Aniello Langella e Ernesto Pinto Gli arredi sacri di Santa Croce scampati alleruzione del 1794...

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L’ERUZIONE DEL 1794 e gli ARREDI sacri di SANTA CROCE Il Beato Vincenzo Romano e la Storia dell’Eruzione www.vesuvioweb.com Di Aniello Langella e Ernesto Pinto Immagini di Ernesto Pinto Bibliografia Agostino Panariello

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L’ERUZIONE DEL 1794 e gli ARREDI sacri di SANTA CROCE Il Beato Vincenzo Romano e la Storia dell’Eruzione

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Di Aniello Langella e Ernesto Pinto

Immagini di Ernesto Pinto

Bibliografia Agostino Panariello

L’ERUZIONE DEL 1794 e gli ARREDI sacri di SANTA CROCE Il Beato Vincenzo Romano e la Storia dell’Eruzione

Introduzione Il lavoro che presentiamo qui è sicuramente un inedito della storia di Torre del Greco. Coinvolge tre aspetti importanti e condivide con essi atmosfere, accadimenti e cronache dell’epoca. La figura stupenda del Beato Vincenzo Romano, l’eruzione del 1794 e la Chiesa di Santa Croce con i suoi arredi sacri. Una storia ricostruita attraverso la ricerca e l’impareggiabile fiuto di Ernesto Pinto, atten-to conoscitore della storia dell’arte nell’area del Vesuvio. Un percorso quasi didattico ci condurrà alla scoperta di preziose reliquie e porrà laddove manchi, chiarezza su alcuni accadimenti di quei giorni che segnarono la città. L’eruzione del Vesuvio che entrando in città seminò panico ovunque e gli abitanti, cedendo alla so-verchiante forza del vulcano, cercarono rifugio ovunque portando con sé ciò che di più caro possedevano. L’uomo di fede Vincenzo Romano, corse nella Chiesa minacciata dal fuoco e da quel luogo volle rimuovere ciò che era per lui veramente prezioso. Un grazie a particolarmente sentito Ernesto Pinto.

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Quando quella notte si aprirono le bocche alla base del Vesuvio, tutti nel-le città della fascia costiera ebbero la chiara consapevolezza che di lì a poco su quella terra sarebbero state river-sate tonnellate di materiali vulcanici pronti a dare distruzione e morte. Bisognava capire dove sarebbe scesa quella colata di lava. Verso Resina, Verso Torre del Greco, Torre Annun-ziata, Boscoreale? Nessuno lo sapeva quella notte calda di giugno. La gente osservava la montagna ed era pronta a scappare. Ma dove? Questa è la storia del ritrovamento degli Arredi Sacri di Santa Croce. Fu-rono spostati dalla Chiesa perché i torresi intuirono che sarebbe stata in-goiata dalla lava e così fu. Poi degli arredi non si seppe più nulla. Nel 2006 la scoperta.

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L’eruzione del 1794 segna in maniera poderosa il volto urbanistico, u-mano e politico della città. Fu talmente profonda la devastazione che per secoli e ancora oggi si addita quell’evento come delittuoso, funesto. In realtà quell’eruzione non fu poi così tanto devastante e poderosa. I prodromi, già noti ai torresi da secoli di esperienza, avevano scandito tutti i giorni quasi di almeno due settimane prima dell’evento. I pozzi d’acqua, si racconta di un clima straordinariamente mite, le scosse di terremoto, subentranti. A questi fatti i torresi erano avvezzi, e lo sono ancora oggi. Sentono quasi la montagna come presenza genica. Ne avvertono i fremiti prima di altri e sanno leggere i vari segni in maniera approfondita. La montagna è nel dna dei Torresi. La gente si incrociava per le strade e lo stesso Curato Vincenzo Roma-no incontrando i devoti, commentava i segni ed i segnali della monta-gna come fatti normali, come espressioni di un sonno ogni tanto inter-rotto. Erano passati però ben sette mesi ed il Vesuvio non aveva emes-so neppure un filo di fumo. Questo fatto era inquietante. Troppa calma “troppa quiete” forse si ripetevano tra loro i torresi di piazza Santa Cro-ce. Intanto passavano i mesi e l’infittirsi dei fenomeni di allerta, rendeva le notti insonni a qualcuno. Nelle case si respirava tensione ed i panni e le mappate erano sempre pronte.

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“U peretto i l’acqua, doie cannele, na coperta, i gallette,…e via, fuimme”. Questa era il motto d’ordine, questo il passaparola ed il motto ferace che il Vesuvio aveva traslato nel dna dei torresi. E questo da secoli. Non cre-diate che ciò accadde in occasione di questa eruzione. Il copione era sempre lo stesso. Osserva la cima, senti i fremiti nelle rocce sotto i tuoi piedi, annusa l’aria, ascolta il latrare dei cani,…somma,…dividi,…ragiona, elabora e …scappa. Penso che il binomio uomo vulcano con-tenga delle miscele di sentimenti, di emozioni e sensazioni, di difficile chiarificazione. Eppure è così l’uomo che è nato qui avverte il respiro del vulcano e spes-so ne ode i passi. Accadde così che il giovedì 12 giugno, alle “3 ore ed 1/4 di notte”, che corrisponderebbe alle nostre 23,15, lungo tutta la fascia costiera e sem-bra fino a Napoli, si sia udita ed avvertita una forte scossa di terremoto. Sicuramente in quella serata calda e profumata, la gente si affacciò e puntò lo sguardo alla montagna. Ma il buio non permetteva di vedere nul-la. Sembrava tutto calmo. Qualcuno riprese il sonno, altri andarono a dormi-re, ma molti e molte restarono a vegliare. Il giorno dopo, appena all’alba la cila del vulcano era come nascosta da nubi, da fumo. Spesso accade-va che la montagna celava la propria cima vestendosi con un cappello di nuvole. Ma quel giorno il dubbio di molti fu sicuramente un dubbio moti-vato, che attendeva una risposta. Quelle erano nubi di fumo e di fuoco oppure erano nubi di decoro meteorologico? La verità è che non potendo verificare il significato di quei fenomeni, si fu propensi ad ammettere che quelle erano nubi che minacciavano pioggia e non fuoco. Tutto il giorno e la notte seguente però, la città fremeva di ritmici sbalzi tellurici.

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Accadde così che il 15 giugno era domenica ed era la festa dedi-cata alla Festività della Santissima Trinità. Assai cara al Beato e più cara ancora perché ricorreva il 19° anno della sua ordinazione a sacerdote. Tutto il giorno la terra aveva tremato in maniera più o meno forte ma alle 21,15 il terremoto fu forte e le oscillazioni in-tense con un moto orizzontale – ondulatorio. Tutti avvertirono questa scossa ed in particolare quelli che stavano ai piani alti. Si precipitarono per le piazze e negli slarghi interrogandosi e scru-tando i fianchi della montagna.

Seguirono quasi ininterrotte le scosse più o meno forti e più o me-no lunghe e queste durarono fino alle 22, 15, quando si avvertì un’altra scossa di breve durata e di lieve intensità. Fu proprio in-torno a quell’ora che dopo una sequenza di scosse leggere si av-vertì in tutta l’area una scossa accompagnata da boati e fragori immensi, che sovrastavano il cielo e che incombevano su Torre. Ma guardando la cima della montagna non era visibile nulla. Il buio era sovrano e la luna che rischiarava appena i fianchi non mostrava nulla di allarmante. Non passò molto tempo da quel bo-ato di incredibile potenza che alle 22,30 accompagnate da scosse subentranti e di forte intensità, si aprirono sul fianco est ed ovest del Vesuvio delle bocche eruttive. Il Balzano descrive cinque boc-che apertesi a ridosso di quelle che si aprirono durante l’eruzione del 19 maggio del 1737. Tali bocche erano ben allineate lungo una traiettoria che era in linea con l’abitato di Torre. Passarono alcuni minuti e si aprirono ancora altre bocche e poi ancora altre quattro dalle quali fuoriuscivano lapilli, fuoco e ceneri. Nei primi momenti del fenomeno si pensò che questo si sarebbe limitato all’area sommitale. I getti di fuoco erano altissimi e superavano la cima del vulcano. Fu questo dettagli che allarmò la popolazione avvezza alle performance del Vesuvio.

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D’un tratto tutte le bocche che si erano aperte sembravano voler vomita-re lava assieme e fu così che si inziò a formare ala base dell’Eremo del Salvatore un vero e proprio corso lavico, un fiume che sulle prime non sembrava volesse scendere verso Torre. La lava inizò a dirigersi attra-versando naturali pendenze verso la località Mauro ed al momento la storiografia racconta non avesse danneggiato alcuna opera umana. In-torno alle 23,00 la lava aveva percorso un lungo tratto e questa volta era a vista della città. I torrei, quelli più impavidi salirono in cima a vedere e controllare i flussi. Intorno a quell’ora il fiume lavico si divise in due rami. Il primo discese verso Scappi detto dei Nappari, ed il secondo nel fosso detto della Monaca e delle Novelle. Bisogna qui ricordare che le lave del Vesuvio spesso procedevano attraverso alvei naturali dove in preceden-za erano transitate altre lave in altre epoche. Nel caso specifico la lava del 1794 che discese verso Scappi attraversò lo stesso vallo che era stato quasi riempito dal passaggio del corso lavico del maggio del 1737 e del settembre del 1790. L’altro ramo transitò nel vallo precedentemen-te ricolmato dalle lave del 1790. In realtà il corso lavico si spaccò davan-ti all’alto geologico della Croce dei Monti (250 metri sul livello del mare) e dopo averlo superato lateralmente si ricongiunse nuovamente in unico corso procedendo verso i centri abitati. Il fronte lavico in questo punto raggiungeva quasi il chilometro ed a circa 2 chilometri dal Convento dei Cappuccini aveva distrutto già ben 39 moggia delle proprietà del Balza-no stesso poste in località Taurano. Il balzano stesso che ci fa da croni-sta dei fatti dell’eruzione ci dice che proprio nei pressi delle sue proprie-tà venne distrutta una cappella dedicata a San Gennaro.

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In realtà la Chiesa non venne toccata dalla lava. Il corso lavico largo circa un chilometro scendeva inesora-bilmente verso Torre e ad appena un chilometro dal Con-vento dei Cappuccini aveva già devastato i terreni di Francesco Rivieccio, del fratello Nicola e di Francesco Palomba, situati in contrada Tironi. Lo stesso Balzano che è un po’ il cronista di questa storia eruttiva, vedendo i fuochi ed i fumi che si innalzavano dalla parte alta della città ed osservando in piena notte i flussi e gli sbuffi di fuoco che non cessavano, decise di scappare. Raccolse le sue cose, abbracciò la moglie, 4 figli, 2 sorelle ed un vecchio zio di 96 anni e all’1,15 della notte lasciò Torre. I cronisti ci informano che intorno alle 2,30 della notte il fiu-me lavico si era diretto verso Resina e poi successiva-mente intorno alle 3,00 si era orientato verso Torre e mi-nacciava le abitazioni dei quartieri alti della città.

Torre del Greco era ormai preda del Vesuvio. La gen-te intorno alle 3,20 immaginava già la sorte. La lava scen-deva piano e veniva frenata lungo il suo inesorabile corso verso il mare, dagli edifici stessi che abbatteva, dalle a-sperità del suolo, dai valli. Ma come racconta il Balzano ed il Reverendo Guida , fattesi le 3,30 la gente vista la vicinanza del fuoco, raccolse i propri averi, si strinse agli affetti e inizò a dirigersi verso Napoli e Castellammare.

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Se da un verso furono tantissime le famiglie che lasciarono Torre, dall’altro furono altrettanti i coraggiosi che vollero invece restare per controllare la casa e correre in aiuto dei bisognosi. Tra questi impavidi bisogna ricordare il gesto del Balzano che do-po aver condotto la famiglia a Resina, ritornò verso la città ed alle 2 di notte, mentre infuriava l’eruzione pose in salvo le Monache Teresiane che fece ospitare presso la sagrestia del convento di S. Teresa. Ora accadde che in città erano rimaste poche persone che con-trollavano gli averi, le proprietà e cercavano di prevenire gli scia-callaggi. Tra coloro che restarono bisogna ricordare il Balzano, Don Michele Pontillo ed il Beato. Il padre Michele Pontillo visto che a monte di Santa Croce le ca-se venivano letteralmente ingoiate dal fiume di fuoco, si recò in Santa Croce e vi asportò la Pisside. Poi assieme ad altre pie per-sone (a noi anonime) si diresse in processione, tra pianti, canti e preghiere verso la Chiesa del Rosario. Alle 3,20 la Chiesa di Santa Croce cadeva abbattuta e divorata dal fuoco. Il campanile ed il suo orologio battè i rintocchi per l’ultima volta alle 3,15 e poi mai più. La lava con un fronte largo circa un chilometro aveva in-vaso la città, distrutto uno dei simboli della cristianità stessa ed ora dopo aver seppellito il campanile sotto uno strato igneo di 20 metri alto, scendeva verso il mare. Contemporaneamente il Balzano si trovava a Resina ospite dei signori principi di Riario (oggi Villa Aprile) e verso le 2,15 vide dai balconi della villa il Capotorre bruciare e la Strada Regia invasa dalla lava. Poi più tardi recatosi più oltre verso il palazzo Sorce vide intorno alle 3,15 la lava che superata la strada stava scen-dendo a mare.

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Ma ritorniamo al “viaggio” del Santissi-mo. Seguiamo ancora il racconto del Re-verendo Guida. Ora le reliquie sembrava-no al sicuro presso la Chiesa del Rosario.

Ma in realtà qui restarono poco. Qual-cuno aveva avvertito che dai Cappuccini un ramo lavico stava entrando dalla parte est di Torre. Fu così che gli arredi sacri furono trasportati al Purgatorio. Ma anche qui non stavano bene. Arrivavano voci in-sistenti della possibile entrata della lava proprio dal lato del Carmine

E fu così che tutti i paramenti vennero trasportati in processione nella cappella privata del Palazzo Spinelli. Non ancora sicuri del luogo, i torresi vollero ancora di più allontanare dal fuoco le Sacre Insegne e così si pensò nottetempo alla Chiesa di Sant’Antonio Abate. Era trascorsa quasi tutta la notte e questi spostamenti vennero seguiti da molti fede-li. Alla fine non ritenendo questa una sede sicura, all’alba trasportarono il Santissimo, la Pisside e gli arredi presso la Cappella privata del marchese Prota. Sembra poi che alla fine nemmeno qui, in questo luo-go, gli arredi stessero bene e così una parte o tutto (non sappiamo) fu trasportata a Torre Annunziata.

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DA SANTA CROCE ALLA CHIESA DEL ROSA-RIO POI AL PURGATORIO E DA QUI A VILLA SPI-NELLI INFINE A SANT’ANTONIO POI A VILLA PROTA E PER ULTIMO A TORRE ANNUNZIATA

Come un flash-back mi ritrovo tra le navate buie della antica parrocchiale di Santa Croce, la notte del 15 giugno 1794. Un gruppo di persone tra cui due in vesti talari si aggirano furtivi tra la sagrestia e la chiesa, illuminati a tratti dai bagliori di una terri-bile eruzione; nell’aria ancora gli odori acri di incensi e gelsomi-ni, cha adornavano l’altare per la solennità della SS Trinità. Una celebrazione incerta, sospesa a tratti, dal tintinnio degli arredi sacri mossi delle scosse telluriche che da giorni agitavano perso-ne ed animali in tutta la città.

Le donne implorano il prete per raccogliere quanti più arredi

possibili, questi si genuflette davanti all’altare dell’Santissimo ar-meggia davanti alla custodia sfila velocemente la pisside alza gli occhi al cielo, in quel momento un rosso bagliore fende le fine-stre della navata e illumina l’affresco del De Mura con la figura di sant’Elena nel ritrovamento della Croce.

L’altro prete sobbalza corre verso il reliquiario della croce, lo

sfila dalla pesante base e come Excalibur la impugna per dare avvio ad una fugace processione, che scende da una delle ram-pe marmoree, e si incammina…

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Sicuramente oltre alla Pisside con il Santissimo, furono a-

sportate la notte del 15 giugno 1794, della chiesa di Santa Cro-ce, illuminata dai bagliori dell’eruzione, anche altri oggetti; di questi noi non conosciamo ne un elenco ne mai è stato avviato uno studio documentato o una ricerca mirata per rintracciarli.

Il reliquiario della Croce, attualmente conservato nella Basili-

ca di Santa Croce, è uno degli oggetti che probabilmente fu por-tato via quella notte, non esistono documenti che direttamente citino questo episodio ma le nostre ricerche e le considerazioni ci portano a questa conclusione, Questa non era una tra le tante reliquie di questa straordinaria struttura, era la reliquia che dava il titolo alla parrocchiale.

La storia di questa reliquia, prende avvio nel 1687, quando

Carlo Maria Carafa, con una lettera donava “all’ Università e agli abitanti di Ercolano, per le molte dimostrazioni di affetto accolte da noi con animo grato, per l’amore e la fedeltà verso la nostra Casa e per il mantenimento nel tempo del nostro ricordo in detta terra”. La reliquia del Sacro Legno della Croce era racchiusa in una piccola urna di cristallo a forma di cuore, finemente decorata con argento dorato”.

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Raffaele Raimondo, che ci tramanda queste informazioni dal Balzano, concludendo un suo articolo scrivendo, “ occorre a que-sto punto precisare che poco più tardi di un secolo dall’eruzione del 1794, con la distruzione totale della chiesa di Santa Croce andò tutto perduto, l’attuale reliquia del legno fu donata alla nuo-va chiesa di Santa Croce nel 1798 dal cardinale Giuseppe Cape-ce Zurlo.”

Da questi documenti si evince che esistono due reliquiari del-la croce, non solo ma che si è persa memoria del reliquiario del cardinale Zurlo, se il Raimondo lo confonde con quello di Santa Croce.

Circa dieci anni fa nella sagrestia della chiesa del Carmine mi viene mostrato un reliquiario smembrato, all’interno di una scato-la di scarpe, che documento con alcune suggestive fotografie.

Rileggo gli atti della collegiata di Santa Croce che dicono: “ il 16 ottobre 1797,ricorrendo il primo anniversario del possesso canonico della Collegiata,i membri della stessa solennizzarono la ricorrenza invitando il Cardinale Zurlo nella chiesa di Santa Maria del Carmine, che fungeva da parrocchia ad interim in atte-sa della ricostruzione della chiesa di Santa Croce.

L’alto prelato giunse provenendo da Villa Spinelli dove ogni anno trascorreva in villeggiatura il mese di ottobre. Alla porta del-la chiesa consegnò al parroco Falanga – nel tripudio di folla- una piccola scaglia del legno della Santa Croce di Cristo racchiusa in un artistico reliquario. Il notaio Simone Palomba,nel verbalizzare quanto accadeva, prese nota della volontà dell’Arcivescovo Zurlo di donare la reliquia a tutto il clero di Torre Del Greco.

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Il reliquario fu quindi posto sull’altare della chiesa mentre il popolo e i membri della Collegiata intonavano il Te Deum.Terminato il canto,il Cardinale impartì la benedizione e cominciò la messa. Al termine della funzione religiosa,un canoni-co donò all’Arcivescovo a nome dell’intera Collegiata un ricco mazzetto di fiori di seta.”

Assodato che il reliquiario conservato nella chiesa del Carmi-ne viene identificato con quello del cardinale Zurlo, e lo avvalora-no i documenti e i riscontri stilistici, (e su questo avrei piacere discorrere in seguito), ritorniamo in Santa Croce dove una cap-pella in stile eclettico tra il romanico e il moresco sullo stile dell’-architetto napoletano Alvino (quello del duomo di Amalfi), trovia-mo il reliquiario della croce che tutti erroneamente identificano con quello del cardinale Zurlo.

Ci sembra impossibile che il Rev. Pontillo insieme al Beato entrando in Santa Croce non pensassero di portare via le reli-quie più importanti che la chiesa, inoltre il reliquiario è privo della sua base originale, che sicuramente era troppo ingombrante e troppo pesante per essere trasportata.

Una attenta analisi stilistica dimostra che il manufatto è data-bile intorno al XVII sec.anche se sulla lamina in argento non è presente alcun punzone orafo.

La Raggiera centrale è un evidente sovrapposizione tarda che ricorda molto nella alternanza delle pietre colorate quasi a riprodurre quelle del reliquiario Zurlo.

In sintesi, spero che questo breve escursus non sia stato for-viante, ma sono solo le tessere di un mosaico che collimano a formare un unico disegno, e solo chi conosce il mio lavoro sa che sono migliaia i puzzle ricomposti.

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Il reliquiario Zurlo è stato restaurato nel 1998 dal Rotaract Torre del Greco – Comuni Vesuviani dalla ditta Giovanni Ascione & Figli, le foto scattate qualche anno prima anno il fascino del romanticismo di altri tempi…..

Le foto dell’antico Reliquario sono sul N°2 dei quaderni della

città Questo scritto in onore del Beato Vincenzo Romano, tenace

figura di Uomo e di Prete. Ma il mio ricordo non può che ricordare anche Ciro Di Cristo

pungolo di quanti avessero in animo la conoscenza della storia.

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Una croce Ostensoria ed una Pisside sormontata dal glo-bo. Adorna di due putti ben foggiati.

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I frammenti della Croce e le decorazioni con raggi sono state recuperate.

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La grande fede che il Beato dimostrò in opere e fatti, ci è pervenuta fino ai no-stri giorni grazie alla ricca bibliografia. Molti sono i testi che ci parlano di que-st’uomo che assieme ad altri temerari non lasciò Torre durante quella calami-tà e volle affrontare i rischi mortali le-gati alla lave, ai crolli, alle esalazioni gassose. Uno dei passi interessanti della cosid-detta passione del Beato riguarda pro-prio la forsennata corsa intrapresa per salvare le Reliquie. Il nostro vuole essere un lavoro di do-cumentazione. Magari l’inizio di un per-corso di ricerca.

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Aniello Langella Ernesto Pinto

2007 ©