To know the Truth. Religion, Metaphysics, Christology. (Italian text)
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1
[Estratto da
C.L. Rossetti, La Pienezza di Cristo. Verità, comunione e adorazione. Saggio sulla cattolicità della Chiesa, Lateran University Press,
Città del Vaticano 2012, cap. I, pp. 23-63:
1.1. La verità come “modus videndi Dei”
1.2. La verità come bellezza dell’unità per la bontà
1.3. «La verità che è in Cristo Gesù»]
“Conoscenza della verità” (1Tm 2,4)
«Una filosofia, nella quale risplenda anche qualcosa della verità di Cristo, unica risposta definitiva ai
problemi dell’uomo, sarà un sostegno efficace per quell’etica vera e insieme planetaria di cui oggi
l’umanità ha bisogno»1.
«Il tentativo di restituire, in questa crisi dell'umanità, un significato globale alla nozione di
cristianesimo come religio vera, deve per così dire puntare parallelamente sull’ortoprassi e
sull’ortodossia. Il suo contenuto, oggi come un tempo, dovrà consistere, più profondamente, nella
coincidenza tra amore e ragione in quanto pilastri fondamentali propriamente detti del reale: la ragione
vera è l’amore e l’amore è la ragione vera»2.
1.1. La verità come “modus videndi Dei”
Prima di esporre in che senso la Chiesa è depositaria della verità, della rivelazione definitiva di Dio, occorre
indagare sul senso stesso della parola “verità”. Nonostante i possibili congedi da essa ipotizzabili3, la verità
rimane la questione chiave della filosofia, della religione e in genere della vita di ogni essere pensante. La
nozione biblica di verità, si sa, ha inscindibilmente un connotato insieme gnoseologico e etico. Essa è nel
contempo fedeltà (la ebraica ’emeth) e rivelazione (la greca a-letheia). Si “conosce” la verità (cf Gv 8,32s),
eppure si “fa la verità” (Gv 3,21), ovvero in essa si “cammina” (cf 3Gv 3,6s). Già solo questa indicazione
deve aiutarci per investigare quel ‘parallelo’ tra ortodossia e ortoprassi indicato dall’esergo ratzingeriano.
Praticamente tutte le culture e religioni assimilano la verità alla luce. Essa è quella condizione di possibilità
per l’intelligenza e per il muoversi; il requisito fondamentale per conoscere e per agire. Di recente, papa
Benedetto XVI ha scritto: «La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo,
quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale
della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione» (CiV 3). Teologicamente
potremmo dire anche che la verità è il “modus videndi” di Dio. In concreto, la luce della verità corrisponde
allo sguardo posto da Dio sulle cose. Questo fa sì che, finché saremo sula terra non com-prenderemo mai la
1 GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, 104. 2 J. RATZINGER, “Verità del Cristianesimo?”, in Il Regno-Documenti XLV (2000) n. 854, 195. 3 Cf G. VATTIMO, Addio alla verità, Roma 2009.
2
verità nella sua integralità: “L’intero infatti lo si può contemplare soltanto là dove è divenuto parte, e così
l’intero della verità, la verità intera può essere contemplata soltanto in quanto viene vista da Dio”4.
Conoscere la verità di una persona, di una cosa vuol dire vedere quella persona, quella cosa, così come le
vede Dio. Per esempio: per affrontare la domanda circa la “verità dell’uomo”, bisognerà chiedersi: “qual è il
progetto di Dio sull’uomo?” e, con la rivelazione biblica si potrà rispondere che la verità dell’uomo è di
diventare figlio di Dio in Cristo (cf Ef 1,3ss). Alla domanda “qual è la verità del rapporto uomo-donna?”, si
risponderà rifacendosi al disegno originario (en archê-i) del Creatore, ossia alla coppia unita da amore
indissolubile (cf Mt 19,4ss). Cos’è, in verità, un peccatore? Non è un malvagio, un odioso sciagurato, bensì
un fratello ingannato, perduto, ‘morto’ da riaccogliere e risuscitare (cf Lc 15,32)5. E così di seguito… Questa
visione corrisponde a quanto insegnato dall’enciclica succitata in cui afferma che la verità equivale al
consilium e alla vocatio emanati da Dio: «Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di
lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che
egli diventa libero (cf Gv 8,32). … Tutti gli uomini avvertono l'interiore impulso ad amare in modo
autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel
cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre povertà umane la ricerca
dell’amore e della verità e ci svela in pienezza l’iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha
preparato per noi. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad
amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cf Gv 14,6)»6.
Per un cristiano, dire che Gesù Cristo è la verità (Gv 14,6) vuol dire che egli la persona veritatis, colui nel
quale si realizza in persona il progetto divino7. La filosofia però è presa in contropiede da tale affermazione e
rischia di rimanerne estranea, come il governatore romano. Il problema è allora quello circa la possibilità di
una via filosofica alla verità di Cristo. Proponiamo di seguito una riflessione di tipo metafisico, ispirata con
libera fedeltà alla philosophia perennis8, suscettibile di indicare un possibile percorso che faccia da ponte
ragionevole tra l’inaudita pretesa del Salvatore e la ratio umana. Lo faremo additando una nuova (a nostra
conoscenza) articolazione tra i trascendentali dell’essere9. Esiste, si sa, tra essere, verità, unità e bontà una
“convertibilità”, una “pericoresi”, cioè un mutuo stare l’uno nell’altro, in totale reciprocità sì da rendere
inconcepibile l’uno senza l’altro: «ens, verum et bonum secundum rationem suam habent quod sint unum
secundum rem»10. Inoltre, le nozioni di vero, bello, uno e buono si richiamano a vicenda e sono presenti allo
4 F. ROSENSZWEIG, La stella della redenzione, [1917], cur . G. Botola, Milano 2008, 405. Già nell’Ebraismo classico si
sosteneva che «veritas est adaequatio intellectus hominis intellectui Dei» (S. CORSI, “Evento, ragione, profezia”, in V.
POSSENTI [ed.], La questione della verità, cit. 176). 5 “Quanto più in alto l’asceta cristiano sale verso la patria suprema, tanto più il suo occhio interiore s’illumina; quanto
più penetra nel suo cuore lo Spirito Santo, tanto più distintamente vede il nucleo interiore, assolutamente valido, della
creatura e più calda si accende nel suo cuore la compassione per questa figlia errante di Dio. Quando sui santi e sui loro
sommi eroismi di preghiera discendeva lo Spirito, essi risplendevano di un amore accecante e radioso verso la creatura”.
(P. A. FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità, Intr. E. Zolla, tr.it. P. Modesto, Milano 1998, 356; cf L.
ZAK, La verità come ethos. La teodicea trinitaria di P.A. Florenskij, Roma 1998). 6 CiV 1, corsivo nostro. 7 A. MILANO, Quale verità? Per una critica della ragione teologica, Bologna 1999, 138ss. 8 Cf Concilio Vaticano II, Optatam totius, 15; GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, 60. 9 Su questo tema vedi soprattutto P. GILBERT, Corso di metafisica. La pazienza dell’essere, Casale Monferrato 1997; A.
LÉONARD, Métaphysque de l’être, Paris 2006; A. MOLINARO, Metafisica. Corso sistematico, Cinisello B. (Mi) 20002; B.
MONDIN, La metafisica di san Tommaso d’Aquino e i suoi interpreti, Bologna 2002. 10 TOMMASO, De Veritate, 1,1, resp. ad ea …5. «Verità, bontà, bellezza sono a tal punto proprietà trascendenti
dell’essere che possono venir comprese solo l’una nell’altra e l’una mediante l’altra» (H.U. VON BALTHASAR, Teo-
logica I, cit. p. 222); vedi anche: La mia opera ed epilogo, Milano 1994, 89ss, 123ss. Si tratta di pensare i trascendentali
“nella loro reciproca e vitale correlazione” (G. LORIZIO, Le frontiere dell’amore, Città del Vaticano 2009, 326).
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spirito umano in modo innato11. Nessuno, sano di mente, rifiuterebbe di conoscere la verità, di desiderare il
bene e di vedere la bellezza: è poi giudicato bello e buono il conoscere la verità. La stessa legge naturale
sollecita la persona a «compiere il bene ed evitare il male, … cercare il vero, praticare il bene, contemplare la
bellezza»12. Compito impellente del filosofo è allora quello di investigare il nesso tra verità e bene; e questo
in particolare per un cristiano, giacché «la teologia morale deve far ricorso a un’etica filosofica rivolta alla
verità del bene; a un’etica, dunque, né soggettivista né utilitarista. L’etica richiesta implica e presuppone
un’antropologia filosofica e una metafisica del bene»13. In ambito teologico-morale, «solamente la libertà
che si sottomette alla verità conduce la persona umana al suo vero bene. Il bene della persona è di essere
nella verità e di fare la verità»14.
1.2. La verità come bellezza dell’unità per la bontà
Tra le possibili articolazioni dei trascendentali spicca quella che si pone nella scia di Tommaso15, per il quale
«il bello e il bene considerati nel reale sono identici perché fondati entrambi sulla medesima realtà che è la
forma. Da qui si capisce perché il buono è lodato come bello. Ma queste due nozioni sono però diverse dal
punto di vista del ragionamento (ratione). Il bene riguarda l’appetito, poiché il bene è ciò verso cui tende
tutto ciò che esiste e ha ragione di fine, perché l’appetito è una sorta di slancio verso la cosa stessa. Il bello,
da parte sua, riguarda la facoltà di conoscenza, perché si dichiara bello ciò che piace alla vista». Prolungando
questo pensiero (come farà von Balthasar), si individua nella bellezza la sintesi di verità, bontà e unità: il
«bello è il trascendentale che esprime l’armonia dei tre grandi trascendentali…l’unità della verità e della
bontà dell’essere». «Il bello è ciò che al livello dell’essere, unifica il vero e il buono superandoli e
correggendoli l’uno con l’altro». Il bello non solo dà piacere come il bene, ma ha valore in se stesso
(gratuità) come il vero. Il bello si rivolge allo spirito come totalità e sazia sia la volontà che l’intelletto: «il
bello non è mai verità statica, ma bontà dinamica o energia benefica»16.
In altra prospettiva si è però cercato di collegare i trascendentali articolandoli alla luce dell’unità e
dell’amore. Così Solov’ev, sosteneva che «il bene è l’unità di tutto o tutti, cioè è l’amore in quanto
desiderabile, cioè amabile, e quindi abbiamo qui l’amore nel senso speciale e preminente di idea delle idee: è
l’unità essenziale. La verità è il medesimo amore, cioè l’unità del tutto, ma ormai come rappresentato
oggettivamente: è l’unità ideale. Infine la bellezza è il medesimo amore (unità di tutti) ma come manifestato
o sentito: è l’unità reale»17.
Questo tipo di pensiero è forse più atto a recuperare la dimensione pratica ed etica che la Bibbia tributa alla
verità come affidabilità e fedeltà (emeth)18, al di là della valenza meramente teorica-noetica dell’aletheia
greca. La verità è luce in cui si cammina, piano divino/ideale che si contempla per aderirvi.
La nostra ipotesi vuole pensare la verità nell’indissolubile intreccio tra bellezza, unità e bontà e può
enunciarsi così: la verità si concede nello stupore di fronte alla manifestazione della bellezza dell’unità
suscitata dalla bontà, che può dirsi pure comunione.
11 «In intellectu nobis insunt etiam naturaliter quaedam conceptiones omnibus notae, ut entis, unius, boni et huiusmodi
[sc. veri], a quibus eodem modo precedit intellectus ad cognoscendum quidditatem uniuscuique rei, per quem procedit a
principiis per se notis ad cognoscendas conclusiones» (TOMMASO, Quaest. Quodlibetales, 8,4). 12 GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, 51. 13 ID. Fides et ratio, 98 14 ID. Veritatis splendor, 84. 15 Summa theologiae (= ST), I, 5,4,1; cf pure I,II, 27, 1,3. 16 LÉONARD, Métaphysque de l’être, cit. 77. 78 (nostra traduzione). Cf pure GILBERT, Corso, cit. 309ss.; MOLINARO,
Metafisica, cit. 111; D. C. SCHINDLER, Hans Urs von Balthasar and the Dramatical Structure of Truth. A Philosophical
Investigation, New York 2004, cap. 5. 17 V. SOLOVE’V, Sulla divinoumanità e altri scritti, Milano 1990, 143. 18 Vedi p.e. la voce “Verità” redatta da I. de la Lotterie in X. LÉON-DUFOUR (ed.), Vocabolario di teologia biblica,
Marietti, Torino 1965,1204-1211 e da Y. Lacoste nel suo Dizionario critico di teologia, 1456-1461.
4
Rispetto alla tradizione filosofica (scolastica) dei trascendentali il presente intento implica una triplice
dilatazione19: della verità oltre il realismo; dell’unità oltre l’indivisione e della bontà oltre la finalità. Tra gli
autori che ci aiuteranno in questo sforzo menzioniamo sin d’ora il già ricordato Solove’v, ma anche
Florenskj, Teilhard de Chardin e de Lubac e, per quanto riguarda il bene, lo Pseuo-Dionigi.
Nel primissimo articolo del De veritate20, Tommaso spiega che l’ente è in se una cosa (res) ed una unità
(unum); in rapporto agli altri è un qualcosa di determinato (aliquid) e in rapporto all’anima umana è buono
(bonum) per la volontà e vero (verum) per l’intelletto. Seguono poi tre definizioni di verità: la prima mira il
fondamento: la verità come giudizio di esistenza (Agostino); la seconda il principio formale: la correttezza
percepibile dalla mente (Anselmo), ossia adeguazione della realtà e dell’intelletto (Aristotele, Ysaac Israeli);
la terza l’effetto: la dichiarazione e dimostrazione di ciò che è (Ilario e Agostino). La classica definizione
preferita da Tommaso, veritas come adequatio, è imprescindibile e feconda. Tuttavia è innegabile che essa si
concentri quasi esclusivamente sulla verità in senso gnoseologico (in intellectu), lasciando in secondo piano
ciò che pure era considerato, ossia la verità ontologica (in re) la cui essenza sta nel pensiero divino (in
intellectu divino). Una cosa è per noi intelligibile (veritas in intellectu / praedicationis) perché è da sempre
conosciuta, ‘misurata’, pensata dall’intelligenza divina (veritas in re / in Verbo). La verità ontologica delle
cose significa il loro corrispondere o conformarsi all’intelletto divino21. Siffatta concezione corrisponde a
quanto la tradizione intendeva per presenza delle cose nella somma verità divina, cioè nel suo Verbo22. È la
grande tesi di Agostino nel De vera religione23, in cui sosteneva che la verità è la legge immutabile, legge di
tutte le arti, legge e luce suprema di ogni giudizio (cf 30,54-56); la fonte trascendente di quel principio di
proporzione che l’anima umana ha in sé in modo innato (cf 31,57-58); la vera luce per la quale si riconosce
la falsità delle immaginazioni (34,64); quel principio che nel contempo spinge ogni essere a trovare e
mantenere la propria unità e che in noi ci fa ammirare l’integrità delle cose e deplorare la loro corruzione.
Questo è la traccia in noi di «qualcosa così simile a questa unità - Principio dal quale deriva l’unità di tutto
ciò che in qualche modo è unitario - da realizzarlo completamente e identificarsi con essa: questa è la verità,
il Verbo che era in principio, il Verbo Dio presso Dio (aliquid, quod illius unius solius, a quo Principio
unum est quidquid aliquo modo unum est, ita simile sit ut hoc omnino impleat ac sit idipsum; et haec est
Veritas et Verbum in Principio, et Verbum Deus apud Deum)» (34, 66). Tale verità ha come fonte e misura
l’unico Principio assoluto, il Padre: «l’Unità originaria, senza estensione e senza mutamento, tanto in senso
finito quanto in senso infinito. Non ha infatti una parte qui ed una là, oppure una ora ed un’altra dopo, perché
sommamente uno è il Padre della Verità, Padre della sua Sapienza, la quale, in quanto gli è simile in ogni sua
parte, viene detta sua immagine e somiglianza, giacché deriva da Lui»24. Similmente, per sant’Anselmo la
verità si declina essenzialmente come rectitudo e corrispondenza con il dovere misurato alla luce dell’unica e
suprema verità: «summa veritas per se subsistens nullius rei est: sed cum aliquid secundum illam est, tunc
ejus dicitur veritas, vel rectitudo». «Una cosa si dice vera in quanto è come deve essere (res dicitur vera
19 Sull’esigenza di trascendere il solo versante veritativo, cf p.e. I. BIFFI, Grazia, ragione e contemplazione: la teologia,
le sue forme, la sua storia, Milano 2000, 17ss. 20 TOMMASO, Le questioni disputate, De veritate [= Ver. 1256/1259], Bologna 1992, 1, 1 resp. 21
Cf p.e. Ver.1, 6, resp.). «Invenitur veritas in rebus....secundum quod imitantur intellectum divinum, qui est earum
mensura» (Ver. 1, 8, resp.).
22 «Veritas proprie invenitur in intellectu humano vel divino…et in intellecto divino quidam primo et proprie… Res
aliqua principalius dicitur vera in ordine ad veritatem intellectus divini» (Tommaso, Ver. 1, 3, resp.). Altrove si dirà che
«se si considera la verità della cosa, senza dubbio la verità delle cose è maggiore nel Verbo che in se stesse» («maior est
veritas rerum in Verbo quam in se ipsis» (Ver. 4, 6, resp.).
23 De vera religione [ca 390] (PL 34; NBA ed. A. Pieretti).
24 Ib. 43,81. L’idea del Figlio-Verità perché piena e perfetta imitatio dell’unicità paterna trova nel prologo giovanneo il
suo fondamento biblico e in Ireneo una premonizione con la dottrina del Verbo come ‘mensura Patris’ (cf Adv.
Haereses, IV, 4, 2; 19, 2; cf B. BENATS, Il ritmo trinitario della verità. La teologia di Ireneo di Lione, Roma 2006, 187-
198).
5
secundum quod est ut debet esse)»25. Dopo aver citato questo testo, insieme ad una espressione della
Metafisica di Avicenna («veritas cuiusque rei est proprietas sui esse quod stabilitum est ei»), Tommaso
stesso sostiene che una cosa si dice vera nella misura in cui si adegua all’intelletto divino, in quanto cioè
adempie ciò per cui l’ha ordinata l’intelletto divino: «[Res naturalis] secundum enim adaequationem ad
intellectum divinum dicitur vera, in quantum implet hoc ad quod est ordinata per intellectum divinum»26. Si
sa che per l’Aquinate, la verità delle cose in Dio acquista un significato peculiarmente causale, in quanto
l’intelligenza divina produce e fa sussistere le cose (cf Ver. 2, 5).
In prospettiva più platonica ed esemplaristica, Bonaventura nel De scientia Christi (II, resp. ad 9) si fa eco
anch’egli di questa visione, nella esplicita scia di Dionigi (Div. Nom. V, 8) e di Agostino (Conf. I, 6, 9; Civ.
Dei, XI, 10, 3) e parla di una verità come «lux expressiva in cognitione intellectuali», la quale è criterio
prossimo e immediato di conoscenza. E nelle Collationes in Hexahëmeron, afferma esplicitamente che «res
autem vera est, secundum quod adaequatur intellectui causanti»27.
Proseguendo l’investigazione della verità come “conformazione al pensiero divino” (intellectui divino
conformatio), ma riprendendola in ottica squisitamente morale, si potrebbe ragionare analogicamente e in
modo ancor più aderente allo spirito biblico, dicendo che una cosa, una concezione, un comportamento è
intanto vero in quanto corrisponde al disegno divino su di essa. Quindi, in ambito religioso e ‘teologico
naturale’28, la Verità è lo sguardo posto da Dio sulle cose: il modus videndi Dei29. Ora, poiché Dio è amore la
realtà da lui vista corrisponde all’integrazione di ciascuno nella logica dell’amore. “Vivere ne” la verità,
oppure “fare” la verità significa considerare le cose e comportarsi con le persone così come le vede e le tratta
Dio (cf Gv 3,21; 3Gv passim). Si capisce allora perché, per i cristiani, la Verità si identifica in ultima istanza
con Gesù Cristo stesso (cf Gv 14,6): Egli è la corrispondenza piena tra il progetto divino e la sua
realizzazione creaturale; in lui – e precipuamente nel suo essere pasquale – la morphè visibile coincide con
l’eidòs divino30. In ultima istanza, la verità si identifica così con l’amore.
Un genio del pensiero del XX sec., martirizzato nel 1938, Pavel A. Florenskji sospingeva il ragionamento in
questa direzione quando sosteneva che: «la verità manifestata è amore. L’amore realizzato è bellezza (...) Il
mio stesso amore è azione di Dio in me, e mia in Dio (...). La mia vita spirituale, la mia vita nello Spirito il
mio divenire ‘simile a Dio’ è bellezza, quella della creatura originaria di cui è detto: ‘E Dio vide tutto quello
che aveva fatto, ed ecco, era molto buono’ (Gen 1,31)»31. «Dio è essere assoluto perché è atto sostanziale di
amore, atto-sostanza. Dio, o la Verità, non solo ha amore, ma anzitutto ‘è amore’, ‘ ho Theos agàpe estìn (1
Gv, 4,8), qui è l’amore che costituisce l’essenza di Dio, la sua propria natura, non è solo una sua relazione
provvidenziale. In altre parole, ‘Dio è amore’ (o, più precisamente, l’Amore’) e non soltanto ‘Uno che ama’,
sia pure perfettamente’»32. A ragione è stato detto che «Florenskij è uno dei primi ad aver intuito
l’importanza di concepire la teologia in corrispondenza con il contenuto centrale della rivelazione – il
mistero della SS.ma Trinità [...] –, ma anche con la dinamica del dispiegarsi della Verità nella storia. Una
dinamica che, come tale, richiama il contenuto della rivelazione, lo svela, lo illumina e lo testimonia, e che
25
ANSELMO, Dial. de veritate, 13, PL 158, 485C. «Quidquid vero est quod debet esse, recte est» (ib. 475D). 26
Ver. 1, 2, resp. 27 III,8, (in Opuscoli teologici /1, Roma 1994, 96). 28 Il riferimento alla teologia naturale allude al fatto che pensiamo che questa definizione potrebbe essere condivisa da
ogni credente, a prescindere dalla confessione. 29 Abbiamo rapidamente proposto questo pensiero nel nostro La civiltà dell’amore e il senso della storia. Liberazione
cristiana – fraternità – utopia, Soveria Mannelli (Cz) 2009, 31ss. 30 Vedi il ricco pensiero di H.U. VON BALTHASAR in Teo-logica I (Verità del mondo), Milano 1989, specie cap. III
(verità come mistero) e cap. IV (verità come partecipazione). 31 P. A. FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità, Intr. E. Zolla, tr. P. Modesto, Milano 1998, 116.125. 32 FLORENSKIJ, La colonna, cit. 112; Questo l’esito e il fondamento trinitario: «la Verità è la contemplazione di Sé
attraverso l’Altro nel Terzo: Padre, Figlio, Spirito. [...] Il Soggetto della Verità è la Relazione di Tre, ma relazione che è
sostanza [...] l'ousìa della Verità è l'Atto infinito di Tre nell'Unità» (ib. 249).
6
trova la sua concretizzazione escatologica in Gesù crocifisso, nella cui persona il contenuto della Verità e il
modo del Suo rivelarsi (l’evento della Sua autocomunicazione) – che consiste nel rinnegamento di sé, nel
dare la vita per gli altri – sono tutt’uno»33.
Senza necessariamente inoltrarci tanto in profondità verso una possibile sofiologia in cui filosofia e teologia
sono indisgiungibili, possiamo rimandare ad un altro pensiero sulla verità ispirato ad un altro testimone del
XX sec.: Dietrich Bonhöffer. Lo ha richiamato di recente V. Mancuso, tentando anch’egli di superare il
concetto di verità come realismo per guadagnarne una concezione superiore, che implicitamente si chiama
Amore. Egli ricorda un esempio dato dal teologo evangelico: un bambino che nega la realtà dell’alcolismo
del papà sta di fatto facendo la verità (cf Gv 3,21) dell’aderire a qualcosa di trascendente: l’onorare il
genitore. Sicché, la verità «è una grandezza che si fa, non una dottrina che si professa», essa è “bene e
giustizia”; non tanto esattezza quanto “misura, giustizia, bene, bellezza, decoro”, “l’intero delle relazioni”34.
Se la verità coincide con l’amore e col bene, essa non potrà essere oggetto della mera ragione strumentale del
positivismo, quanto piuttosto proposta rivolta ad una “ragione dilatata”, aperta alla trascendenza e agli
apporti delle grandi tradizioni religiose. È questo il ripetuto auspicio di Benedetto XVI: «Ho sottolineato più
volte la necessità e l’impegno di un allargamento degli orizzonti della ragione, ed in questa prospettiva
bisogna tornare a comprendere anche l’intima connessione che lega la ricerca della bellezza con la ricerca
della verità e della bontà. Una ragione che volesse spogliarsi della bellezza risulterebbe dimezzata, come
anche una bellezza priva di ragione si ridurrebbe ad una maschera vuota ed illusoria…Dobbiamo mirare ad
una ragione molto ampliata, nella quale cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano»35.
Recuperare questa dimensione etica ed estetica della verità ci pare indispensabile non solo per rendere
giustizia del dato biblico, ma anche per accogliere l’urgente sfida lanciata da un mondo che, di fatto, (al di là
del suo chiassoso scientismo), costringe il pensiero ad essere sempre più aderente alla totalità dell’esperienza
umana, oltre ogni forma di intellettualismo o razionalismo riduttore.
Resta da evidenziare che questa nozione teologica di verità trova un possibile riscontro ragionevole, ossia
filosofico. Il pensare la verità come amore può essere accolto non solo dalla ragione illuminata dalla fede, ma
anche dalla ratio philosophica come tale, allorquando questa riconosce l’articolazione tra i dati a lei
immanenti di bellezza, unità e bontà. La ragione può ravvisare la verità dell’amore se si apre con meraviglia
alla percezione della bellezza dell’unità suscitata dalla bontà.
La verità non è quindi riducibile all’affermazione di realtà oggettiva (questo è realismo, esattezza o
oggettività delle cose); nel senso profondo, morale ed esistenziale, la verità, è la scoperta di ciò che colma di
gioia e soddisfazione la ragione ampliata o intelligenza senziente36: la percezione della significatività
dell’amore, della bellezza della comunione. Al di là della definizione della verità come esattezza oggettiva,
essa traluce come fonte di senso.
a) L’unità: da mera individualità a unione vivente
Bisogna ora approfondire il tipo di unità la cui bellezza può risultare mirabile agli occhi della ragione.
Rispetto alla metafisica classica, occorre dilatare altresì la nozione di unità. Dire che l’essere è uno significa
additare il principio dell’individualità, il suo essere indiviso, ipostatico. Uno è sinonimo di unico, singolo,
33 L. ŽAK, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P.A. Florenskij, Roma 1998, 475. 34 V. MANCUSO, La vita autentica, Milano 2009, 117-119. 35
BENEDETTO XVI, Messaggio del santo padre al presidente del pontificio consiglio della cultura in occasione della
XIII seduta pubblica delle pontificie accademie, 25.11.2008 (in Osservatore romano, 26.11.2008). Simile intento fu
espresso qualche mese prima, nell’importante Discorso al clero di Bressanone il 6.08.2008 che invocava una ragione
‘aperta anche al bello’, ‘una ragione molto più ampia, nella quale cuore e ragione si incontrano’ (cf G. LORIZIO, Le
frontiere dell’amore, cit. 312ss). 36 Usiamo volutamente la dicitura coniata da X. Zubiri, (cf Intelligenza senziente, Milano 2008), che ci pare proporre
una profonda riflessione che va proprio nel senso di una dilatazione della ragione.
7
irriducibile all’altro; ma questa nozione di unità – di concretezza inalienabile – non è affatto il tutto
dell’unità. È solo il punto d’avvio obbligato: si comincia dall’ipostasi ma si deve finire con la koinonia.
Dall’uno di unicità si deve procedere verso l’uno di unione.
A ragione è stato notato37 che s. Tommaso, pur privilegiando di molto la nozione (negativa) di indivisione
insita nel concetto di unità, tanto da scrivere “unum non importat rationem perfectionis, sed indivisionis
tantum” (ST I, 6, 3 ad 1), non disdegna, altrove, di rinvenire sulla scorta neoplatonica, mediata anche da
Boezio, (cf Consol. 3,11), che il bene contiene la ratio unitatis. Così, in ST I, 103, 3: a proposito del governo
del mondo, l’Aquinate sostiene che “unitas pertinet ad rationem bonitatis”; ogni cosa desidera la bontà e
l’unità e ripugna al disfacimento e alla corruzione (“res repugnant suae divisionis quantum possunt”). Si
esiste intanto in quanto si è uno (“unumquodque in tantum est, inquantum unum est”). Si ha qui una veduta
positiva sull’unità, di tipo: ratio unitatis come ratio integritatis. Sul piano cosmico e provvidenziale,
Tommaso afferma che, lo scopo del governo, è l’unità e la pace dei vari elementi (“id ad quod tendit intentio
multitudinis gubernantis est unitas et pax”). E così ci si volge addirittura verso un’ulteriore positività della
ratio unitatis, che potremmo dire la “ratio unificationis”. Una realtà è in tanto una in quanto capace di
inserirsi armoniosamente nell’unità del tutto. Un simile pensiero si riscontra, seppur in tutt’altro contesto, in
ST I,II, 36,3, dove l’Angelico medita sulle cause del dolore e si chiede se il desiderio di unità possa esserne
una. La risposta è affermativa: il dolore essendo sensazione di divisione o corruzione (cf Agostino, Libero
arbitrio, 23) contraddice alla bontà e perfezione dell’essere cui ogni cosa anela: «il bene di qualsiasi realtà
consiste in una certa unità, visto che ogni realtà contiene in sé uniti gli elementi che ne determinano la
perfezione (bonum uniuscuisque rei in quidam unitate consistit, prout unaquaque res habet in se unita illa ex
quibus consistit eius perfectio)». Tommaso fa quindi esplicito riferimento ai Platonici che pongono l’uno e il
bene come principi. Logica quindi l’ipotesi che esista una duplice unità trascendentale: la prima inerente
all’ente in modo passivo: il suo essere uno, unico, indiviso, singolare; la seconda unità positiva, attiva: il suo
essere soggetto di unione, capacità di integrazione. In breve una ratio indivisionis e una ratio unionis. L’uno
di unione significa la costitutiva destinazione comunionale del singolo. Il soggetto, qualsiasi esso sia, non è
mai isolato: il singolo è parte, membro. La lettera esiste in vista della parola; e questa per la frase capace di
entrare in un contesto coerente e produttore di senso. L’uno è integrabile nell’organismo vivente di unità
superiore. L’uno è allora in tanto uno in quanto è ‘unificabile’ o ancor meglio ‘unificantesi’ con gli altri. Si
tratta qui del principio comunionale o “pericoretico” che inabita dall’interno ogni ente, ma soprattutto gli
esseri spirituali. Sorge così il paradosso sublime, che quanto più un soggetto è individuale, distinto, diremmo
‘ipostaticamente forte’, tanto più esso cerca e trova la comunione con gli altri. Le individualità più ricche,
singolari e personali sono proprio quelle capaci di irradiare, di suscitare comunione intorno a sé. Questa
dimensione di ‘pericoresi’ dell’uno oltre l’indivisione mi pare sia stata percepita da autori diversi, ma
fondamentalmente convergenti. Potremmo citare dal punto di vista ecclesiologico J.A. Möhler che concepiva
l’unità come uni-totalità e coalescenza di diversità: «il mistero di ogni vera vita consiste nella capacità di
unire gli opposti»38. Dal punto di vista filosofico, andrebbe ricordato qui tutto il personalismo francese da
Mounier a Nédoncelle. H. de Lubac ha stupendamente espresso la pregnanza dell’unità di unione in un testo
molto teilhardiano in cui rifletteva sui «rapporti della distinzione e dell’unità, in vista di cogliere l’armonia
del personale e dell’universale. Il “paradosso” dogmatico ci obbliga a notare il “paradosso” naturale del
quale esso costituisce l’espressione superiore e rafforzata, cioè, che la distinzione si rafforza tanto più tra le
varie parti dell’essere, che l’unione di queste parti diventa più stretta. Le parti concorrono tanto più all’unità
37
Cf F. ULRICH, Homo abyssus. Das Wagnis der Seinsfrage, Einsiedeln 1967, 253s. Sulle radici cristiane e trinitarie di
questo pensiero, cf G. VENTIMIGLIA, Se Dio sia uno. Essere Trinità, inconscio, pref. P. Coda, Firenze 2002. 38 J.A. MÖHLER, L’unità nella Chiesa, cioè il principio del cattolicesimo nello spirito dei Padri della Chiesa dei primi
tre secoli, Roma 1969 (cur. G. Corti), 194. Senza menzionare qui tutta la riflessione orientale sulla ‘comunionalità’
(sobornost), è doveroso il rimando, per la teologia contemporanea, almeno a J. ZIZIOULAS, L’être ecclésial, Genève
1981, specie pp. 93ss. Sull’identificazione tra verità e comunione, pp. 100ss.
8
che esse sono non tanto dei “pezzi”, quanto dei “membri”»39. Paradosso costatato sia dall’esperienza che
dalla fede: «un vivente s’innalza nella gerarchia degli esseri, acquisisce più unità interna, nella misura in cui
in esso si opera una differenziazione più profonda delle funzioni degli organi. L’essere indifferenziato, il
puro omogeneo è quanto vi è di meno uno: è una polvere anonima… Al contrario, lì dove le cellule si
complicano, l’organismo ci concentra, in modo che la più grande individualità delle parti è a beneficio
dell’unità del tutto…Similmente, l’amore mutuo di due esseri non li porta forse a compimento l’uno e l’altro,
non suscita forse in ognuno di loro dei valori più alti e più irriducibili, ossia più pienamente e più
strettamente personali nella misura stessa in cui esso è più veramente unificante perché più carico di
spiritualità?». È questa soprattutto la lezione del dogma di fede della Trinità: «La realizzazione
(épanouissement) suprema della Personalità ci pare così, nell’Essere del quale ogni essere è un riflesso –
immagine, ombra o vestigio – come il frutto ed in pari tempo la consacrazione della suprema Unità».
«L’unità non è affatto confusione, così come la distinzione non è separazione…La vera unione non tende a
dissolvere gli uni negli altri gli esseri che essa raduna, ma a portarli a compimento gli uni mediante gli altri».
«Il Tutto non è dunque “l’antipode, ma il polo stesso della persona”»40. Distinguere per unire, ma anche
«unire per distinguere»: «per salvare i valori personali, non c’è da temere i valori unitari, come se ciò che si
concede a questi fosse tanto di perso per quelli. “Tutto è uno, l’uno è nell’altro, come le Tre Persone”. Non
meno che sottomettendosi a Dio o unendosi a Dio, l’uomo, integrandosi al grande Corpo spirituale del quale
deve essere membro, non si perde né si dissolve…L’unione differenzia. La solidarietà solidifica»41.
Merita qui ricordare in Teilhard de Chardin stesso la ‘Metafisica dell’unione’. Un tema che pur penetrando
tutta la sua opera veniva tematizzato soprattutto nel suo testo “Come io vedo” del 194842. Ispirandosi
apertamente al dogma trinitario, egli associava indissolubilmente all’essere l’unione. In Dio stesso, tale quale
lo rivela il cristianesimo essere e unione coincidono: «Dio stesso, in un senso rigorosamente vero, non esiste
che nell’unirsi» e «in un altro senso, egli non si compie che nell’unire». La creazione è presentata come un
riflesso dell’atto di riflessione intradivina che suscita la distinzione e unione delle persone divine. Di fronte
al ‘Nulla creabile’, «tutto accade come se Dio non avesse potuto resistere». La creazione è quindi «frutto, in
qualche modo, di una Riflessione di Dio non più in sé, ma fuori di Sé, la Pleromizzazione (come avrebbe
detto san Paolo) vale a dire la realizzazione dell’essere partecipato per arrangiamento e
totalizzazione…Creare significa unire»43. Ora, se è vero che la Creazione è un’azione continua, avremo a che
fare con una unificazione progressiva verso realtà sempre più complesse, integrate ed elevate. Per Teilhard,
che cercava il divino non in rottura con il Mondo fisico, ma attraverso la Materia, l’Unione creatrice sta in
questo: «tutto avviene come se l’Uno si formasse mediante unificazioni successive del Molteplice – e come
se esso fosse quindi più perfetto quanto più perfettamente centralizzasse un Molteplice più vasto. Per gli
elementi raggruppati dall’anima in un corpo (ed elevati perciò stesso a un grado superiore di essere) “plus
esse est plus cum pluribus uniri”. Per l’anima stessa, principio di unità, “plus esse est plus plura unire”. Per
entrambi, ricevere o comunicare l’unione è subire l’influenza creatrice di Dio, “qui creat uniendo”»44. L’
amore assurge a fonte di unità, la quale consiste nella «coesione più o meno cosciente delle anime, generata
dalla loro comune convergenza in Christo Jesu». Tensione di comunione «il mio ego, per potersi comunicare
deve sussistere nell’abbandono che fa di sé: altrimenti il dono svanisce. Donde la conclusione inevitabile che
la concentrazione di un universo cosciente sarebbe impensabile se, assieme a tutto il cosciente, non riunisse
in sé tutte le coscienze»… «Ciascuna coscienza deve rimanere cosciente di sé al termine dell’operazione,
anzi (bisogna capirlo bene) deve divenire tanto più se stessa, e quindi tanto più distinta dalle altre, quanto
39 Catholicisme, Paris 19474, 285s. 40 Ib., 287 (con rimando a Teilhard de Chardin, in Etudes, ott. 1917, 153ss). 41 Ib., 288 (con rimando a Pascal, Pensieri, Fr. 483; 474). 42 Tr. it. in Le direzioni del futuro, Torino 1996, 239-243. 43 Le direzioni del futuro, cit. 243. 44 In Science et Christ [1924], 72; vedi pure La vita cosmica (include “La lotta contro la moltitudine” [1917]: unione
mediante la rinuncia a sé e L’ambiente divino, Brescia 1994, 111-114.
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maggiormente si avvicina alle altre in Omega»45. «L’essere tende all’essere…, tende anche all’unità e ciò in
modo duplice: tende ad unificarsi (s’unifier), ad affermare la propria individualità, ad essere se stesso al
massimo; tende ad unirsi (s’unir) agli altri, ad integrarsi nell’unità del Tutto»46.
Pensiamo che analoghe considerazioni fossero già rintracciabili in Vladimir Solove’v, soprattutto nel suo
succitato capolavoro sulla Divinoumanità: il mondo creato dal Dio vivente porta la traccia della sua unità
irriducibile alla monadicità: «l’assoluto per il suo concetto stesso non può essere qualcosa di esclusivistico,
cioè di limitato, non può essere soltanto unico o soltanto molti…». Ogni ente «si trova in interazione e
interpenetrazione con gli altri quali elementi inseparabili di un unico tutto, visto che anche la qualità propria
o carattere di ciascun ente nella sua soggettività consiste appunto in un suo determinato rapporto con il tutto
e quindi in una sua determinata interazione con il tutto»47. Siffatta concezione dell’unità organica e vivente
rende conto del rapporto tra individualità e universalità: «l’universalità di un ente è in rapporto alla sua
individualità: esso è tanto più individuale quanto più è universale e perciò l’ente assolutamente universale è
l’ente assolutamente individuale». Il pensatore russo scorgeva pure due tipi di unità: quella ‘producente’ e
quella ‘prodotta’: «in ogni organismo ci sono due unità: l’unità del principio attivo che conduce a sé, in
quanto uno, la molteplicità degli elementi, e questa molteplicità ridotta all’unità in quanto immagine
determinata di questo principio. Abbiamo un’unità producente e un’unità prodotta, ossia un’unità come
principio (in sé) e un’unità nel fenomeno»48. In questa linea di pensiero, ma con ulteriore accentuazione della
dimensione specificamente trinitaria, si muove ancora Florenskij quando sostiene che in Dio, «invece di un
A = "A" vuoto, morto e formalmente auto-identico, per cui A dovrebbe essere se stesso, in quanto si afferma,
egoisticamente, escludendo ogni non-A, abbiamo un A pieno di contenuto e di vita, un’auto-identità reale
che eternamente rigetta se stessa e in questo auto-rigettarsi eternamente trova se stessa»49. Questa prospettiva
non può non richiamare alla memoria la visione bonaventuriana per cui «l’unità più perfetta è quella in cui
permane sia l’unità di natura che l’unità di carità. Ma la ‘carità tende all’altro’ [Gregorio M.], per cui include
in sé la distinzione tra l’amante e l’amato. Quindi se l’unità divina è perfettissima, è necessario che abbia una
pluralità intrinseca, perché fuori di essa non vi è nulla che sia sommamente amabile (si divina unitas est
perfectissima necesse est quod habeat pluralitatem intrinsecam)»50.
Più vicino a noi, in ambito della cosiddetta ‘ontologia trinitaria’, Klaus Hemmerle ha scritto che «una cosa,
un soggetto, un ente, può essere compreso e giungere a compimento soltanto nel suo atto. Quest’atto è
costituzione, comunicazione, delimitazione e inserimento in una correlazione che tutto abbraccia». Alla
radice di siffatta individuazione dell’unità del reale come tensione verso l’unificazione c’è la fede in “ciò che
fonda l’unità”, ossia l’essere sospeso del tutto alla venuta di Dio che «si dona come l’Uno e Unico che tutto
unifica»51. Se questa concezione di unità come intrinseca apertura all’unione ha una portata ontologica, essa
non è priva di risvolti storici e sociali: si addita cioè «l’umanità; lo spirito della terra; la sintesi degli
individui e dei popoli; la conciliazione paradossale dell’elemento e del Tutto, dell’unità e della moltitudine:
affinché queste cose, ritenute utopistiche, pur essendo biologicamente necessarie, prendano corpo nel
mondo, non è forse sufficiente immaginare che il nostro potere di amare riesca a svilupparsi sino ad
abbracciare la totalità degli uomini e della terra?»52. «La piena umanizzazione dell’uomo significa la piena
realizzazione della sua natura e come questa non realizza in ognuno che una piccola parte delle sue virtualità,
la piena realizzazione umana ha per condizione l’unificazione dell’umanità…L’umanità compiuta,
pienamente umana è una comunione di persone in una reciprocità di accoglienza e di dono. E la
45 Il fenomeno umano, [1938-1940], Milano 1968, 351s. 46 J. DE FINANCE, Connaissance de l’être, Paris-Bruges 1966, 123 47 SOLOVE’V, Sulla divinoumanità, cit. 107. 48 Ib. 146. 49 FLORENSKIJ, La colonna, cit. 247. 50 BONAVENTURA, Trin. II, 2, s.c. 9. 51 K. HEMMERLE, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero cristiano, Roma 1996, 53. 92. 52 TEILHARD DE CHARDIN, Il fenomeno umano, cit. 358.
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trasformazione del mondo mediante la tecnica, l’economia e la politica non ha senso che in vista della
realizzazione o per lo meno dell’approssimarsi a questo ideale»53.
In sintesi, occorre dilatare l’orizzonte della riflessione circa l’unità oltre la ratio indivisionis: si dà unità viva,
organica, lì dove la monadicità materiale è trascesa dall’integrazione come unione libera e armonica dei
distinti. Resta da vedere quale è il movente che stimola questo processo.
b) La bontà: fine desiderato, ma anche comunicazione d’amore
Anche per quanto concerne il bene occorrerà ampliare lo sguardo oltre la mera ratio finis cui il tomismo
assegna la peculiare specificazione54. Il bene non solo come oggetto del desiderio perché fine, ma anche e
soprattutto come principio attivo di esistenza, di unione e di perfezione. Come e ancor più che all’unità, alla
bontà andrà quindi riconosciuta una dimensione attiva, positiva: unità che singolarizza per radunare in modo
superiore; bontà che si dona, crea e unisce55. Ad integrare gli spunti perenni della scolastica gioverà la
ripresa degli acquisti neo-platonici e dionisiani.
S. Agostino, in contesto antimanicheo, ha offerto una perla metafisica nel suo De natura boni (ca 405)56.
Nella prima parte dello scritto, egli tratteggia una filosofia e teologia del bene (nn. 1-23). Ad essa seguono
l’esposizione dell’insegnamento scritturistico e la stigmatizzazione degli errori dei Manichei. Centrale è il
capitolo 3 in cui, ispirandosi a Sap 11,21 si delinea una caratterizzazione metafisica del bene come ciò che
infonde misura, forma, ordine (modus, species, ordo). Il bene è ciò che garantisce equilibrio,
bellezza/armonia, ordine, e quindi unità e pace. Tommaso riprenderà fedelmente questo insegnamento57; ma
l’accento cade soprattutto – in modo aristotelico – sulla dimensione ontologica (il bene come atto, esistenza)
e finalisitica (il bene come scopo e perfezione). Bonum dice la proprietà insita nell’ente che lo rende
appetibile (ib. a.1) ed in particolare desiderabile quando è assente e fruibile quando lo si possiede (Ver. a.2).
Gli articoli 4 e 5 sono di indirizzo più ‘platonico’ nel ribadire che ogni bene dipende e partecipa dalla bontà
prima ed assoluta di Dio. Stranamente però l’Aquinate, che pure si rifà ad Agostino, Boezio e al Liber de
Causis, non ricorre in modo significativo a colui che può essere considerato il pensatore cristiano
kat’exochên del bene: lo Pseudo-Dionigi Areopagita58.
Crediamo opportuno soffermarci alquanto su questo autore che congiunge l’insegnamento greco con quello
cristiano. Già Platone aveva pensato il Bene in sé, il Bene assoluto come Sole, fonte di vita, di luce: ciò che
rende conto di tutto, pur essendo superiore a tutto59. Anche per Dionigi, il bene è principio e fine di tutto:
Principio (Archê) in quanto aitia, causa, diffusivo di vita, di essere, di esistenza, di unità; Fine (Télos/Péras)
in quanto ad esso tendono tutte le cose, come a loro fine e ragione ultima della loro esistenza, del loro essere,
della loro vita e della loro unità. La radice stessa della bontà non è altro che la divinità: “bontà è l’esistenza
divina” (theachichê hypárxis agathotês) (IV, 1). Riprendendo la metafora del sole, Dionigi sostiene che il
53 DE FINANCE, Connaissance de l’être, cit. 494. 54 Cf TOMMASO, De ver. 21, a.1. 55 Sul bene/bontà vedi P. GILBERT, Corso, cit. 234ss.; cf pure E. BERTI, Il bene, Brescia 1983; C. VIGNA, «Bene e male.
Una riconsiderazione», in ID. (ed.), La libertà del bene, Milano 1998, pp. 55-80 e «La determinazione del bene e la
nostra fragilità. Appunti su tradizione classica vs post-modernità», in ID., Etiche e politiche della post-modernità,
Milano 2003, pp. 27-41. Vedi pure V. MANCUSO, Per amore. Rifondazione della fede, Milano 2005, 124-179 e il cahier
di Communio (ed. fr.) 33 (2008) intitolato La Bonté. 56 Cf ed. in Nuova Biblioteca Agostiniana xiii/1; (PL 42; 48). 57 Cf De veritate, q. 21, a. 6; ST I, 5, 5. 58 DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere, tr. P. Scazzoso, intr. e note E. Bellini, Milano 1997. Testo originale edito da
B.R. SUCHLA, Berlin-New-York, 2 voll. 1990-1991] Citiamo – con rimandi nel testo – avvalendoci generalmente della
traduzione di Scazzoso, che ritocchiamo talvolta alla luce del testo edito dalla Suchla. 59 Cf Rep. VI, 507D. Cf H. KRÄMER, Dialettica e definizione del Bene in Platone, Interpretazione e commentario
storico-filososfico di Rep. VII 534B3-D2, Intr. G. Reale, Milano 1989. Sulla dimensione unificante del bene e del
divino, cf Rep. 462A-B, Leg. IV, 716C e Tim. 68D.
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Bene è causa e fonte universale (angeli, uomini, animali…), e, insieme immanente e trascendente, «sta al di
sopra (hypèr) di tutti gli esseri», e pur essendo senza forma, dà forma a tutte le cose (aneídeon eidopoieî)
(IV,3). Nel mondo fisico, «la Luce deriva dal Bene ed è immagine della bontà» (IV,4); come il bene, essa
penetra in tutto, ma rimane oltre tutto: «illumina, produce, vivifica, contiene e perfeziona tutte le cose atte a
riceverla; ed è la misura, la durata, il numero, l’ordine, la custodia, la causa e la fine degli esseri» (IV,4,
697C-D).
Soffermiamoci sulla bella ‘fenomenlogia della bontà’ proposta da Dionigi: “la Bontà converte a sé ogni cosa
ed è la principale radunatrice (archisynagôgos) delle cose disperse, come Divinità principale ed unificatrice e
tutte le cose tendono a lei in quanto principio sostegno e fine (archê, synochê, télos)” (700B). La Bontà è
Causa perfetta (aitía pántelos) dalla quale provengono le cose (ex ou), ma anche principio di sussistenza e di
conversione. Come il sole che “riunisce tutte le cose e raccoglie le cose disperse” (700C). Il Bene è «raggio
sorgivo ed effusione di luce che illumina con la sua pienezza ogni intelligenza» (IV, 6, 701B); esso «illumina
gli esseri intellettuali e razionali e li raduna». Infatti come l’ignoranza è pronta a dividere coloro che sono
nell’errore, così la presenza (parousía) della Luce intellettuale è adunatrice e unificatrice (synagôgòs kaì
henôtikê) degli esseri illuminati e li rende perfetti e li converte verso ciò che esiste in verità, distogliendoli da
molte incerte opinioni e riconducendo i vari aspetti, o per meglio dire, le varie immaginazioni verso una sola
scienza vera, pura ed uniforme e riempiendoli della sua luce unica e unificatrice (henòs k. henôtikoû)»
(701B). Proprietà del bene è di unire i diversi ponendoli in armonia. Da qui l’identificazione, tipica della
grecità, ma anche della mentalità biblica, tra agathón e kalón. Dio è Bello in quanto «causa dell’armonia e
dello splendore di tutte le cose (euarmostia k. aglaia)» (IV, 7). Seguendo l’intuizione di Platone su Dio come
Bello in sé (cf Conv. 211 a-b), Dionigi rileva che il Bello suscita «gli accordi, le amicizie, le comunicazioni
di tutte le cose e nel Bello tutte le cose stanno unite (epharmogaì k. philíai k. koinôníai k. tô-i kalô-i tà pánta
hênôtai)» (704A). Il Bello e Buono (kalon kaì agathon) è causa efficiente e finale di tutto: “causa,
conservatore e termine” (aition, synochê, peras). «Tutto ciò che è viene da ciò che è Bello e Buono e dimora
in ciò che è Bello e Buono e si rivolge verso ciò che è Bello e buono (ek, en, eis)» (IV, 10, 705D). La divinità
come Bello-Buono è amabile, desiderabile e per lui «le cose inferiori amano le cose superiori rivolgendosi ad
esse (epistreptikôs), le cose uguali amano le cose uguali per comunione (koinônikôs), e quelle superiori
[amano] le inferiori provvedendo per loro (pronoêtikôs), e ciascuna ama se stessa nella sua sussistenza
(synektikôs)» (708A-B). «La stessa causa di tutte le cose per la sovrabbondanza della bontà ama (era-i) tutte
le cose, le crea (poiei) tutte, tutte le perfeziona (teleioi), le contiene tutte (synechei), le converte a sé tutte
(epsitrephei)». L’amore divino è buono sotto ogni riguardo, procede dalla bontà, mira alla bontà e al bene
(708B)60. «Questo Amore (erôs) benefattore (agathoergòs) di tutte le cose che sono, preesistendo
sovrabbondantemente nel Bene (en t’agathô-i kath’hyperbolên proyparchôn) non ha permesso che Dio
rimanesse sterile (ágonon) in se stesso; e lo ha spinto ad operare secondo una sovrabbondanza generatrice
(ghenêtikên) di tutte le cose» (ib.)61.
È sintomatico che il discorso dionisiano si evolva naturalmente dal bene al bello all’amore in cui
coinfluiscono eros e agape (DN IV, 12). Il vero eros è solo quello divino; allorché il senso volgare non ne è
che una deformazione: «al volgo rimane incomprensibile il senso dell’unità dell’amore divino e uno»
(709C). L’amore di Eros-Agape è «potenza unitiva congiungitrice e comprensiva (dynamis henopoios k.
syndetikê k. synkratikê) in modo eccellente, che preesiste nel bello e buono per il fatto che è bello e buono, e
che dona il bello e il buono perché è bello e buono, e contiene gli esseri coordinati per una comune e
reciproca connessione (koinônikê) che muove gli esseri superiori a prendere cura (pronoia) di quelli inferiori,
e che lega le cose inferiori a quelle superiori mediante una conversione (epistrophê)» (709D). Da qui una
60 Kaì esti kaì ho theios érôs agathòs agathoû dià tò agathón: «l’amore divino è buono, a causa del bene e verso il
Buono» [Scazzoso]; oppure «l’amore divino è buono di (vera) bontà e per (ogni) bontà». 61 Cf II, 5, 644B; XI, 6, 956 A-B. Su questo ardito pensiero, vale la pena rimandare a IRENEO, Adv. Haereses, III, 22,3
in cui si parla della pre-esistenza del Salvatore (prohyparchontos tou sôteros).
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possibile definizione dell’amore come «forza unitiva e connettiva (henôtikên kai synkratikên dýnamin) che
muove le cose superiori a prendersi cura di quelle inferiori, quelle uguali ad un comune rapporto reciproco e
quelle superiori, situate all’ultimo posto a rivolgersi verso quelle migliori e poste in alto» (IV, 15, 713B).
Intrinseca proprietà dell’amore è il carattere insieme estatico e geloso: «l’amore divino è anche estatico
(ekstatikos), in quanto non permette che gli amanti appartengano a se stessi, ma a quelli che essi amano. E
dimostrano che le cose superiori sono fatte per provvedere a quelle inferiori e le uguali per contenersi a
vicenda e quelle inferiori per una conversione più divina verso le superiori…[Dopo la citazione di Gal 2,20].
Io oso dire, per la verità, anche che l’Autore di tutte le cose, per l’amore buono e bello di tutte le sue opere,
nell’eccesso della sua bontà amorosa va fuori di sé (exô heautou ghinetai), per provvedere (pronoiais) a tutti
gli esseri ed è per così dire allettato dalla bontà, dalla carità e dall’amore (agathotêti k. agapêsei k. érôti), e
da un luogo appartato che sta sopra tutto ed è staccato da tutto si lascia condurre verso ciò che è in tutti, per
questa potenza estatica soprasostanziale che non può scindersi da lui (ekstatikên hyperousion dynamin
anekphoitêton heautou)» (DN IV, 13, 712A-B).
Il mistero della vita divina consiste nell’essere abitato da un amore che non è soltanto semplice benevolenza
o provvidenza. L’eros-agape divino racchiude ogni forma di amore (cf IV, 17). Dio crea per elevare; trae dal
nulla per comunicarsi. Pur essendo il Dio “personalmente” impartecipabile o incomunicabile – in forza della
sua irriducibile identità ipostatica62 – egli non si trattiene dal partecipare la sua pienezza a ciò che senza di lui
non esisterebbe. L’amore, come forza unitiva è qualcosa di inscindibile dalla Tearchia. Potremmo quasi dire
che esso ne costituisce l’intima essenza. L’essenza divina, comune al Padre, al Figlio e allo Spirito, è la
bontà assoluta che, in quanto “diffusività”, è qui designata come Eros-Agape estatico. La sovrabbondante
pienezza divina sta quindi nell’essere il luogo (monê / exêrêmenon) di perfetta e totale pro-esistenza o se
vogliamo “esistenza nell’altro”. Sono deduzioni che possiamo legittimamente trarre da questo discorso che –
notiamolo – non vuole trattare della vita trinitaria, bensì del procedere ad extra.
Dio è «potenza che insieme muove e attira le cose (kinetikê hama k. hôs anagagôs dynamis) verso di sé, che
solo è da sé e per sé Bello e Buono». Nel contempo Amore-Carità, attivo Eros-Agape in quanto scaturigine
dell’essere e del movimento e Amabile-Diletto (erastòn-agapêtón) in senso passivo per la sua attraente
Bellezza-Bontà. «L’amoroso movimento (erôtikên kinêsin) che si muove e opera da sé preesiste nel Bene ed
emana dal Bene verso gli esseri e di nuovo ritorna al Bene». «L’amore divino dimostra eccellentemente di
non avere né fine né principio, come in un circolo eterno (aidios kyklos) che gira in tondo, a causa del Bene
(dià), dal Bene (ek), nel Bene (en) e verso il Bene (eis), con un orbita impeccabile, nello stesso stato e nella
stessa forma, e sempre procede, permane e ritorna» (DN IV, 14, 712C-713A).
Il Dio di Dionigi non è né il Demiurgo benevolmente ed intelligentemente organizzatore del Timeo
platonico, né il Pensiero di se stesso aristotelico, amato-desiderato (eroumenon) dal cosmo intero e neppure
l’Uno plotiniano, che nella sua pienezza e semplicità monadica non può non essere contemplato dal Nous che
da esso promana. Il Dio dell’Areopagita è il Dio cristiano, il Dio della creazione, libera ma estremamente
conveniente; il Dio che in se stesso è circolo di amore estatico inter-personale; assoluta pro-esistenza e, per
dirla con una nozione cara all’Oriente, perfetta pericoresi63. Senza la teologia trinitaria soggiacente, Dionigi
non avrebbe mai potuto conciliare trascendenza e immanenza, unione e distinzione, amore e carità; e questo
tanto in Dio quanto nella sua creazione. Con Dionigi penetriamo nell’intimo segreto dell’essere: l’essere
proviene dalla bontà, la quale è animata dal movimento di amore che suscita la vita, la fa crescere, la
raccoglie in unità e la conduce a sé.
In analogia con questo tipo di pensiero ritroviamo Florenskij. A fondamento della uni-totalità viva e
organica, irriducibile all’unità numerica, astratta perché monadica e statica, sta lo spirito, e più precisamente
l’amore come interscambio, unione dei diversi nella reciprocità totale. È questa pericoresi dell’amore che il
62 Cf DN II, 5, 644B; XI, 6, 956A-B 63 Ritorneremo in seguito su questo decisivo concetto teologico, già affiorato nel testo, ci permettiamo rimandare al
nostro «La pericoresi: una chiave della teologia cattolica», in Lateranum 72/3 (2006) 553-575.
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pensatore russo esprime così: «l’amore dell’amante trasporta il proprio io nell’amato, nel Tu, e dà all’amato
Tu la forza di conoscere in Dio l’io amante e di amarlo in Dio. L’amato diventa amante, si eleva al di sopra
della legge d’identità e in Dio identifica se stesso con l’oggetto del proprio amore, trasferisce il proprio io
nell’Io del primo mediante il terzo, e così via. Questo seguito di autodonazioni - svuotamenti - abbassamenti
reciproci degli amanti solo al raziocinio appare in una successione indefinita. In realtà, quando si eleva al di
sopra della sua natura, l’io esce dalla limitatezza spazio-temporale ed entra nell’Eternità, dove tutto il
processo dei reciproci rapporti degli amanti è un atto unico nel quale si sintetizza la serie indefinita dei
singoli momenti dell’amore. Quest’atto uno, eterno e infinito è l’uni-sostanzialità di quelli che si amano in
Dio, dove l’Io è la stessa cosa con l’altro io e allo stesso tempo ne è distinto»64.
Ricapitolare nell’amore65 i trascendentali porta a tributare al “Bene” una innegabile centralità, giacché
l’amore non è altro che volere e fare il bene. Ora, oltre la classica triade del bene come utile, piacevole e
onesto66, il percorso dionisiano ci ha condotto a scorgere nel bene ciò che dona, conserva e perfeziona
l’essere e la vita. Il bene genera, accresce, salva e perdona; rende integro, unisce e mette in comunione; il
Bene è ciò cui tende l’uomo come totalità. Il male è ciò che si rifugge, perché distrugge, separa.
Si può facilmente operare una reductio in Bonum di tutte le tensioni antropologiche: l’essere o la vita è il
bene goduto e desiderato da tutta la persona (bene ontologico/biologico); la verità logica è il bene ricercato
dall’intelligenza (l’adaequatio rei et intellectus o bene intellettuale); la giustizia è il bene reclamato dalla
coscienza morale (honestum, bene etico); la bellezza è il bene sospirato dal sentimento (quod visu/auditu
placet o bene estetico); il piacere è il bene bramato dai sensi (delectatio, bene sensitivo); la comunione è il
bene anelato dalla coscienza relazionale (bene esistenziale/sociale); la Beatitudine è il Bene sommo in
quanto co-presenza di tutti i beni summenzionati. Posto nel mondo come capax boni e costituito per il bene,
l’essere umano alberga in sé un’insopprimibile spinta verso la positività dell’essere; verso la luce (la
posizione naturale degli occhi è di essere aperti); verso la verità (tutti vogliono sapere come stanno realmente
le cose e non essere ingannati); verso la giustizia (nessuno vuole subire soprusi o torti); verso la bellezza e il
piacere (tutti desiderano vedere, sentire, gustare ciò che più piace). Tale onnicomprensività attraente del bene
trova nell’espressione Kalokaghathia (‘bontà/bellezza’) una sua formulazione sintetica: il Bene, in quanto
bello, simultaneamente attira, richiama (kalon, da kalein) e si espande, si comunica (diffusivum sui). Solo
Dio è veramente buono (cf Mt 19,17: unus est bonus, Deus), solo Lui può dare la beatitudine, perché è
l’unico capace di offrire insieme tutti i beni desiderati dall’uomo.
Riassumendo diciamo quindi che il bene è ciò che promuove, conserva e (re)integra l’essere nella sua
perfezione. Tre momenti – promozione, custodia e reintegrazione-riparazione – inseparabili e distinguibili
solo a scopo didattico. Promuovere significa donare l’essere, conferire un’identità (unità e integrità);
generare o creare. A questo segue, intrinsecamente, il bene come conservatio, ad indicare l’azione mirante a
preservare nell’essere e a condurre a piena realizzazione o compimento naturale. Dopo aver dato la vita
bisogna educare, alimentare l’esistenza e rafforzare l’identità del soggetto amato. I verbi della integratio
sono proteggere, custodire, curare, alimentare, educare, essere fedele. Però, in questo mondo segnato dalla
finitudine e dalla colpevolezza, in cui l’identità è sempre minacciata dal peccato, dalla rottura, il vero bene
mira alla reintegrazione o re-paratio (etimologicmante: partorire di nuovo, ri-generare, cf ebr. rahamim =
viscera misericordiae): si tratta qui di sanare, guarire, perdonare, riconciliare, ricomporre l’unità e l’integrità.
Il bene si manifesta lì dove l’essere è donato, custodito, integrato ed eventualmente riparato o redento. Nel
caso dell’essere umano, l’essere stesso suppone la comunione, la relazione all’altro: amore vuol quindi dire
suscitare, preservare, riparare ed accrescere la comunione.
64 FLORENSKIJ, La colonna, cit., p. 134.135. 65 Sull’essere come amore, cf LÉONARD, Métaphysique, cit. 329; ULRICH, Homo, cit. 253. Vedi pure, sulla ‘ontodologia’
di Cl. Bruaire, GILBERT, Corso, cit. 248ss. 66 Cf ARISTOTELE, Ethic. Nic. VIII, 2; TOMMASO, ST I, 5, a. 5. Il bene come ciò che è adatto e opportuno, ciò che serve,
giova e soddisfa, ciò che piace e attira, desiderato e amato, perché fonte di perfezione e felicità.
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c) Ripresa: la verità come bellezza della comunione
Dicevamo che la verità potrebbe dirsi il modus videndi Dei. Tale affermazione trova un suo riscontro
effettivo – qualora si pensi e creda la divinità come Somma Bontà, ovvero come Amore – nel proporre la
verità come bellezza della comunione o kalokaghathia. Al riguardo, merita ricordare queste autorevoli
considerazioni: a proposito della bellezza-bontà del creato (cf Gen 1,31), Giovanni Paolo II sottolinea che
«il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l'espressione
visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i greci che,
fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi: “kalokagathìa”, ossia
“bellezza-bontà”. Platone scrive al riguardo: “La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello”».
Riferendosi invece alle kalà erga (opere belle e buone) di Mt 5,16, Benedetto XVI nota che «la bellezza
delle opere manifesta ed esprime, in una sintesi eccellente, la bontà e la verità profonda del gesto, come pure
la coerenza e la santità di chi lo compie. La bellezza delle opere di cui ci parla il Vangelo rimanda oltre, ad
un’altra bellezza, verità e bontà che soltanto in Dio hanno la loro perfezione e la loro sorgente ultima»67.
Lo sguardo posto da Dio sulle cose e sul mondo è intuibile umanamente lì dove le cose e il mondo, le
persone e i loro comportamenti, esprimono maggiormente la bellezza della comunione: «ecce quam bonum
et quam iucundum habitare fratres in unum» (Sal 132,1).
Come la luce, la verità, pur essendo fonte di visione e di senso, non si lascia vedere in se stessa: non la si può
comprendere, possedere o carpire. Come la luce è condizione di possibilità del riconoscere le cose, la verità è
condizione di possibilità e fonte del senso. Essa si lascia percepire proprio a partire dai tre trascendentali
Bellezza, Unità e Bontà.
Riprendendo una classica metafora botanica enunceremmo l’articolazione proposta nel modo seguente:
l’Albero della verità ha come radice la bontà, come tronco l’unità di comunione e come fronda la bellezza.
Quello che dapprima affascina e colpisce la percezione umana è la fronda maestosa, la gloria della verità; ma
questa non fa che esprimere o irradiare ciò su cui si fonda: la comunione; la quale, a sua volta non esiste che
in quanto cresciuta e nutrita in forza della bontà. E al cuore della bontà, linfa nascosta e vitale, sta l’amore.
La verità è contemplazione (theoria) o meglio intuizione meravigliata (thaumazein) del senso dell’essere, del
senso delle cose in forza del loro manifestarsi come bellezza e coerenza di comunione (kalokagathia). La
verità è conoscere la realtà nella sua profondità; scorgendo le cose ricevendole illuminate dalla bontà
creatrice che ne fonda l’esistenza e giustifica il loro essere quello che sono nell’unità della realtà; e tale
inclusione risplende e seduce. L’organismo del reale si palesa allora animato dall’amore come fonte di
bellezza dell’unità mediante la bontà. La bellezza è lo splendore, l’irradiazione evidente e sfolgorante
dell’unità, ossia dell’armonia suscitata dal bene come bontà. La bellezza è la mirabile e piacevole
manifestazione della virtù unificatrice del bene. Primo contrassegno della verità, la bellezza risplende lì dove
l’unità emerge come armonia innervata dall’amore. La verità è, in noi, la percezione sedotta al richiamo
(kalein) del bello (kalon), dello splendore della concretezza e coerenza fondata sull’unitarietà e integrità viva
perché ospite dolce dei diversi. E principio di codesta comunione non è se non la bontà sgorgata dall’amore.
67 GIOVANNI PAOLO II, Lettera del Papa agli Artisti, [4. 04. 1999]; il rimando a Platone è in Filebo 65A; BENEDETTO
XVI, Messaggio… (28. 11. 2008), cit.
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1.3. «La verità che è in Cristo Gesù»68
1.3.1. Filialità
La domanda sulla verità, posta da Pilato in modo ironico, scettico, se non cinico, non poteva trovare
risposta dalla Verità stessa (cf Gv 14,6)69. Nel quarto vangelo, si sa, l’espressione “io sono la verità” rimanda
ultimamente all’essere di Gesù in piena e perfetta relazione con il Padre70. Il suo essere la verità dice in
definitiva la sua filialità e figliolanza verso il Padre. Con la sua Incarnazione, il Figlio unigenito svela il suo
essere filiale e quindi il Nome del Padre (cf Gv 17,6) ed insieme dischiude la verità ultima dell’essere
umano: la chiamata alla figliolanza divina. È pertanto una buona eco del versetto giovanneo l’icastica
espressione conciliare tanto amata da Giovanni Paolo II: «In realtà solamente nel mistero del Verbo
incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e
cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore
svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (GS 22).
Gesù di Nazareth, anche se non lo si consideri già esplicitamente come il Logos eterno (Gv 1,1), e quindi
pensiero e verità divina, è un dabar, una parola/evento nella storia del genere umano, un uomo, un segno, la
cui vicenda storica nel suo insieme, ma specie la Pasqua, si presentano come parola-manifestazione, aletheia,
svelamento e verità. La fede cristiana svelando il mistero più intimo di Dio (la divina paternità) svela pure
l’identità ultima dell’uomo (la figliolanza). Solo il Dio rivelato come Padre-Agape, “unico Padre e unico
buono”, è l’assoluta Prima persona71. Solo Lui può dire in verità “Io”72; e questo però in modo totalmente
non ego-ista. Il suo infatti è un “Io paterno”, Io “agapico”, di totale auto-dedizione. E solo l’Io del Figlio
“Unigenito” (e potremmo dire “l’Onnigenito”, in quanto originato in tutto dal Padre e beneficiario di tutto il
suo essere divino è veramente e pienamente filiale, ossia totale ricettività e dipendenza riconoscente: egli è
l’“Amen”, il “Sì” al suo proprio essere-dono-da parte del Padre (cf Ap 3,14). La piena ricettività del Cristo
diventa fiduciosa dipendenza e docile obbedienza; essa renderà conto del suo potere di dare la propria vita
(cf Gv 10,17-18). Unico destinatario della totalità del dono paterno, Cristo è il Figlio (1Gv 5,12) che durante
tutta la propria vicenda terrena, ma specialmente nel suo mistero pasquale, assume e traduce la figliolanza
divina anche nella natura umana73. La sua coscienza filiale si esprime nell’invocazione “Abbà-Padre”
dell’orto degli ulivi e della croce che lo caratterizza come vero Figlio (cf Mc 14,36 e Lc 23,46). Il paradosso
del mistero di Gesù si sintetizza nella sua umile pretesa: l’essere nulla da se stesso e l’essere tutto con il
68 Integriamo qui il nostro «Verità di Cristo e mistero pasquale», in J. MIMEAULT et all. (edd.), Nella luce del Figlio, FS
R. Tremblay, Bologna 2011, 123-130 con alcuni passi svolti in «Filialità e vita cristiana. Saggio sul fondamento
antropologico della morale: coscienza filiale e solidarietà fraterna», in Studia moralia 46 (2008) 21-49. 69 Si nota giustamente che Pilato parla di ‘verità’, in modo generico; il Signore parlava de ‘la verità?’ (MILANO, Quale
verità?, 146). 70 Gv 14,6 allude a «les relations qui unissent entre elles les personnes divines du fils et du Père» (I. DE LA POTTERIE,
La Vérité dans saint Jean, vol. 1, Roma, 1977, 277). 71 Cf Mt 19,17; 23,9. Sul tema della paternità divina, ci permettiamo rimandare a taluni nostri articoli: “Pater tantum
est. Paternità divina e fede cristologica”, in Alpha Omega 2 (1999) 195-214; “Figli e santi per la gloria. Paternità divina
e unità dei credenti in Gv 17”, in Ecclesia Mater 37 (1999) 75-80; “Uno solo è il Buono. Uno solo è il Padre”, in L.
MELINA - J. NORIEGA (edd.), Domanda sul bene, domanda su Dio, Roma, Mursia 1999, 181-183 e soprattutto: “Perché
diano gloria al Padre vostro celeste. Paternità divina e missione della Chiesa”, in Lateranum 66 (2000) 235-258. 72 Si ricordi in proposito la litanica espressione “IO sono” (Anî) nell’AT, cf p.e. Lv 19 passim. 73 Vedi il fondamentale brano di Eb 5,7-10: “Nei giorni della sua carne (hêmerais tês sarkos) egli offrì preghiere e
suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà (eulabeia); pur
essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza (hypakoê) dalle cose che patì e, reso perfetto (teleiôtheis), divenne causa di
salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di
Melchìsedek”.
16
Padre: “totalmente sottomesso al Padre in quanto Figlio, e dall’altra, di essere proprio per questo totalmente
nell’uguaglianza con il Padre”74.
In due diverse parabole dei vangeli sinottici (Mt 21,28ss e Lc 15,11ss), il volto di Gesù spicca in filigrana
come la figura del vero Figlio e vero fratello, per contrasto con i “due figlioli” esplicitamente menzionati dal
testo. Gesù è il Figlio che, senza né simulare l’obbedienza né tentennare, è colui nel quale “c’è solo il Sì”
(2Cor 1,19) e in cui la parola di ossequio corrisponde all’opera portata a termine (cf Gv 17,4). Egli è pure
presente nella parabola del figliol prodigo, in un certo senso come il figlio legittimo accanto a due figli
adottivi: il Figlio fedele e riconoscente, colui che condivide sempre tutto con il Padre (cf Gv 17,10) e che
anziché condannare il fratello traviato va in sua ricerca fino a ritrovarlo (cf Lc 19,10). Gesù è il vero e
perfetto uomo (cf GS 41) perché è totalmente davanti a Dio e per i fratelli75.
In cosa consiste quindi la verità di Gesù; la ‘verità che è in Gesù Cristo’ (Ef 4,21)? Alla luce del mistero
pasquale il Nazareno è Colui nel quale si compie il progetto di Dio (e può quindi dirsi la Verità) ad un
duplice livello: da una parte egli è ‘soggetto’ di verità perché realizza in sé, come Figlio e Servo (Pais), la
perfetta Fedeltà al Piano divino di amore redentore (eudokìa); dall’altra, egli è pure ‘oggetto’ di verità, in
quanto stabilito Kyrios, ovvero destinatario dell’affermazione/testimonianza del Padre a suo favore, nel
tempo e per l’eternità. La verità che è in Gesù Cristo si identifica da un lato alla sua Fedeltà di obbedienza al
Padre e di misericordia all’umanità e dall’altro alla sua glorificazione per la risurrezione dai morti che lo
stabilisce giudice escatologico. Chiave di volta e momento sintetico di questo percorso è la Pasqua in cui
culmina il “Sì” di Gesù a suo Padre (morte di croce) e il “Sì” pronunciato dal Padre a Gesù (risurrezione).
Kenosis e Hypsosis, santità della Croce e gloria della risurrezione sono le due facce dell’unica medaglia che
è la verità di Cristo: « Gesù…è la sintesi viva e personale della perfetta libertà nell’obbedienza totale alla
volontà di Dio. La sua carne crocifissa è la piena rivelazione del vincolo indissolubile tra libertà e verità, così
come la sua risurrezione da morte è l’esaltazione suprema della fecondità e della forza salvifica di una libertà
vissuta nella verità»76.
Il Cristo pasquale è la verità perché egli si adegua, nell’obbedienza filiale, alla volontà di Dio, assumendo
l’umanità peccatrice e diventando misura di giustizia universale.
1.3.2. Santità: l’Amen del Figlio-servo (Pais) come fedeltà al Padre
«Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare» (Gv 17,4).
«Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi,…non fu ‘sì’ e ‘no, ma in lui c'è stato
il ‘sì’» (2Cor 1,19).
Gesù è verità nella sua filialità, nel suo umile e forte dipendere da e riconsegnarsi al Padre; nel suo aderire,
corrispondere umanamente al Padre e al piano che questi ha su di lui. Soggetto, ovvero autore di verità,
Cristo svela l’autentica fedeltà a Dio. Pienezza d’obbedienza, Amen filiale (cf Ap 3,14), Cristo è verità in
quanto perfetta giustizia (tsedaqa) ossia piena adeguazione alla volontà agapica del Padre (cf Gv 4,34; 5,30;
6,38s). Sulla croce, Gesù si “consacra nella verità” (Gv 17,19), si conforma integralmente al progetto pensato
dal Padre su di lui e sull’umanità, diventando ‘olocausto di obbedienza’ (cf Ef 5,2). Egli compie la verità e
vi si identifica assimilando in tutto la parola/comandamento d’amore del Padre (cf Gv 12,49s). Che Gesù sia
la verità vuol dire che Cristo, e in modo supremo Cristo crocifisso, è la piena e perfetta corrispondenza
all’eudokia divina. Egli realizza la verità in senso attivo, come colui che, avendo ricevuto una missione, la
74
BENEDETTO XVI, “Gesù di Nazaret”, Milano, Rizzoli 2007, 393. Sulla coscienza filiale di Gesù cf J. GALOT, La
coscienza di Gesù, Assisi, Cittadella 1974 e, più di recente, lo stimolante saggio di F. MANZI - G.C. PAGAZZI, Il Pastore
dell’essere. Fenomenologia dello sguardo del Figlio, Cittadella Assisi 2001. 75 Cf su questo A. RIZZI, Cristo verità dell’uomo. Saggio di cristologia fenomenologia, Roma, AVE 1972, 125-227. 76
GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, 87.
17
adempie con assoluta fedeltà: «in lui messaggio e persona si identificano». «L’Io crocifisso del Signore è una
realtà così piena che tutto il resto può passare in secondo piano»77. Tale attuazione ‘economica’ della verità
da parte di Gesù è la traduzione incarnata della figliolanza eterna dell’Unigenito divenuto per noi, il
Primogenito. Gesù diventa la Verità perché ha vissuto umanamente e attraverso il travaglio di grandi grida e
lacrime (cf Eb 5,7ss) il suo essere Figlio eternamente rivolto verso il Padre (Gv 1,1.18). In questo senso si
capisce che si possa dire che Gesù ‘diventa’ Figlio di Dio in potenza (cf Rm 1,4). Tale consacrazione di
obbedienza ha un contenuto preciso: l’amore incondizionato di misericordia verso gli uomini. Dicendo Sì al
Padre, Cristo accoglie e dice di Sì all’umanità tutta78. In Lui, Dio Padre accoglie l’umanità, così come è:
«Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»
(Rm 5,8).
La «crocifissione, nei quattro vangeli, costituisce il momento della verità, in cui si squarcia il “velo del
tempio” e appare il Santo dei Santi. In Gesù crocifisso avviene la massima rivelazione di Dio possibile in
questo mondo, perché Dio è amore, e la morte in croce di Gesù è il più grande atto d’amore di tutta la
storia»79. La pro-esistenza (pro nobis) di Gesù Cristo attesta la fedeltà di Dio all’umanità. Il suo accettarla e
accoglierla gratuitamente, nonostante i suoi peccati e la sua miseria. Nella croce dell’uomo-Dio risplende
insieme il ‘sì’, l’amen dell’umanità al Padre celeste e il ‘sì’, l’amen del Dio santo e onnipotente all’umanità
peccatrice. Sulla croce Gesù compie la verità, la realizza nella sua carne, perché egli si dilata nella misura
della santità divina80. Egli diventa mensura hominis; in lui si dà la misura vera della santità, l’eidos
dell’uomo giusto, figlio del Padre celeste. Amen dell’uomo-Gesù a Dio Padre, la croce diviene l’Amen di
Dio all’umanità.
1.3.3. Gloria: il Kyrios come verità di Gesù svelata dal Padre
«E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il
mondo fosse» (Gv 17,5).
«E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute ‘sì’. Per questo sempre attraverso lui
sale a Dio il nostro ‘amen’ per la sua gloria» (2Cor 1,20).
Volgiamoci ora alla dimensione gloriosa del mistero pasquale. Colui che ha ‘fatto la verità’ (come fedeltà-
obbedienza) sulla croce, è adesso ‘inverato’, come il servo accetto; il figlio generato. Il kyrios esaltato è lo
stesso servo umiliato. La risurrezione esprime il compiacimento del Padre nei riguardi del sacrificio
dell’Agnello. «La Risurrezione è proprio questo: la solenne accettazione del Padre, l’Amen potente
pronunciato sul sacrificio del Figlio»81.
Veritas Dei in quanto epifania della fedeltà di Dio, Gesù è qui ‘oggetto’ di verità. Ossia: la risurrezione è
attestazione suprema di gloria; sentenza del Padre a legittimare e dichiarare vera, cioè confacente alla propria
natura divina ed eternità, l’azione caritativa del crocifisso. Il Padre dice Gesù agli uomini, lo “invia” loro
come verità come buona notizia82. Se il destino del peccatore è morte e polvere, la verità del Giusto è il
Cielo: «recte dicitur iusto: caelum es et in caelum ibis»83. «Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle
angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,24). Tra il Gesù
77 J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Brescia 200514, 196.197. 78 Cf R. TREMBLAY, L’«élévation du Fils», axe de la vie morale, Québec 2001, 53. 79 BENEDETTO XVI, Omelia nella solennità di Cristo re dell’universo, con consegna dell’anello cardinalizio,
25.11.2007. 80 Cf F.X. DURRWELL, Cristo nostra Pasqua, Cinsiello Balsamo (Mi) 2003, 65ss. 81 R. CANTALEMESSA, La Parola e la vita. Riflessioni sulla Parola di Dio delle Domeniche e delle Feste dell’anno.
Anno B, Roma 1981, 256. 82 F.X. DURRWELL, La risurrezione di Gesù. Mistero di salvezza, Roma 1993, capp. 2 e 4. 83 AGOSTINO, Serm. 359; cf già ORIGENE, Hom. in Hier. 8,2.
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martoriato in croce, ma offertosi con amore e con amore infinito, e la corruzione della morte esiste una
incompatibilità radicale. Sono incongruenti. Il corpo d’amore di Gesù è inassimilabile agli inferi; non può
diventare cadavere (caro data vermibus). Il suo corpo è del tutto ‘amorizzato’ e quindi degno del Cielo84.
Qui Gesù non è soggetto di azione, ma sottostà al giudizio del Padre; diviene oggetto della sua
testimonianza: è il Padre a emettere il giudizio su Gesù di Nazareth. La risurrezione è verità dichiarata,
parola pronunciata dal Dio onnipotente sul sacrificio di obbedienza e di amore di Cristo e questa parola è
affermazione, accoglienza, esaltazione (hypsôsis). «L’amore totale di Gesù per gli uomini, che lo ha condotto
alla croce, trova compimento nel totale passaggio al Padre e in esso diviene più forte della morte in quanto in
esso è allo stesso tempo totale essere-conservato da lui…Soltanto il suo amore, il quale coincide con la
potenza vitale e amorosa di Dio, può fondare la nostra immortalità»85. Benedetto XVI ha insegnato che:
«Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l'amore davvero
più forte della morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita
lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte: nell'Ultima Cena egli ha anticipato e
accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci
libera e ci salva. La sua risurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell'amore che
scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla
quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé»86.
Agli uomini, privi di luce e di verità, parve che Gesù morisse, senza bellezza alcuna, abbandonato e
maledetto sul legno. Agli occhi del Padre, che ‘vede nel segreto’, Gesù crocifisso era ‘il più bello dei figli
dell’uomo’: il cuore della creazione, la ragione d’essere dell’universo. Il destino del crocifisso-per-amore
non può essere la corruzione e l’annichilimento, deve essere, per necessità ontologica e divina la gloria. La
risurrezione è la martyria resa dal Padre al suo figliolo: la pietra scartata dagli uomini è pietra angolare, perla
preziosa agli occhi di Dio.
Depositario della benevolenza del Padre, costituito mensura hominis, Gesù Cristo assurge a Salvatore e
Giudice dell’umanità. Nella Pasqua si compie la verità/fedeltà di Dio come Giustizia salvifica, giudicante e
giustificante. Il Risorto è Verità, in quanto nella sua gloria rifulge l’Amen di Dio stesso all’opera di Gesù. La
Veritas Dei risplende ora quindi innanzitutto come ‘giustificazione’ di Gesù e dell’umanità tramite Lui (cf
Rm 3,25). Affermazione del Padre sul mondo, la signoria di Gesù è salvezza per tutti coloro che l’accolgono,
è adozione filiale per quanti si aprono allo Spirito. Sicché, la dignità signoriale di Gesù comporta una duplice
ed inseparabile connotazione: soteriologica ed escatologica. Stabilito come kyrios, Gesù è, nella sua carne,
sovrano e giudice. Sovrano in quanto detentore di exousia, di potere trasformante e trasfigurante, elargitore
di Spirito Santo e quindi principio di filializzazione e divinizzazione. Insignito una volta per sempre del
potere di perdonare e di concedere l’adozione filiale, Gesù è capostipite di una umanità nuova (cf 1Cor
15,45). D’altra parte, la sua autorità giudiziale consterà anch’essa del suo amore crocifisso riconosciuto
misura e criterio di ogni retribuzione. La verità dell’ethos umano trova nella croce del Figlio la sua forma:
sopravvivrà, in gloria, di noi, tutto e solo ciò che corrisponderà all’amore crocefisso, filiale e fraterno di
Gesù Cristo.
c) Sintesi
Colui che fa la verità, ossia che vive conformandosi all’amore del Padre, che segue la sua parola e
ottempera in tutto al suo comando è lo stesso che diventa verità, essendo, in persona87, l’attestazione di
84
Cf F.X. DURRWELL, Regards chrétiens sur l’au-delà, Médiaspaul, Paris 1994. 85 J. RATZINGER, Introduzione, cit. 295s. 297. 86 BENEDETTO XVI, Discorso al Convegno ecclesiale di Verona, 19.10.2006. 87 «La verità teologica trova nella verità Persona e nell’evento storico dell’Incarnazione, della croce e risurrezione il
nuovo orizzonte di verità come luogo di comprensione di ogni particolare affermazione di contenuto dogmatico» (M.
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giustizia, di perdono e di misericordia da parte del Padre. Questi, con la risurrezione riconosce che Gesù di
Nazareth ha dimostrato fedeltà incondizionata al suo piano: l’anastasis è ‘prova credibile’ (cf At 17,41:
pistin paraschôn) che Gesù è il termine stabilito (télos) e misura di ogni giudizio.
Il nesso tra ortodossia e ortoprassi è intanto fondato sul fatto che l’ortodossia, ossia la confessione di Cristo
come verità dell’uomo e di Dio è una verità d’amore, quindi una verità etica. Il secondo punto di contatto
inscindibile tra fede e ethos sta nel fatto che la verità che è Cristo è una verità di per sé ‘partecipabile’: siamo
chiamati alla ‘comunione del Figlio di Dio’ (cf 1Cor 1,9). Koinonia che lo Spirito, mediante l’economia della
fede e dei segni della Chiesa porterà a compimento. Già solo la buona notizia, il kerygma, ha di per sé una
portata ortopratica, performativa, perché capace di suscitare in chi l’ascolta la gioia dell’essere amato e da
qui lo slancio del poter amare (cf 1Ts 1,6; 2,13). La gioia dello scoprirsi figli nel Figlio. Il credere cristiano –
ossia il conoscere e fare la verità – non è tanto un aderire a dei dati intellettuali e dogmatici, quanto
l’accogliere una lieta notizia, unirsi ad una ‘persona’, il Figlio crocifisso-glorioso. Questi è credibile e
affidabile perché compitamente ‘relazionato’ al Padre e quindi ‘eternizzato’: egli è quel Sì che Dio ci rivolge
e che noi possiamo rivolgere al Padre in un solo Spirito (cf Ef 2,18). La figura unica di Gesù di Nazareth si
propone come verità dell’uomo in forza della sua triplice determinazione: filiale, santa e gloriosa. In lui si
compie il disegno ultimo e definitvo di Dio Padre e creatore su ciascun essere umano: renderlo figlio, con la
massima intimità d’amore; renderlo santo, libero dal peccato e colmo di carità, ossia capace di fedeltà e
misericordia, e, infine, renderlo glorioso, cioè immortale, libero pure dalla morte fisica e partecipe, fin nel
corpo della divina eternità.
BORDONI, “La cristologia odierna di fronte alla questione della verità”, in M. SERRETTI (ed.), Unicità e universalità di
Gesù Cristo. In dialogo con le religioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 101.