Schede su croci dipinte marchigiane

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12. Sassoferrato (An), Chiesa di San Francesco Giuliano da Rimini (doc. dal 1300 al 1324); secondo decennio del XIV secolo Iscrizioni: “IHC (= Iesus) NAZA/REN(us) REX / IUDEOR(um)”. Iconografia: La croce presenta tre tabelloni stellati e sei in- nesti curvilinei a mediare il passaggio tra il braccio oriz- zontale, quello verticale e il suo ingrossamento nella parte centrale, esteso fino agli stinchi del Crocifisso. Il Cristo è morente, con gli occhi e la bocca socchiusi e la testa pen- dente sulla spalla destra. Nei due tabelloni laterali, tra le parti più danneggiate dell’opera insieme alla zona infe- riore, sono raffigurati la Madonna e San Giovanni dolenti, in quello superiore il Redentore benedicente, che tiene un libro nella mano sinistra. Al di sotto del braccio orizzontale della croce il fondo è occupato da un ricco tessuto con mo- tivi geometrici e vegetali sulle tinte dell’azzurro, del rosso e del bianco, che sfruttano a risparmio la lamina d’oro sot- tostante. La croce iscritta nell’aureola è ornata da losanghe e tondini di colore azzurro e campeggia contro un fondo di racemi incisi a mano libera. Tempera su tavola, cm 321 x 238. La croce si conserva nel luogo per il quale fu di- pinta, la chiesa gotica dei minori di Sassoferrato. La prima notizia di un insediamento dei frati è del 1248, mentre una bolla d’indulgenza di Niccolò IV del 1290 (Wadding 1628, pp. 581-582) potrebbe in- dicare un periodo di lavori cui far risalire i resti di affreschi nella volta e nel sottarco dell’abside (Don- nini – Parisi Presicce 1994, p. 150; Marchi 1998, pp. 44-46). Forse a suggello di questa campagna giunse il Crocifisso, la cui paternità è stata a lungo discus- sa. Lionello Venturi (1915), seguito da Luigi Serra (1929), lo ritenne “il migliore di tutti” i Crocifissi riminesi delle Marche e “il più vicino al Baronzio”, alludendo alla croce di Mercatello di Giovanni da Rimini, allora creduto tutt’uno con l’altro Giovan- ni. Nella stessa scia si colloca Cesare Brandi (1937), del quale si ricordano volentieri gli aggettivi spesi per questo Crocifisso, “fosco e pur nobile”. Carlo Volpe (1965) non ebbe esitazioni nell’inserirlo nel profilo dello sfuggente ‘Maestro del coro di Sant’A- gostino’ a Rimini, mentre Antonio Corbara (in Re- stauri 1973) preferì mantenerlo nell’anonimato. Due interventi contemporanei di Miklós Boskovits (1988) e di Anna Tambini (1988), seguìti all’ultimo restauro, hanno proposto soluzioni divergenti del quesito attributivo, il primo in favore di Giovan- ni, il secondo di Giuliano, concordando peraltro sull’unità di mano con gli affreschi di San Marco a Jesi e su una datazione nel secondo decennio. La critica successiva è unanime nell’accogliere il riferimento a Giuliano, non senza notare che la parentela nel frattempo scoperta tra i due pittori (Delucca 1992, pp. 132-135) può spiegare l’indub- bia vicinanza allo stile dell’altro riminese (Benati 1995a; Tambini, in Il Trecento 1995). Il rapporto con Giovanni si misura al meglio nel confronto con la croce di Mercatello, giacché l’u- na e l’altra seguono fedelmente, nella carpenteria e nell’iconografia, il modello di Giotto nel Tempio Malatestiano. Alle silhouettes allungate, alle sfu- mature delicatissime, al sentimento contenuto di Giovanni corrispondono in Giuliano figure più espanse, un fare più grafico che richiama ancora il dossale eseguito nel 1307 per Urbania (Boston, Isa- bella Stewart Gardner Museum), una passione più accesa. È questa una delle opere più alte di Giulia- no, che nel dialogo col fratello smussa le asprezze dei suoi modi giovanili e perviene a un risultato di classico equilibrio, toccando il momento più pro- fondamente giottesco della sua carriera. Matteo Mazzalupi Restauri: Leonetto Tintori e Alfio del Serra, 1962; Martino e Anna Oberto, 1972; CBR di Romeo Bigini, 2014. Esposizioni: Restauri nelle Marche. Testimonianze acqui- sti e recuperi, Urbino, 1973; Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento, Fabriano, 2014. Bibliografia: Venturi 1915, p. 11; Serra 1929, p. 275; Brandi 1937, p. 197; Volpe 1965, pp. 34-35, 78, cat. 45; Corbara, in Restauri 1973, pp. 57-59, cat. 11; Boskovits 1988, pp. 40-41; Tambini 1988, pp. 51-59; Donnini, Parisi Presicce 1994, pp. 148-149; Benati 1995a, p. 42; Marchi 1995b, p. 113; Tambini, in Il Trecento 1995, p. 289; Volpe 2002, p. 136; Volpe 2004, p. 32; Gaeta 2013, pp. 331-332, cat. 137; Marchi, in Da Giotto 2014, pp. 134-135, cat. 12.

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12. Sassoferrato (An), Chiesa di San FrancescoGiuliano da Rimini (doc. dal 1300 al 1324); secondo decennio del XIV secolo

Iscrizioni: “IHC (= Iesus) NAZA/REN(us) REX / IUDEOR(um)”.Iconografia: La croce presenta tre tabelloni stellati e sei in-nesti curvilinei a mediare il passaggio tra il braccio oriz-zontale, quello verticale e il suo ingrossamento nella parte centrale, esteso fino agli stinchi del Crocifisso. Il Cristo è morente, con gli occhi e la bocca socchiusi e la testa pen-dente sulla spalla destra. Nei due tabelloni laterali, tra le parti più danneggiate dell’opera insieme alla zona infe-riore, sono raffigurati la Madonna e San Giovanni dolenti, in quello superiore il Redentore benedicente, che tiene un libro nella mano sinistra. Al di sotto del braccio orizzontale della croce il fondo è occupato da un ricco tessuto con mo-tivi geometrici e vegetali sulle tinte dell’azzurro, del rosso e del bianco, che sfruttano a risparmio la lamina d’oro sot-tostante. La croce iscritta nell’aureola è ornata da losanghe e tondini di colore azzurro e campeggia contro un fondo di racemi incisi a mano libera.Tempera su tavola, cm 321 x 238.

La croce si conserva nel luogo per il quale fu di-pinta, la chiesa gotica dei minori di Sassoferrato. La prima notizia di un insediamento dei frati è del 1248, mentre una bolla d’indulgenza di Niccolò IV del 1290 (Wadding 1628, pp. 581-582) potrebbe in-dicare un periodo di lavori cui far risalire i resti di affreschi nella volta e nel sottarco dell’abside (Don-nini – Parisi Presicce 1994, p. 150; Marchi 1998, pp. 44-46). Forse a suggello di questa campagna giunse il Crocifisso, la cui paternità è stata a lungo discus-sa. Lionello Venturi (1915), seguito da Luigi Serra (1929), lo ritenne “il migliore di tutti” i Crocifissi riminesi delle Marche e “il più vicino al Baronzio”, alludendo alla croce di Mercatello di Giovanni da Rimini, allora creduto tutt’uno con l’altro Giovan-ni. Nella stessa scia si colloca Cesare Brandi (1937), del quale si ricordano volentieri gli aggettivi spesi per questo Crocifisso, “fosco e pur nobile”. Carlo Volpe (1965) non ebbe esitazioni nell’inserirlo nel profilo dello sfuggente ‘Maestro del coro di Sant’A-gostino’ a Rimini, mentre Antonio Corbara (in Re-

stauri 1973) preferì mantenerlo nell’anonimato. Due interventi contemporanei di Miklós Boskovits (1988) e di Anna Tambini (1988), seguìti all’ultimo restauro, hanno proposto soluzioni divergenti del quesito attributivo, il primo in favore di Giovan-ni, il secondo di Giuliano, concordando peraltro sull’unità di mano con gli affreschi di San Marco a Jesi e su una datazione nel secondo decennio. La critica successiva è unanime nell’accogliere il riferimento a Giuliano, non senza notare che la parentela nel frattempo scoperta tra i due pittori (Delucca 1992, pp. 132-135) può spiegare l’indub-bia vicinanza allo stile dell’altro riminese (Benati 1995a; Tambini, in Il Trecento 1995).Il rapporto con Giovanni si misura al meglio nel confronto con la croce di Mercatello, giacché l’u-na e l’altra seguono fedelmente, nella carpenteria e nell’iconografia, il modello di Giotto nel Tempio Malatestiano. Alle silhouettes allungate, alle sfu-mature delicatissime, al sentimento contenuto di Giovanni corrispondono in Giuliano figure più espanse, un fare più grafico che richiama ancora il dossale eseguito nel 1307 per Urbania (Boston, Isa-bella Stewart Gardner Museum), una passione più accesa. È questa una delle opere più alte di Giulia-no, che nel dialogo col fratello smussa le asprezze dei suoi modi giovanili e perviene a un risultato di classico equilibrio, toccando il momento più pro-fondamente giottesco della sua carriera. Matteo Mazzalupi

Restauri: Leonetto Tintori e Alfio del Serra, 1962; Martino e Anna Oberto, 1972; CBR di Romeo Bigini, 2014.Esposizioni: Restauri nelle Marche. Testimonianze acqui-sti e recuperi, Urbino, 1973; Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento, Fabriano, 2014.Bibliografia: Venturi 1915, p. 11; Serra 1929, p. 275; Brandi 1937, p. 197; Volpe 1965, pp. 34-35, 78, cat. 45; Corbara, in Restauri 1973, pp. 57-59, cat. 11; Boskovits 1988, pp. 40-41; Tambini 1988, pp. 51-59; Donnini, Parisi Presicce 1994, pp. 148-149; Benati 1995a, p. 42; Marchi 1995b, p. 113; Tambini, in Il Trecento 1995, p. 289; Volpe 2002, p. 136; Volpe 2004, p. 32; Gaeta 2013, pp. 331-332, cat. 137; Marchi, in Da Giotto 2014, pp. 134-135, cat. 12.

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14. Sassocorvaro (Pu), Museo della Rocca (dalla Chiesa di San Francesco)Giuliano da Rimini (doc. dal 1300 al 1324); 1325

Iscrizioni: “[Iesu]S N[azarenus rex iudeorum]”.Iconografia: A causa delle gravi mutilazioni, che hanno pri-vato la croce dei tabelloni, non si conosce la conformazione originale dell’opera, che verosimilmente presentava nei ta-belloni le consuete figure del Redentore e dei dolenti (per una ricostruzione ipotetica, con tabelloni stellati che por-terebbero le misure a circa 320 x 270 cm, cfr. Budassi 1992, pp. 62-63). Il Cristo è raffigurato nel momento del trapas-so, col capo reclinato sulla spalla destra e gli occhi quasi chiusi. Del titulus rimangono pochi resti di lettere dorate su fondo rosso. Il contorno della croce era segnato da una striscia dorata, visibile sotto il braccio e presso la gamba destra del Cristo, e da una fascia dipinta più esterna in ros-so su argento, simili a motivi presenti nella croce di Giotto nel Tempio Malatestiano di Rimini e a due sue derivazio-ni eseguite per la stessa città, la croce di Sant’Agostino e quella di Giovanni da Rimini oggi nel Museo della Città. Sull’aureola, fortemente concava, è disegnata con incisioni profonde una croce rossa profilata in nero.Tempera su tavola, cm 233 x 159.

La chiesa di San Francesco, demolita nel secondo dopoguerra, sorgeva a breve distanza dalla Rocca. Era stata edificata nel 1297, ma consacrata solo nel 1381 (Scatassa 1903a, p. 123; 1903b, p. 12; Rossi 1938, p. 58). La croce è descritta negli inventari dal 1640 al 1897, passando per tutto il secolo XVIII (1712, 1724, 1734, 1756, 1778: Lanciarini 1996-1997, pp. 71-88). Non è chiaro quando sia stata spostata nel campanile, dove Ercole Scatassa la ritrovò sporca e impolverata, sottoponendola poi a un primo restau-ro (Scatassa 1903b); dalla chiesa passò al municipio (Venturi 1915; Serra 1929), poi alla collegiata, infine alla Rocca (Marchini, in Notiziario 1964 e in Restauri 1965; Volpe 1965).Lionello Venturi (1915) la indicò come opera rimine-se del Trecento, seguìto da Lugi Serra (1922), il quale poi (1929) la inserì in un eterogeneo gruppo di croci marchigiane (Talamello, Sassoferrato, Macerata Fel-tria, Pergola) “alla diretta dipendenza del Crocifisso di Mercatello” di Giovanni da Rimini, pittore allora confuso con Giovanni Baronzio. Nuove considera-zioni critiche seguirono il restauro del 1961-1962. Nel pubblicare il dipinto dopo quest’intervento, Giuseppe Marchini lo riferì dapprima a scuola giot-tesca (in Notiziario 1964) e poi più specificamente (in Restauri 1965) a un anonimo riminese, sottolineando la derivazione fedele dal modello giottesco di Rimi-ni e la qualità molto alta, “sì da doverla anteporre a qualunque altro dei Crocifissi suscitati nelle zone circonvicine da quel prototipo”. Carlo Volpe (1965) propose con cautela un’attribuzione all’autore del frammento di Crocifisso del Metropolitan Museum di New York (inv. 39.42) e una data anteriore al 1330. Roberto Budassi (1992) ha retrodatato la cro-ce tra primo e secondo decennio, in ragione della vicinanza al modello, e vi ha ritrovato somiglianze col Cristo della Crocifissione affrescata in Santa Croce a Villa di Verucchio e con le opere del ‘Maestro di Verucchio’ alias Francesco da Rimini. Per Francesco Vittorio Lombardi (1995) la paternità si giocherebbe

tra Giovanni e Francesco, mentre secondo Alessan-dro Marchi (1995a, 1995b, 1998) l’opera, prossima al frammento di New York, uscì nel terzo decennio dal-la bottega di Pietro da Rimini, forse accompagnata dai tre tabelloni erratici del Walters Art Museum di Baltimora (inv. 37.634). Anna Tambini (1999) ritiene, per i molti caratteri arcaici, la tenerezza dello sfu-mato e l’espressività dolce, che il Crocifisso di Sas-socorvaro vada tolto dall’orbita di Pietro e spostato in quella di Giuliano e ancor meglio di suo fratello Giovanni, collocandolo nel secondo decennio. An-drea De Marchi (in Fonds 2002; 2003a) vi riconosce piuttosto la mano di Giuliano, in epoca anteriore alla croce di Sassoferrato e al frammento nella Fondazio-ne Cassa di Risparmio di Rimini (in deposito presso il Museo della Città). Alessandro Volpe (2002), che sembra ritornare alle conclusioni di Budassi, accet-ta una datazione verso il 1320-1325. In una recente occasione (Mazzalupi, in Arte francescana 2007) ho potuto confermare questa cronologia sulla scorta di una preziosa fonte seicentesca, la Genealogia Se-raphica del francescano Ilario Altobelli (1560-1637), che come testimonianza più antica per la storia del convento di Sassocorvaro ricorda proprio la data di questo Crocifisso, 1325, evidentemente allora leg-gibile in una parte poi perduta: “Conventus Sassi Corbarii ante annum Domini 1325 deprehenditur ex Crucifixo sanctissimo veteri facto eodem anno, sed structura ostendit maiorem antiquitatem” (Roma, Archivio dei Frati Minori Irlandesi di Sant’Isidoro, ms. 2/30, c. 61v). La data è compatibile col poco che sappiamo di Giuliano, ricordato nelle carte d’archi-vio forse fin dal 1292 e certamente dal 1300 al 1323, già morto nel 1346 (Delucca 1992, pp. 49, 51-52, 87-89, 133; Id. 1997, pp. 39-41, 59, 73, 75-76), firmatario nel 1307 del dossale dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, proveniente da Urbania, e nel 1324, insieme a Pietro da Rimini, di un perduto po-littico per la chiesa degli Eremitani a Padova. Che sia lui l’autore della croce di Sassocorvaro mi sem-bra ancora la conclusione più plausibile. L’accosta-mento alla Crocifissione di San Marco a Jesi e al lacer-to della Fondazione di Rimini denuncia l’identità di mano, ma anche un salto di qualità, in specie negli incarnati più sfumati e nel dolore più nobilmente espresso, spiegabile con un avvicinamento ai modi del fratello Giovanni, già chiamato in causa in prima persona come autore di questa croce.

Matteo Mazzalupi

Restauri: Ercole Scatassa, 1903; Alfio Del Serra, 1962-1963.Esposizioni: Restauri d’arte in Italia, Roma, 1965; Arte fran-cescana. Tra Montefeltro e Papato 1234-1528, Cagli, 2007.Bibliografia: Scatassa 1903b; Venturi 1915, p. 11; Serra 1922, p. 46; Serra 1929, p. 273; G. Marchini, in Notiziario 1964, pp. 277-278; Id., in Restauri 1965, p. 120, cat. XXVI, e tavv. 61-62; Volpe 1965, pp. 54, 80; Valazzi 1988, pp. 104, fig. 2, e pp. 107-108; Budassi 1992; Lombardi 1995, pp. 292-293; Marchi 1995a, p. 104; Marchi 1995b, p. 113; Marchi 1998, p. 69, nota 35; Tambini 1999, pp. 461-462; De Marchi, in Fonds 2002, pp. 25, 26, nota 1, 27, nota 12; Volpe 2002, pp. 148-149; De Marchi 2003a, pp. 22, 23, nota 12; Mazzalupi, in Arte francescana 2007, pp. 99, 166-167, cat. 30; Gaeta 2013, p. 331, cat. 136.

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31. San Severino Marche (Mc), Pinacoteca Civica (dalla Chiesa di Santa Croce di Gaglianvecchio)Maestro di Gaglianvecchio; primo quarto del XV secolo

Iconografia: I bracci della croce sono caratterizzati, alle estremità laterali e inferiore, da insoliti ingrossamenti cir-colari, ciascuno dei quali ospita un angelo biondo, librato su nuvolette, che raccoglie il sangue di Cristo. A tali tabel-loni corrisponde in alto una tavola della stessa forma, ma leggermente maggiore, contenente la testa di Cristo. Una sottile cornice dipinta assicura che la sagoma attuale è in-teramente originale. Il Crocifisso è raffigurato già morto, col capo leggermente reclinato sulla spalla destra. Ai suoi fianchi, in proporzioni gerarchicamente minori, si trovano a destra San Giovanni, a sinistra la Madonna e, seminasco-sto dietro di lei, un quarto angelo simile agli altri. I dolenti poggiano su un piano di colore violaceo, mentre alle loro spalle e in tutta la parte alta della croce lo sfondo è decora-to da quadrati con quadrilobi inscritti. Tempera su tavola, cm 185 x 173.

Nella piccola chiesa parrocchiale di Gaglianvecchio, nelle campagne di San Severino Marche, la croce occupava fino alla sua rimozione il posto d’onore, all’altar maggiore, ma nel Seicento la collocazione della “crux lignea cum immagine Sanctissimi Cru-cifixi” è attestata invece “prope parietem et in facie ianue minoris” (Archivio diocesano di San Severi-no Marche, Visite pastorali, 979, vescovo Sperelli, a. 1626, p. 61), nel luogo cioè dove si è rinvenuta una nicchia sagomata, alta circa 210 cm e larga 175, che può essere stata l’alloggiamento del dipinto. Coin-volta negli anni sessanta in un incendio, la tavola è stata spostata nella cattedrale in seguito allo spo-polamento del villaggio d’origine ed è stata infine depositata presso la pinacoteca.Dopo un primo riferimento all’ambito dei Salimbe-ni, proposto da Luigi Serra (1933), Alberto Rossi (in Mostra 1970) preferì parlare di un pittore “umbro-camerte”, evocando i nomi di ‘Carlo’ da Camerino, Arcangelo di Cola, Cola di Pietro, e notando un rapporto con la Crocifissione della Pinacoteca Civi-ca di Camerino proveniente dalla locale chiesa di Sant’Angelo. La traccia settempedana fu recuperata subito dopo da Luigi Dania (in Pittura 1971), che vi riconobbe un pittore “strettamente ossequiente al mondo di Lorenzo Salimbeni” e suggerì confronti con opere di analogo soggetto: le Crocifissioni della Galleria Nazionale dell’Umbria e di San Domenico a Cingoli. Questa lettura è in sostanza accolta da Andrea De Marchi (1988-1989), che peraltro ha fatto dell’opera il name-piece e la primizia di un artista che avrebbe in seguito intrapreso strade differenti, in di-rezione di Arcangelo di Cola e poi di Bartolomeo di Tommaso, dipingendo tra l’altro la già citata Croci-fissione camerte, quella gemella del Museo “Raffaele Campelli” di Pievebovigliana e da ultimo, verso il 1440, il trittico di Montesanto di Sellano passato al

Museo Diocesano di Spoleto (in quest’ultima opera ho ipotizzato ora la collaborazione del giovanissimo Giovanni Angelo d’Antonio: Mazzalupi 2013, p. 48). Tale ricostruzione, accettata da Marta Paraventi (in Lorenzo 1999, con un’impossibile retrodatazione sul 1400) e da me (Mazzalupi, in Il Quattrocento 2002; Id. 2013), è stata di recente contestata da Mauro Mi-nardi (2008, p. 117, nota 51), che propone di staccare l’opera eponima dal resto del catalogo.Quest’ultima idea mi pare oggi condivisibile. Al di là del sapore salimbeniano, più volte sottolineato, delle figure di San Giovanni nelle Crocifissioni di Camerino e Pievebovigliana, è difficile scorgere in quel gruppo di opere veri legami con Gaglianvec-chio. Tutto nella croce parla la lingua sanseverinate: le tinte acidule delle vesti, con accostamenti sottoli-neati da capricciosi risvolti, le ali gialle e verdi degli angeli, i capelli selvatici dell’apostolo, le espressioni sconvolte che nella sigla a S delle guance volgariz-zano un vocabolo di Lorenzo (vedi l’angelo che si straccia la veste nella Crocifissione di Urbino, 1416), il fondo operato ripreso ad litteram da modelli quali le Storie di San Giovanni Evangelista e l’affresco con la Madonna col Bambino e San Francesco, conservati nel-la stessa pinacoteca. Perfino la scelta di disporre sui margini di una croce dipinta gli angeli, del tutto inu-suale, parrebbe dettata dalla volontà di conformarsi a ogni costo alle Crocifissioni affrescate salimbeniane. Piuttosto che supporre una conversione del pittore da tali modi alla sequela di Arcangelo di Cola e al suo gusto per incarnati più sfumati e ricchi decori a punzone (del tutto assenti nella croce), mi sembra giusto distinguere due personalità: da una parte un seguace stretto di Lorenzo Salimbeni, verosimilmen-te un diretto allievo settempedano, del quale per ora ci mancano ulteriori testimonianze, dall’altra un ca-merinese cresciuto nell’orbita di Arcangelo e attivo ancora a metà secolo, cui continuano ad attagliarsi bene i dati biografici di Angelo di Bartolomeo da Camerino, col quale ho proposto di identificare que-sto secondo maestro (Mazzalupi 2007, pp. 121-123; cfr. Mazzalupi 2013, p. 48, per l’attribuzione di una Incoronazione della Vergine datata 1450). Matteo Mazzalupi

Restauri: Andrea Rothe, 1965; Paolo Castellani, 1970.Esposizioni: Mostra di opere d’arte restaurate, Urbino, 1970; Pittura nel Maceratese dal Duecento al Tardo Gotico, Ma-cerata, 1971; Lorenzo e Jacopo Salimbeni di San Severino Marche e la civiltà tardogotica, San Severino Marche, 1999; Il Quattrocento a Camerino. Luce e prospettiva nel cuore della Marca, Camerino 2002.Bibliografia: Serra 1924-1925b, p. 157; Serra 1933, p. 171; Ser-ra 1934, p. 268; Rossi, in Mostra 1970, pp. 67-68; Dania, in Pittura 1971, p. 128, cat. 30; De Marchi 1988-1989, p. 198, nota 19; Paraventi, in Lorenzo 1999, p. 162; Mazzalupi, in Il Quattrocento 2002, pp. 167-168, cat. 17; Minardi 2008, pp. 116-117; Mazzalupi 2013, p. 57, nota 78.

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37. Jesi (An), Museo Diocesano (dalla Cappellina di San Pietro Martire)Andrea di Bartolo da Jesi (doc. dal 1464 al 1475); circa 1475

Iscrizioni: “I(esus) N(azarenus) R(ex) I(udeorum)”; “[Respi-ce] i(n) facie(m) Chr(ist)i tui” (dalla bocca del Crocifisso).Iconografia: Alle estremità si trovano quattro enormi termi-nazioni dal profilo mistilineo, contenenti le immagini dei simboli degli evangelisti: in alto Giovanni, a sinistra Matteo, a destra Marco, in basso Luca. Ognuno degli esseri è accom-pagnato da un libro chiuso (per la rarità delle immagini del Tetramorfo nelle croci dipinte cfr. cat. 40). Il braccio verticale si allarga nella parte al di sotto di quello orizzontale per con-tenere il corpo del Crocifisso, per poi rastremarsi all’attacco col tabellone inferiore. La croce è piantata su un Calvario rappresentato come una montagnola rossa. Cristo, infisso al legno con quattro chiodi, è raffigurato già morto e dalla sua bocca escono delle parole, vergate in lettere gotiche minusco-le e dirette verso il basso alla sinistra dell’osservatore. Il titu-lus è una tabella rossa inscritta a lettere maiuscole bianche.Tempera su tela incollata su tavola; cm 261 x 215.

La cappella di provenienza esiste tuttora nel giar-dino del convento dei cappuccini, pur sommersa da erbacce e adibita a magazzino. Sul fondo del minuscolo sacello un tavolato centinato mostra al centro la sagoma della croce lasciata a legno nudo e ai lati, in basso, le figure inginocchiate di San Pietro martire a sinistra e San Domenico a destra, opera di un modesto pittore del tardo Cinquecento o primo Seicento. Al primo santo si rivolge la frase che esce dalla bocca del Crocifisso, in ricordo di un episodio qui avvenuto: Pietro da Verona, relegato per un’in-giusta punizione dai superiori nel convento di Jesi, si lamentò dell’esilio immeritato davanti a un Cro-cifisso, il quale gli rispose “Et ego, Petre, quid feci? Respice in faciem Christi tui” (Gritio 1578, pp. 26-27; Baldassini 1765, pp. 53-54). Intorno al 1436 i dome-nicani lasciarono il primitivo convento extraurbano di Sant’Agostino, dov’era avvenuto il fatto, e s’in-sediarono entro le mura presso Sant’Antonio abate, poi San Domenico, portando con sé il Crocifisso, per il quale costruirono una cappella cui si lavorava nel 1467 (Annibaldi 1886, pp. 20-21); nel 1476 si parla più volte del desiderio di onorare maggiormente il Crocifisso, il che si sarebbe fatto, secondo Giovan-ni Annibaldi (ibidem, pp. 21-24), costruendogli una custodia. Tale custodia fu trovata vuota nel 1479: il Crocifisso era stato rubato da un frate. Secondo gli scrittori locali, esso fu portato a Chioggia e sareb-be identificabile nell’enorme scultura lì conservata in San Domenico (Baldassini 1765, p. 178; Annibal-di 1886, pp. 6-7, 27-28). La differenza dimensionale portò l’Annibaldi (ibidem, p. 39) a escludere che la custodia del Crocifisso di San Pietro Martire fosse la presente croce. Tuttavia la scultura di Chioggia è indubbiamente posteriore ai tempi del domenicano veronese, e d’altra parte la nostra croce sembra esser nata proprio come custodia, giacché il supporto li-gneo ha uno spessore di quasi 10 cm ed è cavo all’in-terno, e nel Cristo inchiodato coi piedi separati imita senz’altro un esemplare arcaico: si potrebbe allora

recuperare l’ipotesi che essa contenesse il Crocifis-so del miracolo, il quale non sarebbe però quello di Chioggia, ma un altro più piccolo, e forse non inta-gliato ma dipinto su tavola, perduto o da identifica-re. Se l’ipotesi fosse giusta, il 1476 potrebbe indicare l’epoca approssimativa della croce, finita solo più tardi nella cappellina di via San Pietro Martire.Per l’Annibaldi (ibidem, p. 38), che slegava le vicende della croce da quelle della cappella in San Domenico, essa spetterebbe a un pittore locale del secondo quarto del Quattrocento. Gli studi seguenti dipendono in mas-sima parte dal vecchio lavoro dell’Annibaldi e pertanto ripetono che si tratta dell’opera di un anonimo del XV secolo. Nonostante lo stato di conservazione pessimo, con la pellicola pittorica ridotta ai minimi termini, a me sembra che la figura meglio giudicabile, l’angelo di San Matteo, tradisca nel tipico disegno degli occhi e nelle mani un po’ informi lo stile di Andrea di Bartolo da Jesi, che firmò nel 1473 gli affreschi di San Fortunato a Serra de’ Conti e la Madonna della Misericordia nell’o-monima chiesa di Belvedere Ostrense (quest’ultima iscrizione è perduta). Sulla base di queste opere si sono attribuiti ad Andrea alcuni altri affreschi: una Madon-na e due Santi e un San Sebastiano nel Museo di Ostra Vetere, già in San Francesco, del 1471; la Madonna del Sole nel santuario eponimo di Belvedere Ostrense, dello stesso anno; un San Sebastiano in Santa Maria della Pia-na a Castiglioni di Arcevia; la Madonna di Santa Maria fuori Monsano, chiesa nella quale Andrea aveva firma-to nel 1475 i perduti affreschi del portico. Al catalogo va aggiunta la Crocifissione del municipio di Polverigi, già attribuita a Giovanni Antonio Bellinzoni da Pesaro (Marchi 2008a e 2009), pittore che di fatto esercitò un forte influsso su Andrea e fu forse suo maestro; nel 1474 lo jesino è presente in un rogito pesarese riguar-dante il fratello di Giovanni Antonio, Cecco, anch’egli pittore (Berardi 1988, p. 185, doc. 46; Id. 2000, p. 76, doc. 22/r). Più incerta la paternità della Madonna delle Grazie di Jesi, tradizionalmente assegnata a questa pic-cola gloria locale, ma più vicina ai modi della famiglia Bellinzoni (Marchi 2008a, pp. 220-222). Sul fronte do-cumentario, fu Anselmo Anselmi (1905) a render note, dopo la morte dell’Annibaldi, le sue ricerche su An-drea, remunerato dal comune per lavori di routine tra il 1464 e il 1473, forse vivente nel 1478 e ancora nel 1492. Uno dei pagamenti del comune, del marzo-aprile 1468, fu collegato dall’Annibaldi (1886, p. 21) a una possibile attività nella cappella del Crocifisso in San Domenico, ma il testo del documento – un semplice versamento di 2 fiorini a “magistro Andree pictori” (Archivio storico comunale di Jesi, Registri generali di entrata e uscita, 3, aa. 1464-1468, c. 263r) – non autorizza una simile in-terpretazione. Più interessante semmai è che nel 1474 il pittore fosse in lite con l’ospedale di San Pietro Mar-tire, che era gestito dall’omonima confraternita, legata ai domenicani (Annibaldi 1886, pp. 17-18) e rimasta presso Sant’Agostino/San Pietro Martire dopo l’inur-bamento dei frati (ibidem, p. 30): un altro, labile indizio per la cronologia della croce-custodia di Andrea da Jesi. Matteo Mazzalupi

189Restauri: Francesca Pappagallo, 2003.Esposizioni: III mostra di arte sacra nella Vallesina, Jesi, 1983.Bibliografia: Annibaldi 1886, pp. 36-39; Urieli, in III mostra

1983, pp. 20-21; Urieli 1993, p. 133; Santarelli 1999, pp. 140-143; Santarelli, in La Chiesa di Jesi 2000, pp. 51-52; Galeazzi, Perlini, Urieli 2001, p. 18; Barchi 2011, p. 181.

41. Serrapetrona (Mc), loc. Villa d’Aria, Chiesa di Sant’ElenaPittore marchigiano; seconda metà del XV secolo

Iscrizioni: “I(esus) N(azarenus) R(ex) I(udeorum)”; “S[ecun]du[m] / Iov[an]ne(m). / [In] pr[in]cip/io erat / Verbum / et Verb/um era/t adpu (!) // Deum et / Deus / erat Ve/rbu(m). Hoc / erat i(n) p/rincipio / aput De/um” (aquila di San Giovanni: Giovanni I, 1-2); “Secu/ndu(m) M/ateu(m). Liber / gene/[r]ati//[o]nis / [Iesu] Chr(ist)i / filii D(avi)D / filii Abr/aa(m). [Abr]/aa(m)” (toro di San Luca: Matteo I, 1-2); “Secu(n)/dum / Marcu(m). / Initiu(m) / Eva(n)ge/lii Ih(es)u / Chr(ist)i filii // Dei. Sic/ut scr/iptu(m) e(st) / i(n) Isaia / p(ro)feta: / Ecce m/itto a(n)ge/lum” (leone di San Marco: Marco I, 1-2).Iconografia: Le estremità del braccio orizzontale e quella su-periore del braccio verticale si concludono ciascuna in tre lobi, di profilo in origine leggermente diverso dall’attuale e riconoscibile grazie ai contorni della superficie dipinta. Tali estremità sono occupate dai simboli degli evangelisti Luca (a sinistra), Marco (a destra) e Giovanni (in alto), librati su banchi di nuvolette; ognuno degli esseri tiene aperto un libro con l’incipit del rispettivo Vangelo (a Luca è associato erro-neamente il Vangelo di Matteo); l’angelo di Matteo si trova sul braccio verticale, al di sotto del Crocifisso, e tiene le pagi-ne del libro rivolte verso di sé. Il Cristo, col capo coronato di spine e circondato da un’aureola rossa, ha gli occhi e la bocca socchiusi e la testa reclinata sulla spalla destra. Lo sfondo della croce è dipinto d’azzurro. La Madonna e San Giovan-ni, in piedi su un prato contro un cielo fitto di nuvole, sono dipinti su tavolette separate, un tempo montate sullo stesso gradino ligneo nel quale è infitta la croce; nel recente restauro queste sono state attaccate ai due lati del braccio verticale, all’altezza del perizoma e delle gambe del Crocifisso. Tempera su tavola; cm 201 x 157, (le tavolette dei Dolenti cm 59,5 x 30,5 ciascuna).

Il paese di Villa d’Aria era sottoposto in passato a Castel San Venanzio, la cui parrocchiale era nota in antico come pieve d’Aria. Ricordata per la prima volta nel 1199, tra le dipendenze del monastero di San Mariano in Val Fabiana (presso Colleluce, San Severino Marche), la chiesa di Sant’Elena è un pic-colo edificio dalla pianta rettangolare spiccatamente allungata. La presenza del dipinto si confà all’in-titolazione alla madre di Costantino, che ritrovò a Gerusalemme la Vera Croce; dal Cinquecento vi è documentata la celebrazione della festa dell’Esalta-zione della Croce, il 3 maggio (Archivio storico della Curia arcivescovile di Camerino, Visite pastorali, 6, vescovo De Buoi, aa. 1581-1587, c. 211r, 13 dicembre 1581). L’opera è custodita in una nicchia centinata sulla parete destra, probabilmente corrispondente all’altare del Crocifisso, menzionato a metà Ottocen-to (ibidem, Visite pastorali, 58, arcivescovo Salvini, aa. 1848-1854 pp. 245-246, 5 dicembre 1854), ma po-trebbe essere nata per una posizione più eminente e centrale. La costruzione attuale è troppo bassa per-ché si possa supporre una collocazione al di sopra di una trave trasversale (secondo l’ipotesi di Fabio Marcelli, in Il Quattrocento 2002), e pare improbabile che nei secoli passati il tetto fosse molto più alto. È possibile che la sede originaria fosse la nicchia sulla parete di fondo, di dimensioni compatibili, oggi oc-cupata da una modesta tela del 1580.

Luigi Serra (1924-1925b) citò il dipinto come opera quattrocentesca dell’Italia centrale (affermando er-roneamente che le tavolette sarebbero su fondo oro), mentre Romano Romani (in Guida 1927) vi vide la “maniera del Crivelli”; entrambi gli studiosi prese-ro la Vergine per una Maddalena. La voce isolata di Otello Marcaccini (1967) ne fa un’opera sanseverina-te di fine Trecento, ma a una cronologia nel secolo seguente ritornò Angelo Antonio Bittarelli (1975, in Camerino 1976, e 1977 e in Castel San Venanzio 1997), che chiamò in causa il Maestro del Patullo, figura che più tardi ho risolto nell’attività giovanile (circa 1460) di Girolamo di Giovanni da Camerino. Tale attribu-zione, poco convincente già per Giacomo Boccanera (1990), è stata respinta anche, sulla scia di Andrea De Marchi (2003b), da Marcelli (in Il Quattrocento 2002), che preferisce assegnare l’opera a un ignoto marchi-giano dell’ultimo decennio del Quattrocento e nell’a-natomia del Cristo legge i segni di un interesse per i coevi Crocifissi di Giovanni Teutonico.La croce di Villa d’Aria rimane tuttora un oggetto misterioso, almeno per occhi avvezzi soprattutto all’arte marchigiana. Il Crocifisso dalle braccia esili e lunghissime, il tono quasi araldico delle figure ani-mali, tra le parti più felici dell’opera, certi caratteri compendiari come gli spessi contorni neri e la limita-ta tavolozza, sono gli ingredienti di una miscela cui non riesce di associare un nome. Mentre Girolamo di Giovanni e i camerinesi sono senz’altro fuori luo-go, a qualcosa può servire recuperare la vecchia eti-chetta crivellesca, che però non spiega tutto. Non mi stupirei se un giorno si scoprisse che questa è l’opera di uno straniero, magari un dalmata o un albanese. Certo gli erano familiari i Crocifissi veneziani: non solo per la rara scelta del Tetramorfo, comune nelle croci astili ma tipica dei veneti in pittura (Paolo Ve-neziano a Dubrovnik, Niccolò di Pietro a Verucchio, Giovanni Badile in San Giovanni in Fonte a Verona, a fronte di un solo altro caso marchigiano, la croce qui attribuita ad Andrea da Jesi), ma anche per l’idea di dipingere i dolenti su tavolette separate. Sospetto infatti che la ricomposizione ultima, condotta sulla scorta della bibliografia e del rinvenimento di quat-tro piccoli incavi sul verso della croce (ma senza trac-ce di chiodi o cerniere), abbia creato un ibrido impro-prio e che invece l’allestimento originale prevedesse, come già suggerito da Fabio Marcelli, le due tavole staccate e montate in basso ai piedi della croce, ana-logamente ancora una volta ai veneti (vari esempi di Paolo Veneziano, Catarino Veneziano a Cadoneghe) nonché alle iconostasi bizantine. Due listelli verticali sui fianchi di ciascuno dei pannelli, alti cm 27 e spes-si 1,5, nascosti dalle cornici posticce, forse colmano gli alloggiamenti di quattro staffe che fungevano da sostegni. Altro indizio è nel bordo esterno della cro-ce: esso è dipinto di rosso lungo tutto il perimetro, comprese le porzioni presso le quali sono ora fissate le due tavole, segno che anche in questi punti tale bordo era libero e visibile.Matteo Mazzalupi

197Restauri: Maurizio Ciaroni, 2002.Esposizioni: Il Quattrocento a Camerino. Luce e prospettiva nel cuore della Marca, Camerino, 2002.Bibliografia: Serra 1924-1925b, p. 425; Romani, in Guida 1927, p. 272; Marcaccini 1967, p. 247; Bittarelli 1975, p. 94;

Bittarelli, in Camerino 1976, p. 234; Bittarelli 1977, p. 15; Boccanera 1990, pp. 134-135; Bittarelli, in Castel San Venan-zio 1997, pp. 9, 28-32; Marcelli, in Il Quattrocento 2002, p. 254, cat. 78; De Marchi 2003b, p. 374, nota 15.