Se l’oligarchia uccide la politica. La fine dell’eguaglianza in due libri di Marco Revelli...

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6/11/2014 maelstrom: Se l’oligarchia uccide la politica. La fine dell’eguaglianza in due libri di Marco Revelli http://www.damianopalano.com/2014/11/se-loligarchia-uccide-la-politica-la.html 1/8 di Damiano Palano maelstrom martedì 4 novembre 2014 Se l’oligarchia uccide la politica. La fine dell’eguaglianza in due libri di Marco Revelli Nel 1994, mentre si avvicinavano le elezioni politiche, il quotidiano «il Manifesto» dedicava il proprio supplemento domenicale a un ripensamento del concetto di «Progresso». La scelta non era ovviamente dettata da un puro interesse speculativo. Al fondo di quella discussione stava infatti la volontà di valutare criticamente l’etichetta «Progressisti» che la coalizione di centro-sinistra, guidata dal Partito Democratico della Sinistra e dal suo segretario Achille Occhetto, aveva deciso di inalberare nelle ormai prossime elezioni. In altre parole, i redattori del giornale mettevano in discussione l’idea che proprio il «Progresso» potesse essere il collante non tanto di quella sorta di eterogenea ‘armata Brancaleone’ che Occhetto definì come «gioiosa macchina da guerra», quanto delle diverse anime della «Sinistra». Chiamato a intervenire al dibattito, Luciano Canfora volle però uscire dal coro, e proprio per questo intitolò il proprio contributo Perché non possiamo non dirci progressisti . Forse per ridimensionare la portata della velata critica di Canfora, il testo fu pubblicato con un titolo differente e quantomeno meno diretto (Poteri in campo, il rimosso ricorrente), e l’antichista non mancò di protestare sulle pagine del «Corriere della Sera» per la velata censura, che aveva di fatto oscurato il punto chiave del suo ragionamento. Un ragionamento che non riguardava tanto il significato politico del termine «progresso», quanto la congiuntura storica che l’Italia si trovava a vivere in quel momento. Secondo Canfora si era infatti dinanzi a un’emergenza costituzionale che andava presa sul serio, e che richiedeva che di Damiano Palano Seleziona lingua Pow ered by Traduttore Translate Home page Libri Scritti recenti Contatti La democrazia senza qualità. Appunti sulle «promesse non mantenute» della teoria democratica Fino alla fine del mondo. Saggi sul 'politico' nella 'rivoluzione spaziale' contemporanea Volti della paura. Figure del disordine all'alba dell'era biopolitica La soglia biopolitica. Materiali su una discussione contemporanea La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica Partito Pagine Il nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 2/4 di Damiano Palano segue da: Il nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 1/4 ... La vocazione nichilista del capitalismo postmoderno. Intorno a un libro di Mauro Magatti di Damiano Palano Recensione a Mauro Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista , Feltrinelli, Milan... Call for paper - "Una democrazia post-secolare? La teoria democratica oltre la secolarizzazione" Call for paper - Convegno Sisp - Firenze, 12-14 settembre 2013 Scadenza proposte: 15 maggio 2013 Inviare le proposte a: damiano.palano@u... Se l’oligarchia uccide la politica. La fine dell’eguaglianza in due libri di Marco Revelli Post più popolari 3 Altro Blog successivo» Crea blog Entra

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http://www.damianopalano.com/2014/11/se-loligarchia-uccide-la-politica-la.html 1/8

di Damiano Palano

maelstrom

martedì 4 novembre 2014

Se l’oligarchia uccide la politica. La finedell’eguaglianza in due libri di Marco Revelli

Nel 1994, mentre si avvicinavano le elezioni politiche, il

quotidiano «il Manifesto» dedicava il proprio supplemento

domenicale a un ripensamento del concetto di «Progresso». La

scelta non era ovviamente dettata da un puro interesse

speculativo. Al fondo di quella discussione stava infatti la volontà

di valutare criticamente l’etichetta «Progressisti» che la

coalizione di centro-sinistra, guidata dal Partito Democratico della

Sinistra e dal suo segretario Achille Occhetto, aveva deciso di

inalberare nelle ormai prossime elezioni. In altre parole, i redattori

del giornale mettevano in discussione l’idea che proprio il

«Progresso» potesse essere il collante non tanto di quella sorta

di eterogenea ‘armata Brancaleone’ che Occhetto definì come

«gioiosa macchina da guerra», quanto delle diverse anime della

«Sinistra». Chiamato a intervenire al dibattito, Luciano Canfora

volle però uscire dal coro, e proprio per questo intitolò il proprio

contributo Perché non possiamo non dirci progressisti. Forse per

ridimensionare la portata della velata critica di Canfora, il testo fu

pubblicato con un titolo differente e quantomeno meno diretto

(Poteri in campo, il rimosso ricorrente), e l’antichista non mancò

di protestare sulle pagine del «Corriere della Sera» per la velata

censura, che aveva di fatto oscurato il punto chiave del suo

ragionamento. Un ragionamento che non riguardava tanto il

significato politico del termine «progresso», quanto la

congiuntura storica che l’Italia si trovava a vivere in quel

momento. Secondo Canfora si era infatti dinanzi a un’emergenza

costituzionale che andava presa sul serio, e che richiedeva che

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tutte le forze democratiche e ‘progressiste’ si unissero contro il

pericolo di una vittoria della coalizione di destra, capeggiata da

Forza Italia e dal suo leader. In pericolo, scriveva infatti lo

studioso, era la sorte stessa della Costituzione del 1948:

«Giacché non è in gioco soltanto la conquista della maggioranza

parlamentare. Come ben dice Bossi nella sua rozzezza, è in

gioco l'assetto stesso della Repubblica. Il fronte della destra

intende cancellare la Costituzione della nostra Repubblica (e

perciò pretende a gran voce una ‘seconda’ Repubblica). E

intende cancellare proprio quel che di ‘progressista’ è sancito in

essa. Ci sono postulati, nei ‘Principi generali’ e nella ‘Prima parte’

della Costituzione, che fanno a pugni col vento iper liberista e

ultracapitalista che spira oggi dal fronte Lega Berlusconi.

L’articolo 3 sulla necessità di promuovere l'uguaglianza non solo

formale dei cittadini, l'articolo 42 sulla priorità della utilità sociale

sulla proprietà privata, l'articolo 11 che sancisce il rifiuto della

guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali

(già violato ai tempi di Cocciolone). E sono solo alcuni esempi.

La nostra Costituzione, varata, non dimentichiamolo, quando

ormai, il 18 aprile '48, lo schieramento moderato aveva

conseguito la maggioranza assoluta, è tuttavia il miglior frutto

dell'incontro tra le forze progressiste e popolari: divise da una

dialettica politica anche aspra ma unite, allora, su quei “principi

fondamentali”. Principi che potrebbero raccogliersi sotto il

binomio “Giustizia e Libertà”, che riassume in sé il contenuto

dell'antifascismo. […] Chi oggi arriccia il naso sul concetto di

“progressismo” insegue farfalle sotto l' arco di Tito mentre la

nuova destra dà l'assalto a quanto resta della “democrazia

progressiva”» (Perché dirsi progressisti, in «Corriere della

Sera», 3 febbraio 1994, p. 37).

Il dibattito di quei giorninon era certo il primo che siaprisse sul significato delconcetto di «sinistra»,perché fin dall'inizio deldecennio precedente moltiinterventi – più o menopolemici – avevano iniziatoa ripensare la dicotomiadestra-sinistra, spingendositalvolta anche a suggerirnela definitiva archiviazione. Apartire dal 1994 quel

dibattito doveva però assumere una nuova colorazione, siaperché ciò che rimaneva del vecchio armamentario identitarioereditato dal Partito Comunista appariva sempre più fragile, siaperché i principali eredi di quel partito sposavano con entusiasmoi principi di fondo del nuovo corso liberale e liberista. In altreparole, doveva risultare piuttosto chiaro che a dividere la‘vecchia’ sinistra dalla ‘nuova’ esisteva un solco ben più profondodi quello che la continuità nella leadership e nelle strutturepartitiche potesse suggerire: un solco tanto profondo da farsospettare che del cuore originario della sinistra non esistessepiù neppure una pallida traccia. In qualche misura, però, lapresenza di un avversario così impetuoso come Silvio Berlusconidoveva mettere la sordina a queste discussioni, fornendo una

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soluzione politica ‘obbligata’ a tutte i ragionamenti sull’identitàperduta della sinistra, o sull’esistenza di qualche valore‘originariamente’ connotato come patrimonio della sinistra.

Intervenendo proprio in questa discussione, Marco Revelli

scrisse alla metà degli anni Novanta che, in realtà, nell’Italia della

Seconda Repubblica non esistevano due sinistre, una moderata

e un’altra radicale, bensì «due destre»: ciò significava in

sostanza, che, a dispetto del nome, il Partito Democratico della

Sinistra e l’aggregazione elettorale dell’Ulivo non erano altro che

una declinazione della destra liberista. Ma la lettura di Revelli

non doveva per questo sfociare in una celebrazione della Sinistra

novecentesca, o di ciò che ne restava. Negli anni seguenti egli

avrebbe infatti scavato in profondità, mostrando come anche

l’ideologia del movimento operaio nel corso del Novecento

avesse attinto a piene mani all’immaginario del Progresso, un

immaginario centrato sul mito dell’homo faber e sulla

incondizionata fiducia nella sua capacità di creare continuo

sviluppo economico, sociale, politico. Lungo questo percorso

teorico – che si snoda attraverso testi come Le due destre

(Bollati Boringhieri, Torino, 1996), La sinistra sociale (Bollati

Boringhieri, Torino, 1997), Oltre il Novecento (Einaudi, Torino,

2001), La politica perduta (Einaudi, Torino, 2003), Finale di

partito (Einaudi, Torino, 2013) – Revelli è naturalmente tornato in

più occasioni a chiedersi quale sia il destino della «sinistra», e se

quel concetto, al di là dell’eredità storica, conservi anche ancora

qualche significato e qualche potenzialità politica nel XXI secolo.

E questa stessa domanda in qualche modo sta anche dietro due

volumetti pubblicati negli ultimi mesi da Revelli, Post-sinistra.

Cosa resta della politica in un mondo globalizzato (la

Repubblica – Laterza, pp. 136, euro 5.90), e «La lotta di classe

esiste e l’hanno vinta i ricchi» (Vero!), Laterza, pp. 96, euro

9.00).

In quest’ultimo libro,Revelli si concentra inparticolare sulla condizionidi ciò che Norberto Bobbioconsiderava comespecifico dell’identità dellasinistra, ossia il valoredell’eguaglianza. In effettiRevelli cerca di capire

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quali siano stati gli effettiprodotti dalle politicheneoliberiste sul terrenodelle diseguaglianzesociali, e in particolareconsidera la validità dellateoria del trickle-down,

secondo cui politiche fiscaliche avvantaggiano i settoripiù agiati della popolazioneavrebbero effetti positivisull’intera società, perché i benefici ‘sgocciolerebbero’ dall’altoverso il basso, anche cioè verso gli strati sociali meno abbienti emeno garantiti. Accanto a questa tesi generale, Revelli consideraperò soprattutto due ipotesi che hanno goduto negli ultimitrent’anni di un certo seguito in ambito politico ed economico: laprima – sintetizzata dalla ‘curva di Laeffer’ – sostiene chel’aumento delle tasse oltre una certa soglia risultacontroproducente per l’intera economia nazionale oltre che per glistessi governi nazionali; la seconda – ricondotta invece alla curvadi Kuznets – sostiene invece che un accelerato sviluppoeconomico produce, in un primo momento, un aumento dellediseguaglianze, per poi invece innescare un certo livellamento.Rispondere alla seconda domanda non è così semplice,perché misurare la diseguaglianza e le sue variazioni èquantomeno complesso. Ciò nondimeno, scrive Revelli, la curvadella povertà sembra «relativamente anelastica, in quanto la fortediseguaglianza nella distribuzione della ricchezza finisce perneutralizzare i benefici dello sviluppo e per bloccare ‘in alto’ lerisorse aggiuntive» (p. 58). Molto più semplice è invece smentirela ‘curva Laeffer’, perché l’alleggerimento del carico fiscale (inparticolare del carico posto sugli strati sociali a più alto reddito)non è stato accompagnato da una riduzione della spesapubblica, quanto da una modificazione della sua struttura, con unconsistente aumento del debito pubblico, cui è poi seguito anchel’aumento del debito privato. Ciò si è tradotto in uno strabilianteaumento delle diseguaglianze. Un processo che per esempio haportato gli 85 grandi multimiliardari globali a detenere unaricchezza pari a quella posseduta dai 3 miliardi della popolazionepiù povera del pianeta. E che ha condotto una minoranza pariall’1% della popolazione mondiale a detenere una ricchezza paria 110.000 miliardi di dollari, equivalente a sessantacinque voltele risorse detenute dalla metà più povera della popolazionemondiale.

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L’aumento dellediseguaglianze – unprocesso su cui negli ultimihanno attirato l’attenzioneosservatori di provenienzamolto diversa, come, perfare qualche nome, JosephStiglitz, Luciano Gallino eVittorio E. Parsi – haovviamente un riflessopiuttosto diretto sul terrenopolitico, su cui Revelli sisofferma nelle pagine diPost-sinistra. In questo

pamphlet, Revelli si trova

per molti versi a riprenderee aggiornare le tesi svoltealcuni anni fa in Sinistra-

destra. L’identità smarrita

(Laterza, Roma – Bari, 2006). In sostanza, l’idea di fondo è che ladicotomia Destra-Sinistra sia messa in crisi da una serie diprocessi strutturali che investono le nostre società e chedissolvono le stesse basi materiali di ciò che abbiamo a lungodefinito come «spazio pubblico». La rivoluzione spaziale dellaglobalizzazione e la contrazione temporale dello spaziocancellano progressivamente la dimensione su cui la politica siera incardinata. Come scrive Revelli a questo proposito: «Afranare è la politica come l’avevamo conosciuta fino a ieri, nonsolo con i propri soggetti e i propri ‘valori’, ma con le sue forme,le sue istituzioni, i suoi principi costitutivi, i suoi codici dilegittimazione, i suoi modelli di relazioni, insomma con tutto ciòche costituisce il moderno ‘concetto di politico’. E non solo. Lafrana si tira dietro anche le più recenti conquiste che hannocaratterizzato la modernità compiuta: la democraziarappresentativa, l’universalità dei diritti e la sua efficacia, ilprincipio di legalità come condizione di legittimazione del potere»(pp. 43-44).I sintomi della grande ‘frana’ che Revelli indica sono numerosi,e peraltro difficilmente contestabili nella loro portata. Innanzitutto,proprio l’aumento delle diseguaglianza, o quantomenol’esaurimento dell’eguaglianza politica come destino: «Appareormai chiaro quanto grave e profondo sia il vulnus inferto al

principio di eguaglianza dalla mutazione socio-spaziale in corso.Essa infatti non si limita a mettere in discussione solol’‘eguaglianza materiale’ o ‘economica’ o, appunto, ‘sociale’, magiunge ad aggredire il livello dell’eguaglianza formale, il set didiritti ‘civili’ e ‘politici’ costitutivi della sfera giuridico-politicamoderna e, a tutti gli effetti, fondanti del progetto politicomoderno» (p. 49). In secondo luogo, la fine della politica ètestimoniata dalla «deriva oligarchica» della democraziacontemporanea: mentre il paradigma egualitario perde la propriaforza, prende forma una «oligarchia onnipotente», situata «fuoridai luoghi (al di sopra di essi) e all’incrocio dei flussi (nei loropunti nodali), di cui non fanno parte, evidentemente, solo le éliteeconomiche e finanziarie, ma anche, con gradi diversi dirilevanza, una parte consistente della classe politica di governo,anch’essa sempre meno ‘localizzata’ e sempre più legata dasistemi di relazione reticolari transterritoriali» (p. 50). Ma, insiemea questi processi, la crisi della politica è anche palesata dallametamorfosi della rappresentanza politica, della possibilità difissare l’ubi consistam del rapporto fra mandanti e mandatari. E –

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naturalmente – dalla trasformazione dello spazio politico in unospazio interamente mediatico, ossia dall’«assorbimento quasisenza residui dello spazio tradizionale della politica dentro lospazio elettronico dei media» (p. 59). Le conseguenze di questoprocesso sono in effetti radicali, agli occhi di Revelli: «In questomodo, nel nuovo spazio politico come spazio mediatico, mentre larappresentanza politica (di mandare) si ritira fin quasi a ridursi aun simulacro, la rappresentazione celebra il proprio trionfo: sitotalizza. Il processo appare distorto, se non addiritturarovesciato: non procede più, come all’origine della politicamoderna, dal privato verso il pubblico, ma – ormaicompiutamente – dal privato al privato. E non permette unaqualche forma, sia pur traslata, di emancipazione, ma conferma ecertifica lo stato di alienazione che ogni spettacolo determinarispetto alla vita vissuta dei propri spettatori. […] L’esterioritàdello spettacolo in rapporto all’uomo che agisce appare inquesto: che i suoi stessi gesti non sono più suoi, ma di un altroche glieli rappresenta. È per questa ragione che lo spettatorenon si sente chez lui da nessuna parte, perché lo spettacolo è

ovunque» (p. 64).

Il pessimismo che affiora dalle pagine di entrambi i volumi di

Revelli, forse più che dagli elementi che affollano il quadro, è

restituito dagli elementi che mancano. E in questa assenza forse

è ravvisabile la principale novità nel percorso di Revelli. Benché

in molti dei suoi precedenti lavori non avesse certo esitato a

toccare la corda del pessimismo, spesso – quantomeno come

nota di speranza conclusiva – Revelli non mancava di evocare

qualche possibilità di cambiamento. Quando descriveva le derive

politiche del Postfordismo, negli anni Novanta, non rinunciava

per esempio a delineare i tratti di una nuova sinistra «sociale»,

capace di andare oltre lo statalismo della ‘vecchia’ sinistra e di

fronteggiare così con nuove armi l’avanzare delle «due destre».

In Oltre il Novecento, pronunciando il proprio addio alla sinistra

novecentesca, alle iconografie del produttivismo industrialista e

al mito dell’Organizzazione politica, Revelli evocava sul finire del

proprio percorso i contorni della nuova figura del «Volontario»,

capace di dare un nuovo senso all’attività politica. E anche nel

più recente Finale di partito si poteva riconoscere – proprio nelle

pagine conclusive – qualche segnale di pur tiepida speranza,

sulla possibilità di costruire una politica e una democrazia oltre i

partiti novecenteschi. Nei due ultimi volumetti sembra invece

mancare persino il più timido accenno a un’alternativa possibile

alla deriva contemporanea. Forse si tratta soltanto di una

conseguenza non del tutto volontaria, dovuta alla collocazione

editoriale dei due libretti. Ma probabilmente dietro questa

assenza c’è di più, forse addirittura la consapevolezza che la

parabola storica della sinistra – di quello che è stata nella storia

occidentale la sinistra, nelle sue mille declinazioni – si è ormai

irrimediabilmente conclusa. E per quanto tutti i tentativi che

Revelli compiva nei suoi libri precedenti rompessero con alcune

delle coordinate di quella tradizione, essi in realtà rimanevano

per molti versi interni a quell’universo, o quantomeno non ne

mettevano in questione alcuni pilastri. Ma le conseguenze della

“rivoluzione spaziale” sembrerebbero indurre ora Revelli a

prendere atto del definitivo esaurimento di una tradizione, e lo

stesso titolo Post-Sinistra può forse essere letto come

testimonianza della volontà di voltare pagina, di lasciarsi alle

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Pubblicato da Damiano Palano a 11/04/2014

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spalle l’eredità della sinistra e di entrare fino in fondo nell’era del

«post».

Nei prossimi anni potremo capire se questo commiato sia solo un

episodico, o persino solo retorico. Ma è indiscutibile che questa

sorta di rassegnazione (teorica) di Revelli alla «deriva

oligarchica» e alla tendenza anti-egualitaria trovi un riflesso nella

rassegnazione (politica) di buona parte di quell’elettorato che, un

po’ enfaticamente, veniva sino a qualche tempo fa definito come

il «popolo della sinistra». È infatti piuttosto evidente come negli

ultimi cinque anni – dal 2009, quando l’impatto della crisi

finanziaria arriva in Europa, fino al 2014, passando per la caduta

del governo Berlusconi, la nascita del governo Monti e le vicende

alterne delle «larghe intese» - si sia consumato quel poco che

rimaneva dell’immaginario e dell’identità della sinistra italiana. Gli

ultimi residui dell’egualitarismo e i frammenti superstiti di

un’ideologia che assegnava al conflitto sociale una funzione

positiva si sono dissolti. Quel vuoto è stato solo molto

parzialmente colmato da ciò che resta del progressismo, di cui

Canfora nel 1994 si faceva ancora convinto alfiere, ma che nel

frattempo è diventato tanto generico da risolversi quasi

invariabilmente solo in una generica estetica del cambiamento.

Probabilmente, quel vuoto si è semplicemente tradotto in una

sorta di fatalismo postmoderno. Un nichilismo radicale che

impedisce di credere davvero in qualsiasi cosa. Ma che talvolta

può può persino accendere un effimero entusiasmo. Perché – si

sa – quando ormai non si crede più in niente, prima o poi si può

finire col credere a tutto.

Damiano Palano

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