VENICIAN PALACES (ITALIAN)
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Venezia. Scaloni e sale da musica, alcove e ridotti.
Il rinnovamento dei palazzi fra sei e settecento.
Fonvi
Antefatti
In questo periodo si assiste a Venezia a un vasto processo di ammodernamento e di restauro
di edifici esistenti. Resta tuttavia invariata la disposizione a trittico della struttura portante con
"androne" e magazzini al piano terra, ai piani nobili superiori "pòrtego" centrale e stanze
laterali, cui si aggiunge una scala interna posta a lato dell'androne al piano terreno e del
“pòrtego” ai piani nobili.1 Essa presenta rampe sostenute da setti murari ed è già una novità
cinquecentesca rispetto alla scala esterna a "L" nella corte o alle torri scalari "a bòvolo"
medievali2.
Pochi sono gli esempi di trasgressioni a questo impianto anche nelle nuove costruzioni
cinquecentesche; la tradizione tendeva a mantenere il singolare assetto della casa veneziana, sia
per ragioni civili e morali di uniformità, sia per ragioni tecniche (l'uso di fondazioni e spesso di
muri portanti preesistenti, dimensioni delle travature per i solai che vincolavano le luci). Ma a
partire dalla fine del seicento questa regola comincia a essere infranta in un processo di
adeguamento a quanto accadeva in altre parti di Italia e contemporaneamente cadevano gli
ostacoli morali (legge daula che imponeva "aguaglianza et similitudine" nelle abitazioni, tutte
"pari, simili, di una medesima grandezza et ornato"3) a queste eccentricità che nel settecento
diventano più frequenti sia nelle trasformazioni che nelle nuove costruzioni. Si può notare, con
alcune generalizzazioni, che le innovazioni “alla romana” nelle residenze private partono dalle
grandi famiglie, legate alla corte di Roma, come i Grimani e Dolfìn, beneficiari quasi per diritto
dinastico del patriarcato di Aquileia, dei Loredàn, Cornèr, Pisani, per poi passare ai palazzi
delle nuove famiglie che fanno il loro ingresso nel Libro d’oro con l’esborso di grandi somme
necessarie a dar fiato all’erario veneto nelle guerre contro i Turchi.
!
L'ultima opera di Mauro Codussi è il palazzo di Andrea Loredàn, poi Vendramìn, Calèrgi a san Marcuòla (1495-1509), che ancora nel 1581 appariva a Francesco Sansovino di mole sorprendente , come quelli costruiti cinquanta anni dopo da suo padre e dal Sanmicheli4. Esso riprende nella facciata l’effetto prospettico di superfici sovrapposte, già sperimentato nel fronte di San Zaccaria, risolvendolo in maniera compiuta con il triplice ordine corinzio trabeato che avanza rispetto al piano delle bifore per fingere una duplice facciata in trasparenza. I pieni sono ridotti ai soli segmenti ai lati della parte centrale e agli angoli, senonché la decorazione classica a clipei li risolve in superfici di sfondo alle colonne accoppiate che definiscono la tripartizione verticale. La soluzione del risvolto d’angolo con la ripetizione della colonna del palazzo Loredan è analoga a quella del distrutto palazzo di Raffaello a Roma in via Alessandrina disegnato da Bramante proprio negli stessi anni; inoltre la facciata presenta nelle parti ai lati delle logge centrali il motivo della “travata ritmica” con due intervalli brevi ai lati del lungo occupato dalla bifora. Il fregio superiore con aquile imperiali alla romana e festoni di alloro conclude tutto l'organismo che esprime un'idea architettonica eroica e rivoluzionaria, solo mitigata dalla epigrafe "NON NOBIS DNE . NON NOBIS" incisa ai lati dell'ingresso, quasi una “excusatio” per aver infranto la legge daula. Ingresso che significativamente è organizzato in un vasto atrio anteposto all’andito passante nella corte, come poi farà Sansovino nel palazzo Corner di San Maurizio. A ca’ Loredan si assiste a un’intensa collaborazione fra Codussi e la bottega dei Lombardo; ad Antonio si attribuisce la decorazione raffinatissima e classicheggiante, densa di riferimenti alla statuaria antica, ispirata dai circoli umanistici frequentati da Giorgione5.
Il progetto di Sanmicheli o Sansovino per il palazzo di Vettòr Grimani (1527-28 o 1533) presentava un atrio quadrato al posto dell'andito - o androne – “bislungo” e tutto fa pensare che al piano superiore potesse esservi un salone di analoghe proporzioni invece del “pòrtego” tradizionale, come poi sarà l'antisala marciana. Data l’irregolarità del lotto compreso fra il canal Grande e il rio del Duca a san Vidàl, vi è una vistosa rotazione fra la parte frontale e quella retrostante. Il cortile diventava il cuore del palazzo, sull'esempio dell' Italia centrale e della domus romana, ciò che Jacopo potrà poi realizzare nel palazzo Dolfìn a Rialto6 e nella “ca’ granda” Corner a santa Maria del Giglio. Da esso partiva lo scalone “reale” a rampe divaricate, che Sansovino costruirà nella zecca, mentre un piccolo giardino laterale oltre lo scalone avrebbe potuto creare effetti scenografici7. Un secondo cortile diviso da un loggiato a giorno avrebbe fatto da sfondo, e sulla sinistra si sarebbe allungata una galleria. Nella ca’ granda8, Sansovino suddivide l’ altezza inusuale dei piani nobili con mezzanini di servizio in duplex nelle parti laterali, distinguendo così gli spazi aulici per ricevere da quelli privati in cui vivere: una novità che aveva fatto capolino a Venezia negli ultimi grandi palazzi gotici e in ca’ Loredan a San Marcuola, ma che con il Tatti e poi con il Sanmicheli a ca’ Corner a san Polo e nella Grimani a San Luca diventa una caratteristica dei nuovi grandiosi palazzi “alla romana”, come Francesco Sansovino li definisce nella sua guida. Vincenzo Scamozzi renderà seriale questa soluzione nella fabbrica delle procuratie nuove con l’affaccio dei saloni sulla piazza a nord e degli spazi di servizio a sud, contro il muro cieco dei granai di Terranova, abbattuti in epoca napoleonica. Longhena, che ne eredita il cantiere, introduce questa soluzione nei grandi palazzi barocchi.
Sanmicheli o Sansovino progetto per il palazzo
di Vettor Grimani, 1527-28 o 1533
Volutamente eccezionale resta la collezione degli spazi interni decorati nel più sofisticato stile manierista di palazzo Grimani a santa Maria Formosa, dove i fratelli Vettor e Giovanni (dopo l’infelice esperienza di san Vidàl dal 1537 in poi) celano il loro gusto innovativo all’interno di una anonima fabbrica a L su preesistenze gotiche. Qui il patriarca di Aquileia, Giovanni, realizza intorno al 1560 la prima “marmorsaal” sommariamente cubica al centro del suo museo lapidario, voltata a padiglione e dedicata alla memoria del doge Antonio9. La tribuna è uno dei più sorprendenti interni manieristi, concepito come spazio ideale per esporre la collezione di statue antiche del cardinale, poi allestita da Scamozzi nell’analogo spazio sansoviniano del vestibolo della Marciana,. Essa fu forse pensata da Giuseppe Porta detto il Salviati e da Daniele Barbaro con il pensiero rivolto alle tombe medicee di Michelangelo, e poi fu probabilmente di modello a William Kent per il salone di Kensington Palace (dopo il 1720), dove vi è pure un omaggio alla sala delle Quattro porte del palazzo Ducale.
Sansovino palazzo Dolfin, Sanmicheli Grimani a San Salvador
palazzo Grimani a S. Maria Formosa, sala dell’antiquarium a doppia altezza, scalone e volta di una sala
A Venezia ogni sperimentazione su tipologie nuove doveva partire dall'edilizia religiosa e pubblica per investire in un secondo tempo quella privata. Alla fine del quattrocento la scala dei Giganti di Antonio Rizzo si pone in asse prospettico con la porta della Carta per creare il supporto scenico alla epifania del Doge e del suo seguito. Codussi realizza gli scaloni monumentali delle Scuole grandi di san Marco e di san Giovanni Evangelista, dove la luce disegna lo spazio statico del pianerottolo di arrivo cupolato e delle soste in contrasto con le rampe in penombra. Come nel progetto per Vettor Grimani, essi si dispongono lungo il lato maggiore delle sale. Forse Antonio Abbondi (lo Scarpagnino) è l’architetto che in palazzo Loredàn a santo Stefano riesce a creare uno scalone scenografico che resta unico nell'architettura veneziana privata. Fra il 1537 e il 1540 Leonardo Loredàn trasforma tre case gotiche Mocenìgo in un unico palazzo rinascimentale dove la corte con portico e scala esterna a "L" si trasforma in atrio con scala raddoppiata a "T" rovesciato, mentre al piano superiore, la loggia-salone si dispone lungo la facciata principale10. L'atrio che contiene la scala ha le proporzioni di due doppi cubi (ottave) separati dal setto di archi su colonne, pure la loggia superiore ha questi rapporti: siamo infatti negli anni del memoriale di Francesco Giorgi per san Francesco della Vigna. Il palazzo viene ad assumere una tipologia “in linea” abbastanza inconsueta ad eccezione di alcuni casi coevi, come i palazzi-ville Trevisàn e Nani alla Giudecca e il Gonella a Cannaregio11; il primo quasi e i due ultimi del tutto distrutti. !
Il seicento.
Fra il 1610 e il 1618 l’abate Francesco Loredàn completa il palazzo verso campo santo Stefano con la
facciata marmorea di disegno scamozziano e al primo piano una delle prime sale da ricevimento della città di
stile moderno, con una piccola loggia per i musici. Essa ha le proporzioni di una ottava (1/2) e lo stesso
rapporto viene usato dallo Scamozzi nei saloni a doppia altezza delle Procuratie nuove. Qui uno scalone a
rampe incrociate e altri a triplice rampa a "T" disimpegnano alternativamente gli appartamenti in duplex
partendo da atri colonnati intervallati fra le corti, secondo la lezione sansoviniana12.
Fra il 1618 e il 1623 il “marangòn” Bortolo da Venezia, detto il Manòpola, costruisce il salone dei banchetti
del palazzo ducale, dall'esterno dimesso ma decorato poi all'interno da “teleri” alle pareti e al soffitto, quasi in
sintonia con la ben più fastosa Banqueting House del colto Inigo Jones a Whitehall (1619-22)13.
I quattro libri palladiani (1570) e L'idea dell'architettura universale di Vincenzo Scamozzi (1615) fornirono
le basi agli architetti veneziani - come agli inglesi - da Inigo Jones fino al neoclassicismo. Non a caso Scamozzi
ricorda la scala di ca’ Loredàn fra quelle più notevoli e da prendere ad esempio14. Palladio inoltre raccomanda
nelle dimensioni delle stanze in città e in villa la pianta circolare o quadrata, e i rapporti 1,2,3,4,5,6 cioè ottava
(1/2), quinta o diapente o subsesquialtera (2/3), quarta o diatessaron (3/4), terza maggiore e minore, e persino
con il lato maggiore pari alla diagonale del quadrato costruito sul lato minore (un numero irrazionale quasi mai
usato dallo stesso Palladio e dai suoi successori).15 Baldassarre Longhena (1598-1682)
I più scenografici scaloni longheniani sono tutti in edifici religiosi, a dimostrazione che anche nel seicento
l'edilizia religiosa era in anticipo rispetto alla civile: scalone del monastero di San Giorgio Maggiore 1644;
scalone del convento dei Domenicani a San Giovanni e Paolo 1664-1666; scalone della Scuola dei Carmini
1668; scalone del convento dei Somaschi ,ora seminario 167116.
Uno dei primi progetti di Baldassarre Longhena per ca’ Pesaro si può considerare un importante precedente
anche se non realizzato. Nel disegno III, 23 dell'album Gaspari nella biblioteca dei museo Correr di Venezia la
pianta del pian terreno del grandioso palazzo, ideato per Giovanni e Francesco Pesaro sull'area di un antico
palazzo Contarini e dei palazzi Morosini e Trevisàn (acquistati rispettivamente nel 1569 e nel 1628), presenta
un'idea di facciata simile a quella realizzata, mentre l'androne ha un'ampiezza inconsueta e uno sviluppo
longitudinale ridotto di circa la metà perché occupato da un vano scale monumentale di accesso ai piani nobili.
Pesaro sull'area di un antico palazzo Contarini e dei palazzi Morosini e Trevisàn (acquistati rispettivamente nel 1569 e nel 1628), presenta un'idea di facciata simile a quella realizzata, mentre l'androne ha un'ampiezza inconsueta e uno sviluppo longitudinale ridotto di circa la metà perché occupato da un vano scale monumentale di accesso ai piani nobili. Si tratta di una scala ancora tradizionale a due rampe separate da un muro portante per lasciar spazio a un corridoio di collegamento fra l'atrio e la corte retrostante. E' però scenografico il susseguirsi di spazi grandiosi che dalla gradinata d'approdo, attraverso l'atrio, introducono con duplici portali all'androne, definito in forma quadrata da un setto di colonne poste poco prima dell'apertura dell'asse traversale che lo collega con due accessi d'acqua dai rii laterali. Successivamente il disegno III,30 della stessa raccolta, mostra di nuovo lo scalone, questa volta a triplice rampa, ma più arretrato rispetto al precedente, illustrato chiaramente dalla sezione III,2. Esso avrebbe concluso l'atrio con una triplice arcata e al centro la rampa, che al pianerottolo si sarebbe bipartita per salire al vestibolo del "pòrtego" del primo piano, per poi proseguire verso il secondo ancora non finito e sistemato a sottotetto, come meglio illustra il disegno I,86. In questo modo le proporzioni del “pòrtego”, trasformato in salone longitudinale al primo piano nobile sarebbero state di 3/2, cioè quelle di una sesquialtera. Inoltre il soffitto del salone sarebbe stato controsoffittato a padiglione nascondendo le fitte travi a vista - dette “sansovine” - e la sua altezza sarebbe stata pari a 3/4 del lato minore. Parimenti il lungo androne passante delle case fondaco medievali si trasforma in atrio e andito in sequenza con nuove proporzioni e ricche decorazioni di ordine rustico che enfatizzano in chiave barocca il linguaggio manierista del Sansovino di ca’ Corner, mediato dalla lezione di Scamozzi nell’atrio e nel cortile di palazzo Contarini degli Scrigni a san Trovaso. La fedeltà di Longhena alla tradizione cinquecentesca veneziana è stata infatti riconosciuta da Fogolari (1937), Wittkower (1958) e De Angelis d’Ossat (1963). In alternativa si sarebbe potuta costruire una grande scala quadrata, sul retro dell'edificio sacrificando quasi completamente la corte, già costruita come abbiamo scritto, ma lasciando libero in tutta la sua lunghezza l'androne al pian terreno e il "pòrtego" al primo piano. Sorprendente è l’automia della facciata rispetto al resto dell’edificio, già totalmente costruita nei tre ordini e definita in entrambi i fogli mentre il piano secondo non esiste ancora.
In alternativa si sarebbe potuta costruire una grande scala quadrata, sul retro dell'edificio sacrificando quasi completamente la corte, già costruita come abbiamo scritto, ma lasciando libero in tutta la sua lunghezza l'androne al pian terreno e il "pòrtego" al primo piano. Sorprendente è l’automia della facciata rispetto al resto dell’edificio, già totalmente costruita nei tre ordini e definita in entrambi i fogli mentre il piano secondo non esiste ancora.
Nella scelta fra queste diverse ipotesi, forse per volontà dei committenti, si scelse uno scalone più consueto a due rampe separate da setti (secondo i modelli sansoviniani della Marciana e della scala d’Oro) e posto sul lato destro dell'edificio, risparmiando evidentemente spazio e danaro, ma rinunciando ad ogni prospettiva scenografica, come anche a un nuovo proporzionamento classico dell'androne e della sala a "pòrtego" soprastante. I lavori andarono a rilento partendo da terra e dalla corte, quindi dall'area dove si pensava di collocare lo scalone, ed è quindi probabile che gli studi longheniani si pongano fra il 1628 e il 1659, anno della morte del doge Giovanni, quando ancora non si era dato inizio alla facciata. L'erede Leonardo li riprende compiendo il primo piano nobile nel 1679 e completandone la decorazione nel 1682, anno della morte sua e del Longhena. Solo dopo il 1703 i lavori riprendono sotto la direzione di Antonio Gaspari e la facciata sul canal Grande viene terminata nel 1710. Al Gaspari si deve il disegno della scala laterale, segnata da un invito a esedra ornato di colonne, il prospetto sul rio delle Do Torri, mentre a successivi architetti sono da attribuire il completamento del secondo piano nobile e i prospetti colonnati sulla corte.17
Le annotazioni del Martinioni del 1663 alla guida di Francesco Sansovino descrivono il palazzo del
“gravissimo senatore Nicolò Dolfìn” a san Pantalon “fabbricato alla romana”.18 Questa definizione può alludere alla novità tipologica del grande salone da ballo che occupa tutta la fronte del primo piano sul rio Nuovo, mentre il piano terra ha proporzioni ribassate, schiacciato sotto il balcone o “pérgolo” continuo, come poi vedremo nell'architettura barocca europea (da Versailles di Le Vau e Mansard, Hampton Court di Wren al Belvedere superiore di Lucas von Hildebrandt, a Pommersfelden di Dientzenhofer) che tendono a comprimere ed oscurare l'ingresso per poi esaltare nella luce lo scalone e il piano nobile. Questa opera si deve considerare “romana” anche per le grandi porte-finestre ad arco del salone. Infatti il trattamento del prospetto sul rio è anomalo rispetto alla tradizione: cinque grandi porte-finestre arcuate vi si aprono isolando quella centrale fra due spazi pieni. Viene quindi invertita la tipologia veneziana con le aperture concentrate al centro in corrispondenza della testata del “pòrtego” e con i pieni ai lati, derivanti dalle "torreselle" laterali, e annullata la loggia che connota i “pòrteghi” veneziani fin dal XIII secolo. Per la prima volta qui il “pòrtego” è sostituito dal salone delle feste, mentre lo scalone è arretrato nell'ala di sinistra che inquadra la corte e si apre in uno spazioso giardino retrostante. Infatti, sebbene, come abbiamo già scritto, già nel primo '500 il palazzo Trevisàn - detto “la Roccabianca” alla Giudecca, o il Gonnella a Cannaregio, o anche il Loredàn a Santo Stefano presentassero “pòrteghi” sviluppati in facciata, mai come in questo caso essi ne occupavano tutto il fronte. Il salone è, come succede spesso a Venezia, un parallelepipedo irregolare con angoli acuti e ottusi, ma è grossomodo di queste proporzioni: 2/3, pari alla quinta , mentre l'altezza mantiene lo stesso rapporto con il lato minore. Non si conosce con certezza il nome dell'autore - Baldassarre Longhena o Giuseppe Sardi, stando a Elena Bassi, per considerazioni di ordine cronologico 19- e anche qui, come a ca’ Pesaro il cantiere restò aperto fino al 1709 e oltre. In questo anno infatti il salone doveva essere compiuto perché fu scelto per una festa in onore di Federico IV di Danimarca. Tommaso Temanza lo attribuisce a Domenico Rossi,20 ma la Bassi ritiene che il suo intervento possa riferirsi solo alla sopraelevazione della facciata sul rio con il secondo piano dalle finestre-balcone rettangolari appoggiate su mensole a forma di obelischi capovolti. Esse corrispondono al piano dei "camerini" di sottotetto.
La decorazione del salone fatta di quadrature illusionistiche, stucchi e affreschi incorniciava una serie di tele che segnano l'esordio veneziano di Giovan Battista Tiepolo, cui il patriarca Dolfin aveva commissionato gli affreschi dello scalone del palazzo arcivescovile di Udine.21 Le vendite ottocentesche dei Querini, successori dei Dolfin le dispersero fra i musei di San Pietroburgo e Vienna sostituendoli con specchi. Come ha scritto Francis Haskell,22 essi celebravano all'interno della sala le virtù romane repubblicane di cui la famiglia veneziana si considerava erede. E va notato che esse sostituivano le celebrazioni pittoriche murali esterne del secolo XVI, dal momento che ora il prospetto era lastronato interamente di pietra d'Istria. Per raggiungere una completa illusione spaziale l'interno della sala è controsoffittato a padiglione in modo da eliminare angoli, cornici e travature. Questo soffitto a padiglione, fatto di una intelaiatura principale in legno tenero appesa alle travi e da un incannucciato “grisiola” di canna palustre legata e stuccata – già raccomandata da Alvise Cornaro perché la produceva nelle sue valli di Fogolana -, sostituisce le tradizionali travature alla "sansovina" (a vista cioè e decorate, presenti ancora a ca’ Pesaro) per creare una perfetta cassa armonica per le esecuzioni musicali, proprio come contemporaneamente avviene nei teatri e nelle chiese. Il palazzo ha subito nel secolo scorso molti cambiamenti interni per cui è difficile ricostruire le funzioni originali, ma è probabile che cucine, depositi e alloggi per la servitù fossero distribuiti fra il piano terra e il mezzanino dei corpi a "U" verso il giardino, mentre sale, salotti e alcove erano al primo piano e al secondo.
ca’Dolfin a san Pantalon Rossi?
Anche l'antica “domus magna” dei Badoèr a San Stin, organizzata intorno a una corte, fu quasi completamente ricostruito nel primo decennio del settecento e vi fu aggiunto un salone da musica a doppia altezza con logge per i musicisti, sull'esempio dell'Ospedaletto longheniano, ornato con cornici e modanature di legno intagliato23. Così Gaspari aggiunge una sala da musica nel palazzetto Zane a san
stucco pal Widmann, Longhena e Gaspari palazzo Zane a san Stin
Antonio Gaspari (ante 1660-fra 1739 e 1740)
Ca’ Zenobio ai Carmini, costruita da Antonio Gaspari fra il 1682 e il 1690, è il prototipo più completo del
nuovo modo di abitare che si diffonderà a Venezia nel secolo successivo.
Gli Zenobio sono una famiglia veronese di origine antichissima in possesso di grandi proprietà immobiliari fra
Trentino e Veronese, che gradualmente, con una vasta campagna di acquisti immobiliari, si avvicina a Venezia fino
ad acquistare l'aggregazione nel 1647 e poi l'anno successivo il titolo di conte dell'impero.24 L'acquisto nel 1664
di un palazzo Morosini di aspetto gotico e non molto vasto posto in una zona piuttosto periferica, ma con una
grande area libera retrostante è contemporaneo al matrimonio di Margherita Zenobio con Giovan Battista Donà
che dimostra la piena integrazione degli Zenobio nella nobiltà veneziana. Nel 1667 essi acquistano dai Battagia un
edificio attiguo sul rio e nel 1682 un "casin" dalla parte dove poi sarà il giardino. A quella data probabilmente i
lavori erano già iniziati per volontà di Verità Zenobio, morto in quell'anno e sepolto a Verona, ma intorno al 1690
la costruzione era conclusa e Ludovico Dorigny (1654-1742) affrescava la volta del salone da ballo. Lo seguono
poi Gaspare Diziani per il "pòrtego" del primo piano e lo stuccatore ticinese Abbondio Stazio, appena giunto dalla
Roma barocca, per la decorazione delle sale pubbliche con stucchi dalla ricca plasticità e le sale private con
"stiacciati" raffinati.
Antonio Gaspari, erede di Longhena, e unico architetto barocco veneziano, trova negli Zenobio i suoi
committenti ideali per affermare un primato che durerà a Venezia circa un ventennio a cavallo fra '600 e '700 prima
di essere soppiantato da istanze razionaliste neo palladiane e neo scamozziane che con Tirali precorrono il
neoclassico. Sempre per gli Zenobio, Gaspari ricostruisce intorno al 1710 i palazzi aviti di Lavis, Enn e Trento. La
facciata si presenta in linea sulla fondamenta del rio dei Carmini e corsi orizzontali di pietra d’Istria sottolineano
gli allineamenti delle finestre e della ottafora centrale. Il piano terreno è schiacciato dal piano nobile e l’asse
centrale è evidenziato dalle paraste che inquadrano il balcone (pérgolo) del secondo piano nobile e il timpano
arrotondato all’altezza dei camerini del sottotetto.
La tipologia dell'impianto planimetrico dell'edificio è per certi aspetti tradizionale nello schema a "U" che
abbraccia la corte, come nella tipologia franco-veneta delle residenze suburbane della Giudecca, per altri
innovativa nell'organizzazione delle sequenze di spazi pubblici (atrio, scalone, corte, giardino, "pòrtego" e sala da
ballo) che occupano l'asse centrale secondo il modello barocco berniniano 25. Purtroppo i lavori ottocenteschi di
trasformazione in collegio dei padri Mechitaristi Armeni hanno cambiato la funzione di molti vani e soprattutto
degli appartamenti privati.
"pòrtego" e sala da ballo) che occupano l'asse centrale secondo il modello barocco berniniano 25. Purtroppo i lavori ottocenteschi di trasformazione in collegio dei padri Mechitaristi Armeni hanno cambiato la funzione di molti vani e soprattutto degli appartamenti privati. Ma alcune indicazioni si possono avere dalle planimetrie del terzo album Gaspari del Museo Correr di Venezia. Il disegno 26, mostra il piano terreno con l'androne dilatato come quello del primo progetto longheniano per ca’ Pesaro; una soluzione poi scartata per un impianto a "T" che anticipa la connessione fra salone e "pòrtego" del piano nobile (III, 66). Le colonne binate separano lo spazio in tre navate, come succede nelle sale a pian terreno delle Scuole grandi, e come in ca’ Dolfin l'altezza di questo piano è notevolmente inferiore rispetto a quella del nobile. Ai lati dell'androne stanno una serie di "meza’" organizzati in maniera indipendente intorno a corti e con un accesso proprio in facciata tramite due "andii". Il gruppo di sinistra comprende una serie di alloggi per la servitù e la guardianìa dell'ingresso principale, ma anche due studi, forse per ricevere fattori e dipendenti. Quello di destra, comprende una cantina - "càneva"- e un magazzino per la legna, una dispensa - "salvaroba"- , il "secchiaro", la cucina e il "tinello" per la servitù, organizzati con due piccole corti e collegati al piano nobile da tre scale di servizio o segrete. Sulla corte e verso il giardino sono dei "meza’" spaziosi e luminosi per i "foresti". Lo scalone principale fra setti, non è particolarmente innovativo, né scenografico, se non perché si innesta ortogonalmente rispetto all'atrio, per poi disporsi in parallelo, il ché permette uno sviluppo più agevole delle rampe.
Al primo piano nobile (album III, 67) esso approda nel “pòrtego” che si apre con due serliane verso il giardino e verso il salone. Va notato che questa seconda serliana ha un valore barocco più simile all'ingresso della sala Regia in Vaticano o alla galleria Pamphilj di piazza Navona che non alla sua origine bramantesca. Nel lato sinistro verso il giardino sta il "tinello de' Padroni", esattamente sopra quello dei servitori, il "secchiaro" e la cucina. Scale di servizio lo collegano direttamente al piano terreno. Il “pòrtego” introduce al salone da ballo ben più grandioso di quello di ca’ Dolfìn. Esso è a doppia altezza, comprendendo il piano nobile e il secondo, alti rispettivamente 4,90 e 3,65 metri per un totale di 8,55 metri. E’ interessante vedere che in un disegno, probabilmente precedente, che riporta le piante dei palazzi preesistenti da trasformare nel nuovo, l’architetto disegna a matita un salone ovale di dimensioni simili, posto però sul retro dell’edificio e affacciato sul giardino, mentre quello costruito si apre in facciata sul rio con una grandiosa ottafora26. Alcune stanze del secondo piano vi si affacciano direttamente, sopra la serliana di innesto del “pòrtego” è la loggia dei suonatori, e il soffitto è a finta volta, come quello del “pòrtego”, coperto con le pareti da stucchi ricchissimi e plastici molto rari a Venezia. Ai lati sono camere, probabilmente da letto, divise dal salone da anticamere e "camerin"; al lato opposto invece lo spazio del "camerin" è occupato dalla cappella o "chiesuola".
salone di ca’ Zenobio Dorigny e Abbondio Stazio
Dobbiamo pensare che in questo caso si tratti veri e propri appartamenti notturni con anticamera, camerini per il guardaroba e per pettinarsi, presenti forse in origine, ma documentati all'inizio del seicento, nei palazzi sansoviniani Corner e Dolfìn e quindi non una novità per Venezia.27 Al piano superiore (cioè al secondo) si trova un'alcova, con due camerini laterali che si affacciano direttamente sul salone. Ca’ Zenobio si può considerare conclusa nella fabbrica e nella decorazione intorno ai primi anni del settecento, ma come Aikema ha ben chiarito, il salone era affrescato da Dorigny già nel 1690 e quindi può essere stato di modello ai Dolfìn e non viceversa. Le proporzioni fra larghezza e lunghezza infatti sono simili, mentre l'altezza è qui superiore di 15 centimetri (circa mezzo piede). Luca Carlevariis, che abitava ai Carmini e che esordisce come vedutista decorando l'androne del palazzo con pitture oggi perdute, ne illustra il giardino ricco di parterres alla francese curatissimi in accordo con gli interni barocchi. Solo nel 1773 - 1774 Tommaso Temanza (1705-89) costruisce il casino della biblioteca verso il giardino che fa da sfondo prospettico di stile palladiano, allietato da decorazioni scultoree di vasi rococò desunti dai modelli di Carlo Fontana.
In questo modo l'eccezionale giardino trova sfondo architettonico secondo quei rispecchiamenti cari alle monadi leibnitziane (Belvedere superiore e inferiore a Vienna, Gloriette a Schoenbrunn, scuderie a villa Pisani a Stra). Nuovi modi di abitare: alcove, ridotti, camerini, biblioteche, giardini.
La "arcova" sostituisce nei palazzi veneziani la grande camera o "camaron" dove il letto era accompagnato da un salotto per ricevere in intimità, con uno scrittoio o "borò", a volte con un trumeau o "borò con cimiera", una "pettenera" o tavolo per acconciarsi e incipriarsi, spesso anche con armadi e "commode". Questa organizzazione funzionale trova spazio in camerini di seguito alla camera da letto con specifiche destinazioni di guardaroba e di toilette, in una cappella o "chiesuola" in modo da comporre una suite disimpegnata da un piccolo corridoio e da scale segrete che comunicano con le camere della servitù particolare. Il disegno dell'album Gaspari (I, tav. 77) mostra due soluzioni alternative per un’alcova, forse Zenobio, dove il letto si presenta incorniciato teatralmente e due porte laterali introducono nei camerini funzionalmente specializzati. Così il salotto viene separato in una anticamera. Questa specializzazione di funzioni è un fatto innovativo rispetto alla grande camera polifunzionale che però è sopravvissuta fino ad oggi in molti "pian di palazzo", una specializzazione
alcova di palazzo Sagredo, Metropolitan Museum New York, alcova bolognese Donato A. Fantoni, alcova Targhetta
che trova riscontro nella serie di nuovi mobili che il settecento introduce e che si riscontrano negli
inventari.28 L'alcova, così come oggi si vede, è diversa però dai disegni e mostra dei bellissimi putti a tutto
volume in contrasto con nastri, ghirlande di fiori, riquadrature in delicato rilievo, totalmente diversi da quelli
del salone, che invece sono ad altorilievo e barocchi, simili a quelli di palazzo Albrizzi a san Polo. Essi sono
attribuiti ad Abbondio Stazio per la grande somiglianza dei putti sorreggenti il panneggio del soffitto con
quelli analoghi dell'alcova (1705) di palazzo Widmann a san Cancian di Longhena.
La tipologia dell'alcova viene a influenzare addirittura l'architettura religiosa. La cappella del Sacramento
a san Nicolò dei Mendicoli (1760-61) presenta un'arcata mistilinea, che già il contemporaneo Antonio
Visentini (1688-1782) definiva "più adatta a un'alcova da letto", e inoltre due "comunichini" laterali del tutto
simili agli spogliatoi e ai gabinetti per toilette, la balaustra marmorea poi finge cuscini e coperte di damasco
panneggiate29. Ma ormai l’architetto, pittore e incisore, scriveva nel 1772 in nome del “ruling taste”
palladiano di Canaletto e del console inglese Smith condannando con pedanteria accademica Longhena per il
pèrgolo continuo di ca’ Pesaro, Gaspari per il portale sul rio delle Torri e perfino Sansovino.
alcove Zeno e Carminati a ca’ Rezzonico
Fra gli altri esempi più celebri conservati fino a noi, anche se spesso fuori della loro originale collocazione si possono ricordare: l'alcova di palazzo Sagredo, oggi al Metropolitan, di palazzo Carminati, oggi a ca’ Rezzonico e quella ancora in situ di palazzo Berlendis-Targhetta ai Mendicanti, attribuito a Tirali per il timpano in facciata simile a quello di palazzo Emo Diedo a San Simeone piccolo. Nell'alcova di palazzo Coccina Albrizzi Papadopoli Arrivabene Gonzaga gli stucchi degli Stazio
incorniciano le grisaglie di Giovan Battista Tiepolo. Altre alcove si trovano nei palazzi Minotto Barbarigo e nel mezzanino di un altro palazzo Barbarigo a santa Maria del Giglio. In una capitale del teatro, dove i nobili si fanno impresari delle numerose sale pubbliche, rari sono i
teatrini privati all'interno di palazzi (oggi sopravvivono solo quello di palazzo Da Mula a San Vio e di un palazzo Priuli a Cannaregio) mentre numerosi sono i "ridotti di società". A ca’ Sagredo il ridotto privato è ricavato nei "camerini" del sottotetto, che sono congiunti direttamente alle alcove dei piani nobili sottostanti con scale segrete. Invece nel caso di ca’ Contarini a san Beneto esso trova posto in un edificio attiguo, detto "palazzetto". Qui in occasione del matrimonio di Giulio Contarini con Eleonora Morosini nel 1748 tutto il palazzo fu ridecorato con splendidi pavimenti a terrazzo, porte intarsiate di legni preziosi e vetri piombati alle finestre, stucchi di Carpoforo Mazzetti Tencalla, affreschi di Francesco Fontebasso e Gaspare Diziani. Nel piano nobile si allestì una preziosa alcova con una pedana di legni intarsiati e stucchi alle pareti, dietro cui si apre una suite di camerini per toilette, spogliatoio e la cappella. Allo stesso livello un passaggio sopraelevato la mette in comunicazione con il "casino di società" ricavato in un edificio attiguo, costruito appositamente lungo una calle che lo divide dal palazzo. Il casino consiste in una serie di camerini fra loro comunicanti con una infilata di porte e aperti direttamente su una terrazza, ciascuno con accesso proprio. La terrazza corre lungo tutto l'edificio ed è conclusa da una finestra a giorno con una cornice mistilinea rococò. All'interno essi sono decorati con stucchi e l'ultimo è tutto rivestito da maioliche di Delft.30
Nel 1697 ancora Gaspari riformò facciata e interni della grande casa fondaco veneto bizantina dei Michièl a Santa Sofia aggiungendo sul fianco un edificio più basso: il casino con camerini e una grande terrazza di copertura affacciata sul Canal Grande, quasi per ripetere l'esempio di quella famosa di palazzo Barbarigo a San Tomà (1565-70) . Sempre sul canal Grande nel 1780 Contarina Barbarigo (una nobildonna dilettante) disegnò con tratti ingenui un casino con galleria affacciato su un terrazzo arredato a "treillage" di gusto francese fra il palazzo Fontana e il palazzetto Giusti, da poco rifabbricato da
Antonio Visentini nel 1766 in forme classiche ancora piene di eleganze rococò.31 Pure a ca’ Soranzo sul rio Marin - un palazzo rinascimentale ampliato e rammodernato probabilmente da Gaspari, autore di un progetto per il giardino della villa Soranza di Strà - nel palazzetto costruito accanto, si trova il meza' della biblioteca con sale di ricevimento.32
Gaspari palazzo e casino
Michiel a ss. apostoli
Nuovi spazi furono creati per le biblioteche: alcune e le più grandi furono costruite in edifici
appositi al di fuori dell'edificio principale, casini con facciate rustiche a far da sfondo al giardino, altre
invece furono ricavate all'interno dell'edificio. Al primo caso appartengono quella di palazzo Foscarini ai
Carmini, quelle di Longhena per lo Zane a san Stin e per il da Lezze alla Misericordia, tutte di fine
seicento, poi dopo un secolo quella di Temanza per ca’ Zenobio ai Carmini, già ricordata. Per il
secondo si possono citare quella di Gaspari a ca’ Barbaro a san Vidal, quella di Tirali a ca’ Sagredo e
quella di Frigimelica a ca’ Pisani a santo Stefano. Nel quarto album Gaspari si trova pure un progetto di
scala elicoidale recante a una libreria ottagonale con cupola e lanterna per palazzo di Marino Zane a san
Stin, dove prima il Longhena e poi Antonio Gaspari si trovano a lavorare fra il 1680 e il '90.33 Questo
progetto non fu eseguito, ma la biblioteca trovò alloggio in un edificio con un prospetto di portale
rustico posto a far da quinta al giardino, collegato a un casino sormontato da una grande terrazza.
palazzo Barbaro a santo Stefano
Fra il 1694-1698 sempre Gaspari ricavò un salone da musica di proporzioni pari grosso modo a una sesquialtera nel
palazzetto che costruì a fianco del gotico palazzo Barbaro a san Vidal, in modo da creare nuovi rapporti armonici più adatti
all'acustica richiesta da concerti e accademie musicali34. Come abbiamo descritto sopra, le travi del soffitto vengono coperte con
incannucciate appese a orditure di legno tenero con corde e poi ricoperte di stucchi sontuosi. Essi increspano le superfici e
collegano i piani arrotondando angoli e spigoli, in modo da costituire delle perfette casse armoniche, di resa acustica simile a
quella delle chiese, degli oratori e dei teatri. 35 La luce piove dall’alto per lasciare spazio ai grandi teleri dipinti incorniciati da
stucchi bianchi, e le finestre diventano meno importanti dei lampadari di Murano in un salone creato specialmente per ritrovi
notturni. Al piano superiore un grande abbaino sormontato da un timpano (un motivo disegnato per la prima volta da Sebastiano
Serlio nel suo Libro IV e poi nel seicento diventato caratteristico di tutta l’edilizia veneziana sia aulica che popolare) permette di
ricavare la biblioteca nel sottotetto con un soffitto a finta volta dipinto e stuccato fortemente ribassato perché vincolato dalle
capriate del tetto. Nelle vecchie case fondaco veneto bizantine e gotiche, "meza’", nati come uffici commerciali o come locali di servizio dei
piani nobili furono decorati e usati come appartamenti indipendenti con salottini e "boudoir" decorati con stucchi e tappezzerie.
Analogamente avviene per i "camerini" del sottotetto, destinati precedentemente alle persone di servizio, ma poi usati spesso come
abitazione famigliare.
!Domenico Rossi (1657-1737).
L'ala sinistra del palazzo arcivescovile di Udine è costruita da Domenico Rossi per Diomede Dolfìn a partire dal 171836. Lo
scalone è finito prima del 1725 con le rampe sostenute da colonne, una tipologia non tradizionale a Venezia, ma codificata dallo
Scamozzi. Egli nel suo trattato (Parte Ia, libro III, cap. XX. pp. 314-315) riproduce la pianta di sua invenzione per palazzo Strozzi
a Firenze con una scala “a due braccia di squadro” e descrive una “doppia scala quadra” progettata per Genova e illuminata
dall'alto. Oltre che dallo Scamozzi essa può aver origine dall'esempio grandioso dello scalone principale di palazzo Barberini
(Maderno-Bernini), tanto più che a Udine abbiamo la compresenza come a Roma dello scalone quadrato e della scala a chiocciola
(sebbene quella del palazzo arcivescovile sia direttamente derivata da quella della Carità palladiana o dall'Ospedaletto di Sardi) .
Sappiamo infatti dal Temanza che Domenico Rossi fu a Roma fra il 1710 -11 con Giovanni Scalfurotto dove fu ricevuto alla corte
del cardinale Pietro Ottoboni.37 Un confronto più prossimo si può fare con lo scalone di Andrea Tirali a palazzo Diedo a Venezia
(1710-20), posto però in connessione con l'atrio cruciforme, e sostenuto anch'esso da pilastri in modo da comprendere con l'occhio
le rampe in una visione dinamica. Anche a prescindere dallo scalone della Scuola dei Carmini (1668), un precedente remoto può
vedersi nel palazzo Suriàn a Cannaregio di Giuseppe Sardi, e su scala minore in quello di palazzo Rubini alla Sensa, di palazzo
Venier a san Vio (distrutto), di palazzo Civràn a Cannaregio e nello scalone di ca’ Corrèr a santa Fosca (1740).
Più convenzionale dal punto di vista architettonico è il palazzo Sandi all’ Alboro ricostruito dal Rossi intorno al 1721-24 con
un “pòrtego” tradizionale, raccorciato per la esigua profondità del lotto.
!
Nel monumentale palazzo Corner della Regina (1720-23) Domenico Rossi non poté realizzare la sua prima grandiosa idea con il
cortile quadrato sansoviniano, ma dovette accontentarsi dell'atrio ipostilo per dimostrare ai veneziani la sua capacità di rinnovare la
tradizione con cannocchiali ottici che dalle porte d'acqua, attraverso i colonnati, inquadrano le duplici scale laterali, di cui una, come
nell'addizione di palazzo Pisani, porta solo al mezzanino38. Sull’esempio della ca’ granda Corner a san Maurizio, lo spazio
dell’androne viene dilatato verso la riva del canal Grande in un atrio con anditi laterali separati da colonne binate e la grande
profondità fra facciata e corte è scandita da coppie di colonne in spazi armonici di pianta rettangolare. Molto più tradizionali sono gli
impianti dei due piani nobili superiori con portegli lunghi e passanti dalla facciata alla corte. La facciata sul canal Grande presenta al
piano terra e al mezzanino un bugnato gentile sul modello del palazzo Corner a san Polo di Sanmicheli, semicolonne ioniche ritmano
le finestre ad arco del primo piano nobile e semicolonne corinzie dalle proporzioni slanciate le finestre con timpano triangolare del
secondo piano nobile, mentre la trabeazione corinzia si interrompe, contro ogni regola, in corrispondenza delle finestre dei camerini di
sottotetto. Gli effetti plastici della lezione manierista di Sanmicheli nel piano terra e della barocca di Longhena ai piani superiori si
smorzano in un cinquecentismo pervaso di razionalità illuminista.
Soprattutto qui domina la tradizione sansoviniana attraverso la lezione scamozziana inaugurata nel restauro di palazzo Contarini
degli scrigni e nelle procuratie nuove, con corti, atri e scaloni a rampe incrociate o a "T" in successione scenografica, ma nell’atrio e
nell’androne la varietà teatrale degli scorci d’angolo vuole gareggiare con il fasto dell’ampliamento di ca’ Pisani a Santo Stefano.
Palazzo Pisani a Santo Stefano. Imponente è la ristrutturazione e l'ampliamento del palazzo Pisani a Santo Stefano (oggi
conservatorio "Benedetto Marcello") compiuta da Girolamo Frigimelica nel 1728, con scalone “reale”, salone da ballo (1717-1720) e biblioteca. Esso si affianca al palazzo costruito a partire dal 1614-15 da Alvise Pisani senza un architetto vero e proprio "alla romana" (Martinioni 1663), con grandi spese e fasto, ma senza regole di buona architettura. Forse il proto fu Bortolo da Venezia detto "Manòpola",
allora proto di san Marco, ma certo più pesò l'idea del committente.39
Per rendere la dimora degna del futuro doge Alvise (1735-1741) e paragonabile alla successiva villa di Strà40, l'architetto padovano realizzò un atrio a croce nello spazio compreso fra lo stretto rio del Santissimo e l'accesso da terra di palazzo Barbaro: uno spazio stretto e lungo che segue le proporzioni tradizionali dell'androne per contraddirle poi in verticale con l'altezza inusuale del soffitto sostenuto da colonne e semicolonne colossali. L'asse maggiore, forzatamente in penombra, contrasta con la luce del braccio minore in mezzeria aperto sul cortile e poi sul loggiato che separa questo dal cortile del vecchio palazzo. Nonostante il mancato allineamento fra i due cortili, si viene a creare un teatro fastoso e profondo dove la prospettiva è scandita da successivi diaframmi - come il triplice loggiato a giorno, quasi alla maniera dei Bibbiena - fino a far entrare in comunicazione visiva intima l'androne vecchio con l'atrio nuovo. Un effetto di trasparenza che Sansovino aveva previsto fra le due corti del progetto per Vettor Grimani e che si ritrova nel secondo cinquecento nelle grandi dimore genovesi. Dall'atrio nuovo un braccio minore avrebbe dovuto proseguire verso il Canal Grande, secondo un progetto che rimase bloccato dalla presenza del palazzo e del palazzetto Barbaro, e che neppure l'acquisizione della casa Poleni e sua trasformazione in palazzetto Pisani, posto all'angolo fra il Canal Grande e il rio del Santissimo, rese possibile. Portinerie e magazzini si collocarono ai lati dell'accesso d'acqua negli spazi compresi fra setti, mentre verso il cortile essi comprendono due grandiose rampe simmetriche e divergenti. Di queste una è finta e porta solo al "meza’" della servitù particolare, l'altra invece svolta nello scalone a doppia rampa che porta al grande salone da ballo sovrapposto all'atrio e agli appartamenti nobili, fino ai camerini superioni e all'altana tanto alta da dominare l'irraggiungibile canal Grande. La sala, oggi auditorium del conservatorio "Benedetto Marcello", ha l'aspetto della sala
“Egizia” illustrata da Palladio nel cap. X del Libro II, e il volume di all'incirca due cubi. Ventisei colonne
corinzie reggono il ballatoio che interrompe l'altezza che comprende i due piani nobili, mentre il soffitto è a
padiglione e affrescato. Sulla parete nord sono gli accessi ad altre sale più piccole di ricevimento poste di
seguito agli apartamenti privati.
Se il riferimento alla Banqueting House di Whitehall (1619-22) di Inigo Jones riporta alla proporzione
palladiana del doppio cubo, ben più stretto è il rapporto con le palladiane Assembly Rooms di Richard
Burlington e William Kent a York (1731-32) che sono più fedeli al modello della sala egizia e dove le
colonne si distaccano dal muro. Qui però le proporzioni sono di triplice cubo. Intorno al cortile nuovo si venivano a disporre due grandi appartamenti per piano con ricchissime stanze da
letto, guardaroba e locali accessori e una "chiesuola", collegati da scale di servizio ai locali della servitù
particolare del piano terra -meza’- o dei camerini. Alla fine del '700 nel secondo piano nobile, Bernardino
Maccaruzzi, autore anche del pubblico ridotto sul retro del palazzo Vallaresso a San Marco, modifica gli
ambienti rendendoli più piccoli e confortevoli secondo le esigenze della moda.
!
Andrea Tirali (1660-1737) Gerardo Sagredo, procuratore di San Marco, dopo aver costruito una villa fastosa a Marocco corredata da un celebre giardino e oggi scomparsa,41 acquista sul canal Grande a Santa Sofia un palazzo Morosini romanico-veneto e gotico e si accinge a un ammodernamento radicale. Andrea Tirali ne fu con ogni probabilità l’autore fra il 1718 e il 173842. Egli rispettò la vecchia casa fondaco con la splendida polifora bizantina, tanto amata da Ruskin, forse per ragioni economiche, piuttosto che storico estetiche. Dal momento che era impossibile trasformare i bassi anditi sul canal Grande, li trasformò in accessi minori di un ampio atrio rivolto verso il campo a fianco, che pure si affaccia sul “canalazzo”. L’atrio, posto trasversalmente rispetto al vecchio edificio, fa parte del nuovo corpo sul campo e come a ca’ Zenobio colonne binate sostengono “bordonali” su cui poggia l’orditura delle travi secondarie. Ad angolo retto si innesta il nuovo scalone a tre rampe, decorato da Pietro Longhi con l'affresco La caduta dei giganti, che enfatizza la volta a padiglione con un soggetto neo manierista insolito a Venezia, firmato e datato 1734.
Per quanto riguarda lo scalone si potrebbero cercare dei precedenti oltre che in Scamozzi nelle opere di un architetto non veneziano che cercò di introdurre a Venezia il modello degli scaloni “imperiali” - come li definì Nicolaus Pevsner43 - . Si tratta del mantovano Alfonso Moscatelli (1608 circa-1687), presente a Venezia nel 1670, autore dello scalone a più rampe del distrutto palazzo Priuli a Santa Fosca, costruito in forma moderna,44 e anche di quello della villa distrutta dei da Lezze a Callalta (Treviso), architettata forse dal Longhena. E' probabilmente anche l'autore dello scalone a tre rampe a "T", rette da pilastri, del palazzo Priuli-Gradenigo in campo delle erbe, a Cannaregio di architettura scamozziana.45Nonostante questi precedenti, lo scalone di ca’ Sagredo a tre rampe a "T" è forse il primo di tale ampiezza a Venezia in un edificio civile; esso è inserito poi in uno spazio dove l'affresco, privo di riquadrature e continuo nelle pareti e nel soffitto, come nel modello mantovano, annulla le proporzioni rendendolo indefinito. Nell'ala nuova retrostante, al secondo piano nobile, si ricavò il salone da ballo cubico a doppia altezza con inquadrature architettoniche che circondano gli affreschi di Minerva e Venere di Gaspare Diziani e una biblioteca.. Rimase invece irrealizzato il progetto di Tommaso Temanza, nipote di Tirali, per il rifacimento della facciata sul canal Grande in un bizzarro stile tardo-lombardesco. In questo caso si sarebbe proceduto al completo abbattimento della casa fondaco e si sarebbe potuto creare un nuovo andito verso il canal Grande in asse con lo scalone46. La morte del committente nel 1738 segnò la fine di un processo di ricostruzione totale a partire da terra, si passò quindi alla raffinata decorazione a stucco dei camerini sottotetto che ospitavano il ridotto privato, collegato da scale segrete alle alcove del primo e secondo piano nobile. !
Tirali è pure autore del palazzo Priuli, Manfrin a Cannaregio, in parte ricostruito fra il 1724 e il 1731, con una facciata marmorea modulare, priva di ornamenti, ispirata a un ritorno a motivi scamozziani, e alla ricerca di raffinati rapporti proporzionali in sostituzione degli ordini canonici. Andrea Musàlo è l'ispiratore di una tendenza riformatrice razionalista che anticipa la teoria di padre Carlo Lodoli, come hanno spiegato Elena Bassi e Valeria Farinati.47 Nel riordinare il vasto complesso delle case dei Priuli dalle altimetrie variate e dall'aspetto probabilmente gotico, forse si cominciò dalla facciata, che con la sua sobrietà proto razionalista veniva a contrapporsi ai fasti barocchi longheniani o alle aquile ostentate dai Labia o ai cimieri dei bellicosi Savorgnàn nei palazzi vicini sul rio di Cannaregio. Giovanni Priuli, ritornato dalla sua ambasceria a Vienna e nominato procuratore di San Marco, voleva rivendicare i valori delle famiglie "originarie" della repubblica con una sobrietà consona alla tradizione daula e nello stesso tempo aggiornata dall'influenza dei circoli culturali veneti del primo settecento, razionalisti e riformatori del gusto seicentista e barocco, secondo lo spirito dell'Arcadia e la critica muratoriana. Nell'organizzazione dell'edificio si richiedevano alloggi ampi e distinti per le abitazioni dei quattro fratelli, la razionalizzazione della disposizione planimetrica della vecchia fabbrica, conservando fondazioni e strutture portanti per ragioni di economia, e infine la creazione di ambienti comuni con nuove funzioni pubbliche di ricevimento. All'androne di ingresso Tirali sostituisce un atrio ipostilo tetrastilo alla palladiana di pianta quadrata su cui si apre lo scalone a rampe divergenti, disposto in perpendicolare alla facciata e che prende insolitamente luce dalle finestre mascherate nel prospetto, come quelle del salone cubico soprastante che comprende in altezza i due piani nobili.
Esso veniva a sostituire l'elemento più caratteristico della casa veneziana, cioè la loggia e il “pòrtego” del primo e del secondo piano nobile, come era avvenuto a palazzo Dolfìn, e diventava il cuore del palazzo, collegato direttamente alle nuove scale e all'atrio. Una elaborata carpenteria lignea ricopriva lo spazio cubico reggendo la volta a padiglione affrescata secondo una tecnologia, propria dell'architettura teatrale, ma affinata nella tecnica dell'Arsenale. Sotto il tetto si ricavarono una serie di camerini denunciati in facciata da finestre basse, ma ampie quanto quelle dei piani sottostanti. In definitiva il prospetto qui diviene un "courtain wall" indifferente e muto, una "maschera" ingannevolmente razionale che cela la organizzazione distributiva interna.
Tirali palazzo Priuli a Cannaregio pianta e salone da ballo, palazzo Diedo a santa Fosca
pianta ed esterno
Palazzo Labia. A Giorgio Massari viene attribuito il salone affrescato da Giovan Battista Tiepolo a palazzo Labia. La
costruzione del palazzo fra il 1685 e il 1696 si deve a Andrea Cominelli, scartando l'attribuzione ottocentesca al Tremignòn. Ciò spiega lo stile longheniano. Dopo il prolungamento della facciata sul campo San Geremia (1721), nello spazio della sola estate del 1734 viene ricavato nel “pòrtego” dei due piani nobili il salone da ballo - un cubo di 12 metri di lato - usando i muri preesistenti, demolendo il solaio ed erigendo nuove pareti in carpenteria lignea, come pure il soffitto a padiglione. Proprio questa complessa struttura lignea (distrutta dal restauro di Angelo Scattolìn del 1968-71 e sostituita con il cemento armato) che reggeva il tetto e contemporaneamente il padiglione, farebbe pensare a Tirali, che in maniera analoga aveva appena realizzato il salone cubico della vicina ca’ Priuli Manfrìn. Su queste pareti rinzaffate di calcina e stuccate a gesso Tiepolo dipinse le storie di Antonio e Cleopatra. Sul lato verso lo scalone venne aperto un secondo portale, che dà verso la cosiddetta “sala degli specchi”, raddoppiando specularmente quello originario, che porta direttamente al pianerottolo. Il soffitto, completamente costituito da cantinelle, fu sostenuto da un fitto sistema di travi collegate, tramite un folto numero di staffe di legno, alle centine. Sul lato che dà sul cortile interno furono aperte in basso quattro ampie finestre ad arco, con sovrapposte per ciascuna altre quattro finestre rettangolari. Le sculture sono di Giovanni Marchiori e Giammaria Morlàiter.48
La proporzione cubica è prediletta da Tirali sia a ca’ Sagredo che a ca’ Priuli tanto da far pensare di attribuirgli anche la trasformazione di ca’ Labia.
Scaloni e colonne.
Ispirandosi a Tirali, Chiara Grimani Pisani fra il 1739 e il 1742 sopraeleva e rinnova il gotico palazzo Pisani
Moretta a san Polo con un nuovo scalone a tre rampe in asse con l'androne occupando quasi interamente la corte
retrostante. Le colonne che reggono le rampe derivano pure da Tirali, ma il suo nome non compare nei pagamenti
dei lavori intorno al 1739 dove invece si trova il proto Giovanni Filippini, allievo di Andrea Musàlo. I “pòrteghi”
dei due piani nobili vengono allestiti da saloni da ballo di cui il primo è affrescato da Giovan Battista Tiepolo nel
1745. Sopra il secondo piano nobile Chiara fa costruire un terzo appartamento padronale affacciato su una grande
terrazza sul canal Grande. Essa viene arredata con una finta fontana e nel 1750 questo appartamento e i mezzanini
sono decorati a stucco da Francesco Zanchi.49 Qui e nel secondo piano nobile vengono allestite due "chiesuole".
Un seguace di Andrea Tirali forse, piuttosto che il senese Paolo Posi (1708-76), è l' autore del rinnovamento di
palazzo Dandolo a Rialto per l'abate Filippo Farsetti. Questi chiamò il Posi solo nel 1759 da Roma per costruire la
villa di santa Maria di Sala terminata nel 1762, del tutto estranea alla tradizione veneta e ispirata piuttosto al gusto
francese dei trianon di Versailles. Nel palazzo veneto-bizantino, oltre agli appartamenti, allestiti in museo per
ospitare la raccolta di calchi antichi e moderni, si costruì fra il 1730 e il '50 uno scalone a tre rampe posto
tradizionalmente di lato rispetto al “pòrtego”, ma a tutto volume e sovrastato da una cupola con lanterna. Come a
ca’ Pisani Moretta le rampe triplici sono sostenute da colonne con un effetto scenografico ben maggiore che a ca’
Sagredo. La luce che piove dall'alto può così attraverso le colonne illuminare gli affreschi di Francesco Fontebasso
e Mattia Bortoloni con il Trionfo delle arti, il trionfo della poesia, il trionfo della virtù e della nobiltà . All'architetto senese la Bassi attribuisce anche lo scalone di palazzo Zane Seriman a lista di Spagna. Nel 1737 il
palazzo fu trasformato in ambasciata di Spagna con una serie di importanti lavori, ma solo fra il 1759 e il 1771
l'ambasciatore Giuseppe duca di Montealegre lo ampliò e rifece la facciata con il portale e le grandi finestre a
timpano arcuato di pietra d'Istria, compartita secondo moduli estranei alla tradizione veneziana, dove accenti
rococò sono isolati in un contesto illuminista di gusto franco-romano. Inoltre rifece lo scalone che resta un unicum
per l'uso di archi mistilinei rococò (alla maniera del Valvassori) sostenuti da esili colonne. Fra le tre rampe e le
pareti affrescate si creano intrecci visivi di grande suggestione, confrontabili con quelli del coevo scalone di
palazzo Grassi.50
!
Giorgio Massari(1686-1766). Baldassarre Longhena e Antonio Gaspari furono gli autori di un rinnovamento dell'architettura
civile che nei palazzi consiste principalmente in scaloni monumentali a tutto volume e in saloni da ballo aggiunti al "pòrtego" centrale e comprendenti in altezza più piani. Negli ultimi palazzi della Repubblica di Venezia va notata una ripresa di schemi sansoviniani e palladiani irrealizzati perché rivoluzionari rispetto alle consuetudini e inoltre l'accentuazione della facciata e dell'ingresso "da terra" rispetto a quello "da acqua".
ca’ Bon Longhena, Rezzonico Massari
Nel 1751 Aurelio Rezzonico, - fratello di Carlo, che nel 1765 sarà papa Clemente XIII e padre di Ludovico, nominato procuratore di San Marco nello stesso anno, a capo di una famiglia "nuova" di origine comasca, aggregata alla nobiltà nel 1687, - acquista la futura ca’ Rezzonico, iniziata da Filippo Bon alla metà del Seicento (1667) su disegno di Baldassarre Longhena e con interventi di Antonio Gaspari, ma lasciata incompiuta al primo piano nobile e nella parte retrostante sul rio di San Barnaba, dove forse doveva collocarsi lo scalone longheniano. Egli incaricò Giorgio Massari del completamento con il secondo piano nobile, fedele ai progetti originali, mentre gli accordò maggiore libertà nel completamento verso San Barnaba. Qui l'architetto concepì il grande ingresso da terra aperto su di un piccolo giardino, il grande scalone a due rampe e il salone da ballo a doppia altezza (1752-53), dalle proporzioni quasi di un doppio cubo - 24 x 14 x 12 - se non per l'altezza diminuita di 1/7 del lato minore, dipinto da Giovan Battista Crosato nel 1753.
Diversamente che a ca’ Zenobio esso non si innesta direttamente ma si pone trasversalmente rispetto al preesistente “pòrtego” longheniano, che secondo la tradizione scorre dalla facciata sul canal Grande al piccolo cortile che viene a dividere la fabbrica seicentesca da quella settecentesca. Le sale ai lati vengono completamente decorate e Gian Battista Tiepolo dipinge il soffitto a padiglione con l'apoteosi delle nozze di Ludovico Rezzonico con Faustina Savorgnàn nel 1758. Per lo scalone Massari si ispirò al modello longheniano di scalone a due rampe del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo e a quello dei Somaschi (oggi Seminario patriarcale), piuttosto che ai modelli a tre rampe pure longheniani del monastero benedettino di san Giorgio Maggiore e della Scuola dei Carmini 51. C'è inoltre da sottolineare anche la profonda analogia con l'addizione del Frigimelica a palazzo Pisani. Innanzitutto per le simili proporzioni del salone da ballo, e poi perché esso è tenuto sospeso sopra l'atrio e messo di traverso rispetto agli appartamenti accanto.
pianta del piano terreno, si noti olgtre il cortile in grigio la sala da ballo, l’atrio ipostilo , lo scalone e
la fontana che introduce al giardino
L'ultimo palazzo A palazzo Grassi (1748-68) Giorgio Massari immagina un edificio ex novo abolendo atrio e “pòrtego” tradizionali per
sostituirli con una sequenza di grandi vani pubblici a partire dalla facciata sul canal Grande, mentre nei lati e sul retro si collocano i servizi, gli appartamenti privati e i mezzanini. La sequenza parte dalla loggia sulla riva che riprende motivi longheniani, appiattiti però in un linguaggio semplificato, quasi neoclassico. Poi in sostituzione dell'androne c'è l'atrio quadrato con colonne ipostile, aperto sul cortile pure quadrato, circondato da un portico trabeato. Sul retro ma in asse con l'ingresso d’ acqua, sale lo scalone reale a tre rampe che raggiunge solamente il primo piano nobile. Qui in facciata è il salone, ampio quanto il cortile, su cui una loggia si apre a ripetere la trasparenza del “pòrtego”. Ai lati si affiancano due sale per parte e la stessa disposizione si ripete al piano nobile superiore. Scale di servizio lo collegano direttamente ai mezzanini laterali. Le pareti dello scalone vengono poi affrescate nel 1770 da Giambattista Canàl e Michelangelo Morleiter con il ritratto dei committenti stessi e dei loro amici durante un ritrovo festoso. Una istantanea sociale quasi iperrealistica del tutto in sintonia con la "riforma" teatrale goldoniana, che poneva definitivamente in soffitta i cieli degli dei e degli eroi tiepoleschi.
E' innegabile la derivazione dell'atrio e della disposizione del cortile dal progetto di Andrea Palladio pubblicato ne I quattro libri dell'Architettura... (II, p. 72) che però presenta uno scalone ovale con tromba colonnata posto di lato. De Angelis d'Ossat (1956) notò che il perimetro corrisponde al lotto poi occupato da palazzo Grassi, ma Puppi (1973) osservò che a quella data il lotto ancora non esisteva e che esso fu ottenuto con successivi acquisti dei Grassi e accorpamenti di lotti minori. Recentemente Giandomenico Romanelli 52 ha ipotizzato che parte del palazzo nuovo possa aver inglobato l'ala di un grande palazzo non finito dei Michiel che con muri incompleti doveva protendersi verso il canal Grande secondo un progetto incompiuto. Questa grande casa Michiel esisteva dalla seconda metà del Cinquecento ed è documentata dalle vedute di Canaletto. Forse il progetto palladiano era per i Michiel che intendevano raggiungere il Canale e realizzare l'accorpamento dei lotti che invece riuscì poi ai Grassi, ricchi mercanti chioggiotti? La tesi di De Angelis d'Ossat sarebbe allora vincente. Ma c'è Palladio che parla di un progetto non realizzato per un imprecisato committente e non di un progetto iniziato e non portato a termine. Così è del resto per quasi tutti i palazzi vicentini, da lui presentati completi nel trattato secondo il suo progetto, e che invece non lo furono, o furono portati a termine da altri, spesso con varianti notevoli.
Mi pare che sia più prudente vedere in palazzo Grassi un omaggio a Palladio di Massari che certo si ispirò alla pianta schematica del trattato palladiano per la sua creazione dell'atrio ipostilo e del cortile, dove si incrociano gli androni di ingresso da acqua e da terra, mentre per lo scalone preferì ispirarsi ai recenti modelli di Tirali.
A differenza della facciata sul canal Grande, dove solo il primo ordine comprende il piano terra e il
mezzanino mentre i piani nobili superiori sono a tutta altezza, i fianchi e il retro presentano sei piani, ottenuti
tramite la suddivisione dei piani nobili con "meza’" e "camerini", secondo la lezione sansoviniana di ca’
Corner, tramandata dalle Procuratie nuove scamozziane. E' qui che Angelo e Domenico Grassi, figli di
Giovanni il costruttore, si ritireranno a vivere dopo la vendita del palazzo nel 1840. Il primo mantiene
l'usufrutto a vita di tutta la parte sul campo san Samuele del mezzanino e dei camerini dell'ultimo piano,
mentre Domenico si riserva l'uso degli ammezzati intorno allo scalone. Qui vivevano inoltre il loro
amministratore e due inquilini.53 !
Gli ultimi progetti irrealizzati
Intorno al 1750 Tommaso Temanza immaginò il palazzo di Vincenzo Pisani a santa Maria del Giglio come un
tipo nuovo e grandioso di abitazione, lontana da ogni usanza veneziana. Esso sarebbe sorto sul canal Grande al
posto del palazzo gotico (oggi hotel Gritti) con un primo ordine bugnato alla maniera sansoviniana, dove si
sarebbe aperta una loggia con colonne ipostile reggenti le volte. Di lì uno scalone reale avrebbe portato
dapprima al cortile sopraelevato (come quello della villa Garzoni di Sansovino) e poi al salone del piano nobile
in facciata a doppia altezza e illuminato da cinque grandi finestre ad arco inquadrate da una travata ritmica
sanmicheliana di ordine gigante simile a quella del palazzo Canossa a Verona. Pure nel corpo retrostante vi
sarebbe stata una sala minore a doppia altezza.54 Sotto il tetto era previsto un piano di "camerini".
Isolato e ritardatario quanto grandioso è il progetto appena iniziato di Lorenzo Boschetti per ca' Veniér dei
Leoni del 1749. Il basamento un po’ piranesiano sul canal Grande è la casa museo di Peggy Guggenheim. Una
serie di incisioni e un grande plastico ligneo conservato a Venezia al museo Correr lo documentano. Esso
prevedeva una loggia e una "intrada" abbastanza tradizionale sul canal Grande, la corte ovale e un ampio atrio
ipostilo sul retro per l'ingresso da terra sulla fondamenta del rio dei Gondolieri. Qui, stando al modello, al
primo piano nobile si sarebbe aperta una loggia, simile al retro di palazzo Farnese, ma sviluppata su tutta la
larghezza, e al secondo piano una grande terrazza, sull'esempio dei palazzi romani e napoletani. 55
Un bel progetto dei BBPR per la sopraelevazione della casa di Peggy Guggenheim è finito fra i tanti non
realizzati per Venezia.
Temanza progetto di palazzo Pisani al Giglio, Boschetti Venier dei leoni a s. Vio modello in legno museo Correr
Ca’ Dolfin Manin, la casa dell'ultimo doge
!
Gian Antonio Selva (1751-1819) nel 1784 ristrutturò per Giuseppe Mangilli il palazzo già del console
inglese Joseph Smith sopraelevandolo di due piani e arredandolo all'interno. Esso era una ricostruzione quasi
completa di un palazzetto gotico in forme palladiane eseguita da Antonio Visentini nel 1751. Selva
aggiunse sopra il primo piano nobile un secondo e poi un piano di "camerini". Ma soprattutto denunciò in
prospetto il drastico cambio di gusto avvenuto in meno di trent'anni. Al palladianesimo dell'architetto
accademico, fatto di semicolonne e di nicchie composte in travate ritmiche sovrapposte di pietra d'Istria,
Selva contrappone la semplicità assoluta dei suoi due piani, finiti a marmorino, dove solo i timpani
connotano le finestre del piano nobile. All'interno poi creò piccoli studioli e nuovi salotti dove curò l'arredo
nel disegno dei mobili e delle tappezzerie oltre che negli stucchi e nei colori, sull'esperienza delle opere
degli Adam, viste nel viaggio in Inghilterra del 1781. Ormai si ricerca una dimensione intima e privata in
luogo del fasto pubblico barocco.
Nel 1792 il doge Ludovico Manin, discendente da una ricchissima famiglia friulana, acquistò dai Dolfin il
palazzo sansoviniano a Rialto dopo che la sua famiglia l'aveva abitato in affitto per un secolo e diede
incarico al Selva di progettare un ampliamento con una grande facciata verso san Salvador, ed una nuova
sul canal Grande al posto della sansoviniana; entrambe non furono realizzate. Venne invece ampliato il
palazzo verso terra con un nuovo atrio, uno scalone monumentale simile a quello contemporaneo del teatro
La Fenice e completamente ridecorato l'interno, con il "pòrtego" trasformato in salotto, con specchiere e
consolles, studioli, camera da pranzo in stile direttorio (1791-1801). Per ricavare il nuovo scalone fu
sacrificata la "chiesuola" attigua all'alcova del primo piano nobile: significativa scomparsa di un ambiente
legato all'ancient régime. Selva studiò a fondo la tipologia dei grandi palazzi sansoviniani. A proposito di ca’
Corner a San Maurizio - la ca’ Granda - scrive ne Le fabbriche. più cospicue di Venezia... (1815 - 20):
[Sansovino]...ha distribuito la pianta con sì avveduta distribuzione di locali che potrebbe far pago
qualsiasi più difficile cercatore delle odierne delicature. Ad ogni stanza stavano annessi gabinetti di
disimpegno e passaggi e scale che disobbligavano industremente le stanze, sicché ciasched'una d'esse
rimaneva dall'altra indipendente.
Ca’ Dolfin di Sansovino trasformata da Selva per i Manin, pianta del pian terreno, dove si dà importanza all’ingresso da terra e la si toglie all’ingresso laterale d’acqua sul rio di s. Salvador, e del primo piano
dove il portego passante viene diviso in due sale quadrate. Progetto di una nuova facciata di terra verso s. Salvador
In definitiva i saloni di ca’ Dolfìn, ca’ Zenobio e di villa
Pisani a Strà (ma anche di villa Loschi e di villa Cordellina)
sono costruiti sul rapporto di quinta (2/3); su quello di ottava
(1/2), prediletto da Scamozzi, le sale di palazzo Pisani a santo
Stefano e di ca’ Rezzonico - ma quest'ultima con altezza ridotta
a 1-1/7 -; cubici sono il salone e il vano scala di ca’ Sagredo
nonché i saloni di palazzo Priuli Manfrin e di palazzo Labia.
L'eredità palladiana, semplificata da Scamozzi, non aveva
più un carattere assoluto nonostante le teorie di Andrea Musàlo,
che ebbero certo influsso su Andrea Tirali e su Pier Antonio e
Giovanni Filippini58. Come ha insegnato Rudolf Wittkower, la
scuola trevigiana dei Riccati e Francesco Maria Preti, che ne era
l'erede, avevano trasposto queste regole assolute nella teoria
della armonia musicale, ma Tommaso Temanza ne metteva in
dubbio il valore di fondamento architettonico59. Il ritorno a
Zarlino come a “legge stabile e ferma” e alla progressione
musicale (1;2;3;4;...ottava, quinta, quarta..) proposto da Preti
trovava Temanza consenziente a commisurare lo spazio alla
musica, ma non a fondare su queste consonanze l'architettura e
tanto meno a calcolare l'altezza delle sale sulla teoria del medio
armonico (che del resto a Strà non viene rispettata). L'architetto
palladiano non poteva prescindere dall'esperienza barocca dove
è l'occhio che regola l'angolo di visuale (come teorizza Guarino
Guarini).
I rapporti palladiani di cubi e doppi cubi, prima con gli
stucchi e poi con il quadraturismo prospettico erano stati
sfondati su orizzonti più vasti proprio anche per opera di
Mengozzi Colonna e di Tiepolo, come a palazzo Labia.
Balthazar Neumann , ad esempio, aveva impostato sul
rapporto di quinta (2/3) il vano dello scalone di Wuerzburg fra
il 1737 e il 42, ma poi il cielo tiepolesco aveva aperto lo spazio
oltre le architetture, all'infinito.
Del resto scrive Francesco Maria Preti: “La simmetria di un
palagio è assai composta, e fa mestieri contentarsi di quello, che
ottenere si può”.60
salone di villa Pisani a Stra, Tiepolo soffitto con gloria Pisani
Ma scrivendo di palazzo Manin in una lettera al Canova del 1794, quando era in corso il restauro e pensava ad una nuova facciata sul canal Grande, nota:
...sono quasi al termine de' disegni e modelli che ho fatto per un palazzo per il nostro serenissimo doge Manin, che mi ha costato molto studio e fatica per la pianta tanto irregolare e per aver dovuto conservare parte del vecchio a motivo della facciata sopra il Canal Grande, che è una delle meno belle opere del Sansovino ma che il volgo riguarda come un capo d'opera... .56
Forse in quegli anni il Selva studiò una nuova facciata per il palazzo Martinengo pure sul canal Grande e a san Luca, che non fu realizzata.57