste e antologie (Partitura per voci narranti,2000; La trama strappata, 2011). È inserita nelle antologie poetiche: Geometrie,l’Altro Novecento, voll. IV, V, VII e VIII), Tempo di luce e fiamme di guerra (2006),Riluttanti al nulla (2007), oltre che su quotidiani e riviste.Marco Furia (1952), poeta. Tra i suoi libri: Effemeride (1984), Efelidi (1989),Bouquet (1992), Forma di vita (1998), Menzioni (2002), Impressi stili (2005),Pentagrammi, con sette grafiche-collages di Bruno Conte (2009), La parola dell’occhio (2012), Scritti echi (ebook, 2015), Iconici linguaggi (eBook,2016). Suoi versi sono apparsi su svariati periodici e antologie. Svolge intensa attività critica. Sue poesie visive sono state inserite in rassegne internazionali e pubblicate su riviste italiane e straniere. Silente meraviglia, plaquette con pensiero visivo di Bruno Conte, è stata pubblicata nel 2009. Le brevi raccolte Luminosa sinfonia e La vita del silenzio sono apparse on line su “Fili d’aquilone” (www.filidaquilone.it n. 28 e n. 38). È redattore di “Anterem”, “L’Arca Felice”, e “Il segnale”, collabora con la rivista giapponese “δ”.Vincenzo Guarracino è nato a Ceraso (SA) nel 1948 e vive a Como. Ha pubbli-cato, in poesia, le raccolte Gli gnomi del verso (1979), Dieci inverni (1989), Grilli e spilli (1998), Una visione elementare (2005); Nel nome del Padre (2008); Ballate di attese e di nulla (2010). In prosa, ha pubblicato L’Angelo e il Tempo. Appunti sui dipinti di Nicola Salvatore della chiesa di Ceraso (1987). Per la saggistica, ha pubblicato Guida alla lettura di Verga (1986), Guida alla lettura di Leopardi (1987e 1998). Ha curato traduzioni ed edizioni: dei Lirici greci (1991e 2010), dei Poeti latini (1993), dei Carmi di Catullo (1986 e 2005), dei Versi aurei di Pitagora (1988 e 2005), dei versi latini di A.Rimbaud, Tu vates eris (1988), dei Canti Spirituali di Ildegarda di Bingen (1996), del Poema sulla Natura di Parmenide (2006), dei Poeti Greci (2011) e Poeti Cristiani Latini dei Primi Secoli (2017). Per la critica d’arte,

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si è occupato, tra gli altri, di Luca Crippa (Castelli di carta. Tra disegni, collages e polimaterici di Luca Crippa, 2002), di Giorgio Larocchi (Sulle tracce di un “disegno perduto”. Giorgio Larocchi pittore, 2007), di Mario Benedetti (Nel regno notturno e labirintico di Mario Benedetti, 2008), di Gianfranco De Palos (Verso una felicità oltre il visibile, 2011) e di Ettore Calvelli (L’audacia di un Maestro. Riflessioni sulla tecnica e il mondo creativo e fantastico di Calvelli, 2012).Giovanni Inzerillo (1982) è laureato in Lettere Classiche, dottore di ricerca in Italianistica e cultore della materia Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Palermo. Si è occupato prevalentemente di poesia italiana contem-poranea e di comparatistica musico-letteraria, ha pubblicato tre monografie (Ilcanzoniere di puro disamore di Dario Bellezza, 2019; La pulce musicale di Italo Calvino, 2015; La virtù della frivolezza. Saggio sull’opera di Paolo Ruffilli, 2009) e saggi su autori quali D’Annunzio, Turrisi Colonna, Nievo, Montale, Pasolini, Malerba, Zantotto in riviste e atti di convegni. Presso l’Università di Palermo in qualità di professore a contratto ha svolto gli insegnamenti di letteratura italiana, letteratura italiana contemporanea, epistemologia e didattica della lette-ratura italiana, metodologie della didattica della letteratura italiana, scrittura italiana. Attualmente, oltre a insegnare italiano e latino presso il prestigioso Isti-tuto Gonzaga di Palermo, è professore a contratto di didattica della letteratura italiana, problemi di didattica della letteratura italiana contemporanea, lingua e scrittura italiana presso l’Università di Milano Statale.Maria Lenti, poetessa, narratrice, saggista, giornalista, è nata e vive a Urbino. Studiosa di letteratura ed arte. Tra i suoi libri: Versi alfabetici, 2004 (poesie), Cambio di luci, 2009 (finalista al premio di poesia “Pascoli”), Giardini d’aria, 2011 (racconti), Effetto giorno (scritti critici), 2012, Cartografie neodialettali, 2014, (sui poeti neodialettali di Romagna e d’altri luoghi), Ai piedi del faro 2014 (poesie),, Certe piccole lune (vincitore del premio “narrabilando”), 2017 (racconti), gli studi Amore del Cinema e della Resistenza, 2009 e In vino levitas. Poeti latini e vino,2014, l’antologia di poeti italiani contemporanei Dentro il mutamento, 2011. Nel 2006 ha vinto lo “Zirè d’oro” (L’Aquila). È presente in molte antologie di poesia, di racconti e di interventi socio-culturali.Dante Maffìa fu segnalato da Aldo Palazzeschi e da Leonardo Sciascia che, con Dario Bellezza, lo ritingono “uno dei più felici poeti dell’Italia moderna”. Giudizio condiviso anche da Magris, Bodei, Ferroni, Pontiggia, Brodskji, Vargas Llosa, Dario Fo, Borges. E’ tradotto in 18 lingue. Ha vinto i Premi: “Montale”, “Gatto”, “Stresa”, “Viareggio”, “Alvaro”, “Matteotti”, “Camaiore”, “Tarquinia Cardarelli”, “Circe Sabaudia”, “Rhegium Julii”, “Alda Merini”. “Eminescu”. Il Presidente della Repubblica Ciampi nel 2004 lo ha insignito di medaglia d’oro per meriti culturali. Il Consiglio Regionale della Calabria, le Fondazioni Spinelli, Guarasci, Farina, Di Liegro e Crocetta, e l’Università di Craiova, lo hanno candidato al Premio Nobel. Recente il volume degli Atti del Convegno tenutosi sulla sua opera, Ti presento Maffia, a cura di Rocco Paternostro edito da Aracne di Roma. Ha ricevuto la Laurea Honoris Causa dalla Pontificia Università.

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Rebecca Marcucci è nata a Jesi (Marche). E’ iscritta alla SSML di Ancona. Tra i suoi interessi figurano la letteratura contemporanea italiana e straniera e lo storytelling.Ariodante Marianni, nato a Napoli nel 1922, deceduto nel 2007 a Borgomanero. Ha vissuto per molti anni a Roma. I suoi versi sono raccolti nei volumi Stato d’allerta (poesie 1948-1962), finalista al Premio Viareggio 2002, e Una strana gioia (poesie 1982-2002), con prefazioni di Mario Lunetta e Alfredo Giuliani. Nel 2008 è uscita la raccolta di versi postuma Un amore senile e altre spezie, con nota di Alfredo Luzi. Molto importante è stata la sua attività di traduttore di poeti moderni inglesi e americani: Dylan Thomas, Wystan Hugh Auden, Williams, Emily Dickinson, W.B. Yeats. Come pittore ha esposto, con lo pseudonimo di Ario, in mostre personali e collettive ed è presente in varie collezioni private in Italia e all’estero. È stato redattore della rivista di critica e letteratura “Marsia”, pubblicata a Roma negli anni 1957-1959. Marianni è stato segretario di Giuseppe Ungaretti ed addetto stampa del Festival di Spoleto negli anni settanta; ha collaborato a trasmissioni radiofoniche e televisive.Lillo Messina nasce nel 1941 nel borgo marinaro di Paradiso, a pochi chilometri da Messina. Inizia gli studi artistici nella città siciliana e poi a Reggio Calabria. Nel 1961 si iscrive all’Accademia delle Belle Arti di Roma per studiare pittura. Suoi insegnanti saranno Pippo Rizzo, e Mino Maccari. Figurativo fin dagli esordi, Lillo Messina lavorerà per tutti gli anni ’60 attorno ad una vena surrealista e psicologista ispirata dai mastri del passato (Bosch e Goya) che lo lancerà, alla fine degli anni ’60, in una lunga serie di mostre personali in varie città italiane. Nel decennio seguente la sua pittura rintraccerà nuovi temi, come il mare e l’ecologia, che entreranno nella sua inquieta immaginazione con un taglio via via più realistico. Di fatto, dal 1980 in poi la pittura di Messina da surrealista sarà quasi esclusivamente iperrealista, con un tema unico: il mare. Nel decennio 1980 – 1990 Lillo Messina lavorerà a questo tema raccontandone il faticoso e critico rapporto con l’uomo contemporaneo. Boe, barche, gruppi di pesanti funi d’ormeggio e spiagge lordate dai rifiuti popolano la pittura di quegli anni. A partire dai primi anni ’90 Messina cambia nuovamente, i suoi quadri che assumono un’impostazione “geografica”, “aerea”.Cesare Milanese, nato a San Stino di Livenza nel 1930, è uno scrittore, autore e critico letterario. Studioso di problemi d’estetica, pratica l’accostamento della scrittura letteraria alla scrittura filosofica sulla base di una ricerca ermeneutica a impostazione prevalentemente fenomenologica. Come giornalista ha scritto su “Quindici”, “L’Espresso”, “Il Messaggero”, “Mondoperaio”, “Avanti!”, “Rina-scita”, “Paese Sera”, “Il Riformista”. In RAI dal 1965. Ha svolto attività editoriale in Feltrinelli, SugarCo, Newton Compton. Alcuni dei suoi volumi: Principi generali della guerra rivoluzionaria (1970), Luca Ronconi e la realtà del teatro (1973), Iltempo e l’ora (1981), Da Parmenide (1986), La tela (1998), Sul teatro e dintorni(2003-2005), La battaglia del Tagliamento (2011).

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Giuseppe Modica nasce a Mazara del Vallo nel 1953. Vive e lavora a Roma. Del 1972-73, proprio a Mazara, è la sua prima mostra personale che riscuote un buon successo di pubblico. Del 1976 è la sua prima personale a Firenze, città dove studia all’Accademia di Belle Arti. Del 1982 e 1984 sono le mostre di Firenze che riscuotono grande interesse anche da parte della critica. In questi anni conosce il pittore Bruno Caruso, al quale è ancora legato da una duratura amicizia. Nel corso degli anni partecipa a diverse rassegne e numerose sono le sue personali. Fra queste ricordiamo: la mostra retrospettiva ‘Riflessione’ come metafora della pittura. Opere 1989-2003, curata nel 2004 da Claudio Strinati nel Complesso del Vittoriano (con il patrocinio del Polo Museale Romano); nel 2009 la personale Blu Modica al Centro Culturale Le Muse di Andria, curata da Marco Di Capua; nel 2010 a Milano la personale Metafisica di luce alla galleria Federico Rui Arte Contemporanea-Spazio Crocevia (con un testo di Gabriele Simongini); nel 2015 la sua prima mostra personale a Parigi a cura di Giovanni Lista con il testo Lamélancolie onirique de Giuseppe Modica alla galleria Jean Sifrein. Nel 2014 L’am-basciata italiana in Australia a Canberra espone in permanenza tre importanti opere e il Ministero degli Affari Esteri, Palazzo della Farnesina, include tre opere tra le più significative della sua ricerca,nella Collezione d’Arte contemporanea.Francesco Muzzioli, professore associato di Critica letteraria e letterature compa-rate all’università “Sapienza” di Roma, ha svolto attività didattica nell’ambito della Letteratura italiana contemporanea e della Teoria della letteratura. Ha trattato, nella sua ricerca, da un lato la discussione e il confronto delle posizioni teoriche, con attenzione al dibattito metodologico e, specialmente nell’ultimo periodo, alle polemiche sulla postmodernità; da un altro lato, il riesame critico del Novecento letterario, allo scopo di identificare e valorizzare le punte di avanguardia, di speri-mentalismo, di scrittura alternativa, fino alle tendenze attualmente in corso. Ha pubblicato numerosi libri di critica su autori novecenteschi, da Pascoli a Pasolini, a Saba, Michelstaedter, Folgore, Éluard, la neoavanguardia, Malerba, Ruffato. Ha scritto, insieme a Marcello Carlino, La letteratura italiana del primo Novecento (1986). È autore di uno studio metodologico generale dal titolo Le teorie della critica letteraria (1994), dei volumi Le teorie letterarie contemporanee (2000), L’al-ternativa letteraria (2001), Scritture della catastrofe (2007), Di traverso il Nove-cento (2015, edito dalla Fermenti Editrice in collaborazione con la Fondazione Piazzolla).Maurizio Nocera (Tuglie, 1947) ha scritto e scrive poesie, prosa e saggistica. Autore di saggi su Pablo Neruda, Rafael Alberti, Joyce Lussu, Alberto Tallone, ha scritto anche sulla vita e l’opera di illustri personaggi salentini (Emanuele Barba, Gaetano Martinez, Pietro Siciliani, Giulio Cesare Vanini, Enzo Sozzo, Antonio L. Verri, Mario Marti, Donato Valli, altri). Dal 1981 è socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia.Cristina Ortolani, laureata in Discipline dello Spettacolo all’Università di Bologna con una tesi sul costume di scena dell’Enrico IV di Luigi Pirandello, è ricercatrice free-lance e content editor. Dopo aver creato i costumi per numerosi spettacoli

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di prosa e d’opera lirica, collaborando tra gli altri con Hans Werner Henze, ha pubblicato alcuni studi sul costume teatrale e cinematografico. Dal 1999 si occupa di recupero e valorizzazione della memoria delle comunità locali tra Marche e Romagna, settore nel quale ha all’attivo diversi progetti multimediali e una trentina di libri. È nata nel 1965 a Pesaro, dove vive e lavora.Marco Palladini, romano, è attivo dagli anni Ottanta nel panorama nazionale come scrittore, poeta, drammaturgo, regista, performer e critico nell’ambito del teatro d’autore e di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: la trilogia teatrale Destinazione Sade (1996, riedita come ebook nel 2009); il dramma Serial Killer (Sellerio, 1999); il cd poetico-musicale Trans Kerouac Road (2004); il libro di racconti Il comunismo era un romanzo fantastico (2006); il memoir narrativo Non abbiamo potuto essere gentili (2007); i volumi critici I Teatronauti del Chaos - La scena sperimentale e postmoderna in Italia 1976-2008 (2009) e Prove aperte. Materiali per uno zibaldone sui teatri che ho conosciuto e attraversato (1981-2015) (Vol. I, 2015 e vol. II, 2017) entrambi editi da Fermenti, in collaborazione con la Fondazione Piazzolla; le raccolte in versi La vita non è elegante (Fermenti, 2002), Iperfetazioni (2009), Il mondo percepito (2010), È guasto il giorno (2015); il dittico teatrale La Pietra e la Croce (2010), Attraversando le barricate (2013); Me Dea (2015).Renato Pennisi è nato a Catania nel 1957. Vincitore del “Premio Eugenio Montale” nel 1986 per la poesia inedita con la raccolta Letture senza spartito, poi inserita nell’antologia 7 Poeti del Premio Montale (1987), ha successivamente pubblicato i romanzi Libro dell’amore profondo (1999), La prigione di ghiaccio (2002) e Romanzo (2006). È autore dei libri di poesia La correzione del saggio (1990), Mai più e ancora (2003) e La notte (2011). È anche autore dei libri di poesia in dialetto siciliano Allan-callaria (2001) e La cumeta (2009). Per il teatro ha scritto Oratorio di resurrezione (2015). Il suo ultimo libro di poesia è Pruvulazzu (in siciliano, 2016).Marino Piazzolla, nasce a San Ferdinando di Puglia (Foggia) il 16 aprile 1910. Nel 1931 si trasferisce con la sorella a Parigi. Assunto in qualità di segretario e bibliotecario della Società Dante Alighieri, conosce, tra gli altri, Pierre di Nolhoe, Marinetti e Fiumi. Nel 1937 ottiene il diploma di Studi Superiori di Filosofia alla Sorbona, discutendo una tesi su Le poetiche da Aristotele all’abate Brémond.Pubblica in francese le due raccolte di versi Horizons perdus e Caravanes. Tornato in Italia nel 1940, dà alle stampe Ore bianche e il poemetto mitologico Pérsite e Melasia. Si dedica all’insegnamento di Storia e Filosofia. Stabilitosi a Roma nel 1945, fonda e dirige la rivista “Narciso”. Conosce al Caffè Greco Cardarelli, allora direttore de “La Fiera Letteraria” che in seguito gli affiderà la rubrica “Critica di poesia”.Sono questi gli anni di più intensa attività di critico letterario e d’arte: dai saggi su Penna, Valeri, Bontempelli, Montale, Eliot, Raphael, Michaux, S.J. Perse, agli articoli su Klee, Cézanne, Picasso, Braque ecc. L’assidua collabora-zione alla “Fiera” gli dà modo di conoscere i più noti scrittori italiani da Bernari, a Moravia, Govoni, Falqui, Marotta, Quasimodo ecc. In seguito dirige la rivista umoristica “L’Idiota”. Tra le sue opere più significative: Elegie Doriche (1951, Premio Etna-Taormina per l’opera prima), Lettere della sposa demente (1952),

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Esilio sull’Himalaya (1953, Premio Chianciano), Pietà della notte (1957, Premio di poesia Città di Avezzano), Mia figlia è innamorata (1960, medaglia d’oro del Presidente della Repubblica al premio Viareggio di poesia), Gli occhi di Orfeo(1964, premio Tarquinia-Cardarelli), Viaggio nel silenzio di Dio (1973, Premio di poesia Città di Capua), Sugli occhi e per sempre (1979), L’amata non c’è più(1981, Premio Nazionale di Poesia e Cultura “Città di Tagliacozzo”), Il pianeta nero (1985). Alla sua morte, ha lasciato una fondazione culturale che porta il suo nome, operativa dal 1988, che ha come scopo il tramandare la cultura (www.fonda-zionemarinopiazzolla.it).Marzio Pieri nato a Firenze nel 1940 da padre fiorentino e madre veneto-friu-lana. Delle due terre d’origine, così distanti, incompatibili, ha moderato ma non troppo la tendenza al mòccolo. In accademia eretico, guardava con disperazione a Cortot a Spitzer a Garboli o Debenedetti più che ai santi della filologia giudiciaria. Ha scritto di barocco, dell’opera, della poesia, delle genti, bastava allungare le mani. Con Fermenti (in collaborazione con la Fondazione Piazzolla) ha pubblicato Tenori. Il Pavone, l’Espada e il Salice piangente dal Barocco alla fine dell’Opera (2015); Pianisterie. Memorie sentimentali d’un patto poetico in via d’estinzione (2017, inserito nella rosa dei titoli del Premio “Viareggio Rèpaci”, sezione Saggi-stica); Enlures (2018).Bernardo Pieri, nato a Firenze l’anno dell’alluvione e cresciuto a Parma, da 12 anni vive, meglio, a Reggio Emilia. Collabora con l’Alma Mater bolognese – storia del diritto medievale – e il prof. A. Padovani, che lo laureò. Poche tracce del lavoro di storico: la musica è amante che non s’accontenta dei ritagli di tempo. Il P. tentò compiacerla prima parlando d’opera ai microfoni d’una minima, simpatica, radio diocesana (chiusa ex abrupto per sospetto d’eresia), poi per sette anni come critico militante del settimanale reggiano “Reporter”. Collaborazioni coi teatri di Parma e Reggio per scritti di sala e qualche pubblicazione son le attestazioni d’amore per la melodiosa dama. Idolatra i gatti.Michele Presutto (San Paolo Civitate, FG, 1966) ricercatore indipendente con alle spalle una lunga esperienza di studio e ricerca in Messico e negli Stati Uniti. Si è occupato dei comportamenti politici dei migranti a cavallo tra Ottocento e Novecento. Fa parte del comitato editoriale della rivista ‘’Frontiere’’. Ha scritto diversi saggi e articoli. Le sue opere più recenti sono il saggio La rivoluzione dietro l’angolo. Gli anarchici italiani e la Rivoluzione messicana, 1910-1914 (Foligno,Editoriale Umbra, 2017) e il romanzo L’uomo che divise il pane in cinque. Storia di un sagrestano anarchico (Nardò, LE, Besa, 2018).Enrico Pulsoni (1956) insegna Scenografia all’Accademia di Macerata. Si forma nei primi anni Settanta, con il gruppo teatrale Altro di Roma, realizzando spetta-coli, mostre e ambientazioni spaziali. Espone regolarmente dal 1977. Produce le Edizioni d’Arte “Cinquantunosettanta”, è curatore della Collana “Duale” delle Edizioni Il Bulino e collabora attivamente con diverse riviste. Il suo lavoro arti-stico si esprime sovente in cicli: “Paesaggiogiornaliero”, VOLTItraVOLTI, Mortis

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Humana Via, una rivisitazione della Via Crucis, e FINALE, DIPARTITA calciope-retta, esposta nel suo spazio TERRAZZOalTERZO. La sua ultima produzione si è concentrata su “Le sette creazioni”e gli “Otto Mementi Molli”, esposti all’Ar-chivio della Fondazione Menna di Roma. Nel 2019 presenta “I Sogni di spettri”, in collaborazione con G. Nerli e S. Sasso, a Roma, Berna e Basilea.Luciana Rogozinski vive a Torino. Si occupa di teoria dell’Arte praticando l’at-tività critica e la produzione letteraria e visiva. Come saggista e critica d’arte contemporanea ha pubblicato scritti sull’arte visiva, la letteratura, il teatro, l’ar-chitettura in rapporto alle arti plastiche e collaborato con riviste italiane e interna-zionali tra cui “Artforum” e “Parachute”. Ha curato la storia della critica d’arte italiana 1960-1981 per il catalogo di Identité Italienne (Beaubourg 1981) e pubbli-cato saggi su cataloghi di mostre internazionali.Mario Rondi vive a Vertova (Bergamo ), dove è nato nel 1949. Tra i libri di poesia pubblicati: Corpo & poesia, con nota critica di Lucio Klobas (1978 ), Poker di cuori, con introduzione di Giulia Niccolai (1983), Erbario immaginario,con prefazione di Adriano Spatola (1985), Il Trucco, con introduzione di Lucio Klobas (1993), Sarabanda, con prefazione di Vincenzo Guarracino (2001), Medicamenti, con introduzione di Sandro Gros-Pietro (2009 ), Cabaret (2014, finalista del Premio di Poesia Pontedilegno 2014), Gran varietà (2016), Ilcartiglio del vento (2018, Fermenti). Suoi libri di racconti: Storie di amore e disamore (1986), La mancanza (1998), Veleni e caramelle (2001), La felicità nei sogni (2004), Amori precari (2008), L’amore sognato (2012), Amori effimeri(2015, vincitore Premio "I Murazzi" 2015), 66 storielle (2017, Fermenti). Nel 2019 ha pubblicato il romanzo Due passi all’Inferno, con un occhio al Paradiso (Fermenti). Si occupa inoltre di cultura popolare. Suoi testi sono apparsi in numerose riviste e antologie. Da anni propone mostre personali di poesia visiva e partecipa a collettive. Collabora a diverse riviste letterarie sul piano nazionale, tra le quali "Vernice", "L’immaginazione", "Zeta". Video realizzato dalla RAI in: http://www.expo.rai/poeta-canta-ortaggi-cultura/Crescenzio Sangiglio nato a Salonicco (Grecia), dove tuttora risiede. Attività di critica letteraria e di traduzioni di poesia e prosa greca in riviste. Pubblicazione in volumi di traduzioni poetiche. Critica letteraria: Ritsos (1975), collana Il Castoro della Nuova Italia, tradot to in greco e pubblicato ad Atene nel 1978. Studio della canzone popolare greca: La canzone rebètika - origini e storia (2004). Altresì: Piran-dello, L’uomo, la bestia e la virtù, tradotto in greco e rappresen tato al teatro Statale di Salonicco (1972); Saglimbeni, Poesie (1981) tradotte in greco e pubblicate a Salo-nicco; Sole metallico, morbide lune (2010) ed Esilio sull’Himalaya (2013) entrambi di Marino Piazzolla con testo a fronte italiano e greco moderno; Amore a Olimpia di Ilias Gris (2014), Isolamara di Nikos Nikolàu-Chazimichaìl (2016);Quando il rumore della vita teme la propria eco di Stavros Zafirìu (2017). Inoltre: Baudelaire, I fiori del male (1986). Infine, la voce Letteratura neoellenica in Enciclopedia Garzanti.

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Italo Scotti è nato nel 1954 a L’Aquila. Vive a Roma e ha lavorato per oltre trent’anni come consigliere parlamentare e poi di governo. Appassionato di musica e di storia, è esperto di procedure parlamentari e di finanza pubblica, materie nelle quali ha pubblicato numerosi saggi. Ha proposto nel 2011 la sua prima raccolta di poesie: Il privilegio dell’amore e nel dicembre 2016 la sua seconda raccolta: Dee – Idee presso l’editrice Fermenti. Suoi testi poetici sono inseriti nelle antologie Dentro spazi di rarità (2015) e Inquiete indolenze (2017), sempre per le edizioni Fermenti. Altre sue poesie sono state a più riprese pubblicate nella rivista letteraria “Fermenti”.Lidia Sella considera la parola uno strumento affilato per sondare i misteri del cosmo, e della coscienza. Per lei, le moderne scoperte scientifiche rappresentano terreno di riflessione filosofi ca e fonte di emozione spirituale. Soffre nel de clino della civiltà occidentale e si batte per la salvaguardia delle nostre radici grecoromane.Giornalista, scrittrice, aforista, poeta, ha colla borato con diversi quotidiani (“L’Indipendente”, “Il Giornale”, “Libero”, “Il Sole24 Ore” online, “Affaritalia-ni.it”) e riviste (“L’Europeo”, “Lo Specchio”, “Gente”, “Gio ia”, eccetera). Ha pubblicato: Amore come, 1999; La roulette dell’Amore, 2000; La figlia di Ar - Appunti interiori, 2011; Eros, il dio lontano - Visioni sull’Amore in Occidente,2012; Strano virus il pensiero, 2016. Tutte queste opere hanno ricevuto premi e riconoscimenti. Nel 2019 Alberto Casiraghy del Pulcinoelefan te ha editato quattro plaquette, intitolate Infiniti infiniti, Oltre, Non e Scale, commentate da afori smidell’autrice. È stata membro della giuria del Premio Inter nazionale per l’Aforisma “Torino in Sintesi”.Claudio Strinati (Roma, 1948) è un critico e docente d’ arte. Laureato a Roma in Lettere presso l’ Università la Sapienza nel 1970. Negli anni Settanta è stato insegnante di storia dell’ arte nei Licei pubblici statali. Successivamente è stato dipendente del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e, negli anni ottanta, docente a contratto di Legislazione dei beni culturali presso l’ Università degli Studi di Udine. Tra il 2000 e il 2010 ha fatto parte del Comitato scientifico del Museé du Luxembourg a Parigi, su designazione del Senato francese. In quella veste ha collaborato all’ organizzazione di numerose mostre. E’ Ufficiale al merito della Repubblica italiana ed è insignito della Legion d’ onore della Repubblica francese. Fa parte, su designazione del Ministro dei beni culturali, del Consiglio di Amministrazione delle Gallerie Nazionali d’ arte antica di Roma. Fa parte altresì del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico. Collabora con il quotidiano “Il Messaggero”, con RAI 5, con l’ Auditorium Parco della Musica in Roma, con il Teatro di Roma e con il Festival dei 2 mondi di Spoleto, come divulgatore e conferenziere. Fa parte del Comitato scientifico della rivista “Art e Dossier”. Ha diretto la collana “Storia dei Giubilei”, pubblicata in cinque volumi tra il 1996 e il 2000. Con il suo libro Il mestiere dell’ artista (2013) ha ottenuto il premio Capalbio. E’ autore di numerosi saggi e articoli nel campo della storia dell’ arte italiana tra il Rinascimento e il Novecento.Vincenzo Talarico (Acri 1909 - Fiuggi1972) è stato un giornalista, sceneggiatore e attore italiano. Fu redattore, critico teatrale e cinematografico, collaboratore

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ed inviato speciale di numerosi quotidiani, tra i quali “Il Resto del Carlino”, “Il Messaggero”, “La Stampa”, e soprattutto il “Momento sera” dove fu curatore della rubrica “Il Gazzettino romano”. Collaborò inoltre alle riviste “Tempo Illustrato”, “Settimo Giorno”, “Epoca”, “L’Europeo”, “Vie Nuove”, “Le Ore” e “Il Travaso”. Esordì come sceneggiatore con il film “Senza cielo” del 1940 e nel 1953 guadagnò il “Nastro d’argento” con Anni facili di Luigi Zampa. Fu anche attore cinemato-grafico, fra i suoi film ricordiamo: Il bigamo (1955) con Marcello Mastroianni, Un giorno in pretura (1953) di Steno e Un americano a Roma (1954).Tito (Ferdinando Amodei), vedi pag. 366.Silvia Venuti, ha studiato all’Accademia di Brera di Milano. Numerose le sue personali in spazi sacri come Santa Maria delle Grazie e S. Angelo a Milano, la Basilica di San Francesco ad Assisi. È stata presentata da R. Bossaglia in I giardini dell’anima, Mondadori, 2007. Ha pubblicato: Allieva della vita,1999, introdotta da S. Raffo; Le parole necessarie, 2002, da P. Ruffilli; Nelle ragioni della vita, 2005, da G. Bárberi Squarotti; Oltre il quotidiano, 2009, da G. Pontiggia (Premio Cultura Pontedilegno2010); La visione assorta, 2012, da T. Kemeny (Premio Camposam-piero, 2014); Sulla soglia della trasparenza, 2016.Vinicio Verzieri nato a Montesilvano e residente a Milano, ha fre- quentato il Liceo Artistico. Ha in attivo personali in Italia e all’estero di pittura, scultura e grafica. Ha partecipato a diverse rassegne e collettive internazionali. Ha pubblicato otto libri di versi poetici, uno in prosa e uno sul dialetto. Suoi lavori sono in antologie e riviste. Ha illustrato libri e realizzato oltre 250 ex libris con diverse tecniche. Ha scritto: teatro, racconti, tre “romanzi”, versi musicati per danza, tre canzoni, una tesi fotografica sulla scultura, un saggio sulla pittura e scultura e progettato 10+10- (installazione). Suoi lavori sono nelle collezioni private e nei musei nazionali ed esteri.

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Questo numero € 26,00, arretrato il doppio.

In copertina: Corrado Costa, Flipper, 1972 – da “Fuoripagina. La collezione Roffi”.

Finito di stampare nel mese di Giugno 2020da EB.O.D. sas, p.zza Guardi 15, 20133 Milanoper conto della Fermenti Editrice

FONDAZIONE MARINO PIAZZOLLAIl presente volume è stato pubblicato in parte con il contributo della Fondazione Piazzolla - Romawww.fondazionemarinopiazzolla.itfondazionepiazzolla@libero.it– Seguiteci anche su Facebook –

La Fondazione, che opera nella Regione Lazio, ha per oggetto la costi-tuzione di un museo per la raccolta delle opere di Marino Piazzolla e la loro conservazione e diffusione nonché l’istituzione di premi letterari per la narrativa, poesia, saggistica, studi di filologia, la pubblicazione di testi inediti in materia di scienze umanistiche e la costituzione di borse di studio a favore di studiosi e artisti italiani e stranieri.Si rivolge a tutti senza preclusioni di natura ideologica e confessionale. Rientrano nell’oggetto sociale tutte le attività che comunque si ricolle-ghino allo scopo della Fondazione.

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