Piano dell'opera

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Piano dell'opera:

STORIA D'ITALIA Voi. I

476-1250

STORIA D'ITALIA Voi. II

1250-1600

STORIA D'ITALIA Voi. I l i

1600-1789

STORIA D'ITALIA Voi. IV

1789-1831

STORIA D'ITALIA Voi. V

1831-1861

STORIA D'ITALIA Voi. VI

1861-1919

STORIA D'ITALIA Voi. VII

1919-1936

STORIA D'ITALIA Voi. Vi l i

1936-1943

STORIA D'ITALIA Voi. IX

1943-1948

STORIA D'ITALIA Voi. X

1948-1965

STORIA D'ITALIA Voi. XI

1965-1993

STORIA D'ITALIA Voi. XII

1993-1997

I N D R O M O N T A N E L L I

STORIA D'ITALIA 178911831

INDRO MONTANELLI

L'ITALIA GIACOBINA E CARBONARA Dal 1789 al 1831

STORIA D'ITALIA Voi. IV

E D I Z I O N E PER O G G I pubblicata su licenza di RCS Libri S.p.A., Milano

© 2006 RCS Libri S.p.A., Milano

I n d r o Montanel l i Eltalia giacobina e carbonara

© 1969 Rizzoli Edi tore , Milano © 1998 RCS Libri S.p.A., Milano

Progetto grafico Studio Wise

Coordinamento redazionale: Elvira M o d u g n o

Fotocomposizione: Corapos 90 S.r.L, Milano

Allegato a OGGI di questa settimana NON VENDIBILE SEPARATAMENTE

Direttore responsabile: Pino Belleri RCS Periodici S.p.A. Via Rizzoli 2 - 20132 Milano

Registrazione Tribunale di Milano n. 145 del 12/7/1948

Tutti i diritti di copyright sono riservati

La Rivoluzione francese prima, la grande avventura napoleo­nica poi avevano sconvolto e distrutto l'ordine che faceva so­pravvivere quegli Stati, staterelli, regni e ducati in cui era

frammentata la penisola. LItalia, come scrisse Stendhal, aveva riassaporato, almeno per quanto riguarda i suoi uomini più illumi­nati, quel gusto per la libertà che avrebbe segnato la nascita di quel Risorgimento che, tra mille incertezze e tentennamenti, avrebbe por­tato alla nascita dell'Italia unita, ultima a raggiungere questo tra­guardo tra gli Stati europei. In questi anni si assiste, infatti, al sor­gere confuso e contraddittorio degli ideali risorgimentali. Confuso e contraddittorio perché ancora oggi è difficile individuare con preci­sione chi volle in realtà questa unità: Casa Savoia ?, i generosi idea­listi mazziniani?, le potenze straniere?, la volontà corale di un po­polo ? E proprio questo l'argomento principale che viene affrontato in questo libro. La libertà fu perseguita con il sostegno della vo­lontà popolare o le masse rimasero indifferenti o perfino avverse (come nella tragedia della Rivoluzione napoletana del 1799) agli ideali di giustizia e libertà importati d'Oltralpe?

Lltalia napoleonica e repubblicana, quella borbonica del Regno delle Due Sicilie, dello Stato pontificio, del Piemonte sabaudo, dei ducati e granducati e quella dei giacobini e dei carbonari rivivono in modo superbo in questa smagliante ricostruzione che va alla ra­dice degli eterni vizi italiani: l'incostanza nelle scelte, degli alleati, il timore di agire e di scendere in campo, le speranze e i sogni scam­biati per realtà, la pavidità degli intellettuali, il cinismo e l'indiffe­renza di ampi strati delle diverse classi sociali, chiuse in un miope egoismo teso a difendere i propri interessi particolari.

INDRO MONTANELLI (Fucecchio 1909 - Milano 2001) è stato il più grande giornalista italiano del Novecento. Laureato in legge e in

scienze politiche, inviato speciale del «Corriere della Sera», fonda­tore del «Giornale nuovo» nel 1974 e della «Voce» nel 1994, è tor­nato nel 1995 al «Corriere» come editorialista. Ha scritto migliaia di articoli e oltre c inquanta libri. Tra i suoi ultimi successi, tutti pubblicati da Rizzoli, ricordiamo: Le stanze (1998), Eltalia del Nove­cento (con Mario Cervi, 1998), La stecca nel coro (1999), Eltalia del Millennio (con Mario Cervi, 2000), Le nuove stanze (2001).

Indro Montanelli

L'ITALIA GIACOBINA E CARBONARA

(1789-1831)

AVVERTENZA

Nel presentare L'Italia del Set tecento, avevo avvertito il lettore che probabilmente non avrei potuto essere puntuale alla solita sca­denza natalizia. E così infatti sarebbe stato, se avessi insistito nella mia idea di dedicare al Risorgimento due volumi. Viceversa, via via che proseguivo nella stesura, vii sono accorto che di volumi ce ne volevano almeno tre. Fermando il primo al 1831, ho potuto ar­rivare in tempo all'appuntamento.

Qualcuno troverà arbitraria la scelta di questa data. Ma, a, par­te il fatto che arbitrarie sono tutte le scelte, mi è parso che questa un suo fondamento lo abbia, e io ho cercato di riassumerlo nel titolo: L'Italia giacobina e carbonara. Che non è ancora quella del Ri­sorgimento, ma è quella che lo prepara.

E un periodo estremamente complesso, specie il primo ventennio napoleonico. E debbo dire che la più grande difficoltà l'ho incon­trata appunto nell'annodare ifili delle vicende di cui esso è gremi­to, in modo che il lettore possa seguirli senza eccessivo sforzo. Credo che siano in pochi ad avere un'idea chiara di quella specie di ballet­to che Napoleone impose al nostro Paese, facendone e disfacendone gli Stati, fondendoli, dividendoli, trasformandoli da Principati in Repubbliche e da Repubbliche in Regni. Non so se questo libro aiu­terà a capirne un po' meglio le «figure». Ma questo è uno dei miei obbiettivi. Ealtro è naturalmente la ricostruzione e l'analisi dei fer­menti politici, sociali, culturali che la conquista francese lasciò. E qui si entra in una materia che, anche per la sua vicinanza all'epo­ca attuale, si presta alle più svariate interpretazioni e quindi alle più accese polemiche. Io ho cercato di non parteggiare. Se vi sia riuscito, non lo so. So soltanto che me lo sono proposto anche col sa­crificio di certe mie pregiudiziali. Io vedo nel Risorgimento e in tut-

to quello che lo preparò l'unica cosa nobile e bella che l'Italia abbia fatto negli ultimi quattrocento anni, e non mi sembra di dir poco. Ma ho voluto pormi di fronte ad esso in una posizione spassionata­mente critica, denunziandone anche i difetti e le inadempienze. Qualcuno, per esempio, troverà forse un po' impietose le mie riserve sulla Carboneria e i suoi uomini, compresi quelli che subirono il martirio della forca e dello Spielberg. Ma io penso che fra le tante cose che oggi contro il Risorgimento congiurano e ne offuscano gli splendidi valori, ci sia anche l'immagine statuaria che per un seco­lo ci si è sforzati di dargli. Di ridimensionamenti ne sono già stati fatti molti, perfin troppi, ma di solito con intenzioni che solo per eu­femismo si possono chiamare ambigue. Il mio è quello di un uomo che conserva integra la religione del Risorgimento e considera ba­stardi gl'italiani che non la condividono. Questo tuttavia non m'im­pedisce di vederne e di farne vedere i limiti. Ce ne furono, purtrop­po. E proprio nel periodo d'incubazione che costituisce la materia di questo libro, mi sono sforzato di cercarne i motivi.

Come il lettore vede, sono rimasto solo a proseguire questo ciclo storico. Il mio amico e collaboratore Gervaso ha «messo bottega» per conto suo, ed era logico: ormai ne ha la maturità e la capacità, co­me si appresta a dimostrare. Gli auguro il più grande successo.

Un'ultima cosa. Mi hanno sempre rimproverato di non aver for­nito in questi libri una bibliografia ragionata e argomentata delle opere consultate. Io pensavo - e continuo a pensare - che il vasto pubblico a cui mi rivolgo, non essendo di specialisti, non la esiga. Comunque, stavolta gli ho dato molti più ragguagli del solito, ma sempre rifiutandomi di sommergerlo sotto un diluvio di monografie specifiche, che del resto non sono state scritte per esso, e fra le quali non è verisimile ch'esso intenda ingolfarsi.

Ecco tutto. E ora la parola, come sempre, al lettore. I.M.

Ottobre 1971

PARTE PRIMA

L'ITALIA NAPOLEONICA

CAPITOLO PRIMO

IL C O N Q U I S T A T O R E

L'ultimo capi tolo de L'Italia del Settecento e r a ded ica to alla Francia. Ed è dalla Francia che anche questo vo lume deve p r e n d e r le mosse perché la storia del nostro Paese si fa più a Parigi che a Torino, o a Roma, o a Napoli. L'influsso che la rivoluzione francese esercitò sull'Italia fu d a p p r i m a soltanto ideologico e limitato a quella sparu ta pattuglia d'intellettua­li ch ' e rano gli unici in g rado d ' in tenderne i motivi; e di que­sto pa r le remo più tardi. Ma dal '96 in poi le idee si presen­ta rono sotto forma di baionet te che misero a soqquadro l'as­setto polit ico della penisola r iba l t andone il vecchio equili­br io e lasciandovi, anche d o p o il loro r i t i ro, quei ferment i che di lì a poco avrebbero dato avvio ai moti risorgimentali. Ecco p e r c h é i l quasi ven t enna l e domin io francese fu, p e r l'Italia, di decisiva importanza.

Abbiamo lasciato i rivoluzionari di Parigi al m o m e n t o in cui la loro ghigliottina si abbatteva sul collo del re Luigi XVI e di sua moglie, l 'austriaca Maria Antonietta. Più che dei ne­mici, essi e r ano rimasti vitt ime degli amici. I nobili fuggiti o l t re f ront iera p e r raccogliere aiuti e r i e n t r a r e in pa t r ia a capo di u n a spedizione punitiva, dicevano di farlo in n o m e del Re, un fratello del quale militava nelle loro file. L'Impe­ra to re d'Austria Leopo ldo , fratello della Regina, e il Re di Prussia, ol tre a p res ta re larga ospitalità a questi fuorusciti, minacciavano d ' i nvade re la Francia se ques ta avesse tor to un capello ai suoi Sovrani. Nell ' interno del Paese, e soprat­tu t to in Vandea , c ' e rano forti resis tenze al n u o v o reg ime , che si manifestavano con u n a sanguinosa guerriglia. Il Re e la Regina e r a n o n a t u r a l m e n t e sospettati di s tare al giuoco

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dei nemici di d e n t r o e di fuori. Ma forse a p reg iud ica re la loro sorte n o n fu tanto l'accusa - d 'a l t ronde provata - d'in­telligenza coi ribelli, quan to il fatto che la rivoluzione aveva bisogno, come tutte le rivoluzioni, di creare nel popolo u n a psicosi di persecuzione p e r ristabilirne l 'unità. I l d e p u t a t o C o u t h o n lo disse ai suoi elettori: «Per consolidarci ci vuole u n a guerra». II regicidio la r endeva inevitabile e obbligava anche i francesi che lo contes tavano a str ingersi in to rno al nuovo regime.

Fu infatti la Francia a p r e n d e r e l'iniziativa scendendo in campo contro Austria e Prussia. Le d u e Potenze raccolsero la sfida pe rché i fuorusciti assicuravano loro che si sarebbe trattato di u n a passeggiata militare. Invece i d u e eserciti fu­r o n o fermati a Valmy dall 'artiglieria francese, e più ancora dalla nebbia. Sebbene n o n si trattasse di u n a vera e p ropr ia vittoria, essa fu presenta ta come tale dal governo rivoluzio­nario e suscitò nel Paese un 'onda ta di patriott ismo che som­merse le opposizioni . Fu in questa surr iscaldata atmosfera che l'Assemblea Nazionale, la quale aveva fin allora esercita­to il po te re , si sciolse pe r cedere il posto a una Convenzione, cioè a un Par lamento incaricato di redigere la nuova Costi­tuzione. In esso n o n c 'e rano dei veri e p r o p r i «partiti» nel senso m o d e r n o della parola. Tutti e r ano convinti rivoluzio­nari e accesi nazionalisti, che volevano la gue r r a a oltranza, e n o n si con ten ta rono di quella difensiva coronata a Valmy. Manda rono il loro esercito a invadere il Belgio, tu t tora pos­sedimento austriaco, la Renania, Nizza e la Savoia, dove fu­r o n o bandi t i dei plebisciti più o m e n o truccati che sanciro­no l 'annessione alla Francia. Così la rivoluzione cominciò a traboccare fuori del Paese.

Fu sulla sorte del Re e della Regina che la Convenzione si divise. Fin allora essa era stata domina ta dal g r u p p o dei «Girondini», piuttosto modera t i anche perché rappresenta­vano gl ' interessi d i u n a classe bo rghese , che n o n voleva spingere la rivoluzione a misure es t reme. Cont ro di essi sta­va la fazione massimalista dei «Giacobini» o «Montagnardi»

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che, sebbene anch'essi di estrazione borghese (in tut to quel pa r l amen to n o n c 'erano che d u e popolani) , s i at teggiavano a in terpre t i del proletar iato - i cosiddetti «Sanculotti», cioè gli sbracati - e dei suoi violenti umor i . In mezzo c'era la «pa­lude», cioè gl ' indecisi . F u r o n o cos toro che , lasc iandosene t ravolgere, d i ede ro ai Giacobini la maggioranza necessaria a s t rappare la condanna a mor te .

Sia il Re, ai pr imi del ' 93 , che la Regina, nell 'ot tobre, af­f rontarono la ghigliottina con molta dignità. Ma il loro san­gue scatenò la violenta reazione di tutta l 'Europa monarchi ­ca che vedeva in quel l 'episodio la fine del pr inc ip io di so­vrani tà pe r diritto divino, su cui tutte le sue dinastie si reg­gevano. Si formò una coalizione cui ade r i rono anche il Pie­monte , lo Stato pontificio e il Regno di Napoli. I vincitori di Valmy furono a loro volta sconfitti e il loro Genera le , Du-mouriez , passò al nemico.

C o m e s e m p r e accade in ques te circostanze, i l per icolo diede ancora più forza agli estremisti che scatenarono un 'on­data di te r rore . Essi redassero u n a Costituzione di contenu­to spiccatamente socialista. Ma gli stessi autori si resero con­to che la sua applicazione avrebbe provocato la rivolta, e vi r inunziarono pe r concentrarsi unicamente sul problema più urgente: la difesa nazionale. A essa fu preposto un «Comita­to di salute pubblica» che, per difendere insieme il Paese dal­l 'invasione esterna e la rivoluzione dalla dissidenza interna, dovet te r i cor re re alle misure più es t reme. I l g r a n d e pro ta­gonista di questa fase violenta fu Robespierre che pe r parec­chi mesi non diede riposo alla ghigliottina, avviandovi anche i suoi vecchi amici e gli uomini più prestigiosi del regime co­me Danton, forse il più g rande cervello politico del momen­to. Alla fine sotto la ghigliottina finì anche lui (1794): un po ' perché anche i suoi complici e collaboratori si sentivano mi­nacciati dal suo crescente satrapismo, un po ' perché di ter­rore n o n c'era più bisogno: gl'istituti rivoluzionari e rano rin­saldati , e gli eserciti nemici costret t i a subire l'iniziativa di quello francese, forte di 300.000 uomini . Nel '95 la coalizio-

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ne si e ra sfasciata p e r il r i t iro di Olanda , Spagna e Prussia. In campo restavano solo l ' Inghil terra che pe r il m o m e n t o si limitava a sorvegliare i mari , e l'Austria.

Anche con queste Potenze la pace era a por ta ta di mano . Il p o m o della discordia era soprat tut to il Belgio, che i fran­cesi avevano s t rappa to all 'Austria. Ma questa sembrava di­sposta a r inunziarvi in cambio di qualche compenso sul Re­no , e già pe r questo si e r ano allacciate trattative sotto banco. A Parigi il governo, che allora si chiamava «Direttorio», era or ientato verso la distensione. Con l 'annessione del Belgio, di Nizza e della Savoia, la Francia aveva raggiunto le cosid­de t t e «frontiere natura l i» , e po teva cons ide r a r s ene paga . Furono i militari che si opposero a qualsiasi revisione in Re­nania. Con le vittorie il loro peso era cresciuto, ed essi lo fa­cevano sentire. La diplomazia inglese che n o n voleva le basi navali be lghe a disposizione della flotta francese ne a p p r o ­fittò pe r r i lanciare la coalizione a t t i randovi la Russia. Così, alla fine del '95, la parola fu di nuovo alle armi .

Sia la Francia che i suoi avversari e r a n o convint i che la campagna si sarebbe svolta in Germania , e lì cominciarono ad ammassare le loro forze. Ma il Direttorio incluse nel suo p iano anche u n a manovra di diversione in Italia che obbli­gasse l'Austria a dislocarvi par te del suo esercito. Per questo compi to secondar io fu prescel to un Gene ra l e d i a p p e n a ventisette anni : Napoleone Bonapar te .

Non ci sognamo di r icostruirne la storia e la personalità, il­lus t ra te in migliaia di biografie e in cent inaia di d r a m m i e di film. Napoleone è una delle poche figure, di cui tutti san­no a lmeno le cose essenziali: ch 'era nato in Corsica da una famiglia di o r ig ine toscana, c h ' e r a cap i t ano di ar t igl ier ia q u a n d o scoppiò la rivoluzione di cui si mise subito al servi­zio, che si e ra dis t into r e p r i m e n d o sp ie t a t amen te coi suoi cannoni i moti controrivoluzionari di Tolone, che doveva la r ap id i t à della sua c a r r i e r a all 'amicizia di Robesp i e r r e , la quale poi gli e ra costata il «siluramento».

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A r ipor tar lo a galla e rano stati un po ' gli avvenimenti po­litici, un po ' gl ' intrighi d'alcova. Dopo la l iquidazione di Ro­besp ie r re , i cont ror ivoluz ionar i avevano rialzato la cresta. Anche a Parigi ci furono dei moti , e pe r schiacciarli nessuno aveva le carte più in regola di Napo leone che già in questo g e n e r e di operaz ion i aveva da to p rova dei suoi talenti . Li confermò a m m u c c h i a n d o sui selciati di Parigi t recento ca­daveri , e pe r di più en t rò nelle grazie di u n o dei più poten­ti m e m b r i del Direttorio, Barras , sposandone l 'amante, Giu­sepp ina Beauha rna i s , vedova d ' u n al tro Genera l e , che da b u o n a moglie francese aveva l 'abi tudine di t rad i re i p rop r i marit i , ma anche di aiutarli nella carr iera . Q u a n t o essa ab­bia influito nella n o m i n a del Bonapa r t e a c o m a n d a n t e del c o r p o di spediz ione des t ina to all ' I talia, n o n si sa. Ma che v'influì, sembra accertato.

Era il marzo del 1796. Ques to corpo di spedizione e ra composto di 30.000 uo­

mini , che a veri e p r o p r i soldati somigliavano poco. E rano ancora di quelli che il governo r ivoluzionario, con le casse vuote, aveva spedito sulle frontiere p e r pa r a r e l 'aggressione con l 'ordine di ar rangiars i , cioè di man tene r s i da soli sulle r isorse dei t e r r i to r i occupat i . Versavano in tali condiz ioni che gli storici francesi h a n n o dedicato add i r i t t u ra dei libri alla descrizione delle loro dilapidate uniformi e dei loro mo­di inselvatichiti. Vivevano di r ap ine come u n ' o r d a barbar i ­ca, e Alfieri li chiamò «un pidocchiume».

Bonapar te n o n si lasciò sgomentare dall 'aspetto di questi miserabili «capelloni» in stracci e ciocie, q u a n d o il 2 marzo ne assunse a Nizza il comando , sebbene anche a lui il Diret­tor io avesse de t to di a r rang ia r s i sia pe r i r i forn iment i che pe r la «cinquina». Sapeva che pe r questo poteva contare sul­l 'eccezionali qual i tà organizzat ive d i un suo c o m p a e s a n o còrso, Saliceti, che lo aveva accompagnato , anzi che lo aveva p recedu to in qualità di «Commissario». I Commissari e rano agent i di fiducia che il governo rivoluzionario metteva alle calcagna dei capi mili tari con compi t i vari d i p r o p a g a n d a

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fra le t r u p p e , di consulenza politica, ma soprat tu t to di sor­veglianza: molti ufficiali e r ano di sent iment i monarchic i , e talvolta sabotavano gli o rd in i o passavano al nemico, come aveva fatto Dumour i ez . Ma fra B o n a p a r t e e Saliceti i r a p ­por t i n o n e rano questi. Legati da u n a vecchia amicizia di fa­miglia, avevano en t rambi fatto pa r te del clan di Robespier­re , si e r ano rec iprocamente aiutati nei t rambust i della rivo­luzione e nei repentagl i delle «purghe», insomma erano , da buoni còrsi, «compari».

Ment re Saliceti sfamava quel l 'orda con implacabili requi­sizioni e l 'equipaggiava con t ra t t ando sulla p rop r i a respon­sabilità un pres t i to con le b a n c h e di Genova , N a p o l e o n e metteva a p u n t o il suo p iano, senza tener il m e n o m o conto degli ordini ricevuti. N o n era affatto disposto a fare il com­pr imar io dei suoi colleghi Hoche e Moreau , prepos t i all 'e­sercito che operava in Germania . Pur al comando di quelle scalcagnate forze, la c a m p a g n a era ben deciso a risolverla lui, d iven tandone il protagonista . In cuor suo aveva già di­sobbedito, e seguiterà a farlo senza esitazioni, me t t endo re­g o l a r m e n t e i l Di re t tor io di f ronte al fatto c o m p i u t o : ma compiuto con la vittoria.

Il t e r r eno lo aveva già coscienziosamente studiato all'Isti­t u to Topograf ico d i Parigi . O r a s tudiava, sui r a p p o r t i de i suoi in fo rmator i , lo s ch i e r amen to nemico p e r t rova re i l p u n t o più favorevole a r o m p e r n e il fronte. Questo schiera­m e n t o d isponeva di 60.000 uomini , i l d o p p i o dei suoi. Ma metà e rano austriaci, metà piemontesi , che collaboravano al solito modo , cioè diffidando gli uni degli altri. Il p u n t o de­bole era la loro saldatura, cioè la loro mancanza di saldatu­ra. Costeggiando il colle di Cadibona fra le Alpi e il mare , ci si poteva insinuare t ra loro e affrontarli separa tamente .

Il 28 m a r z o B o n a p a r t e lanciò ai suoi soldati i l famoso p roc lama : «Voi siete n u d i e affamati. . . Io voglio c o n d u r v i nelle più fertili p i anure del m o n d o . Vi t roverete gloria, ono­re , ricchezza...» Queste sono le parole registrate all 'anagrafe della Storia. In real tà p a r e che l 'ult ima frase suonasse: «Vi

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t rove re t e glor ia e p r eda» , che s ' in tonava mol to megl io ai sent imenti di quegli uomini . C o m u n q u e , fu in questo senso ch'essi in te rp re ta rono l 'appello.

Ma d i p roc lami , N a p o l e o n e ne f irmò c o n t e m p o r a n e a ­men te anche un altro, in cui c'era probabi lmente lo zampi­no di Saliceti, alle popolazioni piemontesi : «Il Governo del­la Repubblica saprà r iconoscere in ogni m o m e n t o i popol i che sono pron t i a scuotere, con u n o sforzo generoso, il gio­go della tirannia!...»

La politica del Bonapa r t e nel nos t ro Paese n o n riuscirà più a liberarsi da questa contraddizione, e pe r vent 'anni gl'i­taliani n o n s a p r a n n o se Napo leone li scuote dai gioghi o li tratta da p reda .

CAPITOLO SECONDO

LA PREDA

La comparsa di Napo leone rimescolava tut to l'assetto degli Stati italiani, che da mezzo secolo n o n aveva più subito t rau­mi. Richiamiamolo r ap idamen te alla memor ia del lettore.

I Savoia regnavano sul Piemonte e la Sardegna. La Lom­ba rd i a e ra u n a provincia austr iaca. Genova serbava la sua autonomia . Il Veneto faceva Repubblica con Venezia e il suo res iduo strascico di «dipendenze» istriane e da lmate fino a Corfù. A sud del Po sopravvivevano i vecchi Ducati di Par­ma e Piacenza sotto i Borbone , e di Modena e Reggio sotto gli Este, senz 'al t ro avvenire che il loro passato. Poi comin­ciavano le «Legazioni» (Ferrara, Bologna ecc.), p u n t a avan­zata degl i Stati pontifici che ing lobavano R o m a g n a , Mar­che, Umbr ia e Lazio. La Toscana faceva ancora Granduca to sotto la dinast ia dei L o r e n a , ma con l 'eccezione di Lucca, Repubblica ind ipenden te . Dall 'Abruzzo in giù era tut to Re­gno delle Due Sicilie, o Reame come si chiamava pe r an tono­masia, sotto la dinastia dei Borbone di Napoli .

II deus ex machina, lo Stato-guida di questa costellazione era l'Austria, d i re t tamente p a d r o n a della Lombardia , indiretta­m e n t e della Toscana p e r c h é i l G r a n d u c a appa r t eneva alla stessa casa del l ' Imperatore di Vienna, anzi era suo fratello, e del Reame, che la regina Maria Carolina, a sua volta zia del­l ' Impera tore , aveva sottratto all 'influenza dei Borbone spa­gnoli, cui suo mari to Ferd inando appar teneva, pe r metterla sotto quella degli Asburgo-Lorena. Questo groviglio dinastico è piut tos to complicato, lo sapp iamo. Ma chi voglia meglio informarsene p u ò rifarsi alla nostra Italia del Settecento, dove ne abbiamo ritessuto più dettagliatamente la t rama.

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Era u n a tipica s is temazione da ancien regime, in cui gli Stati venivano considerati pa t r imonio personale dei vari ti­tolari, che ogni tanto addir i t tura se li barat tavano come fat­tor ie . In essi n o n c 'era pos to p e r altr i p ro tagonis t i che i l Principe, laico o ecclesiastico che fosse. Anche là dove vige­va un regime repubbl icano - come a Venezia, a Genova e a Lucca - , i l potere s ' incarnava in un piccolo g r u p p o di uomi­ni o di famiglie che lo esercitavano come loro esclusivo mo­nopolio. Il po te re era tut to, e tutto era del potere . Anche la cu l tu ra e ra r imasta legata al suo ca r ro , e la massa, ol t re a n o n avere s t rument i pe r esprimersi (istituti rappresentat ivi , part i t i politici, giornali) , n o n aveva n e m m e n o la coscienza di sé e un alfabeto con cui formarsela e manifestarla.

Ma qui occor re u n a breve p a n o r a m i c a della s i tuazione sociale perché fu p ropr io su di essa che l'esercito rivoluzio­nario di Napoleone , a differenza di tutti gli altri invasori che nei secoli lo avevano preceduto , agì da e lemento catalizzato­re c reando , in con t rappos to al Principe, un nuovo interlo­cutore: la pubblica opinione. Che questa fosse più ostile che favorevole ai nuov i venu t i , con ta poco. Ciò che conta è ch'essi la evocarono e la ch iamarono nel giuoco politico.

«L'opinione dei milanesi nello spazio di un mese è cambiata ed un avvenimento [la rivoluzione francese}, che dappr inc ip io fu accolto con ammiraz ione e con giubilo, poco d o p o si r i­gua rdò con dileggio e come una pubblica sciagura» scriveva con amarezza Pietro Verri nei suoi Pensieri sulla rivoluzione. La sua diagnosi era sostanzialmente esatta, e n o n si applica­va soltanto a Milano. In tut ta Italia, all'iniziale onda ta d 'en­tusiasmo per le g rand i notizie che g iungevano da Parigi, ne era seguita u n a di sbigot t imento . Ed è facile r i cos t ru i rne i motivi.

La r ivoluzione francese, m a l g r a d o cer te sue v e n a t u r e proletarie e socialiste, era un fatto essenzialmente borghese. Ma in Italia di borghesia ce n 'era poca e di poco peso. Quel­la che si e ra formata nell 'età comuna le del Tre e del Qua t -

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t rocen to si e ra sbriciolata sotto i regimi spagnol i e con t ro ­riformisti che avevano res taurato un tipo di società feudale. La scoper ta del l 'America che aveva spos ta to i traffici dal Medi te r raneo all'Atlantico e l'inflazione dovuta all 'alluvione del l 'oro e del l ' a rgento amer icani avevano rovinato i nostr i ceti industriali e mercantili . E la Contror i forma li aveva mo­r a l m e n t e scredi tat i r i p r i s t i nando i valori del s angue e del r ango al di sopra di quelli economici e culturali. Ment re nel­l 'Europa r iformata l ' imprendi tore p r endeva i l sopravvento sul nobi le , i m p o n e n d o i suoi valori - il lavoro e il r i spar ­mio -, in Spagna e in Italia era il nobile ter r iero e reddi t iero che p rendeva il sopravvento sul l ' imprendi tore facendo del­l'ozio e del fasto un criterio di distinzione sociale.

Nel Settecento un po ' di ceto med io s i e ra r i formato, ma n o n d a p p e r t u t t o e n o n in m o d o omogeneo . Come abbiamo det to nel volume dedicato a questo secolo, solo in Lombar ­dia si poteva par la re di un capitalismo industr iale . A dargli avvìo e r a n o stati quei fittavoli che, d o p o aver esercitato le loro capaci tà i m p r e n d i t o r i a l i nel la cascina - c h ' e r a a n c h e u n a piccola industr ia di t rasformazione - , avevano impian­tato fabbriche e manifa t ture in città. N o n esager iamone la p o r t a t a . Que l l a l o m b a r d a e r a a n c o r a u n a società d i t ipo spagnolesco, cioè domina ta dall 'aristocrazia e dai suoi inte­ressi e privilegi. Però accanto ad essa s'era formato un ceto borghese , che cresceva in p roporz ione alla sua forza econo­mica.

Di ques to ceto ce n ' e r a a n c h e in Toscana, ma aveva tut t 'a l tre origini e att i tudini. Qu i e rano gli stessi terr ier i che, spintivi dalle i l luminate r iforme di Pietro Leopoldo , si era­no fatti imprendi tor i , ma r i m a n e n d o terrieri . La fattoria to­scana era diventata, pe r quei tempi , un model lo d ' impresa agricola, ma n o n ne varcava i limiti. A differenza della casci­na l ombarda , n o n svi luppava indus t r ie di t rasformazione . Era la cabina di c o m a n d o di un «padrone» che i l c o m a n d o lo esercitava di persona , impegnandos i nelle sue t e r re , mi­gl iorandole , ce rcando di cavarne i l massimo, ma anche in-

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vestendovi tutti gli utili che ne traeva. Fabbriche in città n o n ne impiantava. Anzi, m e n t r e in Lombard i a l ' imprend i to re spremeva la te r ra pe r fondare la manifat tura in città, in To­scana il professionista, l 'artigiano e il mercan te arricchiti in città investivano il loro capitale in te r ra e acquistavano men­talità e costume di terrieri .

Ogn i r eg ione i n somma aveva un suo t ipo d i borghesia . In Piemonte la formavano i funzionari dello Stato. A Roma, i notai e impiegati della Curia. Nel Sud, gli avvocati. E oltre alla povertà dei suoi ranghi e dei suoi conti in banca, anche questa diversità di formazione, e quindi anche di vocazioni, cont r ibuiva alla sua debolezza. L ' imprend i to re mi lanese aveva poco in c o m u n e col «paglietta » napo le t ano e quest i col bot tegaio f iorentino. Ma a ostacolare la nascita fra loro di u n a coscienza di classe e di u n a c o m u n i t à d ' in teress i e d ' intenti c 'erano anche altre d u e circostanze.

La p r ima e ra il pol icentr ismo italiano. L'elaborazione di un pens i e ro o di un m o v i m e n t o è facile là dove u n a sola città è in g r a d o di dec idere p e r l ' intera nazione. In queste condizioni, grazie ai suoi lunghi secoli di storia unitaria, era la Francia. Parigi aveva dato e dava a tut ta la borghesia fran­cese u n o s tampo omogeneo , il pun to d ' incontro, il costume, il l inguaggio. Tut to era nato lì, e tut to lì si decideva. In Ita­lia questo mancava. La nobiltà aveva i suoi centr i di po te re nelle varie Corti . Il clero lo aveva nella Curia. La borghesia non lo aveva.

L'altro mot ivo di debolezza e ra i l suo i so lamento . In Francia e in Inghi l ter ra essa attingeva la sua forza alle classi popolar i con cui aveva instaurato dei rappor t i di cul tura. In questi paesi, grazie alla diffusione dell'alfabeto, l 'intellettua­le si e ra scosso di dosso la d i p e n d e n z a dal p o t e n t e che un t e m p o lo f inanziava pe r tener lo asservito al suo ca r ro . Or ­mai gli bastavano i diritti d 'au tore , cioè i provent i che gli ve­nivano dalla vendita delle sue opere . Da allora si e ra abitua­to a p a r l a r e al «pubblico», e il pubbl ico si e ra ab i tua to ad ascoltarlo. Così si e ra formata quella meravigliosa uni tà di

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l inguaggio che in Francia fa tu t t ' uno fra l ingua scritta e lin­gua parlata. E così i valori ideali della borghesia - la libertà, la giustizia, il p rog res so - e r a n o d iventa t i p a t r i m o n i o del popo lo , che p e r essi salì sulle ba r r i ca te e li fece t r ionfare . Che in segui to la borghes ia li abbia t radi t i o sacrificati ai p rop r i egoismi, è un altro discorso, che r iguarda il poi. Alla vigilia e al m o m e n t o della r ivoluzione, borghesia e popolo furono insieme perché già da un pezzo lo e rano , grazie alla cultura.

In Italia queste condizioni mancavano totalmente. Ol t re ad essere pochi , e te rogene i e poveri , i borghesi e r ano soli. Un colloquio con le masse n o n avevano mai p o t u t o istau­rar lo perché ne mancava lo s t rumento fondamentale : l'alfa­beto. La Chiesa, che aveva il monopol io dell ' istruzione sco­lastica, n o n aveva sentito il bisogno di diffonderlo, da quan­do il Concilio di T ren to aveva fo rma lmen te r ibadi to che il c r eden t e n o n aveva affatto i l dovere , anzi n o n aveva n e m ­m e n o il dirit to di leggere e d ' in te rpre tare le Sacre Scritture. Di esse si era perfino proibita la t raduzione in l ingua italia­na a p p u n t o pe r r iservare al p re te il compito di decifrarle. Il Verbo doveva restare un'esclusiva di casta, e la cul tura si era adegua ta al sistema. Essa e ra diventata un circolo chiuso e asfittico di «iniziati» che si par lavano solo t ra loro nell 'ambi­to delle «Accademie» finanziate dal po t en t e . «A che scopo scrivere libri se n o n ho più a chi dedicarli?» diceva Frugoni , caduto in disgrazia presso i suoi protet tor i . Infatti, anche se li avesse scritti, n o n avrebbe avuto di che pubblicarli pe rché alle spese di s tampa e ra d 'uso che provvedesse il destinata­rio della dedica - di solito un Principe o un Cardinale -, non essendoci un pubblico in g rado di acquistarli.

Era ques ta m a n c a n z a d i u n a cu l tu ra m e d i a (che quel la accademica anco r oggi segui ta s t u p i d a m e n t e a spreg iare) che isolava la borghesia, le impediva di allacciare il dialogo con le classi popo la r i e di suscitarvi un ' eco . Verri lo aveva capito. «Se n o n s'illumina p r ima la plebe - aveva scritto nei suoi Pensieri -, s'ella n o n costringe poi i nobili a piegarsi, u n a

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rivoluzione non p u ò da noi cagionare che rapine e saccheg­gi.» Ma ques ta i l luminaz ione n o n s i po teva o p e r a r e d ' u n trat to, g i rando l ' in terrut tore . Francia e Inghi l te r ra ci aveva­no messo più di d u e secoli: i d u e secoli che noi avevamo im­piegato a fare della cul tura un'esclusiva di pochi, anzi di po­chissimi: u n a mafia al servizio di quel la del p o t e r e . Fra la cul tura e il popolo n o n c'era più in c o m u n e neanche la lin­gua. Ment re in Francia si scriveva quella di Voltaire, in Ita­lia si scriveva quella di Vico. Il lettore le met ta a confronto.

Per le gambe di un intellettuale così condizionato, l'Illu­minismo rappresentava il passo più lungo. Esso gli pe rmet ­teva di assumere un'et ichetta «progressiva», ma al r iparo da qua lunque accusa di eversione. Gl'illuministi n o n e rano dei rivoluzionari. Non volevano affatto dis t ruggere l 'ordine co­stituito. Sia il Verri , q u a n d o reclamava il riassetto mone ta ­rio in Lombard ia , che il Beccaria, q u a n d o chiedeva l'aboli­zione della p e n a di mor te , collaboravano col po tere , e pen­savano più a inserirvisi che a sovvert ir lo. E r a n o i n somma dei «moderati» avanti lettera, né altro potevano essere pe r i motivi che abbiamo det to : e rano pochi, e r ano soli, non po­tevano contare su nessun appoggio popolare , e quindi il po­tere restava l 'unico loro sostegno e l 'unico loro interlocuto­r e . Il lo ro g io rna le , II Caffè di Milano, n o n si r ivolgeva al pubblico (che n o n c'era), ma ai pad ron i del vapore (austria­ci), p e r spinger l i a p r e n d e r e le mi su re ch 'esso r i teneva le più efficaci pe r l ' a m m o d e r n a m e n t o , e qu ind i p e r il po ten­ziamento, del «sistema». Era una collaborazione che, anche q u a n d o assumeva toni di critica vivace, n o n diventava mai contestazione. Non poteva diventarlo perché gliene manca­va la fondamenta le a r m a di r icatto: l 'appello alla pubblica opinione.

Ecco perché la rivoluzione francese aveva suscitato quel­l e d u e o n d a t e d i sen t iment i con t r add i t t o r i . Dappr inc ip io l 'opin ione borghese che , in mancanza d i quel la popo l a r e , e ra l 'unica a potersi qualificare «opinione», vide nei fatti di Parigi i l c o r o n a m e n t o del sogno illuministico di un po t e r e

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che l iquidava le sue b a r d a t u r e feudali pe r darsi un assetto più funzionale e m o d e r n o , basato sulla libertà e la giustizia. Alfieri innalzò un inno a Parigi sbastigliata, e perf ino un poe­ta t imido e t imora to come Ippol i to P i n d e m o n t e le ded icò un poema.

Ma q u a n d o cominciarono ad arr ivare le notizie delle bar­ricate, del sangue, del Re fatto pr igioniero, dei pret i costret­t i a l l ' ab iura , la cu l tu ra i tal iana inor r id ì . N o n a v e n d o mai servito il popolo, ma solo il potere , nel m o m e n t o del perico­lo si sentiva più solidale col po te re che col popolo . Ancorata c o m ' e r a a u n a t rad iz ione cor t ig iana , cosa avrebbe fatto il g iorno in cui le Corti fossero venute a mancarle? Principi e Prelati e r ano la sua unica clientela. Poeti, letterati, scultori, pittori, architetti n o n avevano mai lavorato che pe r loro. Far causa c o m u n e col p o p o l o n o n e r a n e a n c h e un salto nel buio, ma un salto nel vuoto perché i l popolo n o n c'era. C'e­ra soltanto u n a plebe analfabeta, in s t ragrande maggioran­za contadina e quindi refrattaria a esigenze di modern i t à e di progresso.

Infatti, p r ima che le a rmate francesi si affacciassero sulle Alpi, veri e p rop r i contraccolpi rivoluzionari in Italia n o n ce ne furono . In P iemonte si manifestò qualche agitazione di proletar iato scontento che inviò u n a petizione al Re perché riducesse gli abusi dei nobili e addossasse anche a loro u n a par te del peso fiscale. «Non vogliamo esser piemontesi , siam francesi!» dicevano i sottoscrittori. Un analogo gr ido - «Vu-l imme fa' come li francise!» - r iecheggiò in Basilicata, dove fu bandi to u n o sciopero di contr ibuent i . Ma è inutile cercar di maggiora re , come fanno certi nostri storici, il significato di questi episodietti. Sotto di essi covava soltanto il solito spi­rito pro tes ta tar io delle masse italiane, capaci di tumul t i , al massimo di rivolte, ma n o n di rivoluzioni. Per r ivoluzione, esse in tendevano l'evasione fiscale.

Ma le cose c a m b i a r o n o q u a n d o , o l t re che con le idee , la Francia bussò alle p o r t e d ' I tal ia coi suoi soldati. Come ab-

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biamo già det to, essa n o n si contentò di respingere a Valmy il p r imo tentativo d'invasione compiuto da Austria e Prussia per res taurare a Parigi il vecchio regime. I suoi eserciti pas­sa rono all'offensiva, invasero il Belgio e la Renania , e con un colpo di mano occuparono la Savoia e Nizza.

Quest i successi n o n r imasero senza effetti. Ma qui biso­gna in tenderci fuori di ogni facile retorica e mitologia. L'I­talia era abituata a far da «premio del vincitore» còme dice­va Voltaire. Fin dai tempi di Carlo VI I I , cioè da quasi tre se­coli, ogni invasore ci aveva sempre t rovato u n a «quinta co­lonna» p r o n t a a secondar lo un po ' p e r accapar ra r s i u n a compartecipazione agli utili della vittoria, un po ' nella spe­ranza che il p a d r o n e nuovo fosse migl iore e p iù generoso - o più raggirabile - di quello vecchio. Fin d 'allora infatti i veri «partiti» italiani e r ano stati quello francese, quello spa­gnolo e quel lo aus t r iaco. N e s s u n o di essi aveva u n a base ideologica, né poteva averla pe r ché queste t re Potenze in­carnavano lo stesso tipo di regime, basato sull'assolutismo e sui privilegi di casta.

Stavolta la cosa e ra diversa . Nella «quinta colonna» di s impatizzanti della Francia, forse c 'era qua lcuno che su di essa p u n t a v a p e r i l solito des ider io di t rovars i dalla p a r t e del vincitore. Ma c 'erano anche quelli che a tale scelta e rano stati indotti da altri e più nobili motivi. Essi sentivano, o spe­ravano, che un' invasione francese n o n si sarebbe risolta sol­t an to nel solito cambio d i p a d r o n e , ma avrebbe sconvolto tut to l'assetto italiano. Si trattava solo di u n a sparuta mino­ranza d'intellettuali. Ma c'era. E la sua presenza documen­tava l ' incr inatura , des t inata a t rasformarsi con lo svi luppo degli avvenimenti in ro t tura , che si era verificata nel fronte della cosiddetta intellighenzia italiana.

P rònuba dello scisma fu soprat tut to la Massoneria. Lun­go tut to il Settecento essa era rimasta divisa in varie corren­t i ideologiche, ma n o n c'è dubb io che ad avervi i l soprav­vento e r a n o quelle i l luminist iche: t an t ' è vero che vi e r a n o iscritti dei sacerdoti , degli ufficiali, dei funzionari , perf ino

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dei Sovrani. Non aveva nessuna uni tà organizzativa, segui­va riti diversi, e forse il suo successo era dovuto più che al­t ro agli oscuri simboli e alle complicate liturgie, che davano agl'iniziati il brivido del mistero. Ma a par t i re dall '89 le log­ge francesi si t r a s fo rmarono in centra l i r ivo luz ionar ie , il contagio su quelle i tal iane fu immedia to , e a l t re t t an to im­media ta fu la reazione dei governi. Da tollerate e in qualche caso addi r i t tura incoraggiate e prote t te , le logge si t rovaro­no perseguitate. E ciò pose i loro aderent i di fronte all'alter­nativa: o r i en t ra re ne l l 'o rd ine accet tando quello costituito, o saltare il fosso sposando la causa rivoluzionaria. Scegliere la p r i m a s t r ada significava c o n f e r m a r e la p r o p r i a fiducia nelle capacità evolutive e riformistiche del vecchio regime: e questa era la posizione «moderata». Scegliere la seconda si­gnificava scendere col vecchio reg ime in u n a lotta a ol tran­za: e questa era la posizione democrat ica o giacobina.

I p iù scelsero la p r ima n o n solo pe rché era la m e n o sco­m o d a e rischiosa, ma anche la più congeniale alla tradizione cort igiana e conformista del pens iero italiano. Un alibi tut­tavia lo avevano, di cui n o n si poteva contestare la fondatez­za: che rivoluzione - essi dicevano r iecheggiando il Verri -si p u ò fare senza le masse , e dove sono in Italia le masse p ron t e a raccogliere un messaggio rivoluzionario? Il seguito degli avvenimenti avrebbe dimostra to anche t roppo la vali­dità di questa obbiezione.

Coloro che scelsero la seconda strada, i «giacobini», ave­vano della s i tuazione un ' idea mol to p iù astrat ta , che stava p e r avviarli alle p iù cocenti delusioni . N o n misu ravano la p r o p r i a sol i tudine e r i p o n e v a n o nella Francia u n a f iducia che sarebbe stata la rgamente t radi ta . Ma u n a cosa avevano capito, la cosa fondamentale : che le s t ru t ture degli Stati tra­dizionali n o n e r a n o r i formabil i dal d i d e n t r o . Bisognava spazzarli via, tutti , con un 'az ione violenta, dal basso: il che c o m p o r t a v a u n a visione, come oggi s i d i r ebbe , «globale», cioè nazionale, del p rob lema italiano.

I debut t i di questa nuova forza fu rono , com 'e ra logico,

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infelici. Il processo di chiarificazione ideologica si o p e r ò len­tamente attraverso dibattiti spesso oziosi e confusi. E i pr imi assaggi di azione politica, p r i m a del l 'a r r ivo di Napo leone , r ive la rono l ' immatur i t à e spesso anche la fragilità m o r a l e dei loro autori . Ci limitiamo agli episodi salienti.

Era fatale che il «via» venisse dal P iemonte , lo Stato più vicino alla Francia e più d i re t tamente esposto alla minaccia dei suoi eserciti. Qui la scelta era peren tor ia e n o n si poteva l imi tare al p i ano ideologico: o con la pa t r i a p i emon te se o con la Francia r ivoluzionar ia , anche se nemica . Le logge masson iche di Alba, Asti, Vercelli, Nova ra d i v e n t a r o n o i centr i di un vero e p r o p r i o complot to . I congiura t i si p r o ­ponevano , q u a n d o l'esercito francese avesse preso l'offensi­va, d ' impadroni rs i con un colpo di m a n o della cittadella di Torino, sequestrare il Re e proc lamare la Repubblica.

Dubi t iamo molto che ci sa rebbero riusciti pe rché , come poi si vide, i cospiratori n o n avevano nessun seguito nel po­polo e tanto m e n o nelle t r u p p e . C o m u n q u e , la polizia n o n gli det te il t e m p o di tentare . Uno dei capi, il Barolo, cedet te sotto g l ' in ter rogator i e rivelò il p iano e i nomi dei parteci­pant i . Alcuni r iuscirono a fuggire e a riparare ol t ralpe. Gli altri finirono in galera e d u e sulla forca.

Analoga sorte sub i rono i loro confratelli di Napol i . An­che qui, secondo il model lo francese, a lcune logge si e r ano trasformate in clubs sotto la regia di un abate, il Je rocades , e di un nobile, il Lauberg . Ques to è abbastanza significativo: d imostra la pover tà e debolezza della borghesia meridiona­le, costretta a cedere alla nobiltà e al clero anche l'iniziativa rivoluzionaria. I clubs poi si fusero in u n a «Società Patriotti­ca» che cercò di svolgere ope ra di proselitismo fra le masse popolari , ma senza sortire altro risultato che quello di scate­na re i furori della polizia. La repress ione fu du ra . Il mini­stro Medici che tentò di addolcirla ci rimise il posto e finì in galera anche lui. Anche qui molti arrestat i d e n u n z i a r o n o i p rop r i compagni , tre dei quali salirono il patibolo. U n o so­lo, De MeOj d iede prova fino in fondo di stoico coraggio.

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Di conat i ce ne furono altri , qua e là. A Bologna lo stu­den te Zamboni , che aveva fatto il suo apprendis ta to rivolu­zionario a Marsiglia, cercò di reclutare adept i pe r un ' insur­rezione, e anzi si dice che la coccarda ch'egli distribuì come distintivo sia stata il p r imo tricolore. In realtà si trattava in­vece d ' un bicolore, bianco e rosso. Il g iorno stabilito pe r la rivolta n o n si presentò che u n o s tudente di teologia, De Ro-landis, che poi venne impiccato, m e n t r e Zamboni si suicida­va in carcere.

Ma forse l 'episodio più saliente, pe rché il p iù indicativo degli umor i popolari , fu quello che si svolse a Roma, nel '93 . Il papa Pio VI era stato esplicito nella condanna del regime r ivoluzionario, e la sua polizia l 'aveva t rado t ta nel l ' a r res to di d u e artisti del la scuola francese. Parigi aveva spedi to a Roma un suo emissario, il giornalista Basseville, a chiedere spiegazioni e a svolgere ope ra di p ropaganda . Come p r ima cosa egli reclamò la sostituzione dello s temma repubblicano a quello monarchico nella sede dell 'ambasciata. La Curia si oppose , e la Francia minacciò rappresagl ie . Stavolta n o n ci fu bisogno di r icorrere alla polizia per d i sperdere il piccolo g r u p p o d'intellettuali che si e ra raccolto in to rno a Bassevil­le. Il popol ino infuriato i r r u p p e nella residenza del france­se e lo linciò. Il poeta Monti ne fu entusiasta e sciolse un in­no ai massacratori , la Bassvilliana, che a n d ò a ruba: ne furo­no s tampate e vendute cento edizioni.

N o n c o m p r e n d i a m o p r o p r i o come certi storici possano par la re di un «movimento di vaste proporzioni». Non lo era né po teva esserlo p e r i motivi che abb iamo de t to . Esso emerse come forza politica o p e r a n t e solo q u a n d o po tè ap­poggiarsi sulle baionette francesi, che furono insieme la sua fortuna e la sua disgrazia. Ma la sua impor tanza n o n sta nel n u m e r o dei seguaci, e n e m m e n o nelle imprese in cui si mi­surò. Sta nel compito di provocazione che assolse. Di fronte alla sua minaccia, i vari Stati i taliani a b b a n d o n a r o n o ogni p r o g r a m m a di r i forma e b a d a r o n o soltanto a d i fendere le loro ant iquate s t ru t ture con gli appara t i polizieschi. E que-

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sto obbligò molti uomin i di formazione il luminista e di at­t egg iament i m o d e r a t i a r o m p e r l a col vecchio r eg ime e a passare sulle posizioni democrat iche.

Ma questo lo vedremo più tardi . Per ora torn iamo a Na­poleone, che alla testa dei suoi «capelloni» discendeva il col­le di Cadibona. Qual i forze organizzate trovava di fronte a sé?

CAPITOLO TERZO

LA C O N Q U I S T A

La geograf ia c o n d a n n a v a i l P i emonte a subi re p e r p r i m o l'invasione. La storia di questo Stato veniva data da studiare ai giovani diplomatici francesi come il più perfetto modello del doppio giuoco. Per secoli i suoi Duchi e Re si e rano bar­camenati p r ima t ra Francia e Spagna, e poi t ra Francia e Au­stria passando disinvoltamente da un campo all 'altro secon­do le convenienze del m o m e n t o . Da un pezzo il loro sogno era la Lombardia . E al Re in carica, Vittorio Amedeo I I I , si e ra p resen ta to i l des t ro di accaparrarsela , q u a n d o , nel '93 , la Francia rivoluzionaria gliel'aveva offerta come p remio di un 'a l leanza con t ro l 'Austria. I l suo avo Emanue le Filiberto p r o b a b i l m e n t e n o n avrebbe esitato. Ma Vit tor io A m e d e o n o n e ra tagliato nella stessa stoffa. O che n o n credesse alla forza della Francia, o che n o n volesse pat teggiare con gli uo­mini che avevano tagliato la testa al p ropr io Re, declinò l'of­ferta. E questa r inunzia gli era costata Nizza e la Savoia, che i francesi si e rano affrettati a incamerare .

Aveva cercato di r i farsene lanc iando i l p roge t to di u n a Lega antifrancese fra tutti gli Stati italiani. Ciò gli avrebbe da to fra di essi un r a n g o di capofila, ma a p p u n t o perciò i l tentativo fallì. Esso era diret to ch ia ramente cont ro l'Austria, ma t roppo chiaramente : nessuno Stato italiano era disposto a giuocarsi i favori di quella g r ande potenza pe r a m o r e del piccolo Piemonte: m e n o di tutti i Lorena austriaci di Tosca­na e i Borbone austriacizzati di Napoli.

La Lega n o n s i fo rmò n e m m e n o o r a che N a p o l e o n e compariva sulle Alpi. Gli Stati italiani ne affrontarono la mi­naccia più disuniti del solito, e o g n u n o di essi agì pe r conto

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suo. Na tura lmente e r ano tutti dalla pa r te dei coalizzati, con cui Napoli si schierò a p e r t a m e n t e d ich ia rando alla Francia u n a g u e r r a , sia p u r e sol tanto platonica. Gli altri lo fecero coper tamente cercando di n o n compromet ters i t roppo . Ma per il Piemonte, vie di mezzo n o n ce n ' e rano . Esso si trova­va fra i d u e eserciti che stavano pe r affrontarsi. Doveva sce­gliere. Ma la scelta era pregiudicata dal l 'a t teggiamento che aveva già assunto. L'Austria, che lo sapeva, p romet teva ben poco oltre la resti tuzione, in caso di vittoria, di Nizza e della Savoia, che del resto sarebbe venu ta au tomat icamente . Ma u n a garanz ia al suo Re la forniva: la difesa a o l t ranza del principio dinastico e della monarchia assoluta pe r diritto di­vino su cui essa stessa si reggeva, e di cui la Francia era in­vece la negazione.

Perciò Vittorio Amedeo aveva aper to le por te all'esercito aus t r iaco che accor reva dalla L o m b a r d i a e ad esso aveva unito il suo.

Il p r imo era comanda to dal maresciallo Beaulieu e dispone­va di 30.000 uomini ; il secondo, di forza pressappoco equi­valente, dal maresciallo Colli. T r u p p e eccellenti, le u n e e le altre, ma con d u e difetti: l 'abi tudine alla g u e r r a di posizio­ne , che ne rendeva i movimenti lenti e impacciati; e la man­canza di coordinazione. Abituati ai rovesciamenti di fronte, i piemontesi consideravano gli alleati come potenziali nemi­ci, e a n c h e stavolta avevano r if iutato u n a col laborazione completa.

N a p o l e o n e forse lo sapeva, e c o m u n q u e agì come se lo sapesse. In grave svantaggio numer ico , n o n gli restava che l 'arma della rapidi tà pe r attaccare separa tamente gli avver­sari e colpirli u n o alla volta. In tre giorni - p r ima a Monte-no t t e , poi a Millesimo, po i a Dego -, r u p p e il f ronte di Beaulieu e ci ficcò un cuneo che lo isolava da Colli. Poi at­taccò ques t 'u l t imo aggi randolo sulle ali e sbaragl iandolo a Mondovì. Senza più contatti con l'alleato, i piemontesi era­no alla mercé del nemico e si affrettarono a chiedere l 'armi-

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stizio. Napoleone n o n rispose pe r u n a sett imana, quan to gli bas tò p e r r a g g i u n g e r e Cherasco a 50 km da Tor ino . Di l ì de t tò le sue condizioni, r inviando alla diplomazia di Parigi il negozia to di pace . A lui p r e m e v a n o solo il Col di T e n d a pe r garantirsi le comunicazioni con la Francia e le piazzefor­ti di Tortona, Alessandria e Cuneo . E se le assicurò.

Beaulieu si e ra at testato sulla riva set tentr ionale del Po, convin to che l 'avversario avrebbe cercato di a t t raversa r lo p e r i r r o m p e r e su Milano. Napo leone ne fece solo f inta la­sciando un repar to a costruire ponti di barche. Col grosso, a marce forzate, costeggiando la riva mer id ionale del fiume, si avventò su Piacenza. Vi arrivò in 36 ore , e il Po lo passò lì, p r e n d e n d o lo schieramento avversario a rovescio. Beaulieu gli fece fronte sull 'Adda. Ma Napoleone riuscì a forzare an­che il pon te di Lodi, e da quel m o m e n t o fu p a d r o n e di Mi­lano, già investita dal suo genera le Masséna. A Sant 'EIena, r i c o r d a n d o quelle gesta, scrisse: «Fu la sera di Lodi che io mi sono c redu to un u o m o super iore e nacque in me la scin­tilla dell 'alta ambizione...»

L'ingresso a Milano, il 16 maggio (del '96) fu il suo p r imo g rande trionfo. Ma glielo amareggiò un dispaccio del Diret­torio che gl ' ingiungeva di t ra t tare quella città come te r ra di conquista met tendola a sacco in m o d o che si r iducesse a un peso pe r l'Austria q u a n d o gliela si fosse restituita in cambio di qualche provincia tedesca. Era d u n q u e chiaro che la po­sta del giuoco, per il Direttorio, restava ancora la Germania , che lì si voleva la soluzione della guer ra , e che la campagna d ' I ta l ia e r a cons idera ta un semplice diversivo. Lui, Bona­par te , doveva pensare soltanto a spingersi con le sue colon­ne verso il Sud della penisola i m p o n e n d o taglie, es torcendo tributi, facendo insomma bott ino pe r contr ibuire alle spese di gue r r a in Germania . Alla sistemazione dei terr i tor i occu­pati non doveva badare : tanto, dovevano servire solo come articoli di scambio ai negoziati di pace.

Vedremo più tardi come Napoleone si compor tò nei con­fronti delle province conquis ta te e delle loro popolazioni .

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Ora seguiamo fino in fondo la sua azione militare. Il nemi­co bat tuto, in attesa di rinforzi, si e ra asserragliato a Manto­va, u n a città-fortezza resa inespugnabile dagli acquitrini che la c i rcondano. Napoleone vi pose assedio, ma senza logora­re le sue forze con attacchi impossibili. Bastava già la mala­ria a decimargliele.

Dal T i ro lo scendeva un n u o v o eserci to aus t r iaco d i 60.000 uomini , guidati da Wùrmser . Avanzava su t re colon­ne . Napoleone lasciò che quella del comandan t e entrasse a Mantova, e batté le altre due , l 'una a Salò, l 'altra a Lonato : ancora u n a volta aveva compensa to l ' inferiorità n u m e r i c a con la r ap id i t à dei mov imen t i . W ù r m s e r par t ì a l soccorso dei suoi luogotenent i , ma t roppo tardi : a Castiglione fu tra­volto anche lui.

Ridiscese poco d o p o alla testa di altri 40.000 uomin i , e stavolta imboccò la valle del Brenta . Bonapa r t e lo contra t ­taccò a Bassano schiacciandolo con t ro l 'Adige. W ù r m s e r riuscì ad at traversare il fiume, ma con le ossa rotte, e dovet­te nuovamente r inchiudersi a Mantova.

In suo aiuto, l'Austria spedì un terzo esercito al comando de l l ' unghe re se Alvinczy. Era il p iù debole - 30.000 uomi ­ni -, e p p u r e fu l 'unico che ad Arcole riuscì a t ene r testa a Napoleone . La t rappola che questi gli aveva teso n o n scattò, e Alvinczy, sebbene respinto , po tè rit irarsi ol tre il Bren ta e poi risalire in Ti ro lo , dove si mise alla testa di un 'a l t ra ar­mata, di 45.000 uomini , con cui r i tentò l 'avventura. Ma non aveva capi to la s trategia di B o n a p a r t e , m e n t r e B o n a p a r t e aveva capito la sua. Gli espert i considerano quella di Rivoli u n a battaglia da manua le . Cer to , fu risolutiva. Dei qua t t ro eserciti scagliati in questa fase dall 'Austria pe r r iconquistare l'Italia, non restavano che i brandell i asserragliati a Manto­va e r idot t i o r m a i alla fame. La città-fortezza si a r rese . In sette mesi, dal luglio del '96 al febbraio del '97, Napoleone aveva p ros t r a to l 'Austr ia e umil ia to i suoi rivali Moreau e Hoche , che la loro campagna di Germania non riuscivano a risolverla.

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Napoleone n o n r inunziò a farlo no ta re al Diret torio nel dargli l 'annunzio delle sue vittorie e nel comunicargli la sua intenzione di marc iare su Vienna: che in German ia - dice­va - i suoi colleghi r i p r e n d e s s e r o p u r e la loro offensiva: il nemico e ra costretto ad accorrere sul suo fronte. Il compri ­mar io era diventato protagonista, e imponeva le p ropr ie di­rettive ai protagonist i diventati comprimar i .

I l suo p i ano sembrava folle. Da Vienna lo s epa ravano 800 chilometri quasi tutti di montagna , e pe r di più si trova­va di fronte il più g r ande generale austriaco, l 'arciduca Car­lo d'Asburgo, quello che aveva inchiodato Hoche e Moreau sul Reno. Ma Napoleone era ormai deciso a giuocare il tut­to pe r tut to . P rocedendo con u n a spericolata manovra lun­go le valli, senza curars i dei n idi di resistenza sparpagl ia t i sulle al ture, at traversò il Brennero , raggiunse Klagenfurt, e si affacciò sul colle del Semmer ing che domina il bacino da­n u b i a n o . Ma invece d ' inves t i re Vienna con un ' az ione d i guer ra , la investì con un 'azione di pace scrivendo all 'arcidu­ca Carlo u n a lettera in cui, coi commossi accenti che sapeva t rovare q u a n d o gli conveniva, lo invitava a collaborare con lui pe r p o r r e f ine all ' inutile massacro. Aveva p a u r a n o n di un contra t tacco austr iaco, sebbene si trovasse in u n a posi­zione s t ra teg icamente rischiosissima, isolato nel cuo re del terr i tor io nemico e senza comunicazioni con le retrovie; ma che Parigi lo precedesse. Voleva esser lui il protagonista an­che della pace.

Gli riuscì anche questa. Il 7 aprile (del '97) i p lenipoten­ziari austr iaci s i p r e s e n t a r o n o al suo q u a r t i e r gene ra l e di Leoben . Dovet tero res tare stupiti dalla rapid i tà con cui, al par i delle manovre , Bonapar te condusse i negoziati. Al ter­mine di sette giorni li concluse bruscamente a p r e n d o la por­ta della sala in cui si svolgeva la conferenza e a n n u n z i a n d o agli ufficiali raccolti nel l 'ant icamera: «Gli accordi pe r la pa­ce sono firmati. Viva la Repubblica! Viva l ' Imperatore!»

Il Di re t tor io si t rovava di f ronte al fatto c o m p i u t o , ma compiu to in m o d o tale che n o n poteva rifiutarlo. La Fran-

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eia infatti ot teneva ciò che con quella gue r r a aveva voluto: il Belgio e la riva sinistra del Reno , compresa Magonza . Ma Napo leone le consegnava su un pia t to d ' a rgen to , a m o ' di personale donativo, anche la Lombard ia . L'Austria ci aveva r inunziato in cambio di Venezia con tut te le sue d ipendenze venete e istriane, che la Francia stessa s ' impegnava a conse­gnarle alla conclusione del trat tato di pace.

Per n o n d a r e t e m p o alla d ip lomazia d i r ime t t e r e in di­scussione il suo opera to , Napoleone procedet te immediata­m e n t e alla l iquidazione della Sereniss ima. Ques t a n o n gli aveva offerto nessun p re tes to p e r c h é in quel la g u e r r a e ra r imasta scrupolosamente neut ra le , e anzi aveva lasciato oc­c u p a r e un l embo del suo t e r r i to r io dal le t r u p p e francesi. Ma Bonapar te non era u o m o da scoraggiarsi pe r così poco; e i pretesti , q u a n d o gli facevano comodo , sapeva anche in­ventarli. Due giorni d o p o la firma dell 'accordo, inviò al do­ge Manin u n a lettera insultante, piena di accuse e di minac­ce ingiungendogl i di soppr imere l 'Inquisizione e il Senato, e agl'inviati della Repubblica fece u n a delle sue solite scena­te a freddo. Poi, a secondare i suoi disegni, sopraggiunsero le «Pasque veronesi».

Questo episodio n o n è mai stato chiarito, e a p p u n t o per­ciò si presta ai peggiori sospetti. A Verona, dove si e r ano di­sinvoltamente istallate, le guarnigioni francesi avevano com­messo soprusi e angher ie che avevano attirato su di loro l'o­dio della popolazione. Ma a farlo esplodere fu un b a n d o di chiamata alle armi , affisso sui mur i e firmato da un ufficiale di Napo leone . Risultò più ta rd i che i l b a n d o e ra falso. Ma p e r c h é l'ufficiale lo aveva r e d a t t o e lanciato? Le c a m p a n e sonarono a s tormo, i popolani accorsero armat i di schioppi e di forche, e il p o g r o m costò la vita a una sessantina di fran­cesi. Napoleone li maggiorò a quat t rocento, disse che il loro, sangue n o n poteva essere lavato che col sangue, e ingiunse alla città l ' ist i tuzione di un gove rno r app re sen t a t i vo sotto supervisione francese.

Il Gran Consiglio si r iunì pe r l 'ultima volta l'I 1 maggio. I

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suoi m e m b r i por tavano le loro uni formi di pa ra ta col par­ruccone e la toga strascicante. Della passata grandezza n o n gli restava altro. Le proposte di resistenza a oltranza furono scarse e prive di convinzione. L'atto di decesso fu firmato, e nella notte fra il 15 e il 16 un Commissario francese venne a p r e n d e r e possesso della città, in attesa di consegnar la agli austriaci che non avevano perso t empo ad annet ters i l 'Istria e la Dalmazia fino alle Bocche di C a t t a r e

L'ultimo atto di questa t ragedia si svolse il 17 o t tobre di quello stesso a n n o '97, q u a n d o il trat tato di pace fu definiti­vamente firmato a Campoformio. La diplomazia aveva por­tato poche variant i alle clausole di Napo leone . Quel le che r iguardavano la Germania non c' interessano. Per l'Italia, Io Stato Veneto cessava di esistere e d iventava u n a semplice provincia austr iaca. Ma, del suo te r r i to r io , i l l embo che si s t ende a ovest del l 'Adige veniva annesso alla L o m b a r d i a francese, che ora si chiamava Cisalpina. L' indomani le t r up ­pe aus t r iache fecero il loro ingresso a Venezia, e il do lo re spezzò il cuore del vecchio doge Manin che, dicono, cadde a t e r ra fulminato.

Con un t ra t to di p e n n a , quat tordic i secoli di Storia e di gloria e rano stati cancellati.

CAPITOLO QUARTO

L'ITALIA REPUBBLICANA: PRIMA FASE

È pe r il comodo del lettore e pe r meglio aiutarlo a or ientar­si nel groviglio degli avvenimenti che abbiamo preferi to se­guire la travolgente cavalcata di Napoleone dal colle di Ca-d ibona a Leoben senz ' a t t a rda rc i sulla sua az ione polit ica nelle t e r r e conquis ta te . Ma o ra b isogna t o r n a r e sui nost r i passi a p p u n t o pe r vedere da vicino la sua ope ra di riassetto. Per capirla, bisognerà tuttavia t ener sempre presente i suoi complessi r appor t i col Diret torio. E il Diret torio n o n aveva u n a volontà univoca. In esso convivevano uomini di diverse tendenze che, pe r semplificare, possiamo r iassumere in d u e f i loni: quello dei realisti, che nella gue r ra vedevano un mez­zo pe r consolidare il r eg ime e accrescere la potenza, la ric­chezza, il prestigio della Francia; e quello degl ' ideòlogi che nella gue r ra vedevano u n o s t rumento pe r r ed imere i l mon­do conver tendolo ai princìpi della rivoluzione.

Q u e s t e d u e t e n d e n z e convivevano a n c h e nel l 'eserci to che aveva valicato le Alpi, e s ' incarnavano r i spet t ivamente in Napoleone e Saliceti. Non vennero in conflitto perché l'o­mer tà còrsa fu più forte di esse e riuscì s empre a conciliarle. Saliceti, che avrebbe dovu to fare i l r a p p r e s e n t a n t e del Di­ret torio presso Napoleone pe r controllarlo, fu in realtà l'av­vocato di Napo leone presso i l Diret tor io . Ma a p p u n t o p e r questo egli potè esercitare u n a notevole influenza sul Gene­rale. Forse anzi, oltre che dalla vecchia amicizia la collabora­zione fra questi d u e uomini fu concimata dalla loro comple­mentar ie tà . Oppor tun i s ta freddo fino al cinismo, unicamen­te p reoccupa to della g randezza della Francia e più ancora di quella sua propr ia , Napoleone non vedeva che la vittoria

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e la conquista: pe r lui l'Italia era soltanto un campo di bat­taglia e u n a fonte di gloria e di po te re . Per Saliceti, che ai princìpi ci credeva, sebbene n o n fosse pe r nulla un astratto do t t r i na r io , l ' I talia e r a un p o p o l o da l iberare . La politica napo leon ica in Italia fu un po ' i l c o m p r o m e s s o fra ques te due esigenze. Vediamolo nei fatti.

Pr ima che l 'esercito imboccasse la via delle Alpi, Saliceti aveva avuto molti contatt i coi r ivoluzionari italiani esuli in Francia. A Nizza ce n ' e r ano un paio di centinaia, scampati alle p u r g h e della polizia piemontese e napoletana, e raccolti in torno a un giornale, il Monitore italiano: Essi avevano con­vinto Saliceti che l'Italia era p iena di r ivoluzionari p ron t i a met ters i al servizio di Napo leone , se quest i avesse t ra t ta to con loro. Napoleone l i ricevette, ma ne rimase poco persua­so: n o n sol tanto p e r c h é gli p a r v e r o delle teste esagi tate e confuse, ma anche perché par lavano di un'Italia uni ta sotto «il simbolo l iberatore p ianta to in Campidoglio». Era logico che in questi uomini l 'ideale di democrazia si fosse sposato con quello de l l ' ind ipendenza nazionale, facendo di «giaco­bino» un s inonimo di «patriota» (e infatti i d u e termini , d 'o­ra in poi , n o n s i d i s t i n g u e r a n n o p iù l ' uno dal l 'a l t ro) . Ma questo a Napoleone n o n interessava. Egli in tendeva servirsi di questi uomini , n o n servirli. In tendeva insomma farne dei «collaborazionisti». Per questo aveva lanciato il proclama al­le popolazioni invitandole a scuotere il giogo della t irannia. Voleva che gli facessero da «quinta colonna» nella fase della lotta. Ma impegni n o n ne prese .

Q u a n d o , d o p o la vittoria sugli aust ro-piemontes i , en t rò ad Alba e vi trovò u n a specie di governo provvisorio rivolu­zionario che in un proclama invitava le popolazioni del Pie­m o n t e e L o m b a r d i a a costituirsi in u n a Repubblica alleata della Francia, lo lasciò fare. Ma n o n fu, con esso che t ra t tò . Trat tò coi poter i costituiti, cioè col re Vittorio Amedeo I I I . E Napoleone , d o p o ch 'ebbe o t tenu to da lui ciò che deside­rava, cioè le piazzeforti, a b b a n d o n ò i r ivoluzionari alla sua mercé.

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I l Diret torio n o n trovò nulla da ridirvi anche pe rché in quel m o m e n t o la fazione degl ' ideologi era in crisi pe r la sco­per ta di un complot to estremista capeggiato da u n o dei lo­ro , Babeuf, che voleva r i lanciare u n a rivoluzione più radi ­cale. Di questo complot to , u n o dei capi p iù in vista era un esule i tal iano, B u o n a r r o t i , c h ' e r a stato in stret t i r a p p o r t i con Saliceti. Sicché anche costui ne usciva compromesso . E ora, pe r riqualificarsi, non gli restava che applicare con zelo le consegne del Dire t tor io , di un Diret tor io s empre più in balìa dei fautori della «ragion di Stato» e s e m p r e più d u r o nei confronti delle t e r re conquistate. « Imponete e riscuote­te tributi con r igore e rapidi tà - ingiungeva nelle sue istru­zioni -, E nei pr imi moment i della vittoria che il vinto paga senza discutere.» Parigi considerava l'Italia u n a p r e d a e ne voleva il saccheggio. E Saliceti, sia p u r e controvoglia, dove­va seguirne le direttive.

Cercava di farlo in coerenza coi pr incìpi della rivoluzio­ne , cioè co lpendo soprat tu t to i beni della Chiesa e dei nobi­li. Ma ciò n o n bastava a saziare l 'appeti to del Direttorio. Bi­sognava r e n d e r e la spoliazione più razionale es tendendola all 'unico vero inesauribile tesoro del Paese: quello artistico. «Questa campagna deve un i re alla gloria dei trofei militari la bellezza delle ar t i benef iche e consolatrici» diceva un ' i ­s truzione del 7 maggio '96. E pe r r e n d e r e sistematica que­sta consolazione, giunse da Parigi un 'apposi ta commissione di espert i , che fece piazza puli ta di q u a n t o c 'era di meglio nelle chiese, nei musei , nelle p inacoteche , nelle abitazioni private. In tutti gli armistizi che Napo leone via via firmava con gli Stati italiani c 'era u n a clausola che legittimava que­sta razzia. M o d e n a dove t t e ve r sa re vent i capolavor i d i Guerc ino , Reni e Carracci ; altri vent i Pa rma fra cui i suoi splendidi Correggio . I convogli che t raspor tavano in Fran­cia il tesoro italiano si a l lungavano sempre più. Ma alla ru­berìa in serie e legalizzata, si aggiungevano quelle spicciole dovu te all 'iniziativa pr iva ta di ufficiali e funzionari . Ci fu­r o n o rivolte, di cui la più violenta scoppiò a Pavia, dove i

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popolani , d o p o aver ammazzato un po ' di francesi, s i mise­ro con loro in concor renza di saccheggio. Lo stesso N a p o ­leone alla fine se ne p reoccupò e impar t ì o rd in i severi, an­che di fucilazione, c o n t r o le r u b e r ì e dei soldat i , del tu t to d iment ico di essere stato lui a indicargli l 'Italia come u n a «preda» . Ma i l fatto è che o r a nel la sua m e n t e a n d a v a n o m a t u r a n d o idee diverse da quelle con cui aveva varcato le Alpi. Non che si fosse affezionato all 'Italia, come qualcuno dice, pe rché gli si e ra risvegliata «la voce del sangue». Non e ra u o m o da sent i re questi r ichiami . Ma n o n cons iderava più l 'Italia come un semplice campo di battaglia. La consi­de r ava i l p iedes ta l lo del la sua p e r s o n a l e p o t e n z a . Perciò aveva deciso, cont ro i l Diret torio, di n o n p iù farne ogget to di ba ra t to . E questo g l ' imponeva di dar le un 'organizzazio­ne politica.

Ques t 'opera , come oggi si direbbe, di «ristrutturazione», a t t raversò varie fasi, tu t te condiz iona te dai suoi cangevoli r a p p o r t i con Parigi . In u n a delle sue p r i m e re lazioni dal P i emon te , scriveva al Di re t to r io : «Il popo lo è fiacco. Da q u a n d o s iamo en t ra t i in Italia, n o n c'è stato a lcun movi­mento in favore della libertà». L'atteggiamento dei lombar­di n o n fu tale da fargli cambiai" pa re re . A Milano le notizie dell 'avanzata francese non avevano provocato nessun disor­dine. Il personaggio del giorno, pe r i milanesi, non era Na­poleone , ma il castrato Crescentini , che alla Scala aveva ri­por ta to un clamoroso successo in Giulietta e Romeo. Tutti era­no convint i che i l viceré aus t r iaco , a rc iduca F e r d i n a n d o , stesse t ra t t ando u n a pace separata, e n e m m e n o q u a n d o in­vece part ì , il 7 maggio, ci fu ombra di panico.

Egli aveva lasciato il po te re a u n a Giunta di notabili che band ì pubbl iche p regh ie re e l 'esposizione del Santo Sacra­mento , ma non ebbe bisogno di r icorrere a misure repressi­ve p e r ass icurare l ' o rd ine . Un cer to Salvador, cui Saliceti aveva affidato il compi to di organizzare manifestazioni po­polari , n o n incontrò ostilità, ma neanche consensi. L'Austria non aveva lasciato brut t i r icordi: la sua amministrazione era

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stata esemplare e il suo r iformismo aveva consenti to, come già abbiamo de t to nell'Italia del Settecento, la formazione di u n a classe media abbastanza affezionata al potere che l'ave­va evocata e chiamata a collaborare. Neanche gl'intellettuali e r ano su posizioni eversive: lo stesso Verri che p e r dispetto ora faceva il giacobino, in realtà era un illuminista della più bell 'acqua, cioè un modera to .

Ancora più modera t i e r ano gli uomin i della Giunta. Essi decisero di m a n d a r e un 'ambascer ia a Napo leone , che frat­tanto correva a perdifiato lungo la sponda mer idionale del Po pe r p r e n d e r e gli austriaci alle spalle. E a guidar la fu de­signato Melzi d 'Eri l un po ' p e r c h é par lava i l francese alla perfezione, un po ' p e r c h é sembrava l ' uomo più indicato a cattivarsi le grazie del conquistatore, e infatti lo era.

Que l p r imo incontro fu utilissimo a en t rambi . Melzi dis­se al Generale che un p u r o e semplice t rapianto degl'istituti francesi in Italia sarebbe stato un e r ro re pe r la diversità del­le condizioni economiche e sociali fra i d u e Paesi. E il Gene­ra le , che in fondo n ' e r a già pe r suaso , disse a Melzi che la sorte della Lombard ia era nelle mani dei lombardi : se essi si mos t ravano degni de l l ' ind ipendenza , nessuno avrebbe più po tu to togliergliela. Era un a m m o n i m e n t o , ma forse anche u n a speranza.

Melzi to rnò r incuora to a Milano, già occupata dalle avan­guard ie del genera le Masséna. I francesi e r ano stati accolti piut tosto f reddamente . Ma q u a n d o vi giunse Napoleone, la città si scaldò di entusiasmo. Ci furono para te , serate di gala all 'opera, alberi della libertà piantati in tut te le piazze. Mol­to vi contr ibuì il magnet i smo che sprigionava quel conqui­statore di ventisette anni , così diverso dalla compassata so­lenni tà degli Arciduchi e dei Marescialli austriaci. Ma tu t to questo era soltanto epidermico.

Per i l m o m e n t o , Napo leone n o n era in g rado di affron­tare p rob lemi politici. Sapeva che il nemico stava p e r ridi­s c e n d e r e in forze da l T i ro lo p e r socco r r e re Mantova , ed e ra a ques to che doveva anzi tu t to b a d a r e . I l po ' di t e m p o

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che gli avanzava preferì dedicarlo a un rego lamento di con­ti, sia p u r e m o m e n t a n e o , con gli Stati italiani che potevano infastidirlo da tergo. Il più minaccioso era quello Pontificio n o n pe r ché le sue forze r appresen tas se ro un pericolo, ma p e r c h é esso aveva spalancato il p o r t o di Civitavecchia alle navi inglesi che vi stavano ammassando un corpo di spedi­zione.

B o n a p a r t e p r e s e l e sue p r ecauz ion i f acendo o c c u p a r e Bologna e Ferrara , e il Papa si affrettò a ch iedere la media­zione dello spagnolo Azara. Ques te furono le trattative più l unghe e difficili, anche pe rché con la Spagna il Diret torio voleva m a n t e n e r e buon i r appor t i , e Azara e ra un negozia­tore scaltro e paziente . Bonapa r t e , che invece aveva fretta, ebbe con lui scenate terr ibi l i , in u n a delle quali s t r appò a morsi un d o c u m e n t o . Probabi lmente e r ano collere f inte , e lo spagno lo lo capì . Visto che n o n riusciva a i m p a u r i r l o , N a p o l e o n e fece occupare anche i l p o r t o di Ancona. Azara si rese conto che, se cont inuava a tergiversare , quel Gene­rale pigliatutto avrebbe fatto dello Stato pontificio ciò che a morsi aveva fatto del documen to , e accettò le ul t ime condi­zioni: la San ta Sede cedeva Ancona , Bo logna e Fe r r a r a , s ' impegnava alla più s tret ta neutra l i tà , e versava venti mi­lioni d ' indenni tà , nonché cento ope re d 'ar te e c inquecento manoscri t t i .

Men t re si svolgevano queste trattative, Bonapa r t e aveva già reciso altri nodi r i ducendo il Ducato di Modena e Reg­gio sotto il suo vassallaggio. Il Duca in carica, Ercole Rinal­do d'Este, n o n era u o m o da emergenze. Firmato il diktat che gl ' imponeva il solito tr ibuto in dena ro e quadr i d 'autore , la­sciò il po te re a u n a reggenza e si ritirò a Treviso, dove poco d o p o mor ì . O r a tu t ta la Padania era nelle man i del Bona­par te salvo il Ducato di Parma e Piacenza ch'egli dovette ri­spe t ta re p e r le solite cons ideraz ioni d ip lomat iche : i l duca F e r d i n a n d o a p p a r t e n e v a alla dinast ia borbonica del Re di Spagna , d i cui e r a anche cogna to . B o n a p a r t e , che con la Spagna n o n voleva complicazioni, lasciò questo Principe in-

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nocuo e bacchet tone sul t rono a recitare i suoi salmi e a suo­na re i suoi orologi a cucù.

Un 'a l t ra p e n d e n z a aveva l iquidato col Regno di Napol i che aveva m a n d a t o un co rpo di spedizione a combat te re a fianco degl i austr iaci . I l P r inc ipe B e l m o n t e Pignatel l i e ra venuto a chiedere l'armistizio, e Napoleone s'era divertito a farlo c o r r e r e di q u a e di là p e r esserne r a g g i u n t o . Anche Napoli appa r t eneva a u n a dinastia Borbone , anzi il suo Re era fratello di quello di Spagna. Ma si odiavano, e ancora di più si odiavano le d u e Regine, che contavano più dei rispet­tivi mariti . Bonapar te , cui pe r il m o m e n t o stava a cuore sol­tanto il ritiro di Napoli dalla guer ra , si contentò di poco, la­sciando il compito del regolamento definitivo al Direttorio, che infatti si most rò molto più esigente.

Con Genova, tu t to era stato sistemato con l ' ingiunzione alla città di r ichiamare i giacobini bandi t i , di esiliare gli au­striacanti e di ch iudere il por to alle navi inglesi. Di Venezia, abbiamo già anticipato la sorte, saldata poi a Campoformio. Restava la Toscana. Sebbene fratello de l l ' Impera to re d'Au­stria, i l g r a n d u c a F e r d i n a n d o aveva d ich ia ra to la p r o p r i a neutral i tà fin dal p r imo giorno della guer ra , e l'aveva scru­polosamente osservata. Ma Livorno n o n aveva rispettato la consegna anche perché era pra t icamente in m a n o agl'ingle­si che vi facevano ciò che volevano. Bonapar te vi accorse pe r r i ch iamar la alla r ag ione , e a Pistoia lo r agg iunse il p r i m o ministro Manfredini pe r invitarlo, a n o m e del Granduca , a Firenze. Bonapar te a n d ò a p ranzo da Ferd inando che lo ac­colse con g rand i onor i e ne ricevette tut te le assicurazioni. Più tardi Napoleone scrisse nel suo Memoriale: «Fui estrema­mente soddisfatto dell 'Arciduca (voleva dire il Granduca) che mi mostrò le cose di questa antica e impor tan te capitale, fat­te pe r risvegliare la mia attenzione». Ma l ' indomani di quel­la visita, nel d a r n e conto al Diret tor io, scrisse: «Ho visto la Venere dei Medici che manca al nos t ro Museo e u n a collezio­ne di cere che non sarebbe indifferente di possedere...»

Così Bonapa r t e , approf i t t ando della t regua , aveva sbri-

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gato le faccende della penisola , che o r a e r a tu t t a alla sua mercé. Poi, con la calata di Wùrmse r dal Ti ra lo , la gue r r a lo aveva r ichiamato in servizio di Generale , e lo aveva condot­to di vittoria in vittoria fino a Leoben. Q u a n d o to rnò ad oc­cupars i delle cose d'Italia, tut to era cambiato, a cominciare da lui.

CAPITOLO QUINTO

LA CISALPINA

Di r i torno dalla folgorante campagna in Austria, Bonapar te stabilì i l suo qua r t i e r gene ra l e ne l palazzo di Mombel lo a d u e passi da Milano, e lo t ras formò in u n a vera e p r o p r i a Reggia. Giuseppina lo aveva raggiunto . Napoleone l 'amava d ispera tamente , ma aveva dovuto lasciarla l ' indomani delle nozze, e la sua passione l'aveva sfogata in lettere torrentizie vergate nelle pause di quella lunga corsa d ie t ro i l nemico . O r a voleva p r e m i a r l a di quel la l u n g a at tesa - di cui d 'al­t r o n d e essa si e ra a b b o n d a n t e m e n t e consolata - m e t t e n d o l'Italia ai suoi piedi. Da secoli avvezzi a sciogliere inni, i poe­ti della penisola n o n si fecero p rega re pe r incensarla. Dame e gent i luomini venivano a farle r iverenza. Il Papa le aveva manda to u n a collana di preziosi cammei .

Tut to questo n o n era molto repubbl icano né democrat i ­co, ma ormai Napoleone poteva consentirselo. Era stato lui n o n soltanto a vincere la guer ra , ma anche a impor r e la sua pace. Il Direttorio aveva dovuto a r renders i a tut te le sue esi­genze , compresa quel la di p o r t a r e la sua a r m a t a a 80.000 uomini sottoposti a un t ra t tamento di privilegio - come cin­quina, gratificazioni, onorificenze - che ne faceva un corpo pre tor iano .

La situazione politica in Francia accelerò questo proces­so. Le elezioni di quel la p r i m a v e r a ('97) avevano da to la maggioranza ai monarchici . Per d i fendere le istituzioni re ­pubblicane e se stesso, il Direttorio aveva bisogno dei Gene­rali, ma non sapeva di quali f idarsi . Da q u a n d o Saliceti e ra r imasto coinvolto nell'affare Babeuf-Buonarrot i , i suoi r ap ­por t i n o n godevano più molto credito. Pur senza r ichiamar-

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lo, gli avevano m a n d a t o di rincalzo un al tro Commissar io , Gar rau . La sua relazione fu rassicurante: sui sentimenti re­pubbl ican i de l l ' a rma ta d ' I ta l ia , diceva, s i po teva con ta re . Ma aggiungeva profet icamente: «Un giorno, d o p o aver con­quistato l 'Europa, essa conquisterà la Francia».

Della profezia, i l Diret torio n o n e ra in condizione di te­ne r conto. Aveva bisogno, subito, di gente sicura. Si rivolse a Napoleone , e questi spedì a Parigi il suo luogotenente Au-gereau, un caporalaccio r u d e e spavaldo, che n o n andò pe r il sottile. Il regime fu salvato da lui, cioè da Bonapar te , che così ne d ivenne ancora di più credi tore, e ne approfit tò pe r da re all'Italia l'assetto più confacente ai suoi disegni.

Le cose, da q u a n d o le aveva lasciate pe r inseguire i l ne ­mico fino a Leoben, si e rano messe in moto da sole. La rea­zione politica dell 'Emilia al l 'occupazione francese era stata mol to p iù vivace che in Lombard ia . Già nell 'agosto del '96 quell i d i Reggio ne avevano approf i t t a to p e r p roc lamars i ind ipendent i da Modena, del cui Ducato avevano f in allora fatto par te in posizione subalterna, e costituirsi in Repubbli­ca. Ga r rau era stato ben lieto di riconoscerla, anche perché questo gli offriva il pre tes to di p roc lamare decadu to il Du­cato anche a Modena, che seguì l 'esempio di Reggio. Le d u e città s tabi l i rono subito r a p p o r t i con Bologna e Fe r ra ra , e tu t t ' e qua t t ro decisero d ' ind i re un congresso, che s i t e n n e in o t tobre . Fu proc lamata l 'un ione in u n a sola Repubbl ica che si chiamò Cispadana e bandì l ' a r ruolamento di 3.000 uo­mini in u n a Legione italiana.

L'episodio era di modes te proporz ioni , ma di g r a n d e si­gnificato. Per la p r ima volta italiani di Stati diversi e fra loro t radizionalmente ostili si r iconoscevano fratelli e si attribui­vano un'et ichetta nazionale. E pe r la p r ima volta essi agiva­no in n o m e della volontà popo la re e come suoi «delegati». Il lettore la p r e n d a con cautela. Questi congressisti, tutti ari­stocratici e borghesi, di popolare n o n avevano che la pre te ­sa di esserlo, in quan to alla loro elezione n o n avevano par­tecipato che i ceti da cui provenivano. Ma pe r la p r ima volta

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i l loro p o t e r e n o n der ivava da u n a «investitura» dal l 'a l to. Bene o male, e r ano dei «rappresentanti».

Due mesi d o p o indissero un nuovo congresso a Reggio, ed espressero il voto che i l ombard i si un issero a loro p e r «formare un solo popo lo , u n a sola famiglia». I l ombard i , ch ' e rano lì come invitati, mescolarono le loro acclamazioni a quel le dei p a d r o n i di casa. Ci fu rono p iant i , abbracci , in­s o m m a un po ' di m e l o d r a m m a all ' italiana. Ma ci fu anche un fremito di autentico entusiasmo.

I lombardi avevano dato la loro adesione perché anche a Milano le cose in quei mesi e rano molto cambiate. Essa e ra diventata il rifugio e il luogo di raccolta degli esuli di tu t te le altre part i d'Italia. Costoro avevano fondato il Giornale dei patrioti e il Termometro politico dove si dibat tevano i problemi del m o m e n t o . N o n siamo riusciti ad a p p u r a r n e la «tiratu­ra», cioè il n u m e r o di copie ch'essi vendevano. Doveva esse­re molto scarsa perché la massa della popolazione era anal­fabeta e m u r a t a da secoli nella sua indifferenza. La discus­sione restava limitata a quella piccola minoranza d'intellet­tuali, ma pe r la p r ima volta si svolgeva l iberamente fra ita­liani di d iverse p r o v e n i e n z e reg ional i e ideologiche e su problemi che n o n e rano più quelli del dio Pan e delle pasto­relle d 'Arcadia, ma quelli politici e economici della società attuale. Il giacobino Ranza polemizzava col modera to Gioia, i l napo le t ano L a u b e r g col r o m a n o L'Aurora. E rano cattivi giornalisti, impacciati da u n a sintassi macchinosa, retorici e declamatori . Ma grazie a loro Milano era diventata un labo­rator io d ' idee e di p rog rammi , in cui si venivano del inean­do i g randi filoni del pensiero risorgimentale.

Tut to ques to aveva avuto il suo riflesso anche sul p iano politico. Aiutato da Saliceti, un nuovo g r u p p o radicale ave­va sostituito quel lo m o d e r a t o alla testa della municipal i tà . Proveniva dalla Società popolare fondata da Salvador, sebbe­ne ne facessero pa r t e anche dei p re t i e alcuni nobili come Visconti, Serbelloni e Porro . Esso fece sfoggio di una tale in­tolleranza che anche il Verri si trovò a disagio e il Melzi p re -

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ferì ritirarsi disgustato nelle sue te r re . Però o t t enne da Bo­n a p a r t e la cost i tuzione di un vero e p r o p r i o gove rno , sia p u r e condizionato, che si chiamò Amministrazione Genera­le della Lombardia . Nell 'ottobre del '96, men t r e Napoleone infliggeva colpi risolutivi agli eserciti austriaci, essa istituì e reclutò anche un p ropr io esercito di 3.500 uomini , la Legio­ne lombarda, e gli assegnò la bandie ra bianca, rossa e verde . Era nato il tricolore.

Ecco p e r c h é u n a de legaz ione d i Milano e ra a n d a t a a l congresso di Reggio e aveva sottoscritto con tanto entusia­smo le sue del iberazioni . Esse mi r avano alla fusione della Lombard ia e dell 'Emilia in un unico Stato che, sia p u r e sot­to il controllo francese, facesse da polo di at trazione di tut to il resto della penisola. Forse a Napoleone l 'idea non dispiac­que , ma la considerò p rema tu ra . In quel m o m e n t o non era ancora in g rado di sfidare ape r t amen te il Direttorio che gli r accomandava di «non d a r e corda al pat r io t t i smo degl ' i ta­liani», e pe r di p iù n o n voleva esasperare il Papa r e n d e n d o irrevocabi le la mut i laz ione dei suoi Stati. P iombato anche lui a Reggio il 9 gennaio , disse che il congresso n o n poteva p r e n d e r e decisioni: p r ima ci voleva un governo, e p r ima del governo ci voleva una Costituzione.

Era u n a buona scusa, ma che n o n poteva arres tare i l na­turale sviluppo della situazione. Il congresso si piegò al veto, ma decise di riunirsi nuovamente in gennaio a Modena, do­ve si t rasformò in Costituente. Stavolta vi presero par te anche i delegati di Massa e Ca r ra ra e di Imola, che nel f ra t tempo si e r a n o un i t e motu proprio alla C i spadana . Il m o v i m e n t o uni tar io dilagava a chiazza d'olio.

O r a , a Mombel lo , N a p o l e o n e p r e n d e v a at to di ques ta realtà. E ormai libero di agire a testa sua, proc lamò ufficial­m e n t e una Repubblica cisalpina che comprendeva , oltre alla Lombardia , le province ex-venete di Bergamo e Brescia, la Valtellina e tutta la Cispadana. Prese pe rò le sue precauzio­ni i m p o n e n d o a questo embr ione d'Italia u n a Costituzione

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quasi identica a quella francese, che accentrava tut to il pote­re esecutivo nelle mani di un Direttorio, di cui egli si riser­vava di nomina re i component i . Voleva uomini maneggevo­li, e aveva capito che i giacobini o «democratici», come an­che si chiamavano, n o n lo e rano .

Costoro avevano perso i loro migliori avvocati: Saliceti e G a r r a u . Saliceti, lo abb iamo già de t to , sebbene avesse i l compi to di sorvegliare Bonapa r t e , lo aveva s e m p r e secon­da to in tu t to e perc iò eserci tava su di lui u n a g r a n d e in­fluenza. Ma Napoleone lo ascoltava come amico, non come Commissar io . Col Commissa r io si t rovava spesso ai ferr i corti pe r ché n o n ne riconosceva le funzioni. Ques to aveva gettato un ' ombra sulla loro amicizia, che tuttavia era abba­stanza forte e profonda pe r resistere alla prova.

Ben più d u r o fu lo scontro con G a r r a u , un cont ro l lore inflessibile e b e n deciso a esercitare i suoi poter i . Anche lui a p p a r t e n e v a alla vecchia gua rd i a di Robesp ie r re , e le sue idee repubbl icane e democra t iche lo por tavano a simpatiz­zare p iù coi r ivoluzionari italiani che coi general i francesi, di cui scoprì e denunc iò le ruber ìe . I suoi r appor t i n o n ot­t enne ro risultati pe rché p rop r io allora l 'esercito era diven­tato, grazie ai suoi successi, intoccabile. Ma questo n o n di­sa rmò Gar rau , che scrisse al Diret torio: «Le vittorie dell 'e­sercito servono a immunizzare i colpevoli». Napoleone , che n o n aveva il sarcasmo leggero, lo chiamava «il gobbo vele­noso», e gobbo infatti e r a G a r r a u , ma sol tanto nel fisico. Moralmente era dri t to come una lama.

Il contrasto si era acuito a tal pun to che alla fine il Diretto­rio aveva manda to a inchiestare un suo fiduciario, Clarke. Ma questi giunse quando Bonaparte stava già r ipor tando vittorie su vittorie, e il r appor to fu favorevole a lui. Vi si diceva che, anche se l'onestà di Garrau era al di sopra di ogni sospetto, il Commissariato creava nei comandi un pericoloso dual ismo che andava a tutto: scapito dell'efficienza. Sia p u r e a malin­cuore, il Direttorio si era uniformato al responso, e alla fine di quell 'anno aveva soppresso i Commissari agli eserciti.

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O r a Napoleone era definit ivamente libero di regolare le cose i taliane a suo p iac imento , e lo fece senza lasciarsi im­pacciare da pregiudiziali ideologiche. Con la Cisalpina egli aveva già crea to un e m b r i o n e di Nazione , che contava t re milioni e mezzo di abitanti nel l 'area più ricca e svi luppata della penisola. Ma questa nazione egli la concepiva e la vole­va napoleonica, non italiana. E fu questo che lo mise in con­flitto coi patrioti di estrazione democratica.

Per t u t to l ' anno '97 , cos toro ce rca rono di e s t e n d e r e i l moto uni ta r io al P iemonte accendendovi focolai rivoluzio­nari . La polizia del re Carlo Emanuele IV, da poco successo al p a d r e Vittorio Amedeo, fu spietata nonostante la mitezza del Sovrano . U n a sul l 'a l t ra un cen t ina io d i teste c a d d e r o sotto il fuoco dei plotoni di esecuzione. I rivoluzionari lom­bard i spe ra rono che Bonapar te avrebbe colto quel pretesto p e r d ich iarare decadu ta la dinastia sabauda, i s taurare u n a repubblica anche in Piemonte e fonderla con la Cisalpina. E invece lo v ide ro se rba re un a t t e g g i a m e n t o favorevole nei confronti di Carlo Emanue le e anzi spingere il Direttorio a ratificare le clausole dell 'armistizio di Cherasco.

Ma il colpo più grosso ai loro sogni lo inferse il trattato di Campoformio, che consegnava Venezia all'Austria. I patrioti veneti avevano già stabilito r appor t i con quelli milanesi pe r p reparare la fusione fra i due Stati. Suppliche e appelli firma­ti da migliaia di cittadini furono mandat i a Bonaparte. Questi se ne servì per minacciare l'Austria e indurla a ratificare al più presto le clausole dell'armistizio di Leoben. Poi abbandonò la gloriosa Repubblica alla sorte ch'egli stesso le aveva assegnata.

La reaz ione fu grossa e provocò , nel fronte patr iot t ico, u n a spaccatura irrimediabile. L'ala più intransigente e riso­luta perse ogni fiducia nella Francia e nei poter i costituiti in genera le . Nei mesi p receden t i il dibatt i to svoltosi sui gior­nali e nei circoli milanesi aveva già lasciato affiorare questa tendenza estremista. Il Galdi aveva pubblicato un saggio in­titolato Antimoderatismo, che affidava la redenz ione dell ' I ta­lia n o n più a un «liberatore», ma a u n a rivoluzione popola-

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re cont ro t roni , altari e privilegi. L'idillio dei «patrioti» con la Francia era finito. Respinti all 'opposizione e sottoposti al­la censura che soppr imeva anche i loro giornali , costoro si de t t e ro alla lotta clandest ina. La loro ideologia era ancora nebulosa e incerta, divisa fra t endenze uni tar ie e t endenze federaliste. C'era chi dava il passo alla cosiddetta istanza na­zionale e chi a quella sociale. Ma ciò che ormai era acquisito era la ro t tu ra fra l'ala modera ta e quella democrat ica e rivo­luzionaria. Le r ivedremo all 'opera, l 'una cont ro l'altra, nel Risorgimento, che cercò di conciliarle, e qualche volta ci riu­scì. Ma n o n sempre , e quasi mai del tut to.

A questo p u n t o in t e rvenne un fatto nuovo . Napo leone , d o p o aver messo in ginocchio l'Austria, decise di fare altret­t an to con l ' Ingh i l t e r ra . N e s s u n o sap rà mai se vi si risolse p e r d a r e alla Francia u n a definitiva pace , o p e r r i lanciare u n a gue r ra che o rmai languiva. Pur d o m i n a n d o i mar i , l 'In­ghi l terra era rimasta sola, e la sua diplomazia n o n riusciva a t rovare delle potenze terrestr i disposte a sfidare nuovamen­te quel la francese. Forse p r i m a o poi sa rebbe scesa a u n a t ransazione, ed e ra p r o p r i o ciò che Napo leone paventava . Per d iventare Napo leone , egli aveva bisogno della gue r r a . Espose e impose al Direttorio un p iano temerar io : n o n po­t e n d o colpire quel l ' i r r iducibi le nemico sul m a r e e sul suo p r o p r i o te r r i to r io , lo avrebbe colpito nelle sue basi navali d'Africa t raghet tandovi un esercito. Forse fu un dialogo tra mariuoli , che cercavano di gabbarsi l 'un l 'altro. Il Direttorio era p ron to a r imetterci anche un 'a rmata , p u r di liberarsi di Napo leone e della sua p r e p o t e n t e tutela. E Napo leone era p r o n t o a c o r r e r e i l r ischio p u r di r a g g i u n g e r e i l suo t ra­gua rdo : i l po te re sup remo . All'Italia aveva dato l 'ultimo ri­tocco, impadronendos i con un 'operaz ione del tut to indolo­re anche di Genova, ma senza fonderla con la Cisalpina. Co­me successore designò, con pieni poter i militari e civili, un luogotenente di tut ta fiducia: il suo capo di Stato Maggiore Berthier. E il 17 novembre del '97 part ì da Mombello incon­tro alla sua nuova avventura.

CAPITOLO SESTO

IL '98

Nel passargli le consegne, Napo leone aveva raccomanda to a Ber thier di «sorvegliare il Papa e tener a guinzaglio Napo­li», cioè di fare in m o d o che la si tuazione in Italia restasse qual era. Ber thier n o n chiedeva di meglio. Non privo di ca­pacità, ma cinico e spregiudicato , donnaio lo e sibarita, e ra ben contento di godersi in pace la sua privilegiata posizione di proconsole e le grazie della duchessa Visconti, sua aman­te. Ma n o n aveva abbastanza autori tà e prestigio pe r sfidare gli ordin i del Direttorio, che cont inuava a pensa re all'Italia come a u n a te r ra di saccheggio.

A forn i re pre tes t i di aggress ione fu lo Stato pontificio, che n o n aveva abbandona to il suo a t teggiamento ostile alla Francia anche p e r rag ion i d i poli t ica in t e rna . Per q u a n t o scarsi e isolati, a Roma i circoli intellettuali d' ispirazione gia­cobina e r a n o in f e rmen to e facevano g r u p p o i n t o r n o agli emissari di Parigi. Fra questi c'era, in qualità di ambasciato­re , Giuseppe Bonapar te , fratello di Napoleone, che cercava di ba rcamenar s i a t t e n u a n d o i contrast i . Ma c ' e rano anche t re Genera l i in incogni to che invece sp ingevano in senso d iamet ra lmente opposto . U n o di essi, Duphot , si t rovò coin­volto in u n a manifestazione di patr iot i . Se fosse stato lui a aizzarla, come poi dissero i pontifici, o se invece cercasse di placarla, come invece sostenne Parigi, n o n si è mai saputo . Fatto sta che la polizia, spa rando sui dimostrant i , uccise an­che lui. Dopo qualche esitazione, Giuseppe respinse le scuse del governo e lasciò Roma. Il Diret torio, in p r e d a a un so­prassa l to di r ivoluz ionar i smo anticlericale, ing iunse a Berthier di marciare sulla città.

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Data la consis tenza del l 'eserci to pontificio, n o n fu che una passeggiata militare che raggiunse i suoi obbiettivi sen­za in toppo. Secondo gli ordin i ricevuti, Berthier n o n dove­va usare violenza al Papa. Doveva aspet tare che a scacciarlo fossero i patrioti romani , ma questi si g u a r d a r o n o bene dal farlo, impauri t i dal minaccioso at teggiamento del popolino. Nel febbraio (del '98), Berthier scriveva a Napoleone , inten­to a p r e p a r a r e la sua spedizione in Africa: «In questa città non ho trovato che costernazione. Nessuna traccia di spirito l iber tar io . N o n un pa t r io ta è v e n u t o a visitarmi». Ci volle del bello e del b u o n o pe r raccogliere, i n to rno a un albero della libertà, qualche centinaio di volenterosi e pe r far eleg­gere un governo provvisorio formato di sette Consoli.

Be r th i e r lo incaricò di e l abora re u n a Cost i tuz ione sul modello di quella francese. I Consoli si misero al lavoro, ma non pr ima di aver provveduto a dotarsi di una ruti lante di­visa all'altezza del loro titolo. Fra di essi c'era qualche u o m o di valore, come l 'archeologo Ennio Qui r ino Visconti, ma il factotum e ra un tale Angelucci di profess ione ginecologo - che allora era soltanto la versione maschile della levatri­ce - cui, secondo Hér io t , Sa rdou si sarebbe ispirato p e r il personaggio di Angelotti nella Tosca. Questi patrioti tuttavia si affrettarono a dichiarare che, p u r spogliato di ogni pote­re temporale , il Papa avrebbe conservato quello spirituale e seguitato a godere di tutti i privilegi connessi al suo alto ma­gistero. Non volevano r inunziare all 'unica industr ia di Ro­ma: la Chiesa.

Ma questo contrastava con gli ordini ricevuti da Berthier che, non t enendo alcun conto di quella decisione, ingiunse al Papa di lasciare la città en t ro t re giorni . Pio VI era quel Braschi , g r an s ignore r inasc imenta le e nepot is ta , che da giovane aveva saputo far fronte a ogni emergenza. Ma ora, a ot tant 'anni e dopo ventitré di Soglio, n o n era più in g rado di lo t tare . Se ne a n d ò in p u n t a di p iedi , ma con mol ta di­gnità. E il suo orgoglio fu messo a d u r a prova dai rifiuti che incont rarono le sue d o m a n d e d'asilo. Per quanto si fregias-

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sero della qualifica di «cattolici», né l ' Impera tore d'Austria, né il Re di Napoli accettarono di ospitarlo. Solo il Granduca di Toscana gli permise di accasarsi a Siena, ma col divieto di avvicinarsi a Firenze.

Seguiamo ancora pe r un m o m e n t o i l suo patetico vaga­bondaggio . Da Siena lo scacciò un te r remoto che distrusse il monas tero in cui s'era rifugiato. Il Granduca gli consentì di trasferirsi nella Certosa di Firenze, ma sempre vietandogli di e n t r a r e in città. Q u a n d o anche lui s i t rovò nei guai coi francesi, il Papa, pe r n o n aggravarli con la sua presenza, si t rasferì a Pa rma . Era mezzo paral izzato e c o m p l e t a m e n t e solo perché anche suo nipote, il duca Braschi, era stato rim­patr iato d 'autori tà . Ma a Parma il Duca n o n lo volle, e il ve­g l ia rdo dove t te piegarsi a l l 'u l t ima umil iaz ione: ch i ede re ospitalità a coloro stessi che l 'avevano scacciato. Gliela con­cessero. Senza seguito e quasi in stato d'incoscienza, si mise in viaggio pe r le Alpi, e dovunque al suo passaggio la gente si ammassava , lo copr iva di fiori e s ' inginocchiava d imo­s t r a n d o q u a n t o c o n t r o p r o d u c e n t e sia l 'anticlericalismo q u a n d o diventa persecuzione. Da Briangon dove fu accolto come «il cit tadino Papa» fu trasferito p r ima a Grenoble, poi a Valenza, e anche di lì s tavano pe r r imuover lo , q u a n d o la mor te sopravvenne a met tere fine al suo calvario. Il giorna­le ufficiale scrisse: «Questa fine met te il sigillo alla gloriosa filosofia dei t empi moderni» . I delitti delle rivoluzioni n o n devono sgomentare . Sgomenta la loro stupidità.

A Roma il nuovo governo brancolava nel vuoto, sopraf­fatto dalle difficoltà sopra t tu t to economiche . Ber th ie r e ra stato subito raggiunto dal g rande «esattore» Haller che, non t rovando più nulla da spremere nella Cisalpina, veniva a sac­cheggiare l 'Urbe pe r rifornire non solo il Direttorio sempre a corto di quattr ini , ma anche le p ropr ie tasche. Il Vaticano fu svuotato perfino dei suoi mobili. Gli stessi ufficiali francesi ne furono così disgustati che lanciarono un appello ai roma­ni pe r scolparsene. Il popol ino , vedendol i divisi, insorse al grido di «Viva il Papa!» E i francesi, per venirne a capo, do-

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vettero accantonare i p ropr i dissensi. Ma questi r imasero nel fondo e resero ancor più intricata e precaria la posizione di quel governo improvvisato, senza sostegno popolare , e privo di uomini autorevoli e competent i . Solo Visconti cercava di po r r e r iparo al caos politico e alla bancarot ta economica; ma n o n poteva nulla cont ro il di lagante ladroneccio francese e ind igeno . Ad esso r isa lgono molte fo r tune r o m a n e , come quella dei banchier i Torlonia. Un ingegner A r m a n n i fece i soldi i m p i a n t a n d o u n a fabbrica di acido solforico rifornita col p iombo grattato dalle bare dei defunti.

L'accorto Ber th ie r aveva prefer i to lavarsene le man i ed era anda to a Parigi con la scusa di riferire. Al suo posto era­no stati nomina t i p r i m a Masséna, cont ro cui c 'era stato da pa r t e degli altri Genera l i un mezzo pronunciamiento p e r la sua durezza, e poi Saint-Cyr, che invano cercava di met tere un po ' d 'o rd ine in quel caos. I l suo collega B r u n e scriveva: «Tutti, di qualsiasi par t i to e opin ione , concordano nel d i re che mai, in nessuna epoca e in nessun luogo, la ruber ia ha raggiunto le vette d ' impudenza che tocca nella Repubblica Romana». Lo stesso ga lan tuomo Visconti ne fu alla fine im­brattato, o fu accusato di esserlo, e di poco evitò l 'arresto.

Le cose e rano a questo p u n t o q u a n d o sopravvennero nuo­ve complicazioni internazional i . A Campoformio , l 'Austria aveva avuto col Veneto i l suo p r e m i o di consolazione, ma n o n se ne contentava. Ora che i francesi es tendevano la loro occupazione in Italia, essa reclamava u n a compartecipazio­ne agli utili: le Legazioni. Il Direttorio non ne volle sapere, e la delusione acuì in Vienna il des ider io di rivincita. Rial­lacciò l 'al leanza con l ' Ingh i l t e r ra , r imas ta sola in c a m p o contro la Francia, e vi attrasse la Russia. Questa nuova coali­zione era abbastanza forte pe r infondere speranze agli Stati italiani che ancora non e rano stati occupati dai francesi, ma se ne sentivano alla mercé . Parigi se ne rese conto e, p r ima che la pa ro la fosse di n u o v o res t i tu i ta alla spada , p rese le sue precauzioni, cominciando dal Piemonte.

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Abbiamo lasciato questo Stato al t rat tato di Cherasco del '96, che p ra t i camen te lo r iduceva a vassallo della Francia, ma consentendogl i di m a n t e n e r e i l suo reg ime. Bonapa r t e aveva negoziato con Vittorio Amedeo, e aveva lasciato al suo successore Carlo Emanuele IV m a n o libera nella repressio­ne dei patrioti . Si contentava della sua soggezione. Non così i l Di re t tor io , che p e r mesi aveva t rasc inato le t ra t ta t ive di pace, e le aveva firmate solo al m o m e n t o di Campoformio, e controvogl ia . Car lo E m a n u e l e e r a un u o m o t imido , p io e indeciso, che di suo n o n avrebbe osato nulla contro i france­si. Ma a p p u n t o il suo debole cara t te re lo r endeva succubo di u n a Cor te reaz ionar ia e velleitaria, e sopra t tu t to di suo fratello Vittorio Emanue le , dest inato più ta rd i a succeder­gli-

Furono pe rò soprat tut to i patrioti lombardi che spinsero il Direttorio ad annul la re quella pace. D'accordo con quelli locali, essi t en tarono un' incursione in Piemonte pe r istaurar­vi la Repubblica e fonderla con la Cisalpina. I francesi li la­sciarono mor i re sotto la fucileria delle regie t r u p p e pe rché n o n volevano affatto la fusione di quei d u e Stati che avreb­bero costituito un centro di potere difficilmente controllabi­le. Ma comprese ro che i l Re n o n era in g r a d o di garantir l i contro questo pericolo e gl ' imposero di consegnar loro pri­ma la cit tadella di Tor ino e poi tut t i i suoi Stati. I nvano la Corte istigò Carlo Felice a u n a resistenza a oltranza, d 'altron­de impossibile. I l Re par t ì di not te con la Regina senz'aver neanche il coraggio di portarsi dietro i gioielli della corona. D a p p r i m a si rifugiò a Firenze, dove a n d ò a visitare l 'altro gran fuggiasco, il Papa, e dove fu visitato da Vittorio Alfieri. «Ecco il vostro t i ranno» disse b o n a r i a m e n t e al poeta , che cont ro i t i ranni aveva tanto declamato. Alfieri si commosse alla vista del suo ex-sovrano «infelicissimo e abbandonato». Quel l ' incontro rinfocolò in lui i furori antifrancesi che p ro ­prio allora aveva esalato nel Misogallo. Nel suo at teggiamen­to si r iassumevano molto bene gli umor i della cul tura italia­na, avversa a l vecchio r eg ime , ma ancora p iù spaur i ta da

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quello nuovo. Perfino in questo campione delle più smode­rate passioni, l'Italia modera ta faceva sentire la sua voce.

A Tor ino fu p roc l ama ta la Repubbl ica subalp ina . E ne p a r l e r e m o d o p o . Per o ra ved iamo i l segui to del l ' az ione francese.

Ci si r improve ra di far t r o p p o posto, in questa nost ra Sto­ria, al capriccio degli uomini . Ma noi ci chiediamo che cosa, se n o n il capriccio, p u ò spiegare la marcia su Roma dell 'e­sercito napole tano. Che i francesi a Roma rappresentassero u n a minaccia anche pe r Napoli, è evidente. Ma è al tret tanto evidente che a p p u n t o pe r questo i napole tani n o n avevano nessun interesse a provocarl i , visto ch'essi pe r il m o m e n t o avevano altro a cui pensare .

Na tura lmente anche a Napoli si sapeva dell 'alleanza che, nel l 'assenza di N a p o l e o n e , s i a n d a v a abbozzando t ra Au­stria, Russia e Inghi l te r ra pe r u n a r ipresa delle ostilità. Ma la da ta n o n e ra stata decisa, e il gabinet to di Vienna aveva espresso la sua intenzione di n o n precipitarla. In parole po­vere, aveva det to ai napole tani che, se si muovevano , lo fa­cevano a loro rischio e per icolo. E p p u r e essi si l anc iarono ugua lmente , da soli, in quell 'avventura, che n o n la ragione, ma solo le passioni possono giustificare.

Ne Eltalia del Settecento abbiamo già dato il q u a d r o della Corte di Napoli, delle sue divisioni, dei suoi intrighi, e n o n vogl iamo r ipe terc i . Ma ne r i ch iamiamo alla m e n t e i l som­mario. A palazzo reale c 'erano in quel m o m e n t o d u e partit i : quel lo del re F e r d i n a n d o e del suo min is t ro degli es ter i , Gallo, che volevano u n a politica di compromesso e d'attesa; e quello della regina Maria Carol ina e del suo factotum Ac-ton, che volevano la guer ra . La gue r r a l 'avevano già fatta e p e r d u t a nel '96, q u a n d o avevano manda to un corpo di spe­dizione in aiuto degli austro-piemontesi , che poi si era a r re ­so sotto le m u r a di Mantova. Napoleone , che allora n o n vo­leva spingere le p ropr i e conquiste verso il Sud della peniso­la, aveva concesso la pace a condizioni n o n gravose.

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Ferdinando, cui stava a cuore solo la p ropr ia tranquillità, e ra ben deciso a r i spe t ta r le . Maria Carol ina spiava invece l'occasione della rivincita. Essa era u n a Asburgo, non soltan­to sorella della Maria Antoniet ta che i francesi avevano de­capitato, ma anche m a d r e d i un 'a l t ra Maria Antoniet ta an­da ta sposa a l l ' Impera to re d 'Austria, Francesco che, p r ima di d iventare suo gene ro , e ra già suo n ipote . Quest i legami d i famiglia con tavano mol to in u n a politica d o m i n a t a da­gl ' interessi dinastici come quella delle m o n a r c h i e assolute del Settecento. E a Napoli c 'era chi sapeva sfruttarli: l 'amba­sciatore inglese, Hamil ton, e più ancora sua moglie Emma, a m a n t e de l l ' ammirag l io Nelson, i l g r a n d e an tagonis ta di Napoleone .

Napoleone si trovava in quel m o m e n t o in Egitto, dov 'era riuscito a r ipor ta re brillanti vittorie. Ma ad Abukir, alle foci del Nilo, la flotta che ve lo aveva t rasporta to era stata imbot­tigliata e dis t rut ta da quella di Nelson. Abi lmente mon ta t a dalla p ropaganda , la notizia sollevò gli entusiasmi di Napo­li, che d iventarono addi r i t tu ra deliranti nella p r imavera di quel l ' anno '98, q u a n d o Nelson, di r i to rno dalla sua impre­sa, gettò le ancore nella r ada pe r godersi il p r emio del suo trionfo nell'alcova di Emma.

Ques t a e ra già u n a violazione dei pat t i s t ipulati con la Francia che vietavano l'ospitalità alle navi inglesi. Ma a ciò si agg iunsero atti ch ia ramen te provocatori . La città si p a r ò a festa pe r accogliere l 'Ammiraglio, e Lady Hami l ton l 'attra­versò su u n a berlina scoperta su cui sventolava una bandie­ra con le pa ro le «Nelson e la Vittoria» r i camate in p ie t r e preziose. L'ospite fu sommerso di don i dalla Regina, e a tal p u n t o r imase contagiato dal generale entusiasmo che, a u n a g rande rivista militare inscenata in suo onore , dichiarò che quelle e rano «le migliori t r u p p e d 'Europa».

F e r d i n a n d o , a cui n o n m a n c a v a un ce r to b u o n senso, cercò d ' imbrigl iare questi ott imismi. Ma, come al solito, fu travolto dalla moglie . In maggio consent ì a firmare un 'a l ­leanza offensiva e difensiva con Vienna, ch ia ramente rivol-

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ta cont ro la Francia. In g iugno lanciò un 'energica protes ta c o n t r o l 'occupaz ione francese di Malta, su cui Napol i r i ­vendicava u n a platonica sovranità. E infine consentì all'in­gaggio , p ropos tog l i da Mar ia Caro l ina e da Acton, d i un genera le aust r iaco, Mack, quale c o m a n d a n t e in capo del­l 'esercito. Mack era un g rande storico militare. Di ogni bat­taglia comba t tu ta nel corso dei secoli sapeva citare luogo, data, disposizione dei repar t i , nomi degli ufficiali. Ma n o n ne aveva mai vinta una . Per di più n o n parlava u n a parola d ' i ta l iano. E forse p e r ques to gl ' i taliani lo p r e se ro pe r un genio.

Fu in questo clima di bellicosi entusiasmi che m a t u r ò la decisione. Ferd inando credet te che, pe r tenersi al r iparo dai pericoli della gue r r a , bastasse non dichiararla . Alla fine di novembre annunciò in un proclama che si considerava e vo­leva res ta re amico dei francesi, ma che r i teneva i m p e g n o d ' o n o r e res t i tu i re Roma «al suo legi t t imo sovrano», senza pe rò precisare se tale considerasse il Papa o se stesso. Nella storia della diplomazia - scrisse il più g rande storico di allo­ra, Cuoco - n o n si era mai vista u n a simile dichiarazione.

L'esercito di Mack, forte di 50.000 uomini , n o n incontrò altro ostacolo che le piogge, ma bastarono a r idur lo in bran­delli. Quel la che e n t r ò a R o m a e ra u n a specie di a r m a t a Brancaleone, che si det te subito al saccheggio. Fe rd inando venne a passarla in rivista, e dichiarò «liberata» la Città Eter­na senza fare il min imo accenno al Papa.

I francesi avevano evacuato l 'Urbe il g io rno p r i m a fra gl'insulti e gli sberleffi della popolazione, seguiti da tutti gli esponenti del regime repubbl icano che si sentivano in peri­colo di vita. Bisognava r iunire le scarse guarnigioni sparpa­gliate nello Stato pontificio che n o n assommavano a più di 12.000 uomini . Al loro comando era Championne t , forse il miglior generale francese, a lmeno sul p iano morale : p r o d e soldato, s inceramente repubbl icano, onesto e m a g n a n i m o . Torna to alla controffensiva, ma lg rado l 'inferiorità numer i ­ca, inflisse alle avanguardie di Mack un paio di disfatte che,

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sebbene parziali, bastarono a seminare il panico in tutto l'e­sercito. N o n fu u n a r i t i rata. Fu u n a fuga indecorosa al «si salvi, chi può». E il più trafelato appar iva Fe rd inando , che pe r n o n farsi r iconoscere aveva scambiato la p ropr ia divisa con quella di un suo aiutante, e non faceva che r ipetere alla scorta: «Restatemi accanto, n o n lasciatemi solo!» Era tal­m e n t e fuori d i s enno che p r o p r i o allora, nel m o m e n t o in cui l'aveva persa, dichiarò la guer ra ai francesi perché - dis­se - «gli avevano opposto resistenza».

Arr ivato col fiato mozzo a Napol i , lanciò al suo popo lo un proclama che lo invitava a battersi «per il vostro pad re e Re che espone per voi la vita, che è p ron to a sacrificarla per la vostra difesa e pe r conservare a voi quan to avete di più caro: la rel igione, l 'onore delle vostre mogli e delle vostre sorelle...» Q u a n t o fosse p ron to a espor re la vita, lo dimostrò imbarcandosi pe r Palermo con la Regina, il seguito e i baga­gli sulla nave ammirag l ia di Nelson. «E in pochissimi dì -v e n n e , vide e fuggì» scrisse un pasqu ino locale. Ma con quell 'appello alle mogli e alle sorelle, era riuscito a toccare il cuore dei suoi sudditi. Molto migliore del suo esercito, il po­polo corse alle armi e scatenò u n a guerriglia, che sorprese e un po ' offese Championne t , convinto di essere atteso in fe­sta da u n a città smaniosa di libertà e di repubblica. A Capua dovette fermarsi. E forse avrebbe r inunziato a en t ra re a Na­poli - come del resto gli sugger iva il Di re t tor io , restìo a sparpagliare ancora di più le sue t r u p p e nella penisola, alla vigilia di u n a r ipresa delle ostilità con l 'Austria -, se al go­verno della città ci fosse stato qualcuno capace di organizza­re e sfruttare la resistenza popolare .

Ma Fe rd inando aveva commesso anche l ' e r rore di desi­gnare a questo compito, col titolo di Reggente, l 'uomo me­no adat to: il Principe Pignatelli. Costui, invece di chiamare in aiuto la flotta tut tora all 'ancora, la fece affondare. Eppoi, p u r d i o t tenere una t r egua di d u e mesi, concluse un armi­stizio con cui consentiva ai francesi di occupare tutte le piaz­zeforti in torno alla città e s ' impegnava a versargli un ' inden-

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nità di cui n o n disponeva, perché il Re si e ra por ta to via tut­to il tesoro.

In quei d u e mesi la città assediata fu p r e d a dell 'anarchia, di cui fecero le spese i «giacobini», accusati d'intelligenza col nemico. Ad aizzare cont ro di loro la furia popo la re furono sopra t tu t to i barb ier i , che ai giacobini r i m p r o v e r a v a n o di aver in t rodot to la m o d a dei capelli corti al posto della par ­rucca, campo dei loro virtuosismi e fonte dei loro guadagni . Ma l'etichetta di giacobino veniva applicata anche a chi n o n lo era, perché o g n u n o aveva il suo da l iquidare o da dep re ­dare .

Tuttavia questa caccia al l 'uomo mise i giacobini veri nella necessità di agire. A metà gennaio essi s ' impadroni rono con un colpo di mano dei Forti di Sant 'Elmo e di Castel Nuovo, e con le loro artiglierie cominciarono a bat tere le s t rade su cui avanzavano i francesi. Ma ci vollero tre giorni e quat t ro­mila mort i , p e r r i d u r r e alla rag ione i «lazzaroni». L'ultima loro impresa resistenzialista fu il totale saccheggio del palaz­zo del loro «padre e Re», in n o m e del quale si e r ano così vi­gorosamente e gra tu i tamente battuti .

Championne t seppe conquistarseli con un gesto accorto. En t ra to in città sulla fine del genna io (del '99), si recò im­media tamente a r e n d e r e omaggio a San Genna ro che, lungi dal serbargli il broncio, reciprocò la cortesia improvvisando fuori t e m p o il solito miracolo . «San G e n n a r o è d iven ta to giacobbino» disse, sorpresa e un po ' scandalizzata, la gente . E pe r il momen to , fu pace.

CAPITOLO SETTIMO

I B O R B O N E A PALERMO

Per Ferd inando e Maria Carolina, q u a n d o sulla fine del '98 vi g iunsero a b o r d o della nave ammiragl ia di Nelson, la Si­cilia era u n a t e r r a del tut to sconosciuta: in qua ran t ' ann i di Regno n o n ci avevano mai messo piede. Di essa n o n sapeva­no che ciò che ne riferivano i Viceré nei loro rappor t i , am­messo che li leggessero.

Si t r a t t ava de l res to di un ' i so la mis ter iosa a n c h e p e r i suoi abitanti pe rché la mancanza di s t rade ne rendeva inac­cessibili molte par t i specie del l ' in terno, e i g rand i p ropr ie ­tari ter r ier i che se ne spart ivano la fetta maggiore avevano un concet to così assoluto della loro sovrani tà che nei loro feudi n o n ammet t evano interferenze del po t e r e centrale e si so t t r aevano per f ino ai cens iment i . N o n si conosceva n e m m e n o l ' a m m o n t a r e della popolaz ione , ma s i p r e s u m e che si aggirasse sul mi l ione e mezzo . Pa l e rmo , coi suoi 200.000 abitanti, era la città più popolosa d'Italia d o p o Na­poli, ma anche quella in cui il contrasto fra lusso e miseria era il p iù sfacciato.

Alla base del la s i tuazione politica ed economica stava quel la sociale. U n a specie di «Libro d 'oro» s t ampa to p r o ­pr io in quegli anni definiva orgogliosamente la Sicilia come «la t e r ra dei nobili» pe r il fatto che ce n ' e rano di p iù che in qualsiasi altra regione della penisola: 142 principi, 788 mar­chesi, 1.500 fra duchi e baroni . Questa moltiplicazione e ra dovuta a un fatto molto semplice e che di nobile aveva po­co: siccome nessun sistema fiscale era mai riuscito a funzio­nare , invece d ' imporgli u n a tassa, al ricco si vendeva un bla­sone. Na tura lmente la vecchia nobiltà, quella del sangue, le

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cui dinastie più antiche risalivano ai Normann i , reagivano a questa inflazione m a g g i o r a n d o i p r o p r i titoli pe r differen­ziarli da quelli nuovi . I l marchese di Geraci aveva coniato per sé quello - di p u r a fantasia - di «Primo Signore pe r gra­zia di Dio nel l 'una e nell 'altra Sicilia, p r imo Conte d'Italia e Principe del Sacro Romano Impero». Non è che un piccolo scampolo della gara che divampava fra questi nobili pe r ac­caparrars i , nel l 'ambito della stessa casta, delle posizioni di «vertice». E ques to accan imento aveva il suo p e r c h é nel la s t ru t tura feudale della società, che faceva del r ango la con­dizione del po te re e del po te re la condizione della ricchez­za. Un po ' per la sua posizione geografica, un po ' per l'inin­terrot to p redomin io spagnolo, la Sicilia era rimasta comple­t a m e n t e es t ranea al r i n n o v a m e n t o d ' idee e al r i formismo economico po r t a t i da l l ' I l lumin ismo. «In nessun sito del m o n d o un titolo è più pregia to che in Sicilia» scriveva Col­letta che p u r e , come n a p o l e t a n o , n o n veniva cer to da un paese democratico.

Non tutti i titolati, che si chiamavano gener icamente «ba­roni», e rano ricchi. Di quelli nuovi, alcuni si e r ano rovinati pe r diventarlo, altri s ' indebitavano fino al collo pe r tenere il passo di quelli che li sovrastavano. E questa era a p p u n t o la dannazione loro e della loro categoria. Nell'Italia del Nord i q u a d r i del l 'ar is tocrazia s i a l largavano p e r l ' immissione di nuovi e lement i borghes i distintisi in qua lche m o d o , p e r esempio nel servizio di Stato, come in P iemonte . E quest i innesti si r ivelavano benefici alla stessa casta pe rché la r in­sanguavano economicamen te e vi po r t avano idee p iù mo­d e r n e . Fu grazie a questa osmosi che i nobili acquis tarono un certo spirito d ' in t rapresa , cioè fu la borghesia che con­vertì la nobiltà alla p ropr ia mentalità imprendi tor ia le: lo ab­biamo visto ne L'Italia del Settecento.

In Sicilia - come in S p a g n a - avveniva e s a t t a m e n t e il contrar io : il borghese imblasonato si convertiva alla menta­lità r edd i t i e ra e parass i tar ia del l 'ar is tocrazia del s angue e ne adottava, maggiorandol i , tutti i vizi: la smodata passione

del fasto c o m e segno di po tenza , l ' a r roganza , l ' esagera to concetto delle p ropr i e prerogat ive , i l morboso at taccamen­to alle a p p a r e n z e e alle «precedenze»: i n somma tutt i quei carat teri che ancora, a duecen t ' ann i di distanza, caratteriz­zano i l nobile siciliano d i m o s t r a n d o q u a n t o quel la società sia r imas ta immobi le e pietrif icata a n c h e in ques t i u l t imi d u e secoli che d o v u n q u e a l t rove ne h a n n o visto i l to ta le sconvolgimento.

Le cifre par lano chiaro. Dei 360 villaggi della Sicilia, 280 vivevano in regime di signoria feudale, cioè sottoposti a un ba rone che vi si comportava da sovrano assoluto. Gli abitan­ti - quasi tutti contadini - e rano pra t icamente dei servi del­la gleba, t enu t i a p r e s t a r e corvées, cioè g io rna te di lavoro gratuito, e inabilitati a cambiare domicilio. Non che lo proi­bisse la legge, ma lo proibiva il b a i o n e , che sulle o r m e del fuggiasco sguinzagliava la p ropr ia personale polizia, lo por­tava davant i al p rop r io t r ibunale e lo gettava nelle p rop r i e prigioni.

I l let tore n o n si faccia un q u a d r o t r o p p o n e r o di questa situazione. Molto spesso essa era mitigata dal cara t tere del feudatar io che, lungi dal l 'abusare dei p r o p r i diritti, o ch 'e­gli cons iderava tali, li esercitava con pa t r ia rca le bonomia . Ciò che n o n a m m e t t e v a e ra che gli venissero contesta t i . Molte volte si e r ano provati a farlo sia i Viceré spagnoli che i funzionar i p i emontes i nel b reve p e r i o d o in cui la Sicilia aveva fatto par te del Regno dei Savoia. Ma la resistenza era stata irriducibile e aveva tr ionfato anche sul p iano giuridi­co, q u a n d o un avvocato palermitano, Di Napoli, riuscì a far accettare dal t r ibunale di Stato il principio che il feudo - si t rat tasse di u n a fattoria, o di un villaggio, o di u n a in te ra provincia - e ra p ropr ie tà privata del feudatar io, in quan to come tali Ruggero il N o r m a n n o (figuriamoci!) li aveva con­siderati e distribuiti ai suoi subalterni, che lo avevano aiuta­to a conquistare la Sicilia.

Ques ta causa r imase famosa negli annal i siciliani perché nel suo piccolo riassumeva tutti gli aspetti più tipici e salien-

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ti della situazione isolana. Anzitutto, l 'onnipotenza dei baro­ni e la loro solidarietà q u a n d o e rano in giuoco i titoli del lo­ro potere . Essi passavano la vita e d renavano i loro pat r imo­ni a contenders i un palmo di terra , un at tr ibuto nobiliare e la p r ecedenza in u n a cer imonia . Ma q u a n d o si t ra t tava di difendere la loro ind ipendenza dal po te re centrale, si chiu­devano a testuggine in un fronte comune , impar t endo dal­l'alto della loro casta l 'esempio della riottosità e del l 'omertà.

Secondo , l ' impossibili tà da p a r t e della Giustizia di sot­t rars i alla sugges t ione e alle press ioni ambienta l i . I magi­strati siciliani giuravano fedeltà al Re, ma a un Re che se ne stava a Madr id o a Napoli. Probabilmente a inclinare la loro bilancia in favore dei baroni non era tanto il sent imento del­la p ropr i a indifesa solitudine di fronte alle loro milizie pri­vate, q u a n t o i l r icat to di un mal in teso «patr iot t ismo». Per c o m u n e convincimento, l 'at tentato al dirit to del ba rone di­ventava l 'attentato alle «libertà» siciliane. Il suddito (perché di «cittadino» non si poteva parlare) o il villaggio che voleva sottrarsi alla soggezione feudale e scuotersi di dosso la ser­vitù della gleba pe r mettersi sotto la protezione della legge dello Stato commet teva un gesto di fellonìa p e r c h é faceva combutta con u n o straniero (il Re) contro un siciliano (il ba­rone).

Ques to convincimento si e ra formato in secoli di d ipen­denza coloniale. I l t r a t t a m e n t o r icevuto lo giustificava in par te , ma solo in par te . La Spagna n o n aveva sfruttato, co­me qualcuno dice, la Sicilia; al contrario, ci aveva rimesso di suo. Ma n o n aveva min imamente tentato di a m m o d e r n a r n e le s t ru t ture anche perché quel tipo di società feudale corri­spondeva al suo. Essa preferì lasciare le cose come stavano, il che accrebbe nelle plebi siciliane la totale sfiducia nei po­teri dello Stato. Q u a n d o al domin io spagnolo si sostituiro­no , d o p o i l fugace in te rmezzo p i emon te se , p r i m a quel lo dell'Austria e poi quello dei Borbone di Napoli, questo pro­cesso era o rma i irreversibile. I nuovi p a d r o n i t e n t a r o n o a più r iprese di r i d u r r e l 'onnipotenza baronale , come vedre-

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mo a propos i to di Caracciolo, ma si t rovarono di fronte al m u r o di u n a resistenza massiccia. Gli oppress i facevano combu t t a con gli oppresso r i in n o m e delle minacciate «li­bertà» siciliane, che in pratica e rano la libertà del ba rone di tenere il contadino in schiavitù. Il patriott ismo siciliano - in q u a l u n q u e forma si manifesti, separat is ta o au tonomis ta -n o n è mai stato che questo e seguita ad esserlo anche oggi: la trincea del privilegio e l'alibi, da par te di ch iunque deten­ga il potere , del diritto di abusarne .

Anche gl 'intellettuali ne e rano complici. La cul tura sici­liana era «area depressa» rispetto a quella italiana, che a sua volta era «area depressa» r ispetto a quella eu ropea . L'anal­fabetismo dilagava. L'Università di Messina era stata chiusa e quella di Catania distrut ta da un t e r remoto sulla fine del Seicento. Pa le rmo cercò d i approf i t t a rne pe r c r ea rne u n a sua propr ia , ma dovette r inunziarvi pe r l 'opposizione di Ca­tania, dove alla fine furono istituite tre scuole di Stato, ma riservate agli aristocratici. Così il circolo si era chiuso. Aven­do anche il monopol io della cultura, l 'aristocrazia non ave­va più nulla da temere pe r i suoi privilegi. Per i pochi talen­ti che riuscivano ugua lmente a svilupparsi, n o n c'era scam­po: o emigrare come fecero per esempio l 'architetto Juva ra e il musicista Scarlatti, o mettersi al servizio del potere .

L'avvocato Di Napoli che aveva fatto trionfare in t r ibuna­le il pr incipio dell 'assoluta sovranità feudale incarnava ap­p u n t o ques to t ipo d ' in te l le t tuale a l soldo dei ba ron i . N o n c'è da biasimarlo. Aveva studiato dai preti , che certo non gli avevano dato da leggere le ope re degl 'Illuministi . Ma anche se le avesse lette e avesse voluto farsi b a n d i t o r e dei loro princìpi, a chi si sarebbe rivolto? Non parl iamo dell ' interno dell 'isola, asso lu tamente impene t rab i le e so rdo a qualsiasi «messaggio» sociale. Ma nella stessa Palermo, che sapessero leggere e scrivere e quindi fossero in grado di capire, c'era­no sol tanto i ba ron i - e n o n tut t i - e i Mons ignor i , i quali avevano in m a n o le chiavi di qualsiasi p romoz ione econo­mica e sociale. Infatti Di Napol i g u a d a g n ò un mucchio di

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qua t t r in i , e d o p o m o r t o ebbe anche l 'onore d i un m o n u ­men to per il servigio reso ai padron i . Altri che si distinsero in queste forme di collaborazionismo ebbero in p remio il ti­tolo nobiliare. Le c ronache n o n regis t rano nomi d'intellet­tuali che denunziassero quest 'avvilente condizione e p ropo­nessero r imedi radicali. Forse ce ne furono, ma n o n ebbero n e a n c h e il t e m p o di espr imers i . Gli unici che r iusc i rono a farlo furono quelli che s eppe ro m a n t e n e r e le loro critiche en t ro i limiti della più stretta p rudenza . Il più audace fu Di Blasi che giunse a chiedere un ' imposta progressiva sul red­dito, ma in un l inguaggio da giurista assolutamente incom­prensibile alle masse. Natale mise in discussione la pena di mor te , ma avallò la tor tura . L'economista Sergio p r o p u g n ò le dot t r ine liberiste, ma tenendosi sull 'astratto. Più che voci siciliane, e rano echi del riformismo napole tano, che si spen-gevano sul m u r o della generale ignoranza.

Sia p u r lent issimo, qua lche m u t a m e n t o tut tavia avveniva anche sotto la crosta di questa società pietrificata. La Sicilia, come tutt i i paesi a r eg ime feudale, viveva quasi esclusiva­m e n t e di agricoltura. Non tut to era latifondo. C 'e rano an­che dei feudi modesti , i cui titolari non avevano altro lusso che il blasone e n o n campavano molto meglio dei contadini , di cui condividevano anche il livello intellettuale. Tuttavia la fetta più grossa era quella riparti ta t ra alcune diecine di fa­miglie, le cui p r o p r i e t à r a g g i u n g e v a n o d imens ion i da Texas, come quella del pr incipe Butera che, secondo Mack Smith, ne ricavava il dieci pe r cento dell ' intero reddi to sici­liano.

Questa ingiusta redistr ibuzione avrebbe anche po tu to es­sere u n a fortuna - come lo era per esempio in Lombard ia e in Toscana - perché consentiva l 'accumulo di capitale, che a sua volta poteva consentire gl 'investimenti e quindi il decol­lo industriale dell'isola. Ma il terr iero siciliano n o n aveva la mentali tà imprendi tor ia le di quello lombardo . Per lui la ric­chezza n o n era s t r u m e n t o di al tra e più g r a n d e ricchezza,

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ma solo di po te re e di fasto. Invece di r is iedere sulla terra , r isiedeva in città, un icamente inteso ai suoi impegn i di co­m a n d o e di rappresentanza .

Ques to p r o d u c e v a d u e conseguenze . L a p r i m a e ra u n cont inuo drenaggio del reddi to dalla sua vera e unica fonte - l ' agr icol tura - alla città col conseguen te i m p o v e r i m e n t o della campagna e dei suoi abitanti. La seconda era la forma­zione di u n a nuova categoria sociale: il r appresen tan te in lo­co del p a d r o n e assenteista, il gabellotto.

In Sicilia n o n c'era mezzadria . I l reg ime prevalente era quello dell'affitto, che dappr incipio era stato a breve termi­ne: in genere , un anno . Ma alla fine i p a d r o n i si e r ano ac­corti che il breve termine invogliava il contadino a praticare un 'agricol tura di rapina, intesa più a saccheggiare che a col­tivare i campi . Così si e r a n o in t rodot t i t e rmini più lunghi , dai t re ann i in su, che st imolavano a u n o sfrut tamento più razionale. Ques to p e r ò aveva ancora più bisogno della su­pervis ione del p a d r o n e che, oltre a ignora re tut to di agri­col tura , spesso n o n sapeva n e m m e n o dove fossero le sue t e r r e . Perciò prefer iva da re l ' intero lat ifondo in appa l to a qua l cuno che gli garant isse un cer to r edd i t o e se ne com­pensasse intascando il di più.

Nella storia dell 'isola, l 'avvento di questo nuovo perso­naggio r a p p r e s e n t a un fatto fondamenta le . Come tu t te le società a s t ru t tura feudale, la Sicilia non conosceva che d u e classi: il p a d r o n e e il servo. A differenza di tutte le altre città d ' E u r o p a , quelle siciliane n o n e r a n o riuscite a sv i luppare un vero e p ropr io ceto medio con una sua coscienza di clas­se. Vita mercant i le e art igiana ce n 'era poca. E quella poca ruotava, come la cultura, in torno al potere , cioè alla nobiltà, cui forniva u n a docile clientela. Per esempio, tutto il merca­to del g rano , che rappresen tava la principale risorsa dell'i­sola, era in mano a pochi grossisti, che ne facevano quel che volevano, spesso provocando coi loro incettamenti delle ca­restie artificiali pe r far rialzare i prezzi. Ma tut to ciò avveni­va col beneplacito del potere , di cui questo racket era solida-

le e complice. La città era insomma soltanto un centro mili­t a re e amminis t ra t ivo, n o n c h é il luogo di r i t rovo della no­biltà e la palestra dei suoi lussi e lustri e piaceri. A Palermo Goethe scoprì che sulle s t rade veniva lasciato lo sterco pe r fornire un soffice tappeto alle carrozze.dei nobili e nessuno se ne lamentava. Del resto, bastava gua rda re l 'architet tura: ciò che n o n era palazzo, era tugur io .

In Sicilia - e questo spiega molte cose -, la classe media si sv i luppò in c a m p a g n a , e il suo p r o t o t i p o fu a p p u n t o il gabel lo t to . E ra d i solito un e x - c o n t a d i n o segnalatosi agli occhi del p a d r o n e p e r par t icolar i capacità, o p p u r e un ca-pe ronzo lo di quel le squadracce di cui il b a r o n e si serviva come di milizie private. C o m u n q u e , un analfabeta, ma che aveva dato prove di zelo e di energia: un «duro», insomma. E tale infatti si rivelò. La sua comparsa n o n migliorò di cer­to le condizioni dei contadini , anzi le peggiorò . Anche per ­ché quasi s empre lontano, i l ba rone era molto più tolleran­te e bonar io : il Gattopardo n o n è un frutto della fantasia di Lampedusa .

Il gabellotto aveva ben altri artigli. Egli si mise n o n in po­sizione di contrasto, ma di concorrenza col p a d r o n e . Come suo vicario ne esercitava i diritti, ma por tandol i al sopruso sistematico. In tanto , essendo dei loro, conosceva molto me­glio i contadini e le loro malizie. Eppoi , doveva sfogare u n a lunga fame di dena ro e di autorità. C'è chi dice che la mafia n o n fu che il sindacato dei gabellotti, la loro segreta associa­zione di m u t u o soccorso pe r tenere in soggezione i contadi­ni e in r ispet to i p ropr ie ta r i . Non vogliamo adden t r a rc i in questo problema che ancora suscita polemiche a n o n finire. Probabi lmente la mafia è più antica (Titone dice che risale add i r i t tu ra ai saraceni) e a provocar la fu la p ro lunga ta as­senza di qualsiasi po te re centrale: una specie di rozzo auto­governo esercitato da privati . Ma n o n c'è dubbio che i ga­bellotti se l 'accaparrarono e le d iedero i quadr i .

Altrettanto indubitabile è che furono loro a precosti tuire i caratteri della borghesia siciliana, anche q u a n d o questa co-

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minciò a svilupparsi nelle città, pe r il semplice motivo che i gabellotti furono i pr imi non-nobili che po te rono da re ai lo­ro figli un ' is t ruzione e farne degli avvocati, dei medici, dei professori, dei magistrat i , ma s empre nel q u a d r o di quella società feudale , di cui essi avevano m u t u a t o dai b a r o n i la mentali tà e i vizi. Non pe r nulla la borghesia siciliana ha del t i tolo accademico la stessa cupid ig ia che i l b a r o n e mos t ra del titolo nobiliare. Non pe r nulla, da q u a n d o ha assunto i l po te re , lo esercita con gli stessi criteri corporativi . Non pe r nulla essa ostenta lo stesso at taccamento al privilegio, e pe r d i fender lo innalza il vessillo del patr iot t ismo siciliano con­t ro le in te r fe renze del lo Stato. I n s o m m a è u n a borghes ia che, pe r un vizio d 'origine, n o n ha potu to né saputo svolge­re la funzione economica e cul tura le delle a l t re borghes ie italiane. Gli uomini d'iniziativa e di talento ch'essa p roduce con meravigliosa fertilità sono tu t tora costretti a emigrare .

Verso la fine del secolo c 'erano stati d u e tentativi di riscossa. Del p r i m o fu protagonis ta , nel ' 73 , la plebe di Palermo, ri­do t t a alla fame da un raccolto a n d a t o male e forse a n c h e dalle speculazioni dei soliti grossisti. Ma p r o p r i o il suo an­d a m e n t o d imos t rò quale re te di omer tà , consapevoli o in­conscie, i ba ron i avevano saputo tessere. Essi detestavano il viceré Fogliani pe r qualche sua t imida manifestazione di de­mocrazia. Trattava con garbo anche la gente di «ceto ignobi­le», come scriveva con o r r o r e i l Villabianca, cioè di umi le condizione, e aveva tentato d ' impor re u n a piccola tassa sui consumi di lusso, che na tura lmente colpiva i ricchi. E p p u r e , q u a n d o venne la carestia, la plebe se la rifece con lui e lo co­strinse alla fuga. La città r imase in balìa degl ' insor t i che si avventarono, è vero, anche contro i baroni ; ma, privi com'e­r a n o d ' idee e di capi, non seppero sfruttare il successo. Ad emergere in quel t rambusto furono le «maestranze», cioè le corporaz ion i di arti e mestier i , unica forza popo l a r e orga­nizzata. Ma essa dimostrò subito il suo fondo conservatore, ch 'era poi il motivo pe r cui le autori tà l 'avevano sempre fa-

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vorita. Le «maestranze» e r a n o complici dei monopo l i per ­ché e rano un monopol io anch'esse. Nessuno poteva ot tene­re un pos to di lavoro qualificato senza i i pe rmesso della «maestranza» che diffìcilmente lo concedeva p e r r i d u r r e l'offerta di m a n o d o p e r a e tenere aiti i salari. Essa non difen­deva i diritti del lavoratore, ma soltanto i privilegi dei suoi consociati , e p e r ques to e ra r iconosciuta e p ro te t t a come p a r t e di un «sistema» che a p p u n t o sui privilegi s i basava, p rendeva ufficialmente par te alle cerimonie, e spesso assol­veva compiti di polizia ausiliaria.

Q u a n d o i ribelli si fu rono impadron i t i di Pa le rmo e ri­masero in balìa di se stessi, furono le maestranze che prese­ro la direzione di tut to perché e rano le uniche che sapesse­ro far funzionare i servizi. Ma i negozianti e gli artigiani che ne componevano il grosso si resero subito conto che, senza i baroni , andavano incontro al fallimento perché i baroni era­no l 'unica loro clientela (quando si dice i baroni s ' intende, è logico, anche gl ' impiegati, i clienti, i famigli dei baroni) . Es­si in t rodussero qualche r i forma t imidamente giustizialista, ma soffocarono nel sangue la rivolta e r ichiamarono i nobili forse sperando di o t tenere , in r icompensa del servigio, u n a maggiore partecipazione al potere . Ma furono presto delu­si. Una volta che po te rono d isporre delle forze militari man­date di rincalzo da Napoli, i baroni r ipresero in m a n o la si­tuazione.

Il secondo tentativo fu fatto dal viceré Domenico Carac­ciolo. Era un marchese napo le tano , ma nato in Spagna da m a d r e spagnola, e formatosi a Parigi e a L o n d r a , cioè alia scuola del l ' i l luminismo francese e del l iberalismo inglese. Già a Napoli si sentiva spaesato: la considerava un avanzo di Medio Evo. Pr ima di accet tare il governo della Sicilia, che sapeva ancora più a r re t ra ta , esitò un anno . I l personaggio era di rilievo in tut to: nei difetti non meno che nelle qualità. Era intell igente, colto, onesto e coraggioso. Ma le sue idee liberali si sposavano male a un t e m p e r a m e n t o autor i tar io , impaziente e talvolta perfino insolente. Era libero da tut to,

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ma n o n dai p reg iudiz i , e con t ro i nobili siciliani ne aveva molti: li considerava dei parassiti p repoten t i e intesi solo al­l'esteriorità. In u n a parola, li disprezzava ed era deciso a ri­d u r n e la protervia.

Ma i baroni avevano, pe r difendere i p ropr i privilegi, un istituto di cui e rano riusciti a fare la band ie ra del patriotti­smo siciliano: il Par lamento. Nel mito popolare esso passava pe r la t r incea delle «libertà» isolane nei confronti delle Po­tenze s t ran ie re che avevano via via d o m i n a t o la Sicilia. In realtà n o n era affatto così. Mai o quasi mai il Par lamento si­ciliano si era trovato in conflitto politico col p a d r o n e di tur­no . Le un i che sue bat tagl ie e r a n o s e m p r e state d i o r d i n e amministrat ivo e fiscale e si r iducevano a questo: impedi re le in ter ferenze del po te re cent ra le nelle sfere che i ba ron i consideravano di loro competenza e soprat tut to nella r ipar­tizione degli utili e degli oneri .

Esso era diviso, come quello prer ivoluzionario francese, in tre Camere o «bracci»: quello dei nobili, quello del clero, e quello delle città «demaniali», cioè poste sotto la giurisdi­zione del Re, e n o n di qualche ba rone . Era un Par lamento peripatetico, perché si r iuniva ora a Palermo, ora a Catania, ora a Messina, e in nessuna di queste t re città aveva u n a se­de fissa: a volte teneva le sue sessioni in palazzo reale, a vol­te in cattedrale, a volte anche in case private.

I l suo compi to p iù i m p o r t a n t e e ra quel lo di stabilire l ' ammonta re dei «donativi», e questa parola rappresentava i l trofeo di u n a delle sue p iù grosse, ma anche più inutili , vit torie. I «donativi» e r ano in real tà i contr ibut i che la Po­tenza occupante esigeva dalla Sicilia. Ma i baroni n o n li ave­vano mai accettati come tali. Li ch iamavano «donativi» co­me se si trattasse di un regalo, il che forniva loro buon i ar­goment i p e r d imos t r a r e con quan ta tenacia e successo di­fendevano la dignità dell'isola. Però li pagavano, o per me­glio d i re li facevano paga i e pe rché il meccanismo era que­sto: un Comitato pa r l amenta re imponeva a ciascuna città o villaggio la sua quota, ma la r ipart izione di questa quota fra

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i singoli contr ibuenti era affidata al feudatario locale o a u n a commissione di «notabili», e o g n u n o capisce cosa succedeva. Siccome in Sicilia po te re e ricchezza e rano sempre concen­trati nelle stesse mani in quan to l 'uno era fonte dell 'altra e viceversa, a fare le spese di questo sistema fiscale era il po­vero impotente .

I l Pa r l amen to n o n ostacolò Caracciolo, q u a n d o quest i decise di s o p p r i m e r e l ' Inquisizione: anche il «braccio» del clero approvò, perché quel t r ibunale faceva concorrenza ai suoi. P u r t r o p p o tale soppress ione ne c o m p o r t ò un 'a l t ra : quella del l ' immenso archivio in cui e rano compendia t i tutti i casi della Sicilia. La o rd inò il Re forse su pressione delle fa­miglie più in vista dell'isola, tu t te più o m e n o interessate a d isperdere le tracce di tanti delitti, soprusi e malversazioni. Ci vollero d u e giorni pe r consumare nel fuoco tut te quelle carte, e pe r la Storia fu u n a perdi ta grave.

Ma le cose cambia rono q u a n d o il Viceré attaccò il siste­ma dei privilegi alla base, cioè inva l idando il ve rde t to che aveva dato la vittoria a Di Napoli nella famosa causa sui di­ritti feudali. Il feudatar io, egli disse, n o n era che un «dele­gato» del Re, con cui pe r t an to non poteva metters i in con­correnza. Il Re non gli aveva mai dato facoltà di ar res tare e g iud icare i suoi vassalli p e r c h é ciò spet tava u n i c a m e n t e a lui, né tanto m e n o di a rmare u n a milizia personale.

Incoraggiato da questo battagliero at teggiamento, il ter­zo «braccio», quello delle città demaniali , presentò al Viceré la richiesta di un «catasto» delle p ropr i e t à feudali in m o d o che anche queste fossero soggette a u n a quota dei «donati­vi». Caracciolo, che probabi lmente aveva sollecitato la p ro ­posta, la fece sua, e i ba ron i sen t i rono che lì si giuocava la part i ta decisiva. Fin allora mai nessun Viceré era arrivato a tanto. Anche quelli che coi baroni si e rano trovati in conflit­to non lo avevano mai spinto al p u n t o di aizzare cont ro di essi al tre forze sociali. Avevano sempre prefer i to in ul t ima istanza appoggiarsi a loro e comprarsene la complicità rico­noscendoli come unici legittimi r appresen tan t i della Sicilia

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e lasciandogliela in appa l to . Ques to e ra il tacito pa t to che pe r secoli aveva regolato i r appor t i della nobiltà siciliana col p a d r o n e di t u r n o e le aveva consentito di fare dell'isola u n a sua clientela. Caracciolo vi contravveniva c r eando un con­flitto d ' interessi e di classi che r o m p e v a il circolo del l 'o­mertà . La richiesta delle città demanial i dimostrava che non tutta la Sicilia era dei baroni e pe r i baroni . Dimostrava che combat tere le «libertà» dei baroni n o n significava a t tentare a quella della Sicilia. Dimostrava che in Sicilia c 'erano delle forze interessate a r i du r r e la protervia dei baroni .

Pu r t roppo , fu Caracciolo stesso ad annul la re gli effetti di quel p r imo successo. Egli e ra capace di tener testa a tut to e a tutti, ma n o n alla p ropr ia lingua. Aveva perfet tamente ca­pito che questo famoso Par lamento siciliano, s trombazzato dai suoi esaltatori come il gemello e anzi il modello di quel­lo inglese, lungi dal r app resen ta re u n o s t rumento del p ro ­gresso, rappresentava la trincea del privilegio. Ma commise l ' e r rore di dirlo ape r t amen te , offendendo un mito che, sia p u r e a to r to , e ra p e n e t r a t o nella coscienza siciliana. N o n volle sentire di «donativi»; li chiamò «contributi» quali effet­t ivamente erano, e anche questo ferì il suscettibile nominali­smo isolano.

Ma lo sbaglio più grosso lo commise q u a n d o pre tese di sopp r imere o a lmeno r i d u r r e le feste di Santa Rosalia, pa­t rona della città. Aveva ragione pe rché il costo di quelle fe­ste, che si svolgevano in luglio, ma si r ipe tevano anche in gennaio e in ot tobre, incideva paurosamente sul bilancio di una città che non aveva di che provvedere neanche ai servi­zi p iù elementar i . Ma il popolo vi era così attaccato che mi­nacciò la rivolta. «O festa o testa» scrissero sulla por ta di ca­sa del Viceré, il quale dovette r imangiarsi l 'ordine e uscì da quella sconfìtta gravemente discreditato.

La delus ione lo esacerbò. Da b u o n illuminista, egli n o n credeva nelle libertà democrat iche , e anche pe r questo era tanto avverso al Par lamento . Ma era convinto che un asso­lut ismo efficiente e giustizialista avrebbe avuto l ' appoggio

delle masse. E invece o ra doveva convincers i che n o n e ra così: le masse p re fe r ivano le l umina r i e e i mor t a r e t t i p e r Santa Rosalia alle scuole e agli ospedali. Tentò di smantella­re i monopol i a cominciare da quelli delle «maestranze» or­d inando loro di aprirsi a tutti i lavoratori, e u r tò contro u n a insormontabi le resistenza passiva. Fece costruire un cimite­ro pe r impedi re l ' inumazione nelle chiese dove si sviluppa­vano fetori insopportabi l i . Ma la gente seguitò a seppell ire in chiesa i suoi mort i , istigata da pret i e becchini che su que­st 'uso facevano lauti affari. N o n suscitò consensi popo la r i n e m m e n o la tassa imposta sulle carrozze pe r f inanziare la pavimentazione delle s t rade. La tassa n o n colpiva che i ric­chi e sarebbe anda ta a beneficio anche dei poveri . Ma i po­veri vi r imasero indifferenti.

Nessuno saprà mai se le masse siciliane r imasero sorde alle r i forme di Caracciolo p e r incomprens ione o pe r sfidu­cia nelle sue capacità di realizzarle. C o m u n q u e il suo insuc­cesso d imos t rava che la col lusione fra aristocrazia e p lebe era a tutta prova e non lasciava spazio a forze riformistiche. I baroni , che alla Cor te di Napoli avevano i loro avvocati e complici, da t empo la bersagliavano di p reghie re e minacce pe rché li liberasse dei «villani e spregevoli modi del gover­nan te Caracciolo», cont ro cui n o n si stancavano di diffonde­re calunnie . Mobil i tarono perf ino i l p a d r e di re Ferd inan­do , Carlo I I I di Spagna. Ma forse fu lo stesso Caracciolo a sollecitare, pe r stanchezza e delusione, il p rop r io r ichiamo. Ques to n o n s i risolse tut tavia in un «si luramento» p e r c h é Caracciolo venne anzi nomina to Primo Ministro con facoltà di designare il p ropr io successore a Palermo.

Lo scelse nella pe r sona del pr incipe di Caramanico , uo­mo fornito di u n a personali tà meno incisiva, ma anche me­no angolosa, e anche lui intriso di cul tura francese e d ' idee illuministe. Caramanico non r innegò i l p r o g r a m m a del p re­decessore; si limitò a smussarne le p u n t e , e questo gli con­sentì di r a g g i u n g e r e qua lche r isul ta to . Fece ratif icare i l principio che il feudo era un' investi tura da par te del Re, cui

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quindi restava sottomesso, e con un miracolo di diplomazia o t tenne dal Par lamento l 'adesione di massima al catasto e a u n a più equa ripart izione degli oner i f iscal i . La rivoluzione francese e il rimescolio che provocò impedì la realizzazione di questi proget t i . Ma la loro esigenza era ormai riconosciu­ta e accettata.

La nobile, anche se malaccorta , bat taglia di Caracciolo, di cui Caramanico era stato il cont inuatore , n o n aveva rag­giunto g rand i risultati. La Sicilia restava pra t icamente qual era da secoli: u n a foresta pietrificata, una giungla di privile­gi e di monopol i , dove chi n o n e ra oppresso era oppresso­re , e viceversa. Però l ' impegno dei d u e Viceré e i loro r ap ­por t i e r ano serviti a lmeno a questo: a far capire alla Cor te di Napoli, la quale della Sicilia non si e ra mai ricordata, che la Sicilia c'era ed era così.

Questo aveva la sua importanza, ora che l'isola diventava i l rifugio di un Re, che in q u a r a n t a n n i di r egno n o n aveva mai n e m m e n o sentito il bisogno di andar la a vedere .

«Tutto qui mi r i p u g n a . I pre t i sono corrot t i , il popo lo sel­vaggio, la nobiltà infida» scriveva in u n a delle sue centomila lettere la regina Carolina, subito d o p o lo sbarco. Duran te la t raversa ta da Napol i , aveva sofferto un t r e m e n d o mal d i m a r e e l 'ul t imo na to le era mor to t ra le braccia. Pur senza conoscerla, aveva s e m p r e detes ta to la Sicilia, e il fatiscente palazzo Colli in cui l 'avevano alloggiata n o n era certo il p iù indicato p e r fargliela a m a r e . Ma sopra t tu t to sentiva che i l suo ascendente sul Re, e quindi la sua influenza politica, era in declino: «Non mi si consulta, neanche mi si ascolta, e so­no terr ibi lmente infelice».

F e r d i n a n d o aveva s e m p r e mal soppor t a to i l suo cattivo carat tere , ma in politica si fidava del suo giudizio, conside­randola degna figlia di Maria Teresa, e pra t icamente le ave­va lasciato fare tut to quello che voleva. Le aveva consenti to di r o m p e r e il pat to di famiglia che legava i Borbone di Na­poli a quelli di Spagna pe r trasferirli nell 'orbita dell'Austria,

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di l iqu idare il suo migl ior min is t ro , Tanucci , e di fare del suo favorito Acton il vero factotum del Regno. Ma ora aveva di che r impianger lo . Era stata lei a tirarsi addosso i francesi con quella disgraziata gue r r a preventiva e ad affidare il co­m a n d o dell 'esercito a Mack, che n o n aveva certo dimostrato g r a n genio s trategico. F e r d i n a n d o i n s o m m a n o n s i f idava più di lei e sembrava deciso a imbrigliarne il forsennato atti­vismo. Per questo poteva contare sull 'aiuto di Acton che, da q u a n d o aveva smesso di essere il favorito della Regina, e ra diventato il favorito suo.

Maria Carol ina si e ra s empre imposta con gl ' intr ighi di Cor te in cui era maestra , ma la Corte era r imasta a Napoli . Gli unici amici che l 'avevano seguita fin lì e rano l'ambascia­to r e inglese H a m i l t o n e sua mogl ie E m m a , coi qual i n o n aveva segreti. Gli Hamil ton e rano u n a strana coppia, in cui la mogl ie valeva, o a l m e n o contava, mol to più del mar i t o pe r via dei suoi legami con Nelson, l 'eroe nazionale inglese. E m m a si mos t rava nel la vita un 'a t t r i ce mol to migl iore di q u a n t o fosse stata sul palcoscenico, d o n d e proveniva . Da quan to se ne p u ò capire, e ra u n a mi tomane frigida, che sa­peva recitare anche la passione, q u a n d o serviva all'ambizio­ne . Come dominava il mar i to e l ' amante , così dominava la Regina fingendo u n a partecipazione senza riserve sia ai suoi entus iasmi che alle sue indignazioni . Le t resche di ques te d u e d o n n e esercitarono un peso nefasto sulla politica estera ed i n t e rna dei Bo rbone in ques to p e r i o d o , ma n o n s i p u ò negare che lo abbiano esercitato.

Dal canto loro, i siciliani avevano accolto i fuggiaschi con un calore in cui tuttavia n o n c'era ombra né di patriott ismo né di devozione a u n a dinastia, che n o n si e ra mai curata di loro. C'era solo la contentezza di essersi liberati da u n a posi­zione subal terna nei confronti di Napoli , di vedere Palermo promossa a capitale con la sua Corte e le cerimonie, le feste e i rituali di cui sempre le Corti si c i rcondano; e la speranza, da p a r t e dei ba ron i , d ' i r re t i re il Re e di farne il loro s t ru­mento .

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Ma queste attese e rano anda te deluse. Ferd inando susci­tava pa recch ie s impat ie p e r la sua cordial i tà e b o n o m i a . Aveva affidato a pr incipi siciliani d u e impor tan t i dicasteri , t rat tava tutti con affabilità, e si e ra affrettato a trasferirsi in u n a villa sul m a r e pe r sottrarsi alla moglie. Ma, con un ap­pannagg io r idot to al lumicino, aveva bandi to un regime di austerità, e come al solito si sfogava a caccia e a pesca.

La Regina invece si e ra fatta subito de tes tare pe r la sua a r roganza e petulanza. Essa n o n nascondeva il suo disprez­zo pe r i siciliani, anzi l 'ostentava con insigne malaccortezza, n o n par lava che di Napol i , e aveva formato u n a specie di «governo-ombra», fatto di adula tor i e di avventur ier i , p e r organizzare la riconquista.

Vedremo più tardi quale nefasta influenza vi esercitò. Per ora r ip rend iamo il filo degli avvenimenti .

CAPITOLO OTTAVO

LA REPUBBLICA PARTENOPEA

Abbiamo lasciato Napoli nel m o m e n t o in cui C h a m p i o n n e t vi en t rava . «La r ivoluzione è fatta - scrisse a Parigi -: un monarca di meno , u n a repubblica di più.» Infatti la Repub­blica era già stata proclamata, e alla sua presidenza era stato designato quell 'ex-fuoruscito Lauberg , che abbiamo già in­contrato a Milano fra i più irrequieti esponent i della sinistra democratica.

N o n fu u n a scelta fo r tuna ta . L a u b e r g n o n aveva nul la pe r piacere ai napoletani : né il n o m e che denunciava la sua origine tedesca, né il passato. Il popolo n o n lo considerava dei suoi perché era nobile, i nobili lo consideravano tradito­re pe r le sue idee, i preti lo consideravano apostata pe rché aveva det to messa e poi aveva gettato la tonaca alle ort iche pe r sposarsi. Per di più, aveva un cara t tere in t rans igente e violento, che l'esilio aveva reso ancora più aspro. «Cosa pos­siamo aspettarci da voi che avete t radi to anche Cristo?» gli disse la Principessa di Belmonte.

Ma il governo era composto da uomini seri e appassiona­ti, forse anche t roppo appassionati per essere dei buoni po­litici. Fra loro brillavano il giurista Mario Pagano, incaricato di e laborare la Costituzione, e Vincenzo Russo, un giovane ascetico do t t r ina r io , incapace di d i s t inguere fra u top ia e realtà, ma coraggioso e devoto alia causa.

Erano dei sognatori . Ma solo dei sognatori potevano ten­tare, in un Paese come quello, un esper imento come quello. La Costituzione fu il solito documen to accademico, ricalcato sul modello francese, che non fece né male né bene perché r imase solo u n a d ichiaraz ione di b u o n e in tenzioni . Ma fu

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sul piano dei problemi concreti che si vide insieme la buona fede e l ' inesperienza di questi improvvisati governanti . Essi esclusero dai pubblici uffici tutti coloro che avevano collabo­ra to col «tiranno». Il t i r anno era un Re che aveva regna to pe r vari decenni . E l 'epurazione quindi - come diceva giu­s t amen te Cuoco - , co lpendo coloro che avevano servito i l Re, colpiva coloro che avevano servito il Paese.

A questa p r ima misura, che na tura lmente non potè esse­re applicata ma irr i tò la pubblica op in ione , ne segui un'al­tra più logica, ma altret tanto difficile: lo smantel lamento del sistema feudale. Esso era incompatibi le con la democrazia, ma la sua l iquidazione ledeva vasti interessi, che andavano affrontati g r a d u a l m e n t e . I l p r i m o passo, l 'abolizione del maggiorascato, n o n incontrò forti contrasti . Ma q u a n d o fu annunzia ta una riforma agraria che distruggeva i latifondi e tutti i privilegi che vi e rano connessi, le resistenze s'irrigidi­rono e la battaglia si fece aspra.

A condur la sul p iano propagandist ico fu soprat tut to u n a donna , Eleonora De Fonseca Pimentel , editrice e direttr ice del giornale // monitore. Romana di origine portoghese, essa e r a v e n u t a a Napol i da sposa, c 'era r imas ta da vedova, e aveva tentato di lanciarvi un salotto intellettuale. Pu r t roppo la società napo l e t ana n o n consent iva quei ma t r imon i fra mondan i t à e cul tura che facevano la fortuna e lo sp lendore della società francese. Eleonora aveva invano cercato di fare t ra esse da ponte , e forse era stato propr io questo insucces­so a inasprirla contro un regime che lo rendeva impossibile. S'iscrisse alla massoneria, e di li scivolò nei circoli giacobini di cui d ivenne la ninfa Egeria. Era stata anche arrestata e, a quanto pare , solo per sbaglio rilasciata. // monitore se lo scri­veva quasi tutto da sé, c imentandosi in qualsiasi a rgomento di politica, di economia, di le t tera tura , di cos tume. La sua prosa arzigogolata e piena di svolazzi n o n rivela né origina­lità né profondi tà di pens ie ro . Forse nel suo i m p e g n o era mescolata anche u n a certa dose di femminile vanità: le pia­ceva essere la Madame Rolland di Napoli. Ma alcune cose le

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vide con più chiarezza degli uomini : pe r esempio l'inutilità di s t ampare libri e opuscoli di p ropedeu t ica rivoluzionaria in u n a l ingua i tal iana che le masse n o n conoscevano. Era u n a sognatr ice anch'essa, ma i l risveglio seppe affrontarlo con ammirevole dignità.

Per il nuovo regime, u n o dei più grossi incagli era la si­tuazione economica. Come al solito, i francesi avevano im­posto un forte t r ibuto pe r i l man ten imen to delle loro t rup­pe , e il governo n o n sapeva dove at t ingerlo pe rché il Re si era por ta to via la cassa. Championne t , che voleva aiutare la Repubblica, ma doveva anche accontentare l 'esigente Diret­tor io , consigliò a L a u b e r g di m a n d a r e u n a d e p u t a z i o n e a Parigi pe r spiegare la situazione e o t tenere facilitazioni. Gli ambasciatori par t i rono, ma a mezza strada furono raggiunti dalla notizia del s i luramento del loro prote t tore .

Championne t era caduto pe r un basso intrigo ordi to t ra un Commissar io ch'egli aveva al lontanato pe r le sue rube­rie, Faypoult, e il generale Macdonald che aspirava a p ren ­dere il suo posto. Costoro lo avevano denunzia to al Diretto­rio come venduto agl'italiani: un'accusa che, a p p e n a arriva­to a Parigi, lo por tò davanti al t r ibunale militare e poi in ga­lera. In seguito fu riabilitato, ma t roppo tardi: subito dopo , morì di c repacuore .

Così la Repubblica perse il suo più valido punte l lo p ro ­prio nel momento in cui ne aveva più bisogno: l'Austria era scesa in g u e r r a e i suoi eserciti si appres tavano a r iconqui­stare l'Italia. A Parigi gli ambasciatori furono accolti malissi­mo e b ruscamen te congedat i . R ien t r ando a Napoli , vi t ro­varono una situazione in rapido de te r ioramento . Sebbene il fronte italiano fosse ancora calmo, i francesi r agg ruppavano le loro t r u p p e sparpagliate nella penisola. Macdonald, p re ­vedendo di essere r ichiamato al nord , aveva abbandona to la città nelle man i di Faypoult, il p iù avido e infame di tutti i ladroni che quell 'esercito si era por ta to al seguito.

Ma c'era di peggio. La r ipresa delle ostilità aveva riani­mato i sentimenti filo-borbonici del popolino. Nella capitale

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si accendevano congiure. La più celebre fu quella che prese il nome di u n a donna , destinata - del tut to e r roneamen te -a p r e n d e r e posto accanto a Eleonora nella martirologia re ­pubblicana: Luisa Sanfelice. Questa signora era una testoli­na sventata che, andata sposa a un u o m o non m e n o sventa­to di lei, aveva dilapidato in mondan i t à e galanterie il patri­mon io di famiglia, pe r castigo e ra stata in te rna ta anche in un convento , e o ra viveva, d 'accordo col mar i to , facendosi m a n t e n e r e dai suoi amant i . U n o di essi, un cer to Baccher, convinto monarchico, aveva annoda to un complot to pe r im­padronirs i del forte di Sant 'Elmo e di là dare il via alla rivol­ta. Se ne confidò con Luisa. Ouesta se ne confidò con un al-tro suo amante , che a sua volta se ne confidò con lo storico Vincenzo Cuoco. E costui la indusse a denunz ia re la tresca, anzi pa re che redigesse di suo p u g n o la delazione. Baccher fu messo a m o r t e , e Luisa si t rovò p romossa a G iovanna d'Arco della Repubblica pa r tenopea .

Ma la minaccia più g rande veniva dalle province dell'in­t e rno , dove il nuovo reg ime n o n era ancora riuscito ad af­fermarsi . C o m e negli Stati pontifici, anche qui la legge la de t t avano i br igant i che si t r inceravano d ie t ro l'alibi della fedeltà al t rono e all 'altare. Michele Pezza det to Fra Diavolo terrorizzava Itri e i suoi d in torn i con gesta in cui è diffìcile r iconoscere il fantasioso e cavalleresco protagonis ta dell 'o­pera lirica che a lui s'ispira e ne por ta il nome. In realtà era u n o scellerato mozzates te , e lo r imase anche d o p o che re Ferd inando l'ebbe nominato colonnello come il suo compa­re M a m m o n e che, a d i re di Colletta, usava pe r boccali i te­schi delle sue vittime.

Questo miscuglio di spirito protestatario contro qualsiasi novità e di uzzolo di saccheggio si chiamava sanfedismo per­ché p r e t e n d e v a d ' ispirarsi alla Santa Fede, e forse n o n sa­rebbe a p p r o d a t o a nulla di conclusivo, se ad a s sumerne le r ed in i n o n fosse sop ravvenu to un n u o v o pe r sonagg io d i ben altro prestigio e statura. Fabrizio Ruffo era un Principe calabrese d iven ta to Card ina l e grazie alla p ro t ez ione di

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Pio VI, che ne aveva fatto il suo tesoriere. Stando a certe vo­ci, il tesoro di cui si e ra più preoccupa to era quello suo. Ci dev'essere qualcosa di vero pe rché a un certo p u n t o la cari­ca gli fu tolta, sebbene vi avesse dato prove eccellenti. Tor­na to a Napol i , e ra d iven ta to , grazie al suo n o m e , alla sua presenza, ai suoi modi di g ran signore, u n a delle f igure più in vista della Corte, senza tuttavia scadere al r ango di corti­giano. Non si pe rdeva in intrighi e pettegolezzi. Le sue pa­role contavano anche perché ne pronunciava poche. Q u a n ­do il Re e la Regina par t i rono pe r Palermo, egli li seguì, ma controvoglia, pe rché quella fuga gli sembrava un disonore , e lo era. Infatti n o n ci r imase che pochi giorni . Alla fine di genna io disse alla Regina che sarebbe to rna to in Calabria, ch 'era quasi pe r intero feudo della sua famiglia, pe r accen­dervi la rivolta, ma n o n chiese aiuti né di uomin i né di de­n a r o . Attraversò lo s tret to con ot to servitori . E ai p r imi di febbraio aveva già ai suoi o r d i n i un piccolo eserci to , che ogni giorno s'ingrossava di nuove reclute.

La storiografia r i sorgimentale ha d ip in to a fosche t inte questo brigante porporato, p r e sen tando lo come un Fra ' Dia­volo maggiora to . Ma n o n è così. Inca rnaz ione del vecchio r eg ime con tu t te le sue ot tusi tà e ingiustizie, Ruffo lottava pe r u n a causa che n o n meri ta simpatie e che la Storia aveva già condanna to . Ma l ' uomo n o n e ra da bu t t a r via, come si vedrà al t e rmine della sua impresa. Cer tamente i contadini calabresi gli corsero incon t ro affascinati dal suo n o m e , fa­mosissimo nella contrada, e dalle sue seriche vesti cardinali­zie che non smise mai. Ma egli seppe organizzarli e t r a d u r r e in spirito di crociata le loro torbide smanie di rapina. Da ve­ro prelato cattolico, senza illusioni sulla u m a n a na tura , pat­teggiò con tutti, anche coi p iù infami e sanguinar i briganti , p u r di at t rar l i dalla sua pa r te . E q u a n d o n o n potè evitarli, finse di n o n vederne i delitti, i soprusi, le ruber ie . Ma riuscì a t e n e r e in p u g n o fino in fondo la sua o rda , e a c o n d u r l a dove voleva.

Ingigant i ta dalla leggenda, l'eco delle sue gesta arr ivò a

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Napoli in un m o m e n t o par t icolarmente delicato. I francesi, che n o n avevano n e m m e n o riconosciuto la Repubblica, ave­vano p rovoca to u n a crisi di gove rno e a r r e s t a to lo stesso Lauberg che poi, rilasciato, r iprese la via dell'esilio. Ma i na­poletani tenevano testa alle loro p repo tenze . Non si faceva­no illusioni. Anch'essi sapevano che Macdona ld con le sue t r u p p e era in procinto di abbandonar l i pe r n o n farsi tagliar fuori dagli austriaci già penetra t i in Lombardia . Ma, a diffe­r enza dei lo ro colleghi cisalpini fuggiti al segui to dei loro pro te t tor i , e r ano decisi a res tare e a lottare fino all 'ult imo. Le loro leggi con t ro i l sistema feudale cadevano nel vuoto pe r mancanza di s t rument i con cui applicarle; ma essi conti­nuavano a emanar le , e Eleonora Pimentel a esaltarle nel suo giornale . Per c o r r e r d ie t ro al loro sogni di pa l ingenesi so­ciale, avevano dimenticato di organizzare i servizi necessari a m a n d a r e avanti la barca. Non avevano n e m m e n o u n a po­lizia efficiente. E p p u r e , r iuscirono a levare t re corpi di spe­dizione da lanciare cont ro l'Armata cristiana della Santa Fede, come ormai si chiamavano le bande di Ruffo. Costui si t rovò di fronte a un avversario del suo stesso calibro: il duca Cara-fa, e la guerrigl ia diventò g u e r r a aper ta , a lmeno finché Ca-rafa potè d i spor re anche di un r epa r to francese. Ma ai pri­mi di apri le questo venne r ichiamato: Macdonald aveva ri­cevuto l 'ordine di risalire verso Genova, a b b a n d o n a n d o Na­poli al suo destino.

La popolazione ne aveva avuto sentore, ed era inquieta. Tutti capivano che il ritiro dei francesi avrebbe dato il via al­le forze monarch iche e reazionarie che avevano seguitato a t r a m a r e ne l l 'ombra . Per ca lmare gli animi e nascondere le sue intenzioni, Macdonald si presentò alla festa di San Gen­na ro pe r assistere al consueto miracolo. Ma stavolta il Santo si most rò reni tente , e la folla ne fu p ro fondamente turbata, vedendovi un segno di cattivo augur io . «Allora - dice il me­morialista francese Thiébaul t , p resen te alla scena - il capo del gove rno , livido, si avvicinò al ca rd ina le Zur lo , gli con­ficcò nel costato la canna della pistola e gli soffiò nell 'orec-

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chio: "Se il miracolo n o n avviene immedia tamente , siete un u o m o morto!" I l Cardinale ne fu ta lmente at terr i to che n o n riuscì ad azionare il trucco - se trucco c'era -, e a quan to pa­re ne incaricò uno dei suoi accoliti. C o m u n q u e , il sangue si mise a bollire, e la Repubblica pa r t enopea si riaccreditò agli occhi dei suoi sudditi.»

Tre giorni d o p o i francesi cominciarono a evacuare Na­poli , lasciando solo u n a g u a r n i g i o n e d i pochi u o m i n i nel forte di Sant 'Elmo. La Repubblica fu sola. Ma qui a p p u n t o si vide in che legno e rano intagliati i suoi uomini . Alcuni ca­pi br igant i le offersero i p r o p r i servigi p e r f e rmare Ruffo. Ma il governo rispose che n o n scendeva a pat t i col deli t to. N o n scendeva a patt i con nulla e con nessuno. Fino in fon­do rimase fedele a se stesso.

Per n o n farne p e r d e r e il filo al lettore, seguiamone la vi­cenda fino all 'epilogo.

L'emergenza p o r t ò alla ribalta un al tro protagonis ta : l 'am­miragl io Caracciolo. Anche lui, come Ruffo, aveva seguito di malavoglia e con un senso di vergogna i sovrani a Paler­mo. Ma anche lui n o n c'era r imasto che pochi giorni. Come ufficiale, si sentiva umiliato n o n soltanto da quella fuga, ma anche dalla diffidenza che la Regina nutr iva pe r lui e dal di­sprezzo che Nelson ostentava pe r la fiotta napole tana . Non e ra un democra t i co , ma e ra un pa t r io t a e un u o m o orgo­glioso. Con la scusa di r ego la re i suoi affari pr ivat i , si fece d a r e il p e r m e s s o di t o r n a r e a Napol i , dove fu accolto con grandi onor i e invitato a collaborare con la Repubblica. Per un pezzo aveva rifiutato. Ma q u a n d o u n a flottiglia coman­da ta da Nelson sbarcò a Procida e se ne i m p a d r o n ì , lanciò un proc lama in cui accusava gl'inglesi di aver provocato la rovina dei sovrani obbligandoli alla fuga e assunse il coman­do delle navi scampate all 'affondamento ord ina to da Pigna-telli. C o n quelle carcasse affrontò i vascelli br i tannic i e ri­por tò anche qualche successo, ma n o n riuscì a impedi re che anche Capri e Ischia cadessero in m a n o al nemico. O r a Na-

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poli e ra chiusa sia dal la p a r t e del m a r e che dal la p a r t e di t e r ra , dove Ruffo seguitava ad avanzare , affiancato dai re ­par t i del l 'eserci to rego la re che i l Re gli aveva m a n d a t o di rincalzo.

In città, b e n lavorat i dalla p r o p a g a n d a monarch ica , i «lazzaroni» scesero pe r strada, e la caccia al giacobino rico­minciò. Sugli o r ror i che vennero perpet ra t i , le testimonian­ze sono unanimi . Ruffo, che si e ra fermato, chiese al Re d'in­tervenire con un messaggio pe r far cessare il massacro. Ri­spose la Regina: «Il ve rmina io r ivoluzionar io dev 'essere estirpato». Allora i l Card ina le , a g e n d o d'iniziativa, m a n d ò degli emissari a t ra t tare un armistizio con gli esponent i re­pubblicani asserragliati in Castel Nuovo e in Castel del l 'O-vo. Essi n o n potevano ormai o p p o r r e più nessuna resisten­za. E quindi è chiaro che il Cardinale voleva soltanto offrir loro u n o scampo.

La resa fu firmata il 23 giugno, recava l'avallo dell 'ammi­raglio inglese Foote, del genera le francese Méjean coman­dan te della piccola guarn ig ione r imasta a Sant 'Elmo, e de­gli ambasciatori russo e turco . Ai repubbl icani si garant iva la vita e la libertà a Napoli, o p p u r e il permesso d' imbarcarsi pe r Tolone. Ma l ' indomani , accompagnato dagli Hamil ton, sopragg iunse con la sua nave Nelson, cui la Regina aveva raccomanda to di «trattare i napole tan i come gli abitanti di u n a città inglese in rivolta». Fece u n a scenata a Ruffo accu­sandolo di aver abusato dei suoi poter i , ma il Cardinale gli t e n n e testa. E m o r a l m e n t e , da quel lo scontro , uscì meglio dell 'Ammiraglio che, q u a n d o non faceva l 'ammiraglio, face­va soltanto delle sciocchezze.

Forse l'inglese si sarebbe arreso, se ad aizzarlo n o n ci fos­se stata Emma , che si sentiva investita della pa r t e di vendi­catrice affidatale dalla Regina. Non si sa se essa abbia messo lo z a m p i n o a n c h e nel p r o d i t o r i o c o m p r o m e s s o , p r o p o s t o da suo mar i to , che decise la sorte di quegli sventurat i . Ma, da ta l 'assoluta null i tà de l l ' uomo, è p iù che probabi le . Ha­milton scrisse a Ruffo che Nelson accettava la capitolazione.

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Ruffo l ' interpretò come un riconoscimento delle condizioni, e ne informò i repubblicani , che consegnarono la loro for­tezza e t raghet ta rono sulle navi che dovevano portarli a To­lone. Le navi vennero immedia tamente sequestrate ed essi gettati nelle stive: Nelson aveva in terpre ta to la loro resa co­me resa a discrezione.

A i naugu ra r e il massacro fu Caracciolo. Ruffo gli offrì il destro di sottrarvisi con la fuga. Ma l 'Ammiraglio, forse dif­f idando di lui, r ifiutò, venne ca t tu ra to , condo t to a b o r d o della nave di Nelson e giudicato pe r direttissima da u n a cor­te marziale inglese. Il processo fu u n a semplice formalità e si concluse, secondo le istruzioni del Re, con la c o n d a n n a a morte . L'infelice venne impiccato sul posto, e il suo cadave­re gettato in mare . E m m a Hamil ton, dicono, volle assistere all 'esecuzione da una barca pe r po te rne riferire tutti i detta­gli alla sua diletta amica Maria Carolina.

Per un pezzo la forca non ebbe requie . Secondo Cuoco, che la scansò pe r miracolo, le vittime furono centodicianno-ve, fra le quali tutti gli uomini migliori della Repubblica: Pa­gano, Cirillo, Ciaja eccetera. Ma Cuoco non contava tutti co­loro che vennero trucidati alla spicciolata dalla plebaglia. Fu una delle più orribili e ignobili feste di sangue che si fossero mai viste. I giustiziandi venivano condotti al patibolo eret to sulla pubblica piazza fra d u e file di folla esul tante e insul­tante, eppoi sospesi con la corda al collo a un cavo oscillante in m o d o che la loro agonia durasse più a lungo. Tutti mori­rono con g rande coraggio e dignità. Ma forse lo spettacolo di p iù g r a n d e fermezza e nobiltà lo fornì Eleonora Pimen-tel, le cui ult ime parole furono un verso di Virgilio. Invano Ruffo invocò u n a pa ro la di c lemenza da pa r t e del Re. Sul patibolo salì anche un ragazzo di sedici anni , Filippo Mari­ni, reo di aver decapitato la statua di re Carlo, padre di Fer­d inando . E infine fu la volta di Luisa Sanfelice. Essa riuscì a guadagna re qualche mese fingendosi incinta, e in suo aiuto si mosse anche la mogl ie del Pr inc ipe Ered i ta r io . Ques ta aveva avuto p r o p r i o di quei t empi un bambino , e q u a n d o

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Ferd inando venne a vederlo, trovò nella culla una supplica. Ma accortosi che si trattava della Sanfelice, la gettò via stizzi­to insieme alla c rea tura che aveva preso tra le braccia. E co­sì anche questa povera d o n n a fu avviata a un martir io asso­lu tamente sproporzionato non solo alle sue colpe, ma anche alla sua statura.

Carafa teneva ancora le sue posizioni a Pescara. Per veni­re a capo della sua resistenza, anche con lui si r icorse a un inganno , ch 'ebbe pe r protagonista u n o dei più scellerati bri­ganti abruzzesi, Pronio . Anche questo episodio n o n è stato mai messo del tutto in chiaro. Il pat to era che Carafa avreb­be abbandona to Pescara con la garanzia di un pacifico ritiro delle sue t r u p p e verso n o r d pe r r iunirs i a quel le francesi. Concluso l 'accordo, pranzava con Pronio, q u a n d o la polve­r ie ra della cit tadella saltò p r o v o c a n d o c inquecen to mor t i . Pare che l 'at tentato fosse stato compiu to da alcuni emissari del bandi to . C o m u n q u e , costui lo attribuì al Generale accu­sandolo di aver contravvenuto ai patti e, arrestatolo seduta s tante lo m a n d ò a Napol i , dove v e n n e i m m e d i a t a m e n t e processato e condanna to a mor te ma, t rat tandosi di un Du­ca, il t r ibunale gli usò il r igua rdo di farlo decapi tare invece che impiccare. Il Generale esigette anche di essere steso su­pino e n o n bocconi, in m o d o da poter gua rda re la scure. E al m o m e n t o in cui il boia la librava in alto, gridò: «Dite alla Regina com'è mor to Carafa!», pe r sottolineare che a lei an­dava attribuito tutto quel massacro.

L'ultimo ritocco a questa tragica odissea lo det te il gene­rale francese Méjean, che pe r dena ro consegnò ai borbonici non solo le sue piazzeforti, ma anche i repubblicani che vi si e r a n o rifugiati mimet izzandos i sotto la divisa mil i tare . Q u a n d o to rnò a Parigi, Championne t lo denunc iò al tribu­nale di guer ra . L'assoluzione aveva sempre fatto c redere che l'accusa n o n fosse stata provata. Invece dagli ultimi accerta­ment i risulta che lo fu, in pieno. Ma Méjean fu ugua lmente r iassunto in servizio: in fondo, n o n aveva vendu to che de­gl'italiani.

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I più fortunati furono quelli che languivano nelle galere. Fra di essi c ' e rano lo storico Vincenzo Cuoco e i musicisti Cimarosa e Paisiello. Dal fondo delle loro sordide celle po­tevano udire il r i tornello scandito in coro dai popolani esul­tant i (chissà mai di che): «A lu suono de li violini - s e m p r e mor te ai giacobbini!»

CAPITOLO NONO

IL '99

Per seguire le vicende di Napoli, abbiamo un po ' sopravan­zato gli avvenimenti . R ip rend iamone d u n q u e il filo.

Visto che la g u e r r a e ra inevitabile, e ra stata la Francia a dichiararla all'Austria il 2 febbraio (del '99) p r ima che i suoi eserciti si congiungessero con quelli russi. Sul fronte tede­sco le ostilità cominc ia rono subito. Quel lo i taliano gode t te ancora un mese di calma, di cui i francesi prof i t tarono pe r l iquidare sommar iamen te le poche p e n d e n z e ancora in so­speso.

Anzitutto, il Piemonte dove, abbiamo det to, era stata p ro ­clamata la Repubblica. I lombardi avevano subito avanzato il p roget to di annet ter la alla Cisalpina. Ma esso incontrò l'o­stilità n o n solo di Parigi, ma anche di Tor ino , t imorosa di d iventare un ' append ice di Milano. I particolarismi regiona­li seguitavano ad essere più forti dello slancio uni tar io. Piut­tosto che u n a d ipendenza lombarda , gli stessi repubbl icani prefer i rono fare del loro Piemonte una provincia francese e inviarono una richiesta in questo senso al Direttorio, che in­disse un plebiscito n a t u r a l m e n t e t ruccato . Di p r o c e d e r e a un 'anness ione ufficiale n o n ci fu il t empo. Ma l 'amministra­zione fu affidata a un Commissario che aveva i poter i di un prefet to, e la frontiera con la Francia fu p ra t i camente sop­pressa.

Poi fu la volta della Toscana. II g r a n d u c a F e r d i n a n d o n o n aveva la personal i tà , l ' impegno , lo zelo r i formatore di suo p a d r e Leopo ldo . Ma e ra un sovrano d i g r a n d e accor­tezza e corret tezza, equi l ibrato e u m a n o . Fin da l l ' appar i re del p r i m o eserci to francese, aveva d ich ia ra to la p r o p r i a

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neutral i tà e l'aveva scrupolosamente osservata, nonos tan te le sollecitazioni di suo fratello l ' I m p e r a t o r e d 'Austr ia e di sua zia, Maria Carolina di Napoli, ch 'era anche sua suocera pe r ché ne aveva sposata u n a figlia. Abbiamo già de t to con quan ta amicizia aveva accolto Napoleone q u a n d o era sceso a s t r a p p a r e Livorno agl ' inglesi . La sua polizia n o n faceva ostacolo all 'alluvione di agenti della Cisalpina e ne tollerava la p r o p a g a n d a repubblicana. Non aveva bat tuto ciglio nem­m e n o alla sovversione del reg ime di Lucca, fin allora Stato i n d i p e n d e n t e , che aveva dovu to ist i tuire un governo-fan­toccio rad iocomanda to da Parigi. E aveva imbrigliato le di­mostrazioni popolar i a favore del Papa, q u a n d o questi e ra stato scacciato da Roma.

Ma n e m m e n o questo bastò a salvarlo. Alla fine di marzo, q u a n d o gli eserciti austriaci discendevano l'Adige, i francesi discesero gli Appenn in i e p rocede t te ro all 'occupazione del Granducato . Test imone oculare, l'amica di Alfieri, Contessa d'Albany, scrisse che a Firenze essi t rovarono strade e piazze deserte: «A par te qualche canaglia, nessuno ha manifestato in loro favore». F e r d i n a n d o n o n si mosse, convinto che lo avrebbero lasciato sul t rono . Invece lo invi tarono, sia p u r e con tut t i i r i gua rd i , ad a n d a r s e n e . Part ì quasi senza baga­glio. Al m o m e n t o di salire in carrozza si avvide che t ra gli effetti personal i gli avevano messo u n a M a d o n n a del Tre­cento. «Questa n o n è mia; è della nazione» disse rest i tuen­dola al maggiordomo. Nel proclama di addio che lasciava ai sudditi , diceva ch'essi gli avrebbero dato prova di lealtà e di affetto so t tomet tendos i agli o rd in i dei nuov i p a d r o n i . La moglie dell 'ambasciatore francese Reinhard t scrisse: «E par­tito in modo da far sentire a disagio noi che restiamo».

La p roc lamaz ione della Repubbl ica fu saluta ta dai f io­ren t in i con qua lche festa, ma senza g r a n d i en tus iasmi . I l giacobinismo in Toscana e ia debolissimo pe rché l 'illumina­to e benevolo regime dei Lorena gli aveva fornito poco con­cime. Per di più i commissari francesi i r r i tarono subito il te­nace spirito munic ipale di Firenze e il suo a t taccamento al

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pat r imonio artistico, bu t tandosene al saccheggio. «Vediamo il palazzo g r a n d u c a l e vuotars i r a p i d a m e n t e dacché le sue chiavi sono nelle mani di questi barbari ladroni» scriveva la stessa signora Reinhardt . Anche qui i pochi patrioti che ave­vano salutato i francesi come «liberatori» venivano conside­rati dalla ci t tadinanza complici della rapina , e la loro causa ne guadagnò solo in impopolari tà .

Molte cose frattanto e rano ma tu ra t e anche nella Cisalpina, cui dobbiamo per un m o m e n t o to rnare .

Sebbene fosse u n o Stato, come oggi si direbbe, «a sovra­nità limitata», anzi limitatissima, essa e ra p u r s e m p r e u n o Stato, e come tale pretese di t ra t tare d i re t tamente con Pari­gi. Il Direttorio non aveva fatto sfoggio di generosità. Aveva imposto che a tutte le gue r re in cui la Francia si fosse trova­ta coinvolta, la Cisalpina contr ibuisse con un esercito di 30.000 uomini e che al man ten imen to dei 25.000 francesi di guarn ig ione nel suo terr i tor io provvedesse con un annua le s tanziamento di 18 milioni. Ma il pa r lamento milanese, che doveva ratificare il t rat tato, lo contestò: le finanze della Re­pubblica, disse, non e rano in g rado di far fronte a un simile gravame.

Questa resistenza irri tò Parigi che decise di sostituire gli u o m i n i al p o t e r e con altr i p iù docili e maneggevol i . Qu i pe rò si vide quan to anche i francesi fossero tra loro discor­di. L'ambasciatore Trouvé era pe r un governo di moderat i ; i l c o m a n d a n t e mil i tare , B r u n e , era p e r i democra t ic i p iù avanzati. Dappr ima vinse Trouvé, che con un colpo di Stato fece nomina re un nuovo Direttorio (il governo si chiamava così anche a Milano) con poter i amplificati a spese di quelli del pa r lamento . Poi B r u n e riuscì a farlo r ichiamare e sosti­tuire con Fouché - il futuro capo della polizia di Napoleo­ne - con cui realizzò un secondo colpo di Stato che rimise in sella i democratici . Poco d o p o pe rò anche B r u n e fu richia­mato e sostituito da Jouber t , che con un terzo colpo di Stato restituì il po tere ai moderat i .

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Non vogliamo affliggere, col dettagliato resoconto delle successive crisi di governo, un lettore già abbastanza afflitto da quelle attuali. Ci basta avergli fatto capire t ra quali diffi­coltà agivano gli uomini della Cisalpina, alla mercé di un pa­d rone che, dilaniato dalle sue interne dissidenze, si contrad­diceva ad ogni passo, e solo in u n a cosa si mostrava coerente e senza ten tennament i : nel saccheggio. Le finanze, grazie ai pesanti prelievi che vi operavano i francesi, e r ano in disse­sto: la gestione del p r imo anno si era conclusa con un disa­vanzo di quasi 35 milioni. La vecchia burocrazia austriacan­te, invece di collaborare, creava intoppi. Per sottrarle alle re­quisizioni, i contadini imboscavano le der ra te provocando il ver t iginoso a u m e n t o dei prezzi . Ma più grave di tu t to e ra l'impossibilità di un p r o g r a m m a politico conseguente.

Per i democratici, che p u r con la loro inesperienza e po­chezza ne costituivano la forza nuova e t raente , la Cisalpina doveva r a p p r e s e n t a r e l ' e lemento unificatore, il polo di at­trazione di tut te le altre Repubbliche italiane che si veniva­no via via cos t i tuendo . E infatti, se n o n fosse stata ques to , n o n sarebbe stata che un regime di Quisling al servizio del­l ' invasore. Perciò, ora che i francesi avevano sbancato i Sa­voia, il G r a n d u c a di Toscana, il Papa e i Borbone , Milano cercò di abbozzare u n a sua azione diplomatica allacciando relazioni con Torino, Firenze, Roma e Napoli . Ma i francesi b loccarono implacabi lmente questi tentativi , d i m o s t r a n d o in maniera solare ch'essi non e rano affatto venuti a l iberare l'Italia e a farne u n a nazione ind ipenden te , anzi intendeva­no impedirgl ie lo nel t imore - n o n del tu t to infondato , del resto - che un ' I ta l ia uni ta , anche se repubbl icana e d e m o ­cratica, sarebbe stata un vassallo meno docile di una galassia d ' impotent i staterelli.

Non meglio, anzi molto peggio, andavano le cose nella Re­pubblica Romana, la cui seconda versione ricalcava scrupo­losamente l e o r m e della p r i m a , anche p e r c h é n o n poteva contare n e m m e n o su un ceto borghese abbastanza evoluto.

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Ad appogg ia re il nuovo regime, d o p o il t ragicomico inter­mezzo dell 'occupazione napole tana , n o n furono che poche centinaia di persone , fra cui i profittatori facevano aggio su­gl'idealisti, senza nessun seguito nel popolo , che i suoi umo­ri li aveva dimostrati con le sue calorose accoglienze a Ferdi­n a n d o . I loro po te r i e r ano ancora più limitati di quelli dei loro colleghi della Cisalpina in q u a n t o sia i m e m b r i del «Consolato» che quelli del «Tribunato», come pomposamen­te si chiamavano il governo e il pa r lamento , e rano nominat i dal comandan t e francese, e i loro band i e discorsi non var­cavano le m u r a della città. Fuori di essa, e ra un caos, in cui l 'unico e lemento d 'ord ine era rappresen ta to dai briganti: in nome della Santa Fede e con l'avallo dei pre t i che benedice­vano le loro imprese, M a m m o n e in Abruzzo e Sciabolone in Ciociaria estorcevano tributi e tagliavano teste.

Questo era pressappoco il quad ro della penisola nel mo­mento in cui vi calavano gli eserciti austriaci.

Era la metà di marzo del '99. Per occupare gli Stati del cen­t ro Italia, i francesi avevano sparpagl ia to le loro t r u p p e , e l ' e r ro re gli costò caro . P r ima di averle r iun i t e , i l loro co­m a n d a n t e Moreau fu ba t tu to a più r iprese , e l 'unico capo­saldo che riuscì a d i fendere fu Genova. Lombard ia , Emilia e P iemonte cadde ro nelle mani degli austro-russi . E anche qui la reaz ione n o n t rovò res is tenze da p a r t e del p o p o l o , che anzi, alla par tenza dei francesi, aveva già p rovveduto a l iquidare il r eg ime repubbl icano e i suoi esponent i . Quell i lombardi non subirono la sorte dei loro colleghi napoletani perché po te rono mettersi in salvo oltre i confini ch 'e rano a d u e passi o seguire le t ruppe francesi nella loro ritirata. Ma quelli che caddero nelle mani del conte Cocastelli cui l'Au­stria aveva dato in appal to la rappresaglia finirono in galera o furono depor ta t i in Dalmazia.

Ma in P iemonte , p r i m a che gli austr iaci vi a r r ivassero , l ' insurrezione popola re cont ro la Repubblica d ivampò, ca­peggia ta da p re t i e da monarch ic i . U n a b a n d a ch iamata

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Massa cristiana e comanda ta da un certo Brandaluccioni, che poi fu onora to come un patriota, si distinse nei saccheggi e nei massacri. I francesi, p r ima di ritirarsi, r isposero con al­t r e t t an ta violenza, e i r epubbl ican i che n o n m o r i r o n o p e r m a n o dei rivoltosi si t rovarono coinvolti nelle responsabilità della rappresagl ia . Il caos era a l imenta to dal contras to fra gli alleati. I russi volevano l ' immediata restaurazione di Car­lo Emanuele , m e n t r e gli austriaci la r i tardavano pe r potersi p r ima assicurare qualche guadagno terri toriale. I l governo provvisorio assunto da T h a o n di Revel in nome del Re non aveva poteri , e tanto m e n o quello di frenare le violenze. Ma anche qui si r ipeteva il fenomeno, che già si era visto a Na­poli, delle masse popolar i in combut ta con la reazione più retriva contro la borghesia democrat ica e unitaria.

I l gene ra l e Macdona ld , che da Napol i risaliva verso il n o r d pe r r icongiungersi col grosso a Genova, era impegna­to in continui combatt imenti con bande di guerriglieri . Nel Valdarno un ex-ufficiale della Gua rd i a Granduca le , Mari , aveva organizzato un'Armata aretina, di cui divideva il co­m a n d o con l 'amante inglese di sua moglie Sandr ina che tut­ti chiamavano «la pulzella» sebbene di amant i ne avesse avu­ti a bizzeffe. In questa specie di banda Cari tà avanti lettera mil i tavano anche pa recch i frati e p re t i che , n o n p o t e n d o esercitare vendet te cont ro i responsabili di un governo che in Toscana n o n aveva n e m m e n o avuto il t empo di formarsi, se la r i facevano con c h i u n q u e fosse sospet to di giacobini­smo, specie se era ebreo. Ne andò di mezzo anche il Gianni, l ' i l luminato minis t ro di Pietro Leopo ldo che dovet te emi­grare .

In ques to m a r a s m a v a g a b o n d a v a n o , sotto falsi n o m i e abiti, i superstiti delle repubbliche e repubblichette del cen­t ro . C ' e r ano anche i r o m a n i che i l genera le francese Gar-nier aveva sottratto p r ima di rit irarsi, alle furie del popoli­no , facendogli rilasciare dei salvacondotti . Ma n o n p ropr io tutti si con ten ta rono di scappare . Ci fu qua lcuno che volle battersi. E fu il caso di un curioso personaggio, di cui deplo-

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r i amo che la storiografia italiana n o n abbia saputo lumeg­giare la figura, che a noi sembra r iassumere le d rammat iche contraddizioni della nascente sinistra democrat ica italiana.

Si chiamava Giuseppe Lahoz, ed era un milanese di pa­d r e spagnolo. Giovane ufficiale dell 'esercito austriaco, ave­va disertato pe r militare nell'ala più estrema, giacobina, del­lo sch ie ramen to repubb l i cano e si e ra messo al servizio di Napoleone che gli aveva affidato il comando della piazza di Milano. Ma q u a n d o i francesi pre tesero r i formare in senso m o d e r a t o e conserva to re la cost i tuzione della Cisalpina, andò a Parigi a protestare , e pe r castigo fu destituito. Rieb­be il g r a d o e il c o m a n d o nella Leg ione pe r ché e ra l 'unico capo mil i tare che avesse d imos t r a to notevoli capacità, ma to rnò a pe rde r lo pe r la sua riottosità alle direttive francesi. Secondo qua lcuno , aveva già preso segreti contat t i con gli austriaci; ma ne manca qualsiasi prova. È provato soltanto che aveva perso ogni fiducia nella Francia, e perc iò aveva deciso di fare da solo, i s t aurando nelle Marche u n a specie di repubbl ica a cara t tere dit tatoriale e mili tare. Per questo n o n esitò a fare c o m b u t t a col b r igan te Sciabolone, il Fra ' Diavolo marchigiano, che terrorizzava la zona alla testa del­la sua banda . Q u a n d o francesi e austriaci r iapr i rono le osti­lità, egli si mise a d is turbare gli un i e gli altri con azioni di guerriglia. La voce di una sua intesa sotto banco con gli au­striaci sembra avvalorata dal fatto che, cadu to loro prigio­niero in u n o di questi scontri, fu liberato. Ma in realtà il suo rilascio fu dovuto a un' intercessione del generale russo Su-vorov. Tornato fra i suoi, Lahoz li condusse all'assalto di An­cona, tu t to ra nelle man i dei francesi, e qui c adde combat­tendo . Non aveva ancora t rent ' anni .

E possibile che Lahoz sia stato soltanto un anarchico ri­belle a qualsiasi autori tà e che la sua vera na tu ra fosse p ro ­pr io quella di un capo br igante , quale fu sul finire della sua breve e avventurosa vita. Ma è ancora più probabile ch'egli fosse u n o di quei pochi democratici che fecero in t empo ad accorgersi de l l ' e r ro r e commesso legandos i a u n a Francia

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che di r ivoluzionar io aveva serba to sol tanto l 'e t ichetta , e c e r ca rono di r imed ia rv i ge t t andos i allo sbaragl io da soli, contro tutti. Forse in lui c 'erano insieme l 'una e l'altra cosa. C o m u n q u e , egli fu il p r imo italiano a pensare che gl'italiani dovevano «fare da sé» e ad agire in conseguenza , sia p u r e alla disperata. Che sia mor to da brigante dimostra u n a cosa soltanto: che pe r i patrioti italiani n o n c'era altra via da bat­tere che fuori e cont ro ogni o rd ine costituito, sia di marca austriaca che di marca francese.

Era p r o p r i o q u a n t o cominciava a chiarirsi nella m e n t e dei supersti t i della g r a n d e illusione. Quasi tutt i r ipara t i in Francia, essi o ra e r ano intenti a red igere il fall imentare bi­lancio della loro avventura . I più se ne sbr igavano addos­sando tut te le colpe alla Francia, e gli argoment i a sostegno di ques ta tesi n o n facevano difetto. Che la Francia si fosse servita dei r ivoluzionari italiani pe r poi d e l u d e r n e tu t te le spe ranze di un i t à e di democraz ia , che li avesse screditat i agli occhi della popolaz ione facendoli complici dei p r o p r i saccheggi, e che alla fine li avesse abbandonat i e in certi casi perfino vendut i alla furia reazionaria, e ra vero. E queste fu­r o n o le denunz ie spor te dal Paribelli, dal Botta, dal Salva­dor, dal Fantoni e da tanti altri in numeros i «indirizzi» al Di­ret torio. Tutta la sua condot ta militare e politica in Italia fu messa sotto processo, e il fatto che alcuni dei nuovi dirigen­ti sposassero le tesi dei nostri democratici consentì a questi ultimi di sorvolare sulle p rop r i e responsabilità. Come sem­pre , nel giuochetto del «capro espiatorio», anche allora gl'i­taliani si d imostravano maestri .

U n o solo si rifiutò di seguirli su questa strada: il napole­tano Vincenzo Cuoco.

CAPITOLO DECIMO

C U O C O

Nel suo n o m e ci siamo già imbattut i a propos i to della con­g iu ra del Baccher, e d o b b i a m o r iconoscere che l 'episodio n o n gli fa mol to o n o r e . Sulla pa r t e ch 'egli vi ebbe ci sono mol te vers ioni , e q u i n d i p u ò anche dars i ch 'essa sia stata esagera ta dai suoi nemici (e ne aveva tant i) . Ma che fosse stato lui a sp ingere Luisa Sanfelice a d e n u n z i a r e il suo aman te , e anzi add i r i t tu ra a r ed ige re la delazione, sembra accertato, e p u r t r o p p o il carat tere del personaggio lo r e n d e verosimile.

Cuoco a p p a r t e n e v a a u n a famiglia di piccola borghes ia provincia le , ed e ra na to a C i v i t a c a m p o m a r a n o in quel di Campobasso. Ma fin da giovane era venuto a Napoli a farvi l'avvocato, unico mestiere, insieme a quello di prete , che of­friva qualche prospett iva di «promozione» economica e so­ciale a chi n o n aveva il privilegio di nascere nobile. C o m e tutti i suoi contemporane i , si era imbevuto di cul tura illumi­nistica, ma n o n se n 'e ra ubr iacato. Da corret t ivo gli faceva Vico, di cui fu forse il p r imo a capire la grandezza, e che lo t enne legato allo storicismo di Machiavelli. Fin d'allora ave­va capi to che ogni naz ione e ogni cu l tu ra h a n n o u n a loro vocazione che le r e n d e al lergiche agl ' innest i d ' ideologie s t raniere . I «lumi» insomma li accettava, ma previo adatta­mento alle condizioni italiane.

Questo lo r endeva molto cauto nei confronti del regime borbonico. Lo criticava, ma n o n in tendeva sovvertirlo, an­che perché non ci si trovava male. Reclamava pe r gli uomi­ni della sua categoria più potere e più rango , ma al rango e al po te re ci teneva moltissimo e n o n in tendeva met te rne in

discussione la legittimità. Avrebbe po tu to benissimo diven­ta re un minis t ro del Re, se i l Re avesse avuto abbas tanza cervello pe r scegliersi dei ministr i come lui. Era i n somma un riformista, n o n un rivoluzionario. Infatti della rivoluzio­ne francese fu un critico severissimo, né mai fece lega coi giacobini napoletani , anzi li combatté accanitamente corbel­l andone l'astratto dot t r inar ismo.

Ma ciò non gl ' impedì di arruolars i sotto le loro bandie re q u a n d o essi assunsero il po te re e p roc lamarono la Repub­blica. Forse il b r u t t o ep isodio della Sanfelice va messo in r appo r to a questa conversione. I suoi passati a t teggiamenti dovevano render lo sospetto ai nuovi dirigenti . E per guada­gnarsene la fiducia, Cuoco si sentì t enu to a u n a prova di ze­lo. Ma n o n ebbe il t e m p o di cavarne gli utili che probabi l­men te se ne r iprometteva. E fu p ropr io questa la sua fortu­na, q u a n d o di lì a poco si trovò r inchiuso in galera come col­laborazionista del regime giacobino.

Per le accuse che gli pendevano sulla testa e di cui l'affa­re Baccher costituiva il capo più grosso, gli andò abbastanza bene . Se la cavò con alcuni mesi di pr igione e la condanna a ven t ' ann i di esilio. Fu nel lungo girovagare «parte pe r ma­r e , p a r t e p e r gli a lberghi di Francia e senz 'a l t ro a iu to che quello della memoria» che scrisse la sua ope ra più nota e di­scussa, il Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799, poi pubblicato a Milano dov'egli a p p r o d ò d o p o la r e su r re ­zione della Cisalpina.

Ques to libro fu considera to un mezzo t r a d i m e n t o dagli altri reduci napole tani e ancor oggi è violentemente conte­stato dagli storici di par te radicale. Ma in realtà contiene l'a­nalisi più lucida di quegli avvenimenti e r appresen ta un do­cumen to di profonda penet raz ione politica.

Sull'insuccesso della Repubblica pa r t enopea - dice in so­stanza Cuoco -, le colpe dei francesi pesano molto, ma i no­stri democratici n o n debbono farsene r ipa ro per nasconde­re quelle loro. La p r ima è quella di aver sposato in blocco e a scatola chiusa la causa r ivoluzionar ia di un Paese, le cui

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condizioni n o n co r r i spondevano affatto a quelle dell ' I talia in gene re e di Napol i in par t ico lare . E r a n o diverse quelle economiche pe r lo stato di arretratezza e di sottosviluppo in cui versava - e versa - il nostro Mezzogiorno. Erano diverse quelle sociali pe r la pochezza e debolezza dei ceti medi . Era­no sop ra t t u t t o diverse quel le cul tura l i . Le masse francesi e rano abbastanza istruite per poter c o m p r e n d e r e i l messag­gio r ivoluzionario lanciato dagl ' intel let tuali e dargli con la loro par tecipazione la forza di t radurs i in istituti: l 'appello della cat tedra veniva raccolto dalla piazza e vi diventava bar­ricata. In Italia ques ta p r e m e s s a mancava : «La cu l tu ra di pochi n o n aveva giovato alla nazione intera; e questa, a vi­cenda , quasi disprezzava u n a cul tura che n o n l 'era utile, e che n o n intendeva».

Perciò, dice Cuoco, la r ivoluzione in Italia era r imasta e n o n poteva che r i m a n e r e l'iniziativa asfittica di u n a esigua minoranza isolata dalle masse, con cui n o n poteva aver con­tatti. Lo impedivano il m u r o dell 'analfabetismo e il fatto che quella minoranza , invece di e laborare un suo p r o p r i o p ro ­g r a m m a basato sulle reali condizioni del Paese e in cui quin­di il Paese potesse riconoscere i p rop r i aneliti e aspirazioni, s'ispirava a princìpi altrui, v ivendone passivamente d'imita­zione e di r ipor to . «La nazione napol i tana si poteva consi­d e r a r e come divisa in d u e popoli , diversi pe r d u e secoli di t empo e pe r d u e gradi di clima. Siccome la pa r t e colta si era formata sopra modell i s t ranier i , così la sua cu l tu ra e ra di­versa da quella di cui abbisognava la Nazione intera. Alcuni e rano diventati francesi, altri inglesi; e coloro che e rano ri­masti napole tan i , e che c o m p o n e v a n o il massimo n u m e r o , e rano ancora incolti.»

Ecco perché la preparaz ione ideologica di u n a rivoluzio­ne che, pe r diventare veramente democrat ica come si quali­ficava, avrebbe dovuto diffondersi in mezzo al popolo e su­scitarne la par tec ipaz ione , era invece r imasta u n a dia t r iba di «iniziati» chiusi nelle loro accademie e intenti più a dibat­tere astratte questioni di dot t r ina, come sempre avviene ap-

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p u n t o nelle accademie, che a risolvere i p rob lemi concret i di u n a società assai d iversa da quel le p re se a mode l lo , e ch'essi n o n conoscevano affatto. I m p e g n a t i a disser tare su Rousseau, i democratici napole tani n o n si e r ano mai curati di svolgere o p e r a di apos to la to fra le masse, n o n avevano mai visto un contadino lucano o calabrese, ne ignoravano le condizioni di vita, e quindi non potevano trovare in lui nes­suna eco. Traditi dai francesi, avevano a loro volta t radito il popo lo , sia p u r e inconsapevo lmen te . Ed e ra ques to che l i aveva condannat i alla catastrofe.

Era fatale che le tesi di Cuoco venissero poi sfruttate dal­la storiografia dell ' I tal ia monarch ica e «moderata» p e r di­most rare che i democratici del '99 n o n e rano che le scimmie dei giacobini francesi, degl ' inconcludent i retori , delle pove­re teste piene solo di vento demagogico. Il che è falso. Que­gli uomin i ebbero il tor to di nascere in ant icipo sui t empi , ma senza dubbio contr ibuirono moltissimo a farli ma tu ra re . C o m e tu t te le g r and i imprese , i l Risorgimento aveva biso­gno di pionieri , ed essi lo furono fino al sacrificio della p ro ­pr ia vita. Per p r imi v ide ro che la causa de l l ' i nd ipendenza nazionale faceva tu t t ' uno con quella democrat ica e che il so­lo m o d o di persegui r la era l 'azione r ivoluzionaria . Essi la­sciarono, se non altro, l 'esempio del sacrificio. E anche i lo­ro sbagli fu rono utili p e r c h é mise ro o av rebbe ro d o v u t o met te re i successori in guard ia dal ripeterli .

Ma che ne avessero compiut i n o n c'è da dubi ta rne , e non si p u ò far tor to a Cuoco di averli denunzia t i . Egli n o n p u ò esser t e n u t o responsabi le de l l 'uso e de l l ' abuso che altri avrebbe fatto delle sue tesi. Di fronte agli avvenimenti di cui era stato test imone, egli si p o n e da storico p r e n d e n d o da es­si le distanze necessarie a d a r n e u n a visione critica. E questa visione è ineccepibile. Che la r ivoluzione napole tana fosse, come lui dice, «passiva», cioè copiata da quella francese, è scritto nei fatti. Il suo fallimento fu u n a vera e p ropr ia «crisi di rigetto» della società italiana a questo corpo estraneo tra­p ian ta to nel suo organismo. Al t re t tanto indubi tabi le è che

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furono le masse - quelle cittadine dei «lazzari» e quelle con­tadine dei «cafoni» - a ribellarvisi. Questo è un fatto spiace­vole, ma è un fatto. Cuoco avrebbe tradito il suo impegno se lo avesse disconosciuto, come fa certa nostra storiografia che i fatti spiacevoli, invece di ragionarci sopra pe r t r a rne le ne­cessarie conclusioni, li rifiuta.

Ben altri son gli addebit i che a Cuoco si possono e si deb­bono muovere . Il p r imo e fondamenta le è quello di essersi messo pe r la sua sete di «impieghi decentissimi» come lui li chiamava, cioè pe r il suo arr ivismo, in u n a posizione falsa. Cuoco era se stesso quando , da b u o n illuminista corret to da Vico, come giustamente lo definisce Croce, criticava i giaco­bini. Cessò di esserlo quando , c r edendo che avessero vinto, si a r ruo lò nelle loro fila. E questo che dà al Saggio un certo sapore di fellonìa. Se Cuoco fosse r imasto sulle sue, a fare il test imone, com'era nella sua vera vocazione, oltre che la ga­lera e l'esilio, si sarebbe r isparmiato anche le accuse di dop ­pio gioco.

L'altro suo difetto è l 'at teggiamento pedagogico. Cuoco è u n o storico di g ran classe, infinitamente super iore al Collet­ta e a tutti gli altri della sua epoca. La sua diagnosi della so­cietà napole tana è ineccepibile e ancor oggi p u ò essere con­t rapposta a certo meridional ismo p iagnone e vittimista che imputa tutte le magagne del Sud al malvolere del Nord . Le sue pagine traboccano di osservazioni taglienti e a bersaglio, come quella del l ' impiegomania dei meridionali . Ma non re­sisteva alla tentazione di fare il moralista. E vero che quella di far discendere la luce dal p ropr io podio è la vocazione di tutta la storiografia illuministica, che in Voltaire tocca le sue p u n t e più alte e s t renue . Ma forse Ti tone è nel giusto quan­do dice che Cuoco la derivava ancora di più dalla tradizione precettistica italiana che affonda le sue radici fino a Machia­velli e a Tacito. Io tuttavia ci aggiungerei anche un altro ele­mento : il cinismo. I cinici sono tutti moralisti, e spietati pe r giunta.

Cuoco è terribile. Per pagine e pagine, pe r interi capito-

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li, la sua storia si t r amu ta in requisitoria, e ce n'è pe r tutti; reazionari e rivoluzionari, statisti borbonici e t r ibuni giaco­bini, nobili, intellettuali e popolo. Anche lui p rocede per ca­pri espiatori , cioè pe r semplificazioni, talvolta anche molto grossolane . I l Re e r a un pove ro i r responsabi le , la Regina u n a pazza isterica, i loro ministr i degl ' imbecil l i o dei ma-riuoli, la sconfìtta dell 'esercito borbonico ad opera di quello francese è colpa di Mack: il quale era effettivamente un so­m a r o , ma anche se fosse stato von Moltke, al c o m a n d o di t r u p p e come quelle, non avrebbe potu to far meglio di quel che fece Mack, cioè scappare.

I razzo lament i di Cuoco n o n furono in pa r i con le sue prediche. Dell ' impiegomania che rinfacciava ai suoi compa­trioti , egli stesso fornì un e sempla re model lo . A Milano si attaccò subito al Melzi, ne d ivenne grandissimo amico e gra­zie a lui o t t enne la d i rez ione del Giornale italiano. Anzi, fu forse anche per far piacere a lui, antigiacobino fino all'osso, e pe r procacciarsene le simpatie, che pubblicò il Saggio. Più tardi diventò il por taparo la di Eugenio di Beauharna i s , di cui avrebbe potu to restare fino in fondo al servizio. Ma non resistette alla nostalgia di Napoli q u a n d o i Borbone rifecero fagotto, e più ancora forse alla smania di tornarvi da vinci­tore e vindice. A lungo tuttavia contrat tò, p r ima del r impa­trio, lo scatto di grado, e lo ebbe: fu nomina to m e m b r o del Sacro Real Consiglio con diritto a carrozza e valletti, poi di­re t tore del Tesoro Reale di Mura t e alto consulen te pe r la pubblica istruzione. Teneva moltissimo alle insegne del po­tere e ne faceva u n o sfoggio spagnolesco. Non c'era carica a cui n o n ambisse e n o n c'era piaggeria a cui rinunciasse, p u r di p rocura r se la . P robab i lmen te fu anche i l do lo re di pe r ­derle, q u a n d o i Borbone to rna rono definitivamente sul t ro­no e procedet tero alla solita «purga», a procurargl i la malat­tia mentale che afflisse i suoi ultimi anni . Una strana e terri­bile nemesi volle che il cervello più lucido di quel t empo fi­nisse ot tenebrato dalla follìa.

CAPITOLO UNDICESIMO

L'ITALIA REPUBBLICANA: SECONDA FASE

Gli avvenimenti si susseguivano rapidi , come mai fin allora era avvenuto.

Uno dei motivi per cui il Direttorio di Parigi aveva favori­to la spedizione in Egitto era - lo abbiamo già detto - il desi­derio di liberarsi di Napoleone, che lo aveva salvato dalla mi­naccia di u n a controrivoluzione monarchica, ma che si mo­strava un credi tore sempre più esigente. Fu un calcolo sba­gliato. Le folgoranti vittorie r iportate anche in Africa accreb­be ro la popo la r i t à del Genera le , m e n t r e l ' incalzare degli eserciti russi, austriaci e turchi uniti alla flotta inglese nella seconda coalizione ne aizzavano nel popolo la nostalgia.

In questo clima di emergenza nazionale il giacobinismo rialzava la cresta, e il Diret tor io, sen tendosene minacciato, accen tuò la p r o p r i a i m p r o n t a au to r i t a r i a grazie a Sieyès, questa «talpa della rivoluzione» come lo aveva chiamato Ro­bespierre : un ambizioso e spregiudicato intr igante. Egli re­dasse u n a nuova Costituzione che pra t icamente esautorava il Consiglio dei C inquecen to , cioè il Pa r l amento , pe r d a r e tut to il po te re all'esecutivo nella speranza di essere lui a be­neficiarne. N a p o l e o n e infatti ne sembrava o rma i tagliato fuori perché non aveva più u n a f lot ta che potesse r icondur­lo in patria: Nelson gliel'aveva distrutta ad Abukir e lo tene­va bloccato in Egitto. Ma il Generale , avver tendo col suo fiu­to l'occasione propizia, p iantò in asso il suo esercito, ed elu­d e n d o le navi inglesi che pa t tug l i avano i l M e d i t e r r a n e o , r ient rò a Parigi accolto come un trionfatore.

Rendendos i conto di non poter compete re con lui, Sieyès preferì cercare un accordo che si risolse in u n a vera e p ro -

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pria cong iura pe r la spar t iz ione del po te re . I l Pa r l amento ne ebbe qualche sospet to, e il 9 n o v e m b r e (del '99) alcuni deputa t i p ronunc ia rono violenti attacchi contro il Generale , invano richiamati all 'ordine dal fratello di lui, Luciano, che sedeva al tavolo della presidenza. Napoleone venne di per­sona a r i spondere . Q u a n d o i suoi avversari chiesero che fos­se dichiarato fuori legge, si rivolse ai soldati di guard ia sol­lec i tando la loro p ro t ez ione . Essi es i t a rono , ma Luc iano toccò i loro cuori denunz iando un tentativo di assassinio che in real tà n o n c'era stato. Le guard ie i r r u p p e r o nella sala e ne scacciarono i Cinquecento . Senza più opposizione, al po­sto del Direttorio fu istituito un Consolato di tre membr i , con Bonapar te in veste di Primo Console, cioè pra t icamente ca­po del governo.

Subito d o p o il colpo di Stato, Bonapa r t e volle che il po­polo lo consacrasse con un plebiscito che n o n t rad ì le sue speranze: oltre t re milioni votarono a suo favore, solo 1.500 contro. E ormai sicuro del p ropr io potere , to rnò alla sua at­tività favorita: la gue r r a . Affidato il fronte del Reno a Mo-reau , discese con un nuovo esercito le Alpi pe r affrontare gli austriaci . Stavolta, p iù che al p r o p r i o genio strategico, dovette la vittoria alla fortuna. Il nemico lo colse di sorpresa a Marengo e lo avrebbe cer tamente sconfitto, se pe r caso in quel m o m e n t o n o n fosse s o p r a g g i u n t o i l gene ra l e Desaix con la sua divisione di cavalleria che prese gli austriaci alle spalle e spinse la p ropr i a generosi tà fino a mor i re sul cam­po in m o d o da lasciare tutti gli allori del trionfo al Bonapar­te. Questi volle por t a re di persona la notizia a Parigi anche p e r sminu i r e quel la dei successi o t t enu t i in G e r m a n i a da Moreau , o r m a i a pochi ch i lomet r i da Vienna , e l 'Austria, con l 'acqua alla gola, si rassegnò a firmare con lui la pace di Lunéville che pra t icamente richiamava i termini di quella di Campoformio, cioè rifaceva dell 'Italia u n a provincia france­se. La Russia si e ra già ritirata dalla coalizione. In campo re­stava solo l ' Inghil terra, ma di lì a poco (marzo del 1802) an­ch'essa si decise a firmare la t regua di Amiens.

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In quel m o m e n t o Napo leone era già a l lavoro pe r d a r e al nostro Paese un nuovo assetto. Anche lui dall 'esperienza del '99 aveva trat to le sue lezioni.

La p r ima r iguardava il Piemonte. «Da q u a n d o la Casa d'Au­stria poss iede Venezia, il P i emon te è d iven ta to necessario alla Francia» disse b ru ta lmente Napoleone al plenipotenzia­rio San Marzano, mandatogl i dal re Carlo Emanue le . Ma i veri motivi dei suoi p ropos i t i annessionist ici e r a n o quell i economici e quelli logistici.

I setifici di Lione e rano piombati in u n a gravissima crisi da q u a n d o e ra venu to a m a n c a r e i l g reggio del P iemonte che ne p r o d u c e v a pe r 17 milioni di lire a l l ' anno, cifra p e r quei t empi colossale. I lionesi r appresen tavano u n a grossa forza nel capitalismo francese, che a sua volta rappresen ta ­va una grossa componen te dell 'elettorato di Bonapar te . Es­si volevano garant irs i u n a volta pe r s empre la mater ia pri­ma, e Napoleone si mostrò sensibilissimo al loro appello.

Ma forse su di lui influì ancora di più la preoccupazione dei passi alpini: Sempione , Cenisio e Monginevro . Era qui che nelle sue spedizioni italiane aveva sempre incontrato le più grosse difficoltà, e ora n o n voleva più condividerne con nessuno gli sbocchi. «La loro facile transitabilità - scriveva -p u ò cambiare tutto il sistema delle gue r r e in Italia.»

Ai suoi disegni c'era un ostacolo: lo Zar di Russia, Paolo I, aveva preso il Piemonte sotto la sua protezione, e il Bona­pa r t e n o n voleva in imicarselo . Ma nel m a r z o (del 1801), Paolo fu assassinato, e il suo figlio e successore Alessandro diede subito a d ivedere che il P iemonte lo interessava ben poco. Bonapar te non gli dette il t empo di cambiare opinio­ne. In aprile fece di quello Stato u n a semplice divisione am­minis t ra t iva e mil i tare della Francia , affidata al genera le J o u r d a n . Questo fu il p r imo passo. Il secondo venne tre me­si d o p o , q u a n d o l 'esercito p i e m o n t e s e fu i nco rpo ra to in quello francese.

A ques to p u n t o l ' indeciso e abulico Car lo E m a n u e l e

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t rovò f inalmente la forza di abdicare in favore del fratello Vittorio Emanuele , p r imo di questo nome , che invano tentò di riallacciare u n a trattativa. Napoleone gli propose di rico­noscerlo come Re di Sardegna (quale tut tora era), ma «l'av­venire del Piemonte - gli disse - è fissato pe r sempre». E in­fatti nel se t tembre del 1802 il P iemonte fu cancellato dalla carta politica d 'Europa : al suo posto n o n ci furono più che sei d ipa r t imen t i francesi. Lo storico Car lo Botta p ro tes tò . Protes tò i l cosiddet to «part i to Italico» compos to da d e m o ­cratici che, p u r avversi al vecchio reg ime dei Savoia, e r ano tuttavia fedeli alla tradizione del l ' indipendenza piemontese come p e g n o e forza unificatrice della penisola . Ma la loro voce non trovò eco nella popolazione.

Molto più laboriosa e complessa fu la sistemazione della vecchia Cisalpina. Essa emergeva dai tredici mesi della rioc­cupazione austriaca in condizioni disastrose. Come al solito, la «caccia al giacobino» aveva fatto da alibi di ogni sorta di soprusi, ruber ie e vendet te personali . Impegnat i nella guer­ra, gli austriaci n o n avevano avuto il t e m p o di res taurare il vecchio r eg ime . Si e r a n o limitati a l iqu idare gl ' isti tuti di quello repubbl icano e a persegui ta rne i responsabil i con la galera , la d e p o r t a z i o n e e l'esilio; e tu t to e ra r imas to alla mercé di u n a burocrazia improvvisata e senza controlli. Co­me sempre capita in Italia, il pad rone nuovo, regolarmente accolto come «liberatore», faceva r i m p i a n g e r e quel lo vec­chio. Sicché q u a n d o , nella p r imavera del 1800, Napo leone r icomparve alla testa del suo esercito in marcia su Marengo, Milano lo accolse con entusiasmo, anche se con m e n o illu­sioni della volta precedente .

In settembre Napoleone ricostituì ufficialmente la Cisalpi­na ar ro tondandola con la provincia di Novara, distaccata dal Piemonte. E dopo la definitiva vittoria sull'Austria, vi aggiunse anche la provincia di Verona fino all'Adige, di cui il trattato di Lunéville faceva la nuova frontiera fra Lombardia francese e Veneto austriaco. La Cisalpina ora raggiungeva u n a certa compattezza territoriale e quasi quattro milioni di abitanti.

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Si t ra t tava di da r l e un assetto polit ico, e n o n e ra facile perché mancavano gli uomini . I tre che formavano il gover­no provvisorio - Ruga, Sommariva e Visconti - valevano po­co, e Bonapar te lo sapeva. C 'era poi u n a Consulta, cioè un piccolo Par lamento di c inquanta membr i , in cui qualche fi­g u r a di spicco allignava: Cicognara , Mascheroni , Moscati, Greppi , Marescalchi. Ma Bonapar te , che di uomini s'inten­deva, sbrancò subito quello che più faceva al suo caso: Melzi d'Eril.

Melzi appar teneva a u n a delle più g rand i famiglie dell'a­ristocrazia lombarda , e ne por tava nel sangue le doti miglio­ri: la re t t i tudine, la cul tura, la cortesia, ma anche u n a certa alterigia, che probabi lmente gli veniva dalla m a d r e spagno­la. Aveva fatto pa r te dei circoli illuministici dei Serbelloni, dei Beccaria e di Pietro Verri, di cui era anche cognato. Na­poleone lo aveva conosciuto al t empo della sua p r ima cam­p a g n a d'Italia, d o p o la battaglia di Lodi lo aveva invitato a Mombello, e ne aveva fatto il p ropr io consigliere. Quel gran signore che por tava ancora il costume settecentesco, le calze bianche e la par rucca incipriata, gli piaceva. Gli piaceva per­ché n o n era servile, pe rché n o n era venale, pe rché n o n era n e m m e n o ambizioso. U n a leggera sordità e u n a salute piut­tosto precar ia , insidiata da un forte artr i t ismo, l'obbligava­no a r i g u a r d i incompat ibi l i con l 'esercizio de l po t e r e . Più che il protagonista, preferiva fare il suggeri tore. Non era af­fatto un democratico. Anzi, al t empo della p r ima Cisalpina, coi democra t ic i s 'era t rovato in cont ras to , t an to che a un certo p u n t o aveva abbandona to non solo ogni attività politi­ca, ma anche Milano, pe r r i t i rarsi nella vasta p r o p r i e t à di Saragozza che sua m a d r e gli aveva lasciato. Dei giacobini lombardi pensava ciò che di quelli napoletani stava scriven­do Cuoco, suo g rande amico: ch ' e rano degli astratti dottr i­nari , incapaci di affrontare i problemi concreti.

Di questi problemi, a lui ne interessava soprat tut to uno : la costituzione di u n o Stato italiano abbastanza forte da po­ter diventare un polo d 'at trazione pe r tutti gli altri. Ma n o n

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10 voleva repubblicano, né tanto meno par lamentare . Nelle trattative eli Rastadt tra Francia e Austria, nel '98, si era ado­p e r a t o pe r la t ras formazione della Cisalpina in un Regno lombardo-emil iano da affidare a un Borbone di Spagna. Ma 11 proget to era stato respinto.

Ora che Napoleone lo r ichiamava da Saragozza pe r sol­lecitare nuovamente i suoi lumi, Melzi rispolverò quell ' idea, ma senza miglior successo. Capì subito che Bonapar te vole­va tenersi la Cisalpina pe r sé e che l 'unica cosa da fare era secondarlo nel senso più favorevole agl'interessi italiani. La Costituzione ch 'era stata appron ta ta attribuiva poter i quasi illimitati al Presidente. Ma per l'elezione di costui, occorre­va il voto di un'Assemblea che si potesse considerare in qual­che m o d o rappresentat iva. La Consulta non lo era in quan­to i suoi m e m b r i e r ano nominat i in massima par te dal Go­verno. Si provvide quindi a convocarne un'al t ra di 500 «no­tabili», scelti fra le personal i tà p iù in vista delle varie città lombarde ed emiliane.

Melzi pe rò s'avvide subito che della loro arrendevolezza non c'era molto da fidarsi perché , sebbene divisi in «mode­rati» e «democratici», e rano accomunati dalla ferma volontà di fare della Cisalpina u n o Stato italiano, anzi lo Stato-guida dell 'Italia. E, pe r poterl i meglio maneggia re , decise di sot­trarli alle suggestioni ambientali , convocandoli n o n a Mila­no , ma a Lione pe r i p r imi di gennaio del 1802. Sperava che lì, in mezzo ai francesi, i loro sent iment i e r isent iment i na­zionalisti si sarebbero addolciti.

Non fu così. I 450 (c'è chi dice anche meno) che ader i ro­no all'invito ar r ivarono a Lione dopo un viaggio massacran­te flagellato da p iogge a d i ro t to , e t r o v a r o n o quel la città piuttosto lugubre , inospitale e carissima. «Si paga anche l'a­ria che si respira» scriveva uno di loro a sua moglie. Crede­vano di essere subito ricevuti da Napo leone e convocati in assemblea plenaria. Invece furono accolti dal ministro degli esteri Talleyrand e divisi in c inque sezioni, con la scusa che così avrebbero po tu to meglio s tudiare il testo della Costitu-

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zione e m a t u r a r e le loro decisioni. In realtà si voleva impe­dire un loro eventuale pronunciamienlo.

I l t imore n o n e ra in fonda to . «Ci ha t rascinat i qua con u n a legge informe, emanata da un corpo legislativo più vile del Senato di Tiberio. Nella sezione ci si o rd ina di esamina­re in vent iquat t r 'ore u n a Costituzione letta in fretta, già ac­cettata con un decreto sin ora incognito, che r imet te ad un magis t ra to es tero la n o m i n a alle p r i m e car iche del nos t ro Paese... Frat tanto i deputa t i vanno e r r a n d o di caffè in caffè, annoia t i dei lo ro ospiti e dei con t inu i affronti che ricevo­no...»

N a p o l e o n e a r r ivò 1' 11 genna io , a c c o m p a g n a t o da Giu­seppina. Fu un ingresso spettacolare, s tudiato appos ta pe r impres s iona re i Cisalpini e r i d u r n e la p ro te rv ia . A n o m e della Consul ta t ravol ta nelle acclamazioni , Melzi lo salutò con queste parole: «Si rialzino tutte le speranze! Voi, Bona­par te , lo avete voluto, e la Cisalpina ecco esiste. Se voi lo vo­lete, sarà anche felice».

Ma il 20, q u a n d o l 'assemblea si r iunì in seduta plenaria, di felicità se ne vide poca, anzi si vide soltanto u n a g ran de­lusione allorché il pres idente Marescalchi invitò i deputa t i a des ignare un Comita to di t r e n t a membr i , che a loro volta avrebbero provveduto a eleggere il Presidente. Era pe r que­sto che li avevano fatti scomodare fino a Lione? Per delega­re i loro poteri a un Comitato che si poteva costituire anche a Milano?

Sebbene avessero perfe t tamente capito cosa gli si chiede­va, i Trenta det tero un solo voto a Bonapar te , e Capra ra dis­se che se questi voleva il po te re , se lo prendesse con la for­za. Venticinque voti si r iversarono su Melzi, che rifiutò. Una seconda votazione det te la maggioranza all'Aldini, che seguì l 'esempio del Melzi. La terza designò un oscuro depu ta to di Milano, Villa, che n o n potè rifiutare pe rché n o n era a Lio­ne . E la seduta fu aggiornata.

Bisognava i n f o r m a r n e B o n a p a r t e . Tal leyrand, che ac­c o m p a g n ò i delegat i a l l 'udienza, li avvertì che il Genera le

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«somigliava a un leone con la febbre». Secondo alcune testi­monianze, si rifiutò di riceverli. Secondo altre, li ascoltò sen­za p ronunc ia r parola. Secondo il Motti, scagliò u n o sgabello contro di loro: cosa che cer tamente avrebbe voluto fare, ma altret tanto cer tamente non fece.

Fu Tal leyrand che a m m o r b i d ì i ribelli e li r icondusse al senso della real tà . Nelle vostre condizioni , gli disse, senza u n o Stato né uomini di Stato, in u n a situazione internazio­nale che p u ò precipi tare da un momen to all 'altro, avete bi­sogno di u n a m a n o forte che vi p r o t e g g a col suo esercito, con la sua diplomazia, con la sua esperienza.

I Trenta esi tarono ancora due giorni, t ra t tenut i dalla fer­ma e coraggiosa opposizione del Cicognara. Ma alla fine do­vettero a r r ende r s i agli a rgoment i di Talleyrand, che e rano quelli stessi di Melzi. E il 24 decisero di p r o p o r r e alla Con­sulta i l n o m e di N a p o l e o n e , che p e r la p r i m a volta v e n n e des ignato in un at to ufficiale solo col suo n o m e di battesi­mo.

L'Assemblea fu convocata il giorno dopo in seduta plena­ria pe r la ratifica, e dal processo verbale risulta che questa fu concessa fra i generali applausi . Ma n o n è vero. La batta­glia fu lunga e d u r a . Bellani disse che , con un Pres iden te francese, la Repubblica sarebbe stata più sicura, ma non più italiana. Terzi r incarò la dose. I loro oppositori furono zitti­ti. Vedendo la mala parata, Marescalchi strozzò la discussio­ne e b a n d ì la votazione p e r alzata e seduta . Un tes t imone assicura che ad alzarsi furono al massimo un terzo dei p re ­senti , ma gest icolando e l anc iando tali g r ida da s e m b r a r e maggioranza. Tale c o m u n q u e la considerò Marescalchi, che immedia tamente procedet te alla let tura del p r imo articolo: «Il cit tadino Napoleone Bonapar te è eletto pe r acclamazio­ne Presidente della Repubblica cisalpina».

L'indomani il Generale si presentò di persona a ricevere l 'investitura. G r a n d e at tore come sempre , rifiutò la t r ibuna speciale che gli avevano allestito, decorata di ori e di bronzi come un t iono , sedette sullo scanno presidenziale e par lò in

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italiano (lo parlava abbastanza bene) . Ma il suo discorso fu di u n o spietato real ismo. Accetto questa carica, disse, pe r ­ché fra voi n o n c'è nessuno in g rado di occuparla. Nessuno di voi ha un seguito popola re . Nessuno di voi è al di sopra degl ' interessi particolari che rappresenta .

Ma d o p o Tamaro venne il dolce. La scena è stata riferita in vari modi , ma sembra che si sia svolta così. Alla fine della sua f rus tante a r r i n g a N a p o l e o n e o r d i n ò al segre tar io : «Si dia let tura della Costituzione della Repubblica...», e qui fece pausa . I depu ta t i cap i rono immed ia t amen te . Balzarono in piedi e u r l a r o n o in coro, finalmente unan imi : «Italiana!... Italiana!...» N a p o l e o n e sorr ise e, p l acando con un gesto i l tumul to , disse: «Ebbene, Repubblica italiana!» Stavolta l'ac­clamazione fu immensa e generale . Bonapa r t e d iede l'ulti­mo tocco alla sua vittoria a n d a n d o incontro a Melzi, abbrac­ciandolo e facendolo sedere alla sua destra nel posto di vice­p re s iden te . Era un omaggio n o n solo a l l ' uomo, ma anche alla Consulta che gliel'aveva contrapposto .

L'episodio aveva un suo significato che t r a scendeva la quest ione di nomencla tura . Fin allora il p r o g r a m m a di un ' I ­talia unita era stato privativa dei patrioti di estrazione giaco­bina. Que l g iorno diventò a p p a n n a g g i o anche dei «mode­rati». Uno di loro scriveva al Melzi, a proposi to della nuova Repubblica: «Il g rande suo oggetto a d u n q u e si è di t endere ad ampliarsi pe r tu t ta la circonferenza d'Italia». E, a pa r t e quegli orribili adunque e circonferenza, era l 'espressione di un pensiero ormai condiviso, se non da tutti, dai più. Ma il let­tore n o n p r e n d a abbagli: q u e s t i o n i vanno sempre riferiti a quella sparu ta pat tugl ia di p e r s o n e che costi tuivano la co­siddetta «pubblica opinione» pe r il semplice motivo ch 'era­no le uniche ad avere un 'opin ione: poche migliaia di uomi­ni sperdut i in una massa iner te e priva d ' idee pe rché priva degli s t rument i pe r farsene.

I m p a z i e n t e d i c o r o n a r e la sua ascesa a l s u p r e m o p o t e r e , Napoleone liquidò alla svelta le p e n d e n z e con gli altri Stati

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della penisola. Nel marzo del 1801 aveva stipulato a Firen­ze la pace con Napol i , lasciando il Reame ai Bo rbone , ma m e t t e n d o l o p r a t i c a m e n t e sotto i l p r o p r i o cont ro l lo come poi d i r emo. Quasi c o n t e m p o r a n e a m e n t e aveva firmato col n u o v o Papa, Pio V I I , un Conco rda to con cui s ' i lludeva di averlo asservito al suo ca r ro . A Genova aveva istallato il fi­do Saliceti col compi to di da re a quella Repubblica u n a Co­s t i tuzione che la legasse e c o n o m i c a m e n t e e m i l i t a r m e n t e alla Francia. Due sole questioni restavano da definire: Par­ma e la Toscana.

Il p rob lema era delicato perché i l Duca di Parma era un Borbone spagnolo s t r e t t amen te i m p a r e n t a t o con quelli d i Madrid , della cui amicizia Napoleone faceva gran conto pe r n o n trovarsi un nemico anche sui Pirenei . E fu infatti con loro ch'egli si accordò col trat tato di Aranjuez di quello stes­so marzo 1801. Esso disponeva che il Duca di Parma r inun­ciasse al suo Stato e che in compenso suo figlio Luigi assu­messe il Granduca to di Toscana, ribattezzato Regno di Etru-ria.

Luigi si e r a affrettato a p r e n d e r e possesso del p r o p r i o t rono , ma il p a d r e si era rifiutato di abbandonare il suo. Al­l 'ambasciatore spagnolo che ne perorava la causa, Bonapar­te r i spose con insolita a r rendevolezza : «Se vuol r e s t a re dov'è, ci resti!» Il fatto è che non sapeva come cavarsela con quelli della Cisalpina, che immed ia t amen te avevano avan­zato le loro p re t e se a l l ' anness ione del Ducato . «Capisco -aveva det to a Melzi - che sarebbe un b u o n a r ro tondamen to pe r la Repubblica italiana». Ma a p p u n t o pe r questo non vol­le concederglielo n e m m e n o quando , di lì a poco, il Duca lo l iberò della sua presenza , m o r e n d o pe r un ' indiges t ione di c a rne di maiale. P a r m a r imase i n d i p e n d e n t e , cioè alle di­pendenze diret te della Francia che vi nominò u n a specie di prefetto con qualifica di Residente.

A Fi renze , il n u o v o Sovrano e sua moglie , la spagno la Maria Luisa, e r ano stati accolti con indifferenza. Lui era un povero epilettico che n o n sapeva n e m m e n o m o n t a r e a ca-

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vallo e passava le sue nott i a t i rar sciabolate cont ro i fanta­smi. Lei era intelligente, astuta e intr igante, ma mezzo gob­ba e sciancata. Sebbene si fossero presentat i con un seguito di qua ran t a carrozze spagnole , i fiorentini cap i rono subito c h ' e r a n o figure di passaggio , e n ' ebbero u n a confe rma il g iorno stesso del loro arr ivo, q u a n d o videro che a riceverli in Palazzo Pitti e a metterl i sul t rono era il generale Murat , che comandava le t r u p p e francesi di stanza in Italia centra­le. Il vero Re sembrava lui, bello e marziale nella sua rut i ­lante divisa. E come tale infatti seguitò a comportars i oscu­r a n d o con le sue brillanti feste a Palazzo Corsini quelle sus­siegose e tetre di Palazzo Pitti.

Questa e ra in sintesi la situazione della penisola, m e n t r e Napoleone a Parigi si p reparava all 'ultimo balzo: quello sul t rono imperiale. Il 25 marzo (del 1802) anche il suo nemico più irriducibile, l ' Inghi l terra , aveva abbandona to la lotta e f i rmato con lui la pace di Amiens . N o n sarebbe stata in realtà che u n a breve t regua, ma Bonapar te la mise a profit­to.

Il 18 maggio del 1804 un plebiscito Io proclamò Impera­tore. L'Inghilterra aveva rot to la pace e r ipreso le armi l'an­no pr ima. Ma per i l m o m e n t o non trovava alleati. Napoleo­ne poteva bada re soltanto al riassetto politico che il cambia­men to istituzionale esigeva e in cui anche l'Italia doveva an­dare di mezzo. Le Repubbliche avevano fatto il loro tempo.

CAPITOLO DODICESIMO

REX T O T I U S ITALIAE

Alla cer imonia della consacrazione imperiale di Napoleone il 2 d icembre del 1804, c 'era anche u n a depu taz ione della Repubblica italiana, guidata da Melzi. Non e rano venuti so­lo pe r dovere di «rappresentanza». Alla vigilia del plebisci­to, Napoleone aveva avvertito l 'ambasciatore milanese Ma­rescalchi che la proclamazione de l l ' Impero obbligava anche l 'Italia a dars i a d e g u a t e forme istituzionali, cioè in pa ro le povere a r inunziare a quelle repubbl icane. Per Milano, l'u­nica soluzione era u n a monarchia . Non disse chi doveva es­serne il titolare, ma lo lasciò capire.

Melzi non pose t empo in mezzo. Convocò la Consulta, e le fece votare un p roge t to di legge che t rasformava la Re­pubbl ica in un R e g n o e red i t a r io des t ina to a B o n a p a r t e . Quest i n o n si affrettò ad accettare. Disse che avrebbe da to una risposta al r i torno da un suo viaggio d'ispezione in Bel­gio e Renania. In realtà era contrar ia to: non dall'offerta, si capisce, ch 'egli stesso aveva sollecitata, ma dalle formule cautelative di cui gliel 'avevano condita: gl'italiani chiedeva­no che, alla mor te de l l ' Impera tore , le due corone venissero separa te , che l ' un ione fosse sostituita da un t ra t ta to di al­leanza, che i tributi cessassero, e che il po tere della Consulta venisse accresciuto a spese di quel lo regio . «Cosa d u n q u e vogliono questi signori di Milano?» aveva gridato Napoleo­ne a Marescalchi che gli aveva recapi ta to il messaggio. «Se pe r caso pensassero di tirarsi indietro, potrei anche r i d u r r e il loro Stato a d ipar t imento francese come il Piemonte!»

Non era la p r ima volta che Bonapar t e faceva scenate ai suoi italiani. Da q u a n d o a Lione lo avevano acclamato Pre-

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siderite, a Milano n o n aveva p o t u t o r i s iedere mol to , e gli affari li aveva lasciati nelle mani di Melzi, che faceva quel che poteva, ma n o n poteva tu t to quello che avrebbe volu­to. Di lon tano , Napoleone n o n si r endeva conto delle diffi­coltà in mezzo a cui il suo vicario si d ibat teva . Ma ques te difficoltà e rano grosse, e c o m u n q u e sproporz ionate alle ca­pacità degli uomin i che dovevano risolverle. Milano forni­va qua lche b u o n ammin i s t r a to r e ; ma , n o n essendo più la capi tale di u n o Stato dai t empi di Ludovico i l Moro , n o n aveva u n a classe dotata di esper ienza politica. Nel governo di Melzi, personal i tà di rilievo n o n ce n ' e rano . Villa e Feli­ci, che si avvicendarono al minis tero degl ' in terni , si d imo­s t ravano t i tubant i e di cor te vedu te . Gli esteri e r a n o stati affidati a Marescalchi , che p e r ò B o n a p a r t e obbligava a ri­s iedere a Parigi pe r b e n sot tol ineare che la politica estera della Repubbl ica la faceva lui. Il guardasigi l l i Spannocch i era un b u o n giurista, ma n ien te a l t ro , e i l conte Trivulzio, ministro della gue r ra , un gran s ignore che di g u e r r a sape­va poco sebbene al t e m p o della Cisalpina si fosse improvvi­sato genera le .

L'unico che avesse qualità di u o m o di Stato era il mini­stro delle finanze, Prina, anche perché era piemontese , cioè veniva da un Paese che u n o Stato lo era da secoli. Ex-procu­ra to re genera le della Cor te dei Conti di Tor ino e m e m b r o del gove rno provvisor io del '99, s i e r a poi trasferito nella Cisalpina e ne aveva preso la cittadinanza. N o n aveva un ca­rat tere che attirasse simpatie. Anzi, chiuso e freddo com'era, le respingeva. Ma era un lavoratore instancabile e scrupolo­so, do ta to di un acuto senso politico e - diceva S tendhal -«ha del g rande in testa».

Far quad ra r e i conti della Repubblica era un ' impresa ar­dua . Essa doveva p r o v v e d e r e a l m a n t e n i m e n t o del co rpo d ' a rma ta francese, di quel lo i tal iano, e alla cos t ruzione di fortificazioni e di s trade militari. Queste spese, su cui Napo­leone non ammet teva r iduzioni , assorbivano c inquanta mi­lioni, m e n t r e le en t ra te n o n superavano i settanta. Non ne

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r i m a n e v a n o che u n a vent ina , insufficienti anche a p a g a r e gli stipendi dei funzionari.

Perché n o n andasse ro pe r se n e a n c h e le briciole, Pr ina r i formò tu t to il sistema fiscale r i d u c e n d o n e il pe r sona le e facendone una macchina di s t raordinaria efficienza. Fu lui a inventare la «tassa di famiglia», o meglio a ripristinarla, per­ché la sua vera iniziatrice era stata Maria Teresa. Ma la mag­gior pressione la esercitò nel campo delle imposte indiret te che colpivano tutti i consumi senza dist inguere fra quelli di lusso e quelli di p r i m a necessità. N a t u r a l m e n t e a farne le spese furono soprat tut to le classi popolari , che di lì a pochi anni gliel 'avrebbero fatta pagare . Ma con questi sistemi riu­scì a po r t a re le en t ra te da settanta a oltre cento milioni e a pa regg i a r e i l bilancio. Un 'a l t ra ope raz ione di g r a n d e suc­cesso fu la sistemazione del debito pubblico, che versava nel caos. P r ina ne accer tò l ' a m m o n t a r e (217 milioni) e t ra­sformò i crediti in veri e p ropr i «titoli di Stato» al 3,50%. Per le operazioni che li r iguardavano, istituì il Monte Napoleo­ne , facendone n o n più una corporazione privilegiata di cre­ditori com'e rano i vecchi Monti di tut ta Italia, ma un vero e p r o p r i o istituto f inanziar io qualificato anche all 'emissione di buoni fruttiferi. Finché d u r a r o n o le esazioni francesi che fagocitavano una b u o n a metà delle entra te , questa rigorosa politica servì più a d r e n a r e i reddi t i che ad accrescerli. Ma dopo , ereditata e gestita da padron i m e n o esosi come gli au­striaci, si rivelò - come oggi si di rebbe - uno s t rumento p ro ­mozionale di g r ande efficacia pe r l 'accumulo del capitale e il suo investimento a scopi produtt ivi . Le fondamenta della b u o n a amministrazione che nell 'Ottocento consentì al Lom­bardo-Veneto di d iven ta re la sola «area di sviluppo» di un Paese sottosviluppato, era stato il Prina a gettarle.

Ma le difficoltà in mezzo a cui la Repubblica si dibatteva non e rano soltanto quelle economiche. Formata di province e t e r o g e n e e , r educ i da esper ienze s tor iche assai d iverse , e che p r ima di allora n o n avevano avuto fra loro altri rappor ­ti che di rivalità e d ' inimicizia, essa restava u n o Stato im-

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provvisato, senza tradizioni e minato dai particolarismi mu­nicipali. Quest i e r ano forti sopra t tu t to nelle vecchie Lega­zioni di Emilia e Romagna, restìe a riconoscere il p r imato di Milano. A Bologna bastò u n a piccola carest ia di p a n e p e r sca tenare nel 1802 u n a sommossa , e la g u a r d i a civica che avrebbe dovuto repr imer la si schierò invece coi ribelli.

A soffiare sul fuoco e rano anche i patrioti di tutte le altre par t i d'Italia. Ce n ' e rano migliaia. Tutti di estrazione demo­cratica, e r a n o t enu t i alla larga dal r e g i m e «modera to» di Melzi. Questi anzi a un certo p u n t o propose di r inchiuderl i in un campo di concen t ramen to o di depor tar l i , ma Napo­leone si oppose. Guardat i con sospetto, delusi nei loro sogni r ivoluzionari e uni tar i , resi inquieti da u n a disoccupazione che pe r molti di loro significava anche fame, questi fuoru­sciti n o n facevano che aizzare con t ro i l gove rno . Mancava u n a vita politica e u n a lotta di parti t i , in cui la loro opposi­zione potesse manifestarsi e svolgersi legalmente . E questa era forse la p iù grossa tara del reg ime. Anche negli organi che avrebbero dovuto funzionare da pa r l amen to - la Con­sulta e il Consiglio legislativo -, il p redomin io dei «notabili» modera t i era assoluto. Le f igure più rappresenta t ive e rano il Paradisi e l'Aldini. Ma i loro contrasti con Melzi - e ce ne furono di aspri - e rano di na tu r a personale, non ideologica. Fin d 'al lora la politica italiana palesava questo vizio, di cui non doveva mai più guar i re .

N a t u r a l m e n t e la convers ione del la Repubbl ica in Re­g n o , sollecitata da Melzi, avallata senza mol te obbiezioni dalla Consu l t a e dal Consigl io, accet ta ta con indifferenza dalla popolaz ione , rese ancora più acuto il disagio dei de­mocratici e li spinse ad arruolars i nelle società segrete, che avevano cominciato a diffondersi pe r i motivi che d i r emo . Non avevano al t ra s t rada . Il gua io è che la ba t t evano con malaccortezza. Badavano più a litigare fra loro che a svol­ge re o p e r a di apostola to in mezzo alle masse popola r i , di cui p r e t e n d e v a n o sollecitare l ' iniziativa. N o n ne avevano l 'umiltà. Non ne avevano il l inguaggio. Si dicevano «incom-

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presi», ma n o n facevano nessun serio sforzo pe r farsi com­p r e n d e r e . E sebbene fra loro ci fossero mok i uomini onesti e disinteressati , n o n riuscivano a guadagnars i alcun credi­to. Ques t a «sinistra» democra t i ca e r ivoluzionar ia confer­mava in somma, in tu t to e p e r tu t to , l'analisi che ne aveva fatto Vincenzo Cuoco.

Dopo la cerimonia della consacrazione, l ' Imperatore ricevet­te Melzi e gli altri deputat i lombardi . Ma era ancora incerto sul da farsi. Assumendo di persona la corona d'Italia, teme­va di scatenare la reazione dell 'Austria, con cui in quel mo­m e n t o era in pace. Preferiva, disse, delegarla a suo fratello Giuseppe, anche perché questo gli consentiva di risolvere un al t ro spinoso p rob lema . N a p o l e o n e n o n aveva avuto f ig l i . Qu ind i , se fosse mor to , la successione sarebbe automatica­mente toccata a Giuseppe: soluzione che non lo seduceva af­fatto, e che si poteva e legantemente evitare separando le d u e corone e assegnando a suo fratello quella d'Italia.

Melzi accettò subito: un po ' perché non poteva far altro, un po ' pe rché la separazione era p ropr io quello a cui gl'ita­liani aspiravano. Ma a rifiutare fu Giuseppe , che preferiva restare pr incipe eredi tar io di Francia. Napoleone r ipiegò su un nipote, figlio del fratello Luigi. Ma il giovane, tu t tora mi­n o r e n n e , aveva bisogno del consenso del pad re che lo negò. N o n restava che t o r n a r e a l p r i m o p r o g e t t o : l ' I m p e r a t o r e dei francesi sarebbe stato anche il Re d'Italia.

Nell 'apri le del 1805 si mise in viaggio pe r Milano, dove aveva spedi to in avanscoper ta i l f igliastro E u g e n i o di Beauharna i s col pre tes to di assumervi un c o m a n d o milita­re . Aveva o rd ina to di d a r e a l l ' avvenimento la massima so­lennità, e i suoi desideri vennero pun tua lmen te soddisfatti. Per la para ta militare, furono ammassati i più bei repar t i dei d u e eserciti, e i bastioni di Porta Ticinese venne ro sfondati p e r r e n d e r e più impre s s ionan t e i l colpo d 'occhio. Mai si e r ano visti archi di trionfo più sontuosi e più splendide lu­minar ie .

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L'imponente messinscena raggiunse l'effetto voluto. L'ac­coglienza fu trionfale, e l 'entusiasmo toccò l 'acme q u a n d o il cocchio imper ia le a t t raversò la piazza del D u o m o , gremi ta di folla festante La cer imonia in cat tedrale n o n ebbe nulla da invid iare a quella che poch i mesi p r i m a si e ra svolta a Not re -Dame, anzi i tes t imoni d icono che fu ancora più so­lenne. Affiancato da sedici Vescovi, il cardinale Capra ra be­nedisse e impose al nuovo Re gli onori di Car lomagno: scet­t ro, spada, anello e mante l lo . Poi fu por ta ta la corona . Era quella, di ferro, che avevano cinto gli antichi Re longobardi e che si conservava a Monza nella chiesa di San Giovanni , eret ta dalla regina Teodolinda. Napoleone la sollevò in alto con le p ropr i e mani e se l'infilò in testa, come aveva fatto a Parigi, p r o n u n c i a n d o la formula di r i to: «Dio me l 'ha data, guai a chi la tocca!» Gli rispose, fragoroso, il grido della fol­la den t ro e fuori della cattedrale: «Viva l ' Impera tore e Re!» La sua eco arr ivò anche a Vienna, dove si disse che Napo­leone si e ra p roc lamato n o n «Re d'Italia», ma «Re di tu t ta l'Italia», e che aveva fatto incidere questo mot to , Rex totius Italiae, sulla medag l ia c o m m e m o r a t i v a de l l ' avven imento . Non e ra vero, ma tutti ci c redet tero . E fu la spinta decisiva alla guer ra .

N a p o l e o n e , che vi e r a già p r e p a r a t o , se ne rese conto . Ma, p r ima di lasciare Milano pe r r imetters i alla testa delle sue t r u p p e , convocò il Co rpo legislativo p e r i n a u g u r a r n e i lavori e presentargl i Eugenio nella sua veste di Viceré. «In mezzo alle cu re e alle amarezze inseparabi l i dall 'alta posi­zione che occupiamo - disse -, il nostro cuore ha avuto biso­gno di t rova re un confor to nell 'affetto e nella conso lan te amicizia di questo nostro figlio adottivo.»

N o n e r a n o sol tanto pa ro le convenzional i . In mancanza di figli suoi, Napo leone si e ra effett ivamente affezionato a questo ragazzo, frutto del p r i m o ma t r imon io di Giuseppi­na, e ne era ricambiato. Eugenio amava Napoleone e gli ri­m a r r à fedele anche nel le o r e a m a r e del d isas t ro , q u a n d o tut t i lo a b b a n d o n e r a n n o , compres i i suoi fratelli e sorelle.

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N o n aveva che vent i t ré ann i , ed e ra un bel g iovanot to , d i modi semplici, ma di scarsa comunicativa, che aveva cercato di mer i ta re i rapidi avanzamenti di cui aveva beneficiato con g rande invidia e stizza del clan Bonapar te . Ogni sua p romo­zione aveva p rovoca to violente scenate fra N a p o l e o n e e i suoi che, da b u o n i còrsi, n o n volevano dividere con nessu­no ciò ch'essi cons ideravano il bot t ino di famiglia. E anche quella sua nomina a Viceré - di un Regno di cui nessuno di loro aveva voluto d iventa r Re - aveva fatto scoppiare u n a t empes ta di reciproci r infacciamenti che aveva richiesto la convocazione di un consiglio di famiglia con l ' intervento di M a m m a Letizia - Madame Mère - in qualità di paciera.

I poter i conferiti a Eugenio e rano scarsi. Napoleone n o n si contentava di dirgli in u n a lettera d'istruzioni: «Se un mi­nistro viene a dirvi che occorre spengere il fuoco pe rché Mi­lano brucia dovete r ispondergli che bisogna aspet tare gli or­dini del Re. E se questi ordin i n o n vengono, dovete lasciarla bruciare»; voleva anche che tutt i toccassero con m a n o que­sta posizione subal terna . Eugenio e ra autorizzato a sedersi sul t rono reale ma sotto un baldacchino su cui campeggiava un g r a n d e r i t rat to del Re, cioè di Napoleone ; e q u a n d o ri­ceveva il Corpo legislativo doveva scenderne e p r e n d e r e po­sto su u n o sc ranno d i f ianco . L ' Impe ra to r e n o n dub i tava della lealtà del suo figlioccio. Ma temeva, data la sua giova­ne età, che si montasse la testa, o che gliela montassero i mi­lanesi e cercassero di s t rumental izzarlo, solleticando le sue ambizioni, pe r affermare t endenze separatiste. Nel passar­gli le consegne, lo mise in guard ia dai collaboratori, nei qua­li n o n r iponeva nessuna fiducia: «Qui - gli disse -, n o n c'è che un u o m o intelligente e di carat tere: Prina».

Melzi infatti n o n c 'era p iù . Fin al lora i l vero Viceré e ra stato lui. Ora che ce n 'era un altro, n o n avrebbe po tu to re­stare che a prezzo di u n a degradazione , cui n o n r ipugnava soltanto il suo orgoglio. La sua vita era stata difficile fra un p a d r o n e au to r i t a r io e impaz ien te e un p a r l a m e n t o i m p o ­t en te ma velleitario. N o n amava abbas tanza i l p o t e r e p e r

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soppor t a r e tu t te queste contrar ie tà , e approf i t tò dell 'occa­sione pe r ritirarsi in u n a carica p u r a m e n t e rappresentat iva: la pres idenza del Senato. Ma lo fece da pa r suo, andandose ­ne con inchino e in p u n t a di piedi senza sbattere la por ta , e m a n t e n e n d o inalterato il suo prestigio.

Un mese d o p o l ' incoronazione nel D u o m o di Milano, i l 23 g iugno , Napo leone firmò un decre to che decideva le sorti di Lucca.

Per secoli questa piccola Repubblica era riuscita a salvare la p rop r i a ind ipendenza dalla cupidigia dei G r a n d u c h i nel cui terr i tor io era incastrata. Era un'oligarchia un po ' sul ti­po di quella di Venezia. I l po te re era monopol io di un cen­t inaio di famiglie che lo gest ivano a t t raverso d u e Consigli - i Nobili e gli Anziani - e lo i n c a r n a v a n o nella figura del Gonfa lon ie re , simbolica come quel la del Doge . I francesi d a p p r i m a si l imi tarono a impor le un t r ibuto e a requisir le armi, stoffe e calzature pe r il loro esercito. Poi le ingiunsero un cambiamento di regime in senso democratico. E alla fine Napoleone ci m a n d ò il fido Saliceti a red igere u n a Costitu­zione. Qua l cuno dice ch'egli volle di p ropos i to c rea re u n a situazione d' incertezza e confusione che gli desse un pre te ­sto d ' intervento. C o m u n q u e , questo fu il risultato. Q u a n d o u n a d e p u t a z i o n e di lucchesi v e n n e a Milano a r e n d e r e omaggio al Re d'Italia e si sentì r improvera re con asprezza il disordine in cui versava lo Stato, capì che il reg ime r epub ­blicano aveva fatto il suo t empo e che, pe r evitargli u n a fine violenta, era meglio farlo mor i re di mor te natura le . Fu subi­to band i to un plebiscito che de t te i l r isultato voluto anche perché le astensioni furono considerate «sì»: Lucca chiedeva a Napoleone l'alto onore di en t r a re a far pa r te del suo Im­pero . Ricevendo il 23 g iugno i delegati che gli por tavano il responso, Napoleone disse: «Accetto il vostro voto».

L'offerta gli veniva b u o n a pe r contentare sua sorella Elisa che, nella spartizione del bot t ino di famiglia, si considerava la più sacrificata. A suo mari to Felice Baciocchi n o n era toc-

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cato che il Pr incipato di Piombino, poco più che u n a fatto­ria. E la sorella de l l ' Impera tore n o n poteva restare una fat-toressa. Napoleone fece di Lucca un Principato e gliel'asse-gnò . L ' insediamento avvenne il 14 luglio e fu so lenne . Ai lucchesi Elisa p iacque (di Baciocchi n o n si accorsero n e m ­meno) : bene o male , e ra u n a garanzia d ' i nd ipendenza dal Granduca to .

Poche ore d o p o aver accolto i l voto dei lucchesi, N a p o ­leone part ì pe r Genova.

Anche questa Repubbl ica aveva os t ina tamente difeso la sua i nd ipendenza , specia lmente quella delle sue b a n c h e e delle sue flotte, e anch'essa e ra re t ta da u n a oligarchia. Ma d o p o Marengo , Napo leone le aveva ing iun to di r i formare la sua Costituzione, e pe r facilitarle il compi to ci aveva tra­sferito da Lucca il solito Saliceti, che coi plutocrati genovesi era in stretti r appor t i dal '96, q u a n d o aveva contrat tato con essi un prest i to p e r f inanziare (ricordate?) la p r i m a spedi­zione di Bonapar te in Italia.

N o n vai la p e n a a p p r o f o n d i r n e i dettagli . L'articolo più impor tan te e ra il 14 che diceva: «Sarà istituito a Genova un arsenale di costruzioni, e la Repubblica avrà un a r m a m e n t o mari t t imo che c o m p r e n d e r à a lmeno d u e vascelli da 74, d u e fregate e quat t ro corvette». Era questo infatti, e niente altro, che N a p o l e o n e voleva assicurarsi : un b u o n p o r t o , b u o n i cantieri e un po ' di flotta pe r t ene re quella inglese lontana dalle coste italiane.

Ma, pr iva di e n t r o t e r r a , Genova viveva solo di m a r e , i l mare era in m a n o agl'inglesi, e gl'inglesi ne interdicevano il transito non soltanto alla Francia, ma anche agli amici della Francia. La città cominciò a dar sintomi di asfissia, e Saliceti scrisse in un suo r a p p o r t o che bisognava scegliere: o farne un por to franco come Trieste e Livorno, o annet ter la all 'Im­p e r o ing lobandola nel suo sistema dogana le . N a p o l e o n e scelse na tu ra lmen te la seconda alternativa. E Saliceti, men­tre il doge Durazzo viaggiava alla volta di Milano pe r r ende­re omaggio a l l ' Impe ra to re , fece votare dal Senato u n a di-

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chiarazione in questo senso. Il Doge non se ne rammaricò, o pe r lo m e n o n o n lo dette a divedere, anzi egli stesso presentò a Napoleone l 'appello che terminava con queste parole: «Vo­gliate accordarci il bene di d iventare vostri sudditi». Al che N a p o l e o n e r ispose: «Tornate nella vostra pat r ia . Fra poco anch'io ci verrò a suggellare l 'unione fra i nostri popoli».

Ci si fermò infatti il 30 giugno nel suo viaggio di r i to rno a Parigi, accolto con le solite feste. La sua visita in Italia era d u r a t a poco più di d u e mesi, e n o n si p u ò cer to d i re che l i avesse sprecati. Ci aveva raccolto u n a corona di Re, u n a do­te pe r sua sorella e un bel regalo pe r la Francia: i t re dipar­t imenti in cui la Liguria era stata divisa. Ma sapeva benissi­mo che tu t to ques to aveva un prezzo, e Melzi glielo aveva de t to : «Io n o n ho mai cessato d i r ipe tergl i che doveva ab­b a n d o n a r e l 'a t teggiamento che egli teneva in Italia pe r ces­sare di da re preoccupazioni a tutte le potenze europee». Ma lui gli aveva risposto che, anche se lo avesse abbandona to , le potenze eu ropee avrebbero seguitato a insidiarlo e combat­te r lo . Era p r e p a r a t o alla g u e r r a . Forse la des iderava . Co­m u n q u e , n o n aveva fatto nulla pe r evitarla, anzi aveva fatto di tu t to p e r prec ip i ta r la . Vero o inven ta to che fosse, que l Rex totius Italiae aveva fornito i migliori argoment i ai «falchi» di Vienna. Ma ancora p iù decisiva si rivelò l 'annessione di Genova che - dice lo storico inglese Hol l and Rose - «fece nascere in nove set t imane u n a coalizione che la diplomazia bri tannica n o n era riuscita a creare in ventisei mesi».

Il 9 agosto (del 1805), l 'Austria ader ì all 'alleanza anglo­russa. La paro la era di nuovo agli eserciti. E noi siamo co­stretti a seguirne, sia p u r e in rap ida sintesi, la vicenda, poi­ché da essa p r e n d e avvio un ennes imo r imescolamento del­le carte italiane.

«Tutta la G r a n d e A r m a t a è in marc ia e il p r i m o v e n d e m ­miaio sarà sul R e n o . Farò a l nemico u n o scherzo tale che n o n avrà i l t e m p o di ven i re ad annoia rv i in Italia» scrisse Napoleone a Eugenio.

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Lo scherzo consisteva nella rap id i tà dei moviment i . Gli austriaci, che avevano scelto come principale teatro di guer­ra la Germania , basavano il loro p iano sulla previsione che ai russi sa rebbero bastati sessanta g iorni p e r raggiunger l i , m e n t r e a Napoleone ne sarebbero occorsi ottanta: i d u e al­leati avrebbero quindi avuto il t empo di un i re le loro forze e di assumere lo sch ieramento più favorevole. Napo leone lo aveva capi to. R inunz i ando a soste e a misure di sicurezza, giunse con tre sett imane d'anticipo, colse gli austriaci da so­li e in fase di assestamento a Ulm, e in poche ore di battaglia li sbaragliò e r idusse alla resa. Lo scherzo era riuscito.

Gli austriaci dovet tero r ichiamare in tut ta fretta l'esercito che avevano manda to in Italia per tenervi agganciate le for­ze francesi. Napoleone , r i t enendo Eugenio t r o p p o giovane e i m m a t u r o , ne aveva affidato il c o m a n d o a Masséna che , n u m e r i c a m e n t e inferiore, avrebbe dovuto limitarsi alla di­fensiva. Ma ora r icevette l 'o rd ine di bu t ta r s i alle calcagne del nemico in ritirata in m o d o da impedirgliela o r i tardarla . Il compi to fu b r i l l an temente assolto. Solo con molta fatica gli austriaci r iuscirono a r ipassare le Alpi e, attaccati sul fian­co dalle cavallerie francesi, dove t t e ro d i ro t ta rs i verso Est. E r a n o c o m p l e t a m e n t e tagliati fuori, q u a n d o N a p o l e o n e sferrò l'attacco risolutivo ad Austerlitz il 2 dicembre, p r imo ann ive r sa r io della sua incoronaz ione . N o n po teva festeg­giarlo meglio: fu il suo più g r a n d e trionfo, l 'acme della sua favolosa carr iera di condot t iero.

Per gli austriaci, fu un a m a r o Natale. L ' indomani dovet­tero firmare la pace di Presburgo che, oltre a costargli gravi perd i te in Germania , li estrometteva definitivamente dall 'I­talia obbligandoli a r inunc ia re a tutti i compens i o t tenut i a Campoformio e a Lunéville. Riconoscevano a Napoleone il titolo di Re d 'I tal ia e gli cedevano Venezia coi suoi antichi domini di terraferma, Istria e Dalmazia. Q u a n d o cercarono di spendere una buona parola pe r i Borbone di Napoli, che si e r ano schierati al loro fianco, Napoleone tagliò corto: «Di­te al vostro I m p e r a t o r e che n o n ficchi il naso in questa fac-

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cenda. È venuto il m o m e n t o di saldare i conti con quella mi­serabile». Quel la miserabi le e r a la r eg ina Maria Carol ina , zia de l l ' Impera to re d'Austria. L' indomani lanciò da Schòn-b r u n n i l celebre proc lama: «Soldati! La dinast ia di Napol i ha cessato di r egnare . La sua esistenza è incompatibile con la pace de l l 'Europa e l ' onore della mia corona . But ta te in mare , ammesso che vi aspett ino, i deboli battaglioni di quei tiranni».

Le scenate di Napoleone e rano sempre a freddo. Questa era a caldo. I testimoni assicurano che mai nessuno lo aveva visto p r e d a d i un furore vendicat ivo così violento come q u a n d o impar t ì alle sue t r u p p e d'I tal ia l 'o rd ine di «scara­ventare giù dal t rono questa infame criminale». Ma ne ave­va qualche motivo.

CAPITOLO TREDICESIMO

G L ' I N T R I G H I DI NAPOLI

Dobbiamo fare un passo indietro: il lettore - sper iamo - ce lo pe rdone rà . Come abbiamo già raccontato, la restaurazio­ne borbonica a Napoli aveva fatto il suo debut to con le for­che. Ma re Fe rd inando , p u r sollecitandole, n o n aveva nes­suna voglia di veder le in azione. Solo nel luglio (del '99) si era deciso a to rnare insieme ad Acton nella sua capitale, ma facendo divieto a sua moglie di seguirvelo.

Maria Carol ina fece scene terribili. Dopo aver inseguito Nelson e la sua a m a n t e con a izzament i alla ferocia («Non preoccupatevi del n u m e r o : molte migliaia di del inquent i in m e n o r e n d e r a n n o la Francia più povera, e noi s taremo me­glio»), o ra si sentiva def rauda ta della vende t ta e sfogava la sua de lus ione in le t te re r anco rose , p i ene di esclamativi e ana t emi . Ne scriveva a tut t i p e r c h é e ra g r a fòmane , al ter­n a n d o i toni solenni alle invettive più volgari, p iangendos i addosso, coinvolgendo il b u o n Dio nelle sue passioni, con­traddicendosi ad ogni passo e sempre in b u o n a fede, senza un briciolo di senso critico e di umor ismo. Ma il Re fu irre­movibile.

A Napoli si t ra t tenne poco e preferì alloggiare sulla nave di Nelson invece che a palazzo reale: ci si sentiva più sicuro. De Nicola racconta che u n a matt ina, men t r e era sulla tolda, vide e m e r g e r e dal fondo del m a r e un c o r p o u m a n o . «Co­s'è?» gr idò sbiancando. «Il cadavere di Caracciolo che chie­de sepoltura» gli disse un ufficiale. «Gli sia concessa» rispo­se, r id iscendendo precipi tosamente in cabina.

In agosto era già di r i torno a Palermo, dove fu data u n a sp l end ida festa p e r o n o r a r e gli e ro i della r iconquis ta del

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Reame. Nelson ricevette il feudo di Bronte col titolo di Du­ca trasmissibile agli eredi e la spada con l'elsa tempestata di d iamant i che Luigi XIV aveva dona to a suo nipote Filippo V, n o n n o del Re. E m m a Hamil ton ebbe una collana di dia­mant i e d u e carrozze di gala p iene di vestiti. C 'e rano anche i due briganti Fra' Diavolo e Mammone , che furono decora­ti e promossi colonnelli. Ma r ipar t i rono quasi subito pe r ri­p r e n d e r e il comando delle loro bande in marcia con l'eser­cito napole tano su Roma.

Era infatti il m o m e n t o in cui, profi t tando dell 'assenza di N a p o l e o n e bloccato in Egit to dalla d i s t ruz ione della sua flotta ad Abukir, le a rma te austro-russe spazzavano i france­si dall'Alta Italia, e Maria Carolina aveva persuaso il mari to ad approf i t ta rne pe r p ian ta re nuovamen te la sua band ie ra nel l 'Urbe. D'accordo con la Regina, Nelson cercò di far ca­pi re a Fe rd inando ch 'era difficile d i r igere le operazioni di­plomat iche e militari da Palermo, ma il Re faceva orecchio da m e r c a n t e . A Napol i avrebbe dovu to t o r n a r e a palazzo reale insieme alla moglie, e n o n c 'erano riserve di caccia ric­che di selvaggina come quelle che i ba ron i siciliani gli met­tevano a disposizione. Eppoi , voleva p r ima vedere che pie­ga avrebbe preso quella guer ra , in cui s'era lasciato coinvol­gere più per ignavia che per convinzione.

Gli avvenimenti si affrettarono a dargli ragione. Alla fine de l l ' anno, Napo leone t o r n ò in Francia, si fece p roc lamare P r imo Console e r i p r e se i l c o m a n d o de l l ' a rma ta d ' I ta l ia . Napoli doveva vedersela nuovamente con lui.

A Pa le rmo , il con t racco lpo fu i m m e d i a t o . N o n a v e n d o più ragione di tenerlo a guardia del Medi te r raneo ora che il B o n a p a r t e aveva a b b a n d o n a t o l'Africa, L o n d r a r ich iamò Nelson, e il r ichiamo di Nelson compor tò automat icamente quello degli Hamil ton, che o rmai facevano con lui u n a sola famiglia.

Per Maria Carol ina fu un terribile dolore . Era legatissi­ma a E m m a . Chi delle d u e fosse lo s t r u m e n t o del l 'a l t ra , è diffìcile dire. Ma fatto sta che grazie alla loro amicizia il Rea-

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me era diventato un p ro te t to ra to inglese e Nelson un am­miraglio borbonico molto più di quanto la situazione politi­ca richiedesse. E infatti la loro par tenza, che rese la Regina «mezzo mor ta» , c o m p o r t ò notevol i novi tà nel le re lazioni con Londra .

Il nuovo ambasciatore, Paget, aveva ricevuto dal suo go­verno istruzione d ' i ndu r re il Re a to rnare a Napoli . Ma Fer­d inando non voleva saperne perché ne aveva capito benissi­mo il motivo. Convinta che la lotta cont ro Napoleone fosse ancora lunga, l ' Inghi l te r ra voleva, scacciandone i francesi, occupare Malta che i siciliani consideravano u n a loro d ipen­denza, e preferiva farlo col Re a Napoli piut tosto che a Pa­lermo. Oltre a questo, Ferd inando era su tut te le furie per­ché il suo Acton, che lo aveva sempre sollevato da ogni peso e responsabilità, s'era innamora to e aveva sposato, a sessan-taquat t r ' anni , u n a nipote di tredici: il che lo rendeva pe r il m o m e n t o inutilizzabile.

A rest i tuirgli un p o ' di b u o n u m o r e fu solo la decis ione della Regina di anda re a Vienna a r insaldare i legami di fa­miglia - l ' impe ra to r e Francesco e ra ins ieme suo n ipo te e suo genero - , a lquanto deteriorat i dacché i l Reame era pas­sato a rmi e bagagli a l l ' Inghi l terra . Ora che questa si faceva t r o p p o esigente, meglio crearle un cont rappeso . Ferdinan­do , sebbene incredulo sulla riuscita della missione, l'aveva approvata caldamente pe r liberarsi da quella insopportabile donna . Essa arrivò a Vienna quasi con temporaneamen te al­la notizia della disfatta aus t r iaca a M a r e n g o , che lasciava nuovamente l'Italia in balìa di Napoleone e il Regno borbo­nico ancora più bisognoso della flotta inglese. La missione era fallita pr ima ancora di cominciare.

In set tembre, la band ie ra francese fu ammaina ta a Malta e sostituita da quella inglese. Anche le navi napole tane ave­vano partecipato al blocco dell'isola, ma d o p o la capitolazio­ne fu rono amab i lmen te congeda t e . F e r d i n a n d o n o n ebbe neanche il t empo di protestare . L'Austria si appres tava a fir­mare il trat tato di Lunéville, che dava m a n o libera al Bona-

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pa r t e sulla penisola, senza neanche ch iedere u n a garanzia p e r Napol i . Q u e s t a fu salvata solo da un in t e rven to del lo Zar di Russia, che Napoleone allora corteggiava. Il generale Murat , che aveva già ricevuto l 'ordine d ' invadere il Reame, fu fermato, ma r imase con l 'a rma al p iede , m e n t r e i pleni­potenziari francesi e napoletani negoziavano a Firenze una pace che somigliava molto a un diktat. I Borbone dovevano cedere i Presidi Toscani, Porto Longone e Piombino, accet­tare guarn ig ion i francesi in Abruzzo, accol landosene tut te le spese, consegnare un pezzo di flotta, pagare una forte in­denn i t à e concedere u n a p lenar ia amnist ia ai pr ig ionier i e agli esuli politici.

Que l t ra t ta to , che p ra t i camente sottraeva Napoli all ' In­gh i l t e r ra p e r farne u n p r o t e t t o r a t o francese, n o n e ra u n successo pe r Paget, che cercò d ' i n d u r r e il Re a rif iutare la ratifica. Ma il Re gli rispose che n o n poteva farne a meno , e aveva ragione. Egli capiva che d 'ora in poi, quan to più aves­se c edu to alla Francia p e r Napol i , t an to p iù pe r la Sicilia avrebbe dovu to cedere a l l ' Inghi l ter ra , cui l'isola diventava s e m p r e p iù preziosa. Tuttavia, di tutt i i pericoli che lo mi­nacciavano, quello che più lo spaventava seguitava ad esse­re sua moglie. Le scrisse: «Ti p rego di non muover t i da do­ve sei senza il mio consenso...» N o n la voleva t ra i p iedi in quei r epen tag l i , o ra che aveva deciso di t o r n a r e a Napol i dove avrebbe dovuto convivere con lei.

La Regina gli obbedì anche pe r ché aveva dovu to sotto­pors i a u n a dolorosissima ope raz ione di emor ro id i , di cui come al solito aveva sentito il bisogno di da re minuziosissi­mi ragguagl i in u n a lettera cor reda ta anche di disegni che r a p p r e s e n t a v a n o la pa r t e opera ta . Q u a n d o rimise p iede a Napoli , la città, che aveva accolto t r ionfa lmente Ferd inan­do, finse di n o n accorgersi di lei.

Il governo che il Re aveva insediato navigava tra grosse difficoltà. Anche se i repubblicani non e rano che u n a sparu­ta minoranza ignorata o addi r i t tu ra mal vista dalla popola­zione, la spietata purga abbattutasi contro di essi nel '99 ave-

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va lasciato u n o strascico di rancor i nell 'aristocrazia e nella borghesia, dove non c'era famiglia che n o n avesse il suo de­capitato o depor ta to . Col trat tato di Firenze che ne impone­va il r ichiamo, molti esuli e r ano rientrat i e, anche se n o n or­ganizzarono veri e p r o p r i complott i , n o n svolsero di certo opera distensiva.

Par t ico la rmente grave era la si tuazione economica non sol tanto p e r i guast i provocat i dalla lunga guer r ig l ia di Ruffo, ma anche p e r c h é , ol t re a to l le rare le gua rn ig ion i francesi nel suo terr i torio, Napoli si e ra impegnata a mante­nerle. Il ministro delle Finanze, Zurlo, sebbene u o m o di no­tevoli capacità, non riusciva a far fronte alla crisi, e fu que­sto che r ipor tò alla ribalta u n a delle figure più discusse, ma anche più interessanti di questo per iodo: Luigi de ' Medici.

Medici e ra un ar is tocrat ico che disprezzava i suoi pa r i pe r la loro ignoranza, ma ne condivideva il suscettibile or­goglio e teneva molt iss imo al suo b lasone . Si c i rcondava d'intellettuali, ma li trattava dall'alto con paternalistica con­discendenza. Detestava la Corte e ironizzava sui suoi intri­ghi, ma per fare strada si era servito di quelli di sua sorella, la marchesa di San Marco. Era stata costei, d o n n a scaltrissi-ma, a monta re la Regina contro Acton che rappresentava il p iù grosso ostacolo alle ambizioni di suo fratello. N o n po­t e n d o s i lurare l 'ex-favorito, Maria Carol ina aveva pensa to di creargli un con t rappeso facendo n o m i n a r e Medici capo della polizia. Tut to ques to e ra avvenuto , s i capisce, p r ima che Napoleone si affacciasse sulle Alpi.

E probabile che Medici fosse in b u o n a fede usando i suoi poter i più pe r ammans i re che pe r persegui ta re gli opposi­tori politici, cioè i giacobini. Ma un po ' vi era anche costret­to dai legami di amicizia che aveva contrat to con loro. Ave­va pro te t to il loro circolo più radicale, l 'Accademia di Chi­mica, e d u e dei suoi adept i , i fratelli Giordano , vivevano ad­dir i t tura in casa sua. Forse, se ne avesse avuto il t empo , sa­r ebbe riuscito a fare di quest i ribelli dei col labora tor i p e r p o r t a r e avant i un r i formismo d i m a r c a i l luministica. Per

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quan to difficile, il giuoco si poteva tentare . Furono le circo­stanze e la pochezza degli uomini a farlo fallire.

Nel '94 e r a stato scoper to un complo t to r ivoluzionar io d ' ispirazione francese. Era l ' indomani della decapi taz ione di Luigi XVI e di Maria Antonietta, sorella della Regina. Po­lizia e tr ibunali ricevettero l 'ordine di p rocedere con la mas­sima severità. Sotto le tor ture , gli arrestati «cantarono». Me­dici riuscì a far fuggire in t empo alcuni caporioni, fra i qua­li Laube rg ; ma i G i o r d a n o r imase ro nella pan ia . Medici tentò di farli evadere, e u n o ci riuscì, ma l'altro fu r ipreso e condanna to all 'ergastolo. Il loro padre , convinto che Medici li avesse traditi , lo denunz iò d icendo ch 'era stato lui a con­vert ire i suoi figli alle idee giacobine. Acton most rò la dela­zione alla Regina che la mos t rò al Re, e Medici si t rovò, da arres ta tore , arrestato. Gli ci vollero tre anni , la falsificazione di alcuni documen t i e un provvisorio m u t a m e n t o di situa­zione politica pe r essere assolto e liberato.

Malgrado questi precedent i , q u a n d o nel '98 assunsero il p o t e r e , i r epubbl ican i n o n lo c o n s i d e r a r o n o dei loro , ma dappr incipio non Io d is turbarono, anche perché sua sorella aveva tempes t ivamente abbracciato la loro causa ed eserci­tava su di essi un notevole ascendente . Ma negli ultimi mesi della resistenza, q u a n d o il pericolo aveva por ta to alla ribalta gli e lementi p iù estremisti, anche lui fu impr ig ionato come potenziale nemico. Più tardi qualcuno disse che, presenten­do l ' imminente crollo della Repubblica, era stato lui stesso a denunziars i come monarchico pe r passare da mar t i re della causa borbon ica . Nien te suffraga ques ta voce. Ma il fatto ch'essa trovasse credito la dice abbastanza lunga sull 'opinio­ne che la gente aveva di lui.

C o m u n q u e , anche questa seconda persecuzione n o n gli era valsa a nulla. Molto più abile di lui, sua sorella era r iu­scita a r i e n t r a r e nelle grazie della Regina, che pe r la sua convers ione alla Repubbl ica l 'aveva ch iamata «traditrice», «vipera» e «megera». Ma la r iconcil iazione e r a t r o p p o re­cente p e r consent i r le di sos tenere i l fratello, n u o v a m e n t e

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nei guai per una seconda delazione dell 'implacabile Giorda­no , che lo accusava d ' infami collusioni con la Repubbl ica . Sebbene l'inchiesta appurasse la falsità della denunzia , Me­dici venne bandi to .

Era t o rna to con l 'amnist ia , e la soccorrevole sorella fu pronta , come al solito, a dargli una mano . L'aggravarsi della crisi f inanziaria aveva p o r t a t o alla c adu t a di Zur lo , di cui pe rò n o n si riusciva a t rovare un successore. Il Blanch dice che la San Marco consigliò al fratello di redigere un rappor ­to sulla situazione, suggerendone anche i r imedi , e lo por tò alla Regina. Ques ta ne r imase p r o f o n d a m e n t e colpita, e a sua volta lo por tò al Re, che detestava Medici, ma ancora di più detestava leggere. Resp ingendo infastidito il memor ia ­le, le disse: «Fa' quello che vuoi, io n o n voglio diventar paz­zo con questi briganti». La Regina sot topose il d o c u m e n t o ad Acton; ma, ben sapendo quanto anche lui odiasse Medi­ci, non gli disse chi lo aveva scritto. Anche Acton rimase col­pi to , sebbene di economia n o n capisse nul la , o forse p r o ­pr io pe r questo . Ma, t rovandos i con l 'acqua alla gola e ve­d e n d o in quel memor i a l e delle p r o p o s t e costrut t ive, s i la­sciò scappar det to ch 'era p ropr io quel che ci voleva. Dopo­diché n o n potè più sottrarsi al l ' impegno di p r o p o r n e l 'auto­re al Re come ministro delle Finanze.

Tutto ciò sa un po ' di romanzo, ma non è completamen­te inverosimile in un covo d' intrighi come la Corte di Maria Carol ina . Il Re rifiutò a Medici il titolo e il r a n g o di mini­stro, ma gli det te ugua lmente carta bianca in fatto di econo­mia, e Medici d imostrò che i suoi non e rano vaneggiamenti . Con o p p o r t u n e mi su re di emergenza , egli mise r i p a r o a i dissesti più gravi e predispose u n a serie di r iforme che col t e m p o avrebbero po tu to scardinare l ' o rd inamento feudale del Reame. Pu r t roppo , fu p ropr io il t empo che mancò.

Un'al tra buona scelta si rivelò quella del nuovo capo del­la polizia. Nei salotti si rise q u a n d o si sparse la notizia che a quel posto era stato designato il Duca d'Ascoli, considerato u n a specie di play boy avanti lettera, donnaiolo e compare di

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bisbocce del Re. E p p u r e , egli spiegò nel suo incarico dot i insospet ta te di accortezza e mode raz ione . In quel l ' incer ta si tuazione politica, egli comprese che l 'unico obbiettivo da perseguire era la concordia e fece di tut to pe r ristabilirla al di sop ra dei contras t i ideologici . Fece uscire di p r i g ione molti pregiudicat i politici e comminò p e n e severe a chi at­t r ibuiva a qua l cuno , senza d a r n e le p rove , la qualifica di «giacobino», un te rmine che aveva fatto da alibi a t roppi so­prusi .

Ciò n o n imped ì che qua e là seguitassero a manifestarsi dei focolai rivoluzionari. Il più vasto e attivo fu quello acce­so in Calabria da Rodino con la collaborazione di un giova­not to di cui u d r e m o r ipar la re , Gugl ie lmo Pepe. Ma abbia­mo l ' impressione che queste attività rivoluzionarie siano sta­te a lquanto esagerate dagli storiografi risorgimentali . Per il Reame borbonico la minaccia non veniva da l l ' in te rno , ma dal l ' es terno, cioè dalla s i tuazione in te rnaz ionale . E a farla precipi tare in catastrofe furono ancora u n a volta gl ' intrighi della Regina.

Sul p i ano diplomatico, la situazione di Napoli e ra obbietti­vamen te difficile. Il suo m a r e , e perf ino il suo golfo e r ano p ian tona t i dalla flotta br i tannica , m e n t r e i l suo e n t r o t e r r a era presidiato dalle guarnigioni francesi. La pace di Amiens t ra Francia e I ngh i l t e r r a al p r inc ip io del 1802 n o n fu p e r Napoli che un sollievo molto relativo. Tutti capivano che le d u e Potenze avevano negozia to la t r e g u a solo p e r megl io p r e p a r a r s i a u n a nuova g u e r r a , e Napol i e ra p r o p r i o u n o dei p u n t i in cui p iù se ne aveva la sensazione. Sia l 'amba­sciatore di Londra , Elliot, che quello di Parigi, Alquier, vi si compor tavano da proconsoli t enendo la Cor te sotto il fuoco incrociato delle loro minacce e ricatti.

Dei due , Alquier era il più scomodo. Maria Carolina con­siderava u n a provocazione la presenza di ques t ' uomo ch'e­ra stato u n o di quei deputa t i della Convenzione che aveva­no c o n d a n n a t o a m o r t e sua sorella Mar ia Anton ie t ta . Ma

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doveva fare i conti con la sua abilità e spregiudicatezza. La posta del giuoco era la testa di Acton. Alquier aveva capito che con lui al po te re Napoli avrebbe sempre gravitato nella sfera br i tannica. Ma aveva capito anche che la Regina n o n amava più i l suo ex-favorito, specie ora che di favorito ne aveva un altro, di vent 'anni più giovane di lei. Per trarla dal­la sua par te , la mise in diretta corr i spondenza con Napoleo­ne . Dopo averlo tanto maledet to , l ' impulsiva d o n n a scrisse al «cane còrso», come lo chiamava, una lettera p iena di piag­gerie e proteste di amicizia. Napoleone le rispose p r e m u r o ­samente che l'amicizia gliela ricambiava in pieno. «Ma - ag­giunse - le circostanze mi obbligano a considerare il Regno di Napoli come un Paese governato da un ministro inglese.»

Pur p ro tes tando la sua indignazione cont ro questo vela­to ultimatum, la Regina most rò la let tera ad Acton, che offrì immedia tamente le dimissioni. Ma il Re le rifiutò in manie­ra decisa, e l 'episodio n o n contr ibuì di certo a migl iorare i r appor t i con la Francia. Ma il colpo di grazia lo det te la t re­sca di Maria Carolina con Madrid .

Il lettore cer tamente r icorda che Ferd inando era figlio di quel Carlo I I I di Borbone che, d o p o essere stato Re di Na­poli, e ra diventato Re di Spagna. Ora su questo t rono sede­va il suo p r imogen i to , Car lo IV, fratello di F e r d i n a n d o . Il l egame dinast ico e ra stato ro t to da un pezzo pe r o p e r a d i Maria Carolina, che aveva por t a to Napoli a gravi tare sem­pre più nella sfera degli Asburgo di Vienna, da cui essa stes­sa proveniva. Ma negli ultimi tempi era stato r i annoda to da un d o p p i o m a t r i m o n i o . I l p r inc ipe e red i t a r io d i S p a g n a aveva sposato Maria Antoniet ta , figlia di Ferd inando , e sua sorella aveva sposato il pr incipe eredi tar io dì Napoli , Fran­cesco.

Mezzo ebete, Carlo IV era comple tamente nelle man i di sua moglie Maria Luisa, che a sua volta era comple tamente nelle mani del suo favorito e amante Godoy, che a sua volta era comple t amen te nelle man i di Napoleone . Quest i forse non aveva ancora delle mire sul t rono di Madrid , ma teneva

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all'amicizia della Spagna. La sua collera quindi non conob­be limiti q u a n d o Godoy lo informò che Maria Antonietta, su istruzioni di sua madre , stava m o n t a n d o un parti to del prin­cipe eredi tar io pe r met tere fuori causa lui e la Regina e ro­vesciare il sistema delle alleanze.

Era vero. Le torrentizie lettere di Maria Carolina a sua fi­glia erano tutte un aizzamento contro la suocera, che replica­va chiamando la nuora «ranocchia semimorta», «vipera vele­nosa» e «sputo di sua madre». Che atmosfera dovesse regna­re in quella Corte , lo dice il fatto che nessuno osava toccare cibo senza p r i m a farlo assaggiare a qualche servo. U n a di quelle lettere fu intercettata o sottratta dagli scrigni di Maria Antoniet ta e fatta recapi tare da Godoy a Napoleone . C'era scritto che, appena salito al t rono, il principe ereditario dove­va a r res ta re la m a d r e e il suo aman te e scendere in g u e r r a contro il «còrso bastardo, villan rifatto e nuovo Attila».

Napoleone rispose a un ricevimento del corpo diploma­tico a Milano. A n d a n d o incontro all 'ambasciatore di Napoli, lo a l luvione di epi tet i da fureria r infacciandogli i l d o p p i o giuoco e i t rad iment i dei suoi Sovrani, e concluse: «Dite alla vostra Regina che n o n le lascerò neanche la Sicilia e la man­derò coi suoi figlioli a mendicare il pane pe r tut ta Europa!»

Era i l 1805. La pace di Amiens era finita. L ' Inghi l terra , di nuovo in gue r ra con la Francia, cercava alleati che gliela combattessero pe r ter ra . Già da d u e anni , Napoli si e ra se­gre tamente impegnata a lasciar occupare Messina dalla flot­ta b r i t ann ica , se fosse stata minaccia ta dal le gua rn ig ion i francesi che presidiavano il Reame. In cambio aveva ricevu­to un grosso aiuto finanziario per ricostituire alla chetichel­la un po ' di esercito. Ma Ferd inando n o n voleva avventure . Fu Maria Carol ina che gli forzò la mano , q u a n d o si profilò l ' intervento di Russia e Austria.

Abbiamo già visto come e pe r ché si formò ques ta coali­zione (la terza), e con quale fulminea rapidi tà Napoleone ne venne a capo a Ulm e ad Austerlitz. Ma rivediamolo dall 'an­golatura di Napoli.

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Da q u a n d o le aveva por ta to via i suoi amat i Hami l ton e Nelson, l ' Inghil terra n o n godeva più i favori di Maria Caro­lina. I suoi entusiasmi ora e rano tutti pe r lo zar Alessandro, che sul Reame teneva a svolgere, sia p u r e di lon tano , u n a par te di alto pro te t tore . Temeva che i francesi se ne servis­sero come d ' u n t r ampol ino d i lancio pe r un 'az ione cont ro la Turchia , del cui i m p e r o egli si cons iderava il legi t t imo e r e d e . E p r o p r i o p e r ques to aveva indo t to N a p o l e o n e , q u a n d o era in buon i r appor t i con lui, a negoziare coi Bor­b o n e la pace di F i renze , lasciandoli sul t r o n o . Ques to ne aveva fatto il nuovo Eroe di Maria Carol ina che senza Eroi n o n sapeva stare.

Nel maggio (del 1805) giunsero a Napoli, sotto falso no­me e con l 'aria di semplici tur is t i , d u e genera l i russi p e r concertare l'azione contro la Francia. L'entusiasmo della Re­gina salì alle stelle. Siccome il Re n o n in tendeva r inunciare alle sue cacce (era il m o m e n t o del passo delle quaglie), fu lei ad assumere di persona i negoziati, na tura lmente segretissi­mi. A p p e n a la gue r r a fosse scoppiata, i russi s ' impegnavano a m a n d a r e nel Reame 25.000 uomin i in agg iun ta ai 7.000 che s ' impegnava a m a n d a r e l ' Ingh i l t e r ra . Sa rebbero stati loro a decidere la data e il luogo dello sbarco e ad assumere il comando delle operazioni . Alle spese doveva p rovvedere Napoli . Il p r emio sarebbe stata la garanzia dello Zar all'in­tegr i tà del Reame . Ques t i pa t t i e r a n o p r a t i c a m e n t e u n a cambiale in bianco rilasciata ai russi senza cont ropar t i ta . E n o n era f ini ta . Lo sbadato Elliot, che n a t u r a l m e n t e sapeva dei negoziat i , ne lasciò t r ape l a r e il segre to , e così ne fu informato anche Alquier, che si p resen tò furente alla Regi­na. La scena la descrisse lei stessa in u n a delle sue solite let­tere. «Mi ha trattata come l 'ultima delle donne , u r l ando co­me un e n e r g u m e n o , lui, i l regicida Alquier, a me , figlia di Maria Teresa!»

Da b u o n còrso, Napo leone sapeva che la vende t ta è un piatto da mangiare freddo. Al r appo r to del suo ambasciato­re , che lo raggiunse men t r e si p reparava all'attacco su Ulm,

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reagì a p r e n d o trat tat ive con Napol i . In cambio della neu­trali tà offriva il r i t i ro delle t r u p p e dal Reame . Sal tando la Regina, Alquier por tò il testo della proposta al Re, e nel suc­cessivo r appor to scrisse: «La cosa più strana è che nel mezzo di u n a discussione il cui risultato avrebbe por ta to la pace a Napoli , o pr ivato il Re della sua corona , questi si preoccu­pava soltanto della vendemmia , e fu p rop r io in un vigneto ch'egli appose t ra i vendemmiator i la sua firma al trattato».

In real tà quel la f i rma n o n valeva nul la p e r c h é pochi giorni p r ima egli ne aveva già apposta un 'a l t ra sul pat to di alleanza con la Russia e l ' Inghi l terra: la volontà della Regi­na aveva come al solito prevalso sulla sua. All 'ambasciatore russo egli spiegò che aveva dovuto sottoscrivere il foglio di Alquier pe rché le guarnigioni francesi avevano già ricevuto l 'o rd ine di marc i a re su Napol i , e q u i n d i aveva agito sotto costrizione.

I russi cominciarono i loro sbarchi q u a n d o a Napoli era già arr ivata la notizia della strepitosa vittoria r ipor ta ta da Na­poleone a Ulm. E vero che subito d o p o e ra arr ivata quella del trionfo di Nelson a Trafalgar. Ma il g r a n d e ammiragl io vi aveva perso la vita, N a p o l e o n e avanzava su Vienna , e quanto più la sua marcia si accelerava, tanto più rallentava­no gli arr ivi anglo-russ i . Ques t i e r a n o anco ra a mezzo, q u a n d o giunse l ' annunz io di Austerlitz, della resa dell 'Au­stria e del p roc lama rivolto da Napo leone alle sue t r u p p e : «Soldati, p e r dieci anni ho fatto il possibile pe r salvare il Re di Napoli , e lui ha fatto il possibile pe r rovinarsi . . . Soldati, avanti! Mio fratello vi guiderà...»

Ment re a Corte lo sgomento dilagava, i comandan t i rus­so e inglese tenevano consiglio di guer ra , di u n a gue r ra che non avevano nessuna intenzione di fare. Infatti la decisione che presero fu di m a n d a r e i repar t i napoletani a guarn i re i confini, men t r e le loro t r u p p e sarebbero r imaste a presidio di Napoli, o pe r meglio dire a guard ia delle loro navi, su cui avevano già deciso di reimbarcarsi . Il Re non mosse un dito

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per impedir lo . Seguitava ad a n d a r e t ranqui l lamente a cac­cia come se tutto quel che succedeva non fosse affar suo. Un giorno incontrò un repa r to in marcia. E, sentito che anda­vano in Abruzzo a far la guerra , chiese: «Contro chi?» «Con­tro i francesi» gli r isposero. «Dio ve la mand i buona!» disse, e proseguì dietro i suoi cani.

Anche questo suo a t t egg iamento contr ibuiva a me t t e r e fuori di sé la Regina, che non abbandonava il suo scrittoio. «Gl'infami s ' imbarcano!. . . Ci a b b a n d o n a n o , i vigliacchi!...» Tempestava di lettere Vienna e Londra . Faceva scenate agli ambasciator i russo e inglese. Il 7 genna io (1806) m a n d ò a Roma il cardinale Ruffo, l 'uomo del l ' emergenza, a pa r l a re con Masséna. Come al solito, aveva scelto male. Sia p u r e a tol to, i francesi consideravano Ruffo il persecutore dei loro ant ichi alleati r epubbl ican i . Masséna lo mise alla p o r t a e gl ' impedì di proseguire per Parigi. «La sorte di Napoli è già stata i r revocab i lmente decisa» gli disse. Maria Caro l ina si rassegnò alla sup rema umiliazione. Prese la p e n n a e scrisse a Napoleone: «Ravvedutami dall 'accecamento nel quale fui trascinata da u n o zelo e da un amore male calcolati e male intesi, e che m' isp i rarono una forte inimicizia, r inunc iando ormai ad essere la nemica di Vostra Maestà Imperia le e Rea­le, r icorro alla vostra generosità...» La risposta di Napoleo­ne fu l ' o rd ine alle sue t r u p p e di marc ia re su Napol i «per p u n i r e i l t r a d i m e n t o della Regina e b u t t a r e giù dal t r o n o questa criminale...»

In quel m o m e n t o gT«infami» se n ' e r a n o già anda t i . La Regina decise di rivolgersi al popolo, e scese in mezzo ad es­so per le strade. Ma non riuscì a toccargli il cuore pe r il sem­plice motivo che non gliene aveva mai mostrato. Il Re, mol­to più popo l a r e di lei, si rifiutò di accompagnar la . Preferì a n d a r e a M o n d r a g o n e pe r d i s t rugge re con u n a colossale ba t tu t a di caccia tu t t a la selvaggina in m o d o che a l m e n o quel la non cadesse in m a n o ai francesi, e annunz iò che se ne tornava in Sicilia. A stento lo persuasero ad aspet tare al­m e n o il m o m e n t o in cui i francesi avessero varcato la fron-

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tiera. Rimase fino al 23, poi s ' imbarcò alla chetichella dicen­do alla Regina di sbrigarsela lei, che aveva provocato quella catastrofe, insieme a suo figlio: lui ne aveva abbastanza.

«Sono p repa ra t a a tut to - scrisse la Regina al suo amba­sciatore a Parigi, Gallo - non ho p a u r a di n iente . Mi r i t ro­verò povera ed e r ran te , d o p o aver sempre pensato agli altri e mai a me stessa... Vi raccomando la mia adora ta famiglia: l'affido alla vostra fedeltà...» In quel m o m e n t o Gallo aveva già offerto i suoi servigi a Napoleone che, dopo averli accet­tati, scriveva a suo fratello Giuseppe: «Il marchese Del Gallo si appres ta a me t t e r e a tua disposizione tut t i i suoi talenti . Sarà il p r imo napole tano a giurart i fedeltà».

Vestita a lutto, la Regina faceva il giro dei Santuari . Spe­rava ancora che il popolo di Napoli scendesse pe r le s trade come aveva fatto nel '98. Ma del '98 il popolo di Napoli ri­cordava solo la fuga dei suoi Sovrani. L' 11 febbraio anch'es­sa s ' imbarcò con la n u o r a (il Pr incipe Eredi ta r io si e ra già trasferito in Calabria) e il resto della famiglia. «Noi part ia­mo» disse alla piccola folla che si era riunita sulla banchina. Le risposero: «Pregheremo perché facciate b u o n viaggio».

Era p r o p r i o f in i ta .

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

I VICERÉ

L'esercito che ai p r imi del 1806 Napo leone aveva scagliato contro Napoli aveva come comandan te effettivo il generale Masséna, ma formalmente e ra agli o rd in i di Giuseppe Bo­napar te , già designato al t rono .

In un p r i m o m o m e n t o Napo leone aveva pensa to di of­frirlo a un al tro Borbone , il secondogeni to del Re di Spa­gna, p e r ga ran t i r s ene ancora d i p iù l 'amicizia. Ma Car lo aveva declinato un po ' perché il piccolo Principe n o n aveva che quat tordici anni , e un po ' pe r scrupolo dinastico. Seb­bene da un pezzo egli fosse in p iena rot ta con Ferd inando , questi era p u r sempre suo fratello, e n o n volle u s u r p a r n e il posto.

Fatto il bel gesto, Napoleone n o n dovette dispiacersi del rifiuto. Quella corona gli faceva gola e gli permet teva final­men te di risolvere il p rob lema di Giuseppe, che seguitava a cullarsi nelle sue p re tese di successore al t r o n o imper ia le . Quello che gli rivolse n o n era un'offerta, ma un o rd ine pe­r en to r io : «Gli d i re te che lo faccio Re di Napol i , ma che la più piccola esitazione, la più piccola incertezza da par te sua lo p e r d e definitivamente ai miei occhi. Non posso più avere paren t i che vivano nell 'oscurità. Quelli che n o n accetteran­no d'innalzarsi con me, n o n faranno più par te della mia fa­miglia. Del resto, ne faccio u n a famiglia di Re». Ci r ipensò un m o m e n t o , poi aggiunse : «O megl io di Viceré». Perché l 'unico vero Re, si capisce, era lui.

G iuseppe capì che stavolta n o n po teva r i f iutare come aveva fatto pe r il Regno Italico e, sia p u r e senza molto entu­siasmo, assunse il comando dell 'esercito in marcia su Napo-

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li, lasc iando a Masséna quel lo effettivo. La divisione dei compiti si rivelò superflua perché tutto si risolse in u n a pas­seggiata mil i tare . L'esercito bo rbon ico si a r r e se p r i m a di combattere , o pe r meglio dire si dissolse. Solo Gaeta, grazie alle sue fortificazioni, resistette p e r c inque mesi; ma na tu­ra lmente non potè arres tare le colonne francesi.

G iuseppe giunse a Napol i il 15 febbraio, so l ennemen te accolto dal Senato in p o m p a magna , dalle campane a diste­sa e dalle salve di cannoni . Prese possesso di palazzo reale, e immedia tamente si recò a r e n d e r e omaggio a San Gennaro , anche stavolta puntualissimo al solito miracolo. La messa fu officiata dal cardinale Ruffo, ormai guari to della sua fedeltà ai Borbone d o p o il t ra t tamento che ne aveva ricevuto. Nel­l ' interno si combatteva ancora, specialmente in Calabria. La rivolta che dopo qualche sett imana di repressione sembrava domata , to rnò a d ivampare in estate, q u a n d o sbarcò un pic­colo co rpo di spediz ione inglese. I francesi lo a t taccarono alla cieca, sub i rono un sanguinoso smacco, e ques to bastò pe r r ida r fuoco alle polveri. Fu un 'a t roce guerrigl ia , di cui un g rande giornalista, Paul Louis Courier, allora in servizio militare, ha lasciato nelle sue let tere un palpi tante e racca­pricciante affresco. Fra' Diavolo vi riacquistò il suo rango di protagonista, ma lo t enne pe r poco: in novembre il suo cor­po già dondolava, appeso a u n a forca, in piazza del Mercato a Napoli. Tuttavia ci vollero d u e anni di operazioni di poli­zia condot te con metod i spietati pe r ristabilire l 'ordine nel «profondo Sud» e venire a capo del br igantaggio o meglio per r ipor tar lo alle sue normal i misure.

A Napoli , Giuseppe faceva il Re in condizioni di «sorve­gliato speciale». Oltre che Masséna pe r la par te militare, Na­poleone gli aveva messo alle costole il solito Saliceti pe r gli affari politici. Aveva nel fratello u n a totale sfiducia, e forse sbagliava. Giuseppe n o n possedeva, si capisce, né il suo ge­nio né il suo carat tere. Ma era un u o m o equilibrato, ricco di umani tà e n o n privo di fiuto. Di formazione illuminista, ave­va studiato a Pisa, quindi conosceva bene l'Italia, la sua lin-

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gua e i suoi problemi, p u r così diversi da regione a regione. Ma n o n e ra un lo t ta tore , e n o n cercò mai di sot t rars i alla posizione subalterna che il suo imperiale e prepotent iss imo fratello gli assegnava. Questi lo bombardava di consigli che suonavano come ord in i : «Aumenta le tasse, sii severo, da ' degli e sempi : in un paese conquis ta to n o n bisogna essere uman i . Ruba senza riserve: nulla è sacro d o p o u n a conqui­sta. Non fidarti di nessuno, tieni d'occhio la tua cucina, ado-p ra solo cuochi francesi. Non pensare a formare un esercito napole tano: diser terebbe al p r imo segno di pericolo».

Ma p r o p r i o da ques te le t te re s i capisce che G iuseppe avrebbe voluto governare con altri metodi , meno autori tari . Se non ci riuscì, fu colpa soprat tut to degl ' intrighi e dei com­plotti orditi dagli emissari borbonici e inglesi. Specialmente Saliceti fu bersaglio di parecchi attentati . Una macchina in­fernale gli fece crol lare in testa la casa, e fu un miracolo ch'egli e sua figlia non perissero sotto le macerie. In queste condizioni era difficile fermare la m a n o alla polizia. Ma ciò n o n imped ì l'avvìo di u n a saggia ope ra di r i forme, che poi avrebbe avuto i suoi sviluppi sotto il Regno di Murat .

Ma torn iamo al nuovo assetto che Napoleone stava dan­do alla penisola, ora che la pace di Presburgo gli dava mano libera su di essa. «L'Italia - diceva - è un ' amante , di cui n o n voglio dividere le grazie con nessuno.»

Il 19 gennaio del 1806 la band ie ra austriaca fu ammaina ta sui p e n n o n i di Piazza San Marco a Venezia e sostituita dal tricolore italiano. Napoleone aveva deciso di anne t te re i ter­r i tor i venet i s t rappa t i al l 'Austria a l R e g n o Italico che o ra contava circa sette milioni di abitanti e si es tendeva fino al­l 'Istria e alla Dalmazia. Il Pr incipe Eugen io venne a p r e n ­d e r n e ufficialmente possesso in febbraio, accolto con schiet­to en tus iasmo. Alla vecchia Repubbl ica , divisa ora in sette d ipa r t imen t i , fu rono lasciate delle mag i s t r a tu re speciali e u n a certa au tonomia nei confronti di Milano. Grazie alla sua lunga e gloriosa tradizione politica, la Serenissima dispone-

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va ancora di u n a classe d i r igen te di notevole livello. Nella loro qualità di Podestà di Venezia, sia Renier che Gradenigo d iedero prove eccellenti. La Dalmazia venne affidata, col ti­tolo di Provveditore Generale , a un patrizio di lontana ori­gine ebraica, ma il cui n o m e brillava nel «Libro d 'Oro» della città, Dandolo , di cui Napoleone aveva det to: «E con Melzi l 'unico vero u o m o politico italiano». Ce n ' e ra bisogno per­ché la Dalmazia, come a n c h e l 'Istria, n o n era governabi le né da Milano né da Venezia, ed ebbe un'esistenza tribolata dalle cont inue rivolte delle popolazioni slave. Per repr imer­le, Eugenio vi m a n d ò dei repar t i dell 'esercito italiano, che lì fece le sue p r ime esperienze di gue r r a d o p o secoli d'imbelle passività. Si ba t te rono con onore , ma sempre a fianco delle t r u p p e francesi, che n o n po te rono mai sguarni re quelle ter­re dilaniate da una endemica guerriglia.

In o m a g g i o alla giustizia dis t r ibut iva nel la spar t iz ione delle spogl ie fra i pa r en t i , N a p o l e o n e p r o c e d e t t e ad altri parziali aggiustamenti . Avendo dato al Regno Italico, cioè a Eugenio, tut to il Veneto, gli tolse la Garfagnana e il Ducato di Massa-Carrara pe r a r ro tonda re la dote di sua sorella Eli­sa, Principessa di Lucca. Ma costei non si contentò . Voleva tut ta la Toscana, e la voleva da vera sorella di Napo leone , tenace e imper iosa come lui. «Fare il sottoprefetto a Lucca non p u ò e non deve piacermi» gli scriveva.

Ma con ten ta r l a n o n e ra facile. Luigi di B o r b o n e , a cui nel 1801 la Toscana e ra stata assegnata col titolo di Re di E t rur ia , n o n aveva r e g n a t o - e male - che d u e ann i . Nel 1803 era mor to , ma sul t rono restava la vedova Maria Luisa in qualità di «reggente» pe r conto del f iglioletto mino renne . N a p o l e o n e che q u a n d o e r a n o in giuoco interessi politici n o n si lasciava cond iz iona re da scrupol i di ga lanter ia , le avrebbe dato volentieri i l benservito. Ma essa e ra u n a Bor­bone di Spagna, cioè appar teneva a u n a dinastia e a un Pae­se, di cui l ' Impera tore voleva a tutt ' i costi serbare l'amicizia. Bisognava d u n q u e risolvere il p rob lema d 'accordo con loro, e alla ricerca di questo accordo fu intavolata u n a complessa

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trattativa che d u r ò quasi d u e anni , ma di cui a noi interessa solo il risultato.

Abbiamo già det to che l 'uomo di fiducia di Napoleone a Madr id era Godoy, il favorito della Regina. Per averlo dalla p ropr ia par te in una transazione di quel l ' importanza, ci vo­leva u n a mancia adegua ta . Napo leone , che o rma i c redeva di poter d isporre dei t roni europe i come di suoi beni priva­ti, offrì a Godoy quello del Portogallo, o pe r meglio dire di una metà del Portogallo l'altra sarebbe anda ta a Maria Lui­sa in cambio dell 'Etruria.

Del pa t to fra i d u e compar i nessuno fu informato, nem­m e n o il Re Carlo IV, che del resto n o n veniva mai informa­to di nulla e si limitava ad avallare regolarmente ciò che ave­vano deciso la Regina e il suo amante . Questi ultimi, miran­do a c r e a r e anche stavolta i l fatto compiu to , ai p r imi del 1807 r i ch iamarono alla chetichella le t r u p p e spagnole che presidiavano la Toscana. Subito dopo , quelle francesi occu­p a r o n o i l por to di Livorno. In novembre l 'ambasciatore di Napo leone a Firenze informò Maria Luisa ch'essa non era più Regina di Etruria, ma del Portogallo set tentr ionale. La Regina n o n solo non mosse obbiezioni, ma n o n se ne mo­strò n e m m e n o sorpresa. Unica sua preoccupazione fu quel­la di stivare nelle casse tut to ciò che da palazzo Pitti si pote­va po r t a r via, compresa la salma del mar i to . La colonna di carri che nel d icembre (1807) si avviò p e r la via Bolognese r i cordò ai fiorentini quella che aveva seguito Francesco di Lorena e sua moglie Maria Teresa dopo la loro p r ima e uni­ca visita a Firenze come successori dei Medici. Ma i saccheg­gi non li subiscono che coloro che se li mer i tano. E i toscani e gl'italiani da secoli non meri tavano altro.

Con l 'abituale docilità il Senato fiorentino, in un p r i m o «consulto» del maggio 1808, proclamò la Toscana terr i tor io de l l ' Impe ro , e con un secondo del marzo 1809 r e s t au rò i l G r a n d u c a t o sotto la c o r o n a di Elisa Baciocchi B o n a p a r t e . Firenze se ne dimostrò così poco entusiasta che la nuova so­vrana preferì farvi il suo ingresso nelle o re an te lucane , in-

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sieme - dice Bargellini - agli erbivendoli e ai lattai. Abituati al t ono affabile e alla m a n o m o r b i d a dei loro G r a n d u c h i , Medici o L o r e n a che fossero, i fiorentini avevano s e m p r e detestato i francesi soprat tut to pe r le loro manie re imperio­se e altezzose. Siccome in testa ai loro o rd in i e b a n d i c 'era s empre la tronfia espressione nous voulons, noi vogliamo, li chiamavano «i nuvoloni».

Bisogna dire che Elisa, nel poco t empo ch'ebbe a disposi­zione, fece del suo meglio pe r affezionarseli. I suoi po te r i e rano ancora più circoscritti di quelli di Giuseppe a Napoli e di Eugenio a Milano: si l imitavano a una vaga supervisione sull 'operato delle autori tà politiche e militari che prendeva­no gli ordin i d i re t tamente da Parigi. Ma essa li esercitò con accortezza e con una diligenza che rasentava il puntiglio. «Il lavoro è diventato la mia unica passione» scriveva al fratello, e infatti voleva vedere , sapere e controf i rmare tut to . Confi­nato in un platonico comando di t ruppe , il mari to aveva così poca voce in capitolo che l 'ambasciatore Menou consigliò a Napoleone di «rinchiudere questo r imbambito in Senato».

Piena di fiducia, la Granduchessa scriveva: «Fra qualche a n n o i toscani s a r a n n o c o m p i u t a m e n t e francesi». Q u a n t o fondato fosse il suo ott imismo, mancò il t empo di verificar­lo. Ma per il m o m e n t o tuttavia il sogno italiano di Napoleo­ne pareva avverato. Meno le d u e isole, egli era davvero Rex totius Italiae. Ne disponeva da p a d r o n e assoluto, e lo d imo­strò pe r l 'ennesima volta col cambio della guard ia sul t rono di Napoli : un avvenimento s t re t tamente legato a quelli in­ternazionali che lo condussero alla catastrofe.

Uno dei pun t i fermi della sua politica, lo abbiamo già detto, era sempre stato l'amicizia con la Spagna pe r n o n essere co­stretto a combat tere anche sul fronte dei Pirenei. Ma dell'a­micizia N a p o l e o n e aveva un concet to mol to pe r sona le : la confondeva con la d ipendenza . Quella che Godoy gli assicu­rava, grazie a l l ' ascendente che esercitava sulla Regina, da qualche t empo n o n lo contentava più. E siccome non riusci-

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va a r e n d e r l a p iù sollecita, decise di tagliar cor to alla sua maniera , cioè impad ronendos i anche del t rono di Madr id . Dopo il trionfo di Austerlitz e l 'accordo di Tilsit con la Rus­sia, egli era convinto di poter ormai d ispor re del l 'Europa.

N o n r i fa remo la storia dei sord id i in t r ighi con cui egli cercò di screditare agli occhi del m o n d o e dei loro stessi sud­diti i Borbone di Madr id . E ven iamo al r isultato di ques ta manovra . Nel maggio del 1808 tutta la famiglia reale, com­preso il favorito Godoy, fu convocata a Baiona e cost re t ta con un ricatto a r inunc ia re al t rono . Napoleone credeva di aver risolto tut to con quell 'estorsione. Non aveva fatto i con­ti con l 'orgoglio degli spagnol i , s e m p r e disposti a sbeffeg­giare i loro Re in carica (e Carlo IV ne aveva offerto abbon­dant i pretesti), ma altret tanto pront i a scendere in a rmi pe r difenderli dal sopruso straniero.

In un bat t ibaleno il Paese fu in fiamme, Napo leone do­vette dislocarvi 300.000 uomin i p e r venire a capo della ri­bellione, e n o n ci riuscì. L'Austria, che d o p o Austerlitz n o n spiava che l'occasione della rivalsa, credet te ch'essa fosse ve­nu ta e scese di nuovo in g u e r r a con un attacco a sorpresa. Napoleone fece in t empo a r ien t ra re a Parigi e a r iassumere il c o m a n d o dell 'esercito. Vinse ancora , a Wagram, ma fati­cosamente e n o n in m a n i e r a risolutiva: la Spagna gli stava d ivorando uomini e materiali .

La pace fu saldata con modif iche ter r i tor ia l i che , p e r quan to r igua rda i l nos t ro Paese consistet tero nell 'assegna­zione dell'Alto Adige al Regno Italico, e con un matr imonio . Da quando gli e ra sbollita la passione pe r Giuseppina e que­sta si e ra dimostrata incapace di dargli un erede , Napoleone meditava di divorziare da lei pe r con t ra r re un 'a l t ra un ione che fosse a n c h e po l i t i camente reddi t iz ia . L ' Impe ra to r e d 'Austr ia d isponeva di u n a f igl ia che, ol tre a p roven i re da u n a famiglia che forniva solide garanzie di prolificità, e ra disposta , come diceva Met te rmel i , «ad accet tare tu t to ciò che possa cont r ibu i re al benessere e alla pace dello Stato». Sposandola , N a p o l e o n e s ' imparen tava con la p iù antica e

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prestigiosa dinastia d 'Europa , gli Asburgo, e se la faceva al­leata o a lmeno n o n più nemica.

Bisognava pe rò annul lare la p recedente un ione con Giu­seppina pe rché i cattolicissimi Asburgo non si contentavano d ' u n m a t r i m o n i o civile; volevano anche quel lo rel igioso. Dopo pianti e disperazioni , Giuseppina dovet te consent i re a dichiarare ch'essa aveva «costretto» Napoleone a sposarla, e il t r ibuna le ecclesiastico finse di c reder lo . Il ma t r imon io con Maria Luigia fu celebrato nel 1810, e l 'anno d o p o nac­que i l sospirato e r ede , p roc lamato subito Re di Roma, ma destinato a non salir mai su nessun t rono.

Abbiamo anticipato questi avvenimenti pe r far capire al let­tore quelli italiani che ne furono il riflesso.

Torn iamo per un m o m e n t o a Madr id . Ad annunc ia re al Consiglio di Reggenza che i Borbone avevano «rinunciato» al t rono di Spagna, era stato il genera le Murat , cognato di Napoleone , di cui aveva sposato la sorella Carolina. Su ordi­ne d e l l ' I m p e r a t o r e , egli aveva invitato gli spagnol i a desi­gnare un altro Re nella speranza - pare - di essere lui il p re ­scelto. Ignorava che Napoleone aveva già tut to predisposto: i l t r o n o di Madr id era des t inato a Giuseppe pe rché , come fratello maggiore , gli toccava il posto più impor t an t e . Lui, Murat , veniva des ignato al t r ono di Napoli , e n o n a titolo personale, ma come marito di sua moglie, «la quale - diceva l'atto d' investitura - con la presente cessione at tuata soprat­tutto in suo favore, met te la sua famiglia sul trono». E que­sta formula piuttosto insul tante era destinata a far sentire i suoi effetti sui successivi at teggiamenti di Murat .

Qua l cuno si aspettava un cambio della guard ia anche a Milano, ora che il viceré Eugenio non poteva più contare su sua m a d r e Giusepp ina . Ma N a p o l e o n e s i mos t rò pe r u n a volta tan to gene roso , anche p e r c h é d i quel f ig l ias t ro n o n aveva da lagnars i . Eugen io n o n aveva mai t rasgred i to un suo o rd ine e aveva esercitato i suoi scarsi poter i con m o k a oculatezza. Conduceva una vita esemplare con la moglie che

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Napoleone gli aveva assegnato, la figlia del Re di Baviera. E anche se n o n riusciva a farsi a m a r e dai suddi t i p e r la sua scarsa comunicatività, e ra riuscito a farsi s t imare. Suo suo­cero aveva s t r appa to a Napo leone la p romessa di d a r e un giorno a Eugenio e a sua moglie un vero Regno. Dopo il di­vorzio da Giuseppina era chiaro che la promessa n o n sareb­be stata mantenuta , ma questo n o n impedì a Eugenio di re­stare fedele a l l ' Imperatore .

Ecco d u n q u e all 'ingrosso il q u a d r o di questa Italia alla fi­ne in te ramente napoleonica dalle Alpi allo stretto di Messi­na. Al mosaico manca un pezzo solo: gli Stati pontifici. Ma questa è u n a vicenda che meri ta un capitolo a par te .

CAPITOLO QUINDICESIMO

CESARE E P I E T R O

La crisi che por tò alla soppressione dello Stato della Chiesa ha origini lontane, che ci obbligano nuovamen te ad alcuni passi indietro.

Q u a n d o nel 1800 to rnò in Italia d o p o l 'avventura egizia­na, Napoleone era già Pr imo Console e cer tamente medita­va la scalata al t r ono imper ia le . Per compier la , aveva biso­gno del l 'appoggiò delle forze conservatrici, di cui n o n vole­va u r t a r e i sent iment i cattolici, e questo l 'obbligava a cam­biare politica verso la Chiesa. N o n restituì al Papa le Lega­zioni, cioè le province di Bologna e di Ferrara, o rmai annes­se alla Cisalpina. Ma tut to il resto glielo lasciò, e anzi gli p ro ­pose un C o n c o r d a t o p e r r ego la re tu t te l e p e n d e n z e fra Chiesa e Stato.

Non era facile perché il regime politico francese si basava su princìpi e aveva in t rodot to istituti che la Chiesa non po­teva app rova re : i l p iù indigesto era il g iu r amen to impos to ai sacerdoti, che faceva di essi quasi dei funzionari di Stato e di quella francese una Chiesa «gallicana», cioè nazionale. In­fatti i negoziati d u r a r o n o dieci lunghi mesi e misero a d u r a prova la pazienza d i Napo leone , che n o n ne aveva mol ta . Per farli p rogred i re , egli ricorse varie volte alle minacce e ai pugn i sul tavolo, e alla fine lanciò un u l t imatum, che dava alla Cur ia solo c inque giorni di t e m p o per decidersi . Il let­tore richiami alla memor ia quel particolare m o m e n t o politi­co. La gue r r a sembrava finita, l'Austria era spazzata via dal­l 'Italia, la stessa I n g h i l t e r r a stava p e r f irmare la pace di Amiens. N o n p o t e n d o p iù contare su nessun aiuto, i l Papa respinse l ' ingiunzione, ma m a n d ò a Parigi il Segretar io di

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Stato, cardinale Consalvi, e l 'accordo fu firmato il 19 marzo del 1801.

Alcuni storici dicono che fu questo successo, diplomatica­men te importantissimo, a t r a r re in e r ro re Bonapar te facen­dogli c redere di avere nel Papa un inter locutore dalle mos­se lente, ma debole e docile. Non era così. Pio VI I n o n ap­p a r t e n e v a di cer to alla ca tegor ia dei g r a n d i Papi r inasci­mentali , uomini più di politica e di gue r r a che di p reghie re . Di umili origini, t imido, fragile e minuto , con gli occhi inca­vati nel volto ossuto e olivastro, n o n aveva nulla d ' imponen­te. Ma era sacerdote fino al midollo e p ron to , q u a n d o e rano in ballo gl ' interessi della Chiesa, a t r amu ta r s i in mas t ino . Questo , Napoleone non capì. E il suo ambasciatore a Roma, Cacault, che cercò di spiegarglielo, fu silurato e r impiazzato dal cardinale Fesch, un u o m o rozzo, che aveva un solo me­rito: quello di essere zio del Primo Console.

Il 18 maggio del 1804 ci fu il plebiscito che proc lamava Napoleone Impera to re . Dieci giorni p r ima questi aveva ac­cenna to a l cardinal Cap ra ra , Lega to pontificio in Francia, all 'eventualità che il Papa venisse a investirlo a Parigi dove la Chiesa avrebbe così r i g u a d a g n a t o tu t to il suo pres t igio . Na tu r a lmen te il prestigio che a Napo leone interessava e ra quello suo. La sua corona ne avrebbe acquistato molto agli occhi di tut to il m o n d o , se il Papa si fosse scomodato a veni­re fin lì pe r consacrarla.

Vecchio, ma landa to e facilmente influenzabile, C a p r a r a informò la Curia suggerendo u n a risposta favorevole. Ma le trattative, subito d o p o aper te tra Fesch e Consalvi, si rivela­rono difficili. I francesi p roposero che il Papa andasse a con­dur le di persona a Parigi, dove ci s ' impegnava a t rovare so­luzioni pe r ogni problema. I l d i lemma, pe r Pio VII , era an­goscioso. Accet tando, temeva di consegnars i nelle man i di un in ter locutore capace di qualsiasi ricatto. Rifiutando, te­meva di pe rde re pe r sempre la Francia, come i suoi p r ede ­cessori avevano perso l ' Inghi l terra ai tempi di Enrico V i l i . Delle d u e p a u r e , la seconda finì pe r p reva le re . E così il 2

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n o v e m b r e i l Papa salì in carrozza, con g ran m a l u m o r e dei roman i che consideravano la loro città unica depositaria dei poter i d ' investi tura, e scandalo delle altre Corti , che segui­tavano a vedere in Napoleone un usurpa tore .

Il viaggio fu penoso anche pe r ché il seguito era compo­sto per gran par te di alti prelati molto avanti negli anni e di salute mal fe rma. U n o di essi infatti, i l ca rd ina le Borgia, morì a Lione. Finalmente, dopo tre sett imane di diligenza e di scossoni, nella foresta di Fontainebleau, avvenne l'incon­t ro con l ' I m p e r a t o r e , che la p r o p a g a n d a ufficiale spacciò pe r fortuito e «provvidenziale». Viceversa era stato accura­t amente studiato e p r o g r a m m a t o . E la sera del 25 il corteo en t rò nelle Tuileries.

I l Papa si r i t rovò sul pe t t i ne p iù n o d i di quan t i avesse previsto e senza margine contrat tuale pe r risolverli. Se aves­se b u t t a t o tu t to all 'aria, av rebbe n o n sol tanto fatto la fine del suo predecessore Pio VI, ma forse anche perso davvero la Francia. Decise quindi di concent rare la sua resistenza sul solo p u n t o che gli pareva essenziale: il g i u r a m e n t o costitu­zionale del neo- Impera to re . Se esso avesse fatto pa r te della ce r imonia e fosse stato p r o n u n c i a t o in sua p resenza , ciò avrebbe significato da p a r t e sua l 'accet tazione di cert i pr incìpi di governo , che la Chiesa n o n poteva sanzionare . Esigette quindi che il g iu ramento fosse pronuncia to a par te .

Su tut to il resto dovette cedere , e non e ran cose da poco. Anzitutto, dovette r inunciare a p o r r e con le sue mani la co­rona sulla testa de l l ' Impera tore , cioè al simbolo del suo po­tere d ' investi tura. Napo leone se la sarebbe infilata da sé, a significare ch 'e ra lui a d i sporne , e n o n il Papa a conceder­gliela. Quest i n o n doveva di re Eligimus, lo eleggiamo, come sempre si e ra fatto nelle incoronazioni , ma Consecraturi su-mus, lo consacr iamo. Per di p iù veniva abolita la p resen ta ­zione dei d u e Vescovi cui, secondo la p r o c e d u r a tradiziona­le, i l Papa avrebbe dovuto chiedere , ind icando l ' Impera to ­re: Scis illum esse dignumì, ti risulta che sia degno? Insomma, il mil lenario rituale era stato comple tamen te r ivoluzionato

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per fare de l l ' Impera to re l 'unico protagonis ta della cerimo­nia e r i du r r e la par te del Papa a quella di semplice notaio.

Così fu. II ri to del 2 d icembre nella chiesa di Notre-Da-me fu i m p o n e n t e e ragg iunse i p iù alti effetti spettacolari . Ma il gesto di Napo leone che s'infilava da sé la corona era t a lmente inatteso e in contras to con la prassi t radizionale , che molti pensa rono a un colpo di forza; e q u a n d o seppero ch 'e ra stato concorda to , ne furono indignat i . «Tutto, nella rivoluzione - scrisse il cattolicissimo De Maistre - è miraco­losamente cattivo, ma ques to è il non plus ultra. N o n res ta che des ide ra re che i l Papa scenda fino in fondo, in m o d o da n o n essere più che un pulcinel la senza peso né impor ­tanza.»

Q u a n d o risalì in carrozza pe r to rnare a Roma, Pio VII si e r a già accorto che que l l ' avven tu ra si ch iudeva p e r lui in net to passivo. Aveva spera to di o t t ene re a lmeno la rest i tu­zione delle Legazioni, ma Napoleone se l 'era cavata con pa­role vaghe che n o n lo i m p e g n a v a n o a nulla. A p p e n a r ien­t ra to , scrisse a l l ' I m p e r a t o r e : «Non poss iamo n a s c o n d e r e che res ta in noi mol ta amarezza». Ma poi , a q u a n t o p a r e , stracciò la lettera e l 'amarezza se la t enne in corpo. Q u a n t o a N a p o l e o n e , si e r a v ieppiù convin to de l l ' a r rendevo lezza del Papa. «E un b u o n uomo» diceva, sicuro di poter lo tene­re a guinzaglio. E su questo e r r o r e di valutazione impostò tut ta la sua politica con la Chiesa.

Come abbiamo già det to, è difficile stabilire quanto l 'incoro­nazione di Napoleone p r ima a Impe ra to re dei francesi, poi a Re d'Italia, abbia influito sulla formazione della terza coa­lizione anglo-russo-austr iaca. Ma che vi abbia influito n o n c'è dubbio. C o m u n q u e , nel set tembre del 1805 la parola era - scusate se ci r ipet iamo - di nuovo agli eserciti. E, sebbene il teatro principale delle operazioni fosse stavolta la Germa­nia, anche l'Italia ne fu coinvolta, e le forze francesi vi si t ro­varono in una situazione piuttosto delicata. Se i port i ponti­fici e sopra t tu t to Ancona avessero consenti to uno sbarco ai

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russi e agl ' inglesi, pe r l ' a rmata del Beauharna i s n o n ci sa­rebbe stato scampo. Per p r even i r e ques to pericolo, N a p o ­leone ord inò l 'occupazione di quella città.

Il Papa reagì con una let tera t raboccante di collera e di minacce. Napoleone , che n o n se l 'aspettava, la ricevette pro­pr io alla vigilia della battaglia di Austerlitz, decisiva pe r le sue fo r tune . La cons ide rò u n a p u g n a l a t a nella schiena e de t tò u n a r isposta b ru t a l e e b ruc i an t e in cui in t imava al Pontefice di sbarrare la por ta dei suoi Stati ai «nemici dell 'I­talia», che e rano i nemici di Napoleone , cioè in parole pove­re di r inunziare alla neutrali tà.

Questa replica dovette arr ivare a Roma quasi contempo­r a n e a m e n t e alla notizia della c lamorosa vit toria r i p o r t a t a da l l ' Impera to re , che ribadiva il suo assoluto domin io sulla penisola e poneva fine a quella ennes ima g u e r r a . Ma n o n pe r questo il Papa disarmò, e la sua corr ispondenza con Na­po leone segui tò a svolgersi su toni a s p r a m e n t e polemici . Tut to ormai era pre tes to di litigio fra i d u e . Ma il nocciolo della quest ione è in una lettera de l l ' Impera to re che la rias­sumeva così: «I nostri r appor t i devono basarsi sul fatto che Vostra Santi tà mi deve, nel c a m p o t empora l e , gli stessi ri­guard i che io ho pe r Essa nel campo spirituale. Vostra San­tità è sovrana di Roma, ma io ne sono l ' Imperatore». Al che Pio VII r i spondeva: «Non esiste un I m p e r a t o r e che abbia diritti su Roma.. . Non esiste un Impe ra to re di Roma».

N a p o l e o n e p r o p o s e nuovi negoziat i , ma a condiz ione che si svolgessero a Parigi e che il delegato di Roma fosse un Cardinale francese muni to di pieni poteri . Il Papa p r ima si piegò, poi ritirò la delega e respinse l'abbozzo di trattato che gli avevano spedito. Napoleone tagliò corto. In gennaio (del 1808) ord inò al generale Miollis di muovere con le sue t rup­pe su Roma, e l 'ambasciatore Alquier a m m o n ì la Santa Sede che qualsiasi at to di resis tenza avrebbe i m m e d i a t a m e n t e provocato l 'annessione degli Stati della Chiesa al Regno Ita­lico.

Stando alle dichiarazioni ufficiali, doveva trattarsi soltan-

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to di un 'occupazione t e m p o r a n e a pe r i n d u r r e i l Papa a un at teggiamento più ar rendevole . Ma le istruzioni ad Alquier par lavano un linguaggio assai diverso: «L'Imperatore vuole che la Corte Papale cessi insensibilmente, senza che quasi ci se ne accorga, di esistere come potere temporale».

I r o m a n i avevano assunto , nei confront i dei francesi, il solito a t t egg iamen to canzona to r io , che gli p e r m e t t e v a di manifes tare ostilità senza c o r r e r e rischi. Ma n o n mossero un dito quando gli videro disarmare gli svizzeri e incarcera­re in Castel Sant 'Angelo la Guard ia Nobile. Napoleone sta­va già smantel lando gli Stati Pontifici. Ne aveva staccato An­cona, Urbino, Macerata e Camer ino , annet tendole al Regno Italico. Forse avrebbe seguitato di quel passo, senza precipi­tare le cose, se ancora una volta n o n si fosse trovato in guer­ra. L'Austria lo aveva attaccato di sorpresa m e n t r e era impe­gnato in Spagna. Rient ra to in g ran fretta, aveva fulminea­mente rintuzzato l 'aggressione a Wagram, e dalla Germania si e r a avventa to sulla capi tale nemica . Fu nella r i nnova ta certezza della p ropr ia invincibilità che dal «campo imperia­le di Vienna» firmò nel maggio (del 1809) il decreto che de­cideva il destino del l 'Urbe.

Miscuglio di so lenni tà e di d i le t tan t i smo, di s toria e di teologia, quel d o c u m e n t o in tendeva pa r l a r e a l Papa in un l inguaggio da Papa e impart irgli alcuni insegnament i sulle faccende del cielo. In Cur ia dovette suscitare u n a certa ila­rità, ma fugace, perché scendendo sulla te r ra il discorso di­ventava t e r r ib i lmen te serio. La donaz ione fatta da Car lo Magno ai Pontefici con tutti i diritti temporal i che ne conse­guivano, veniva abrogata, il loro Stato soppresso e i loro ter­ritori annessi a l l ' Impero. Roma diventava città imperiale. Al Papa venivano lasciati sol tanto i suoi palazzi con garanz ia d ' immuni tà e u n a rendi ta di due milioni l 'anno.

II 10 giugno, fra le salve di cannone , la bandie ra pontifi­cia veniva ammaina ta su Castel Sant 'Angelo e sostituita dal tricolore francese. Lo stesso giorno il Papa emanò una «bol­la», che scomunicava i responsabili degli at tentat i cont ro la

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Santa Sede «qualunque sia l 'onore dell'alta dignità di cui so­no investiti». I l n o m e di Napo leone n o n era citato. Ma era chiaro che l 'anatema ricadeva su di lui.

L ' Imperatore ne fu indignato come di un t rad imento : da un «buon uomo» come Pio VII n o n se l 'aspettava. Furibon­do , scrisse a Miollis: «Non bisogna più avere r iguardi : que­sto pazzo furioso va rinchiuso». Se questa lettera fosse giun­ta al dest inatario, u o m o accorto e cauto, forse non sarebbe stata i n t e r p r e t a t a come un o r d i n e . Ma v e n n e in te rce t ta ta dal capo della gendarmer ia Radet che, come tutti i gendar ­mi, n o n distingueva che fra obbedienza e insubordinazione.

Nella notte fra il 5 e il 6 luglio, alla testa di un drappel lo formato di soldati e di fabbri, Rade t si recò al Qui r ina le e, t r o v a n d o n e chiusa la por ta , ne fece demol i re le se r ra tu re . L'operazione fu r ipetuta altre tredici volte perché altrettan­te e rano le por te da at traversare pe r raggiungere l 'apparta­m e n t o del Papa. I cupi tonfi della scure si mescolavano ai rintocchi delle campane sciolte a distesa pe r ch iamare il po­polo alle a rmi . Il popo lo accorse, ma d i sa rmato , e stette a guardare .

Q u a n d o fu davanti al Papa che, pallidissimo, con una sto­la sulla veste bianca e un crocefisso in m a n o , lo a t t endeva nel suo s tudio, a Rade t la baldanza cadde di dosso. Sull'at­tenti e incespicando con le parole , intimò al Papa di r inun­ciare a l p o t e r e t e m p o r a l e e , n o n a v e n d o o t t e n u t o che un fermo rif iuto, disse: «Poiché tale è la decis ione di Vostra Santi tà, devo d ich ia ra r le che ho l ' o rd ine d i c o n d u r l a con me». Il Papa lo seguì senza o p p o r r e resistenza. Q u a n d o fu in mezzo alla t r u p p a che presidiava il cortile, la benedisse. E salì sulla carrozza che lo at tendeva.

Il seguito della sua vicenda lo vedremo più tardi .

Con la depor taz ione del «buon uomo», Napoleone credeva di aver risolto una volta pe r tut te i rappor t i fra Stato e Chie­sa. Ma dovette presto accorgersi che la Chiesa n o n era u n a provincia o un Reame da potersi alienare o anne t te re a pia-

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cere. Siccome c 'erano delle diocesi vacanti, egli ne nominò i titolari, convinto che il Sacro Collegio avrebbe approvato le sue scelte. Invece il Sacro Collegio si rivolse al Papa interna­to a Savona e, siccome questi rispose che nella sua condizio­ne di pr igioniero n o n e ra libero di decidere , negò la ratifi­ca. Firenze e Asti si rifiutarono di ricevere il nuovo Vescovo, Fioccarono i p r imi arrest i di sacerdoti e il Papa fu sot topo­sto a un isolamento quasi totale. «Non c'è d u n q u e un mezzo canonico di pun i r e un Papa che predica la rivolta e la guer­ra civile?» chiedeva l ' Impera tore furibondo.

E v i d e n t e m e n t e , n o n c 'era. Convocat i p e r suo o r d i n e , d u e Consigli ecclesiastici si r imisero pe r le decisioni finali a un Concilio che a sua volta si r imise al Papa . Più che dal «vertice», la resistenza veniva dalla base, cioè dal basso cle­ro . Quello alto, disse il cardinale Pacca, mostra «un compia­c imento servile, malat t ia endemica fra i prela t i che fin dai t empi d i Costant ino h a n n o f requenta to le Corti». Ma n o n era del tu t to vero: q u a n d o gli fu imposto il g iu ramen to al­l ' Impera tore , nove dei dodici Vescovi del l 'Umbria lo rifiuta­rono . «Voglio che si esca da questa situazione ridicola» tuo­nava N a p o l e o n e . C o m i n c i a r o n o le depor t az ion i . In m a n ­canza di vagoni piombati , lunghe colonne di pret i e frati fu­rono avviate a piedi oltre le Alpi e in Corsica. C 'erano anche parecchi laici, che avevano anch'essi rifiutato il g iu ramen to cui e rano tenut i pe r le loro funzioni: a Roma, su mil ledue­cento avvocati, solo quaran ta lo avevano prestato. Chissà se Napoleone rifletté sulla singolarità di questo Paese che sfor­nava con altret tanta generosità renitenti alla leva e volonta­ri della persecuzione.

Nessuno p u ò d i re come si sarebbero sciolti questi nodi , se a tagliarli n o n fosse sopravvenu to il crollo de l l ' Impe ro . Pio VII diceva: «E u n o scisma», e forse lo sarebbe diventato. Ma n o n ce ne fu il t empo . Il poco che gli restava, Napoleo­ne lo impiegò a fare di Roma, dove n o n aveva mai messo piede, ma di cui subiva il fascino, la seconda città del l ' Impe­ro . Dappr ima aveva pensato di mandarc i come governatore

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qualcuno della sua famiglia. Ma poi vi lasciò, a t t r ibuendogl i il titolo di L u o g o t e n e n t e e vasti po ter i , il genera le Miollis, dal quale d ipendevano i d u e prefetti del Tevere e del Trasi­meno , cioè del Lazio e del l 'Umbria. Il resto era stato annes­so al Regno Italico.

Tut to sommato , fu un b u o n governo . I l p rosc iugamento delle pa ludi pont ine , già iniziato da Pio VI e Pio VI I , rice­vette un 'energica spinta, e alcune drast iche r iforme misero fine al caos amministrat ivo e finanziario in cui versava quel­lo Stato, di cui Goe the diceva che «stava in p iedi solo per­ché a n c h e l ' in ferno si r if iutava d ' inghio t t i r lo» . I l deb i to pubblico fu l iquidato, sia p u r e con metodi di rap ina . Molti m o n u m e n t i e palazzi che d i roccavano v e n n e r o res taura t i . Vennero compiu t i n u m e r o s i tentativi p e r r ipopo la re i l se­mideser to «agro», ma qui i successi furono scarsi: la gente n o n voleva starci pe r p a u r a n o n tanto della malar ia quan to dei br igant i , le cui b a n d e e r ano a l imentate sopra t tu t to dai disertori .

I l n u o v o r eg ime n o n v e n n e mai minaccia to da rivolte, ma fu sempre avversato dalla massa della popolazione, sen­sibile alle istigazioni di un clero disoccupato, r idot to in g ran par te alla clandestinità e b u o n fornitore anch'esso di reclute al br igantaggio. Solo u n a par te della nobiltà e dell'alta bor­ghesia furono favorevoli al l 'opera riformatrice e vi collabo­r a r o n o . Ceti medi e popo l ino , abi tuat i a vivere di Papi, di Cardinal i e di elemosine, manifes tarono la loro ostilità con l'inerzia, il boicottaggio, le solite corbellature affisse alla sta­tua di Pasquino e la larga ospitalità accordata agli agenti in­glesi e borbonici . Di essere stata promossa a «seconda capi­tale del l ' Impero», Roma non mostrò mai l 'orgoglio.

L'Italia napoleonica (1810)

CAPITOLO SEDICESIMO

MURAT

Q u a n d o , il 6 set tembre del 1808, venne a p r e n d e r e posses­so de l suo Regno , Gioacchino M u r a t fece ai napo le t an i un 'eccel lente impress ione . Bello, giovane, a i tante , i l volto incorniciato in u n a cascata di riccioli ner i e i l luminato dagli s tupendi occhi turchini , aveva tut to e di tut to fece pe r pia­cere a tut t i : aveva inventa to anche u n a divisa appos ta p e r l'occasione, scintillante di fregi e di medaglie; e ra ent ra to in città seguito soltanto da un aiutante di campo pe r dimostra­re la sua fiducia nella popolazione; anche lui era subito an­dato a r e n d e r e omaggio a San Gennaro ; e aveva al suo fian­co, come pòlizza di assicurazione, Carol ina Bonapa r t e , so­rella de l l 'Onnipotente .

I biografi dicono che in origine il suo n o m e e ra Murad , t ipicamente arabo, e l'ipotesi è suffragata dal fatto che nella sua con t r ada di nascita, il Quercy, ci sono ancora i resti di un villaggio mussu lmano dei t empi di Carlo Martello che si chiamava a p p u n t o Murad-la-Rave, cioè Murad- l 'a rabo. Era figlio di un piccolo albergatore, che lo mise in seminario pe r far di lui un pre te . Il ragazzo, che aveva solo la passione del­le d o n n e , dei cavalli e delle avventure , fuggì, si a r ruolò nel­l'esercito del Re, e se ne fece cacciare pe r insubordinazione. Fu ques to incidente a convert i r lo alla Rivoluzione. Ques ta aveva fatto piazza pulita di tutti gli alti gradi militari, fedeli alla monarchia o sospetti di esserlo. L'occasione era d 'oro, e Gioacchino n o n se la fece sfuggire. Per propiziarsi u n a car­r iera più rapida , d iede un ritocco a l p r o p r i o n o m e , t r amu­tandolo in Marat, ch 'era quello del più famoso t r ibuno del­l'epoca. Il resto lo fecero le guer re . Sergente nel '92, l 'anno

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d o p o Gioacchino era già capi tano . Gli scatti di g r a d o se li era guadagnat i a furia di cariche e di sciabolate. «Comanda­ti da lui, venti uomini valgono un reggimento» diceva Bou-r ienne , e questa voce arr ivò anche all 'orecchio di un gene­rale quasi suo coetaneo che si apprestava a invadere l'Italia con un esercito in brandell i : Bonapar te .

Q u a n d o , pochi mesi dopo , r i to rnò a Parigi pe r d e p o r r e ai piedi del Direttorio le ven tun bandie re che il suo coman­dan te aveva s t rappate agli austro-piemontesi , Murat era già colonnello, ma il Direttorio lo nominò seduta stante genera­le. In u n ' u n i f o r m e di sua invenzione - ve rde con c o r d o n i d 'oro , nastri d 'a rgento e stivali rossi -, questo «Apollo della Guerra» m a n d ò in f rantumi molti cuori femminili, e fra gli altri quello - fragilissimo - di Giuseppina Bonapar te . Quan ­to abbia pesato questa sua relazione con lei sulla diffidenza che Napo leone poi s e m p r e nu t r ì nei r igua rd i di Gioacchi­no , è difficile dire . Lo aveva decorato e promosso più volte, ma lo aveva ben misurato. Più che un vero generale, lo con­siderava un «guappo» capace d ' imprese eroiche, ma più pe r esibizionismo e spavalderia che pe r autentico coraggio. Nel­l ' impresa d 'Egit to pa re che n o n lo volesse con sé e che do­vet te subirlo p e r imposiz ione del Dire t tor io . Ma in quel la c a m p a g n a di g r a n d i spazi e di car iche a brigl ia sciolta, Gioacchino rese tali servigi che Napo leone se lo r ipor tò al seguito q u a n d o di sorpresa r ien t rò a Parigi, e fu a lui che af­fidò il delicato compito di cacciare dal pa r lamento i deputa ­ti che facevano resistenza alla sua nomina a Pr imo Console.

La mancia che Gioacchino gli chiese fu la m a n o di sua sorella Carolina. Napoleone n o n voleva saperne , ma Caroli­na si era incapricciata e aveva dalla sua Giuseppina, sempre tenera e ma te rna con i suoi vecchi amant i . Il mat r imonio si fece, spalancando all 'avventuriero nuovi insperati orizzonti. Da b u o n còrso, Napo leone aveva il culto della famiglia. E, u n a volta diventato I m p e r a t o r e e p a d r o n e di mezza Euro ­pa , si e ra messo a d i s t r ibu i rne i t ron i fra i suoi congiun t i . M u r a t sperava che ne toccasse u n o anche a lui e q u a n d o

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N a p o l e o n e , d o p o aver cacciato i B o r b o n e di Spagna , lo m a n d ò a Madr id p e r t ene re in briglia i l Paese, c rede t t e di essere il designato a quella successione.

Secondo qualche memorialista, Napoleone deluse la sua attesa pe r ché p r o p r i o allora venne a conoscenza di un pia­no segre tamente app ron ta to dai suoi ministri Tal leyrand e Fouché. In caso di mor t e de l l ' Impera to re , costoro si e r ano accordati, in mancanza di un e rede legittimo, a sostenere la candida tura alla successione di Gioacchino, considerandolo il più facile da maneggia re . N o n si sa se costui fosse al cor­ren te . Ma Napoleone lo sospettava. Sempre più lo conside­rava un bravaccio velleitario, r u m o r o s o e past iccione che «quando mi vede, è tut to mio; lontano, cade nelle man i di chi lo lusinga», e n o n migliore op in ione aveva di Carolina, «donna ambiziosa e in t r igan te che met te mille sciocchezze in testa a suo marito...» Fatto sta che la Spagna l'aveva asse­gna ta a G iuseppe . E p e r ques to , sotto il sorr iso con cui i nuovi sovrani r i spondevano alle acclamazioni della folla di Napoli, c 'era soltanto u n a profonda amarezza. Si sentivano non soltanto defraudati di un titolo molto più illustre e qua­lificante, ma anche diffidati e sospettati.

Lo stesso a t to d ' inves t i tura che regolava i r a p p o r t i fra Napoli e l ' Impero era oltraggioso. Vi si diceva che la corona era assegnata «soprattutto in favore della principessa Caro­lina», i l che r iduceva p ra t i camente Gioacchino al r a n g o di un principe-consorte . Seguiva u n a sfilza di clausole jugula -torie. Il Reame avrebbe par tecipato a qualsiasi gue r r a - di­fensiva o offensiva - d e l l ' I m p e r o , c o n t r i b u e n d o v i con 16.000 fanti, 2.500 cavalieri , 20 c a n n o n i e 12 vascelli di guer ra ; doveva p rovvedere alle spese dell 'esercito di occu­pazione francese dislocato ne l R e a m e p e r d i fender lo , ma anche pe r tener lo sotto controllo. Per di più, le cariche più impor tan t i dovevano res ta re nelle m a n i dei f iduc ia r i del­l ' Imperatore , fra i quali faceva spicco Saliceti, ministro della polizia. Della sua fe rma in t enz ione di t e n e r e il cogna to a guinzagl io, N a p o l e o n e n o n faceva mis te ro n e a n c h e nelle

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sue lettere a lui: «Non fatevi illusioni: vi ho fatto Re soltanto nell ' interesse del mio sistema». Glielo faceva r icordare , con poco garbo , anche dai suoi sot topost i . Ber th ie r scriveva a Gioacchino: «Per i vostri sudditi , siate Re. Per l ' Impera tore non siete che un viceré».

Mura t m o r d e v a il freno. «L ' Impera tore - scriveva a sua moglie - e m a n a decre t i come se fosse il p a d r o n e , i m p o n e ordini a Napoli come se fosse a Parigi. Non si è Re soltanto pe r obbedire .» Ques to e r a l 'unico p u n t o su cui Caro l ina consentiva con lui perché su tut to il resto, compreso il letto, e rano in p ieno disaccordo. Non bella, ma piena di femmini­lità, Carolina aveva l 'ambizione di Elisa e il sesso di Paolina, ma era più di loro calcolatrice e ambigua. Detestava il fratel­lo, disprezzava il mari to , e cercava di giuocarli l 'uno contro l 'altro pe r accrescere il p r o p r i o potere . I napole tani fecero pres to ad accorgersi che con l 'altra Carol ina, quella di Pa­le rmo, essa n o n aveva in c o m u n e soltanto i l n o m e ; ma era molto più intelligente, abile e tortuosa.

Per sottrarsi alla tenaglia della moglie e del cognato, Mu­rat n o n aveva che un ' a rma: la popolari tà. E per procurarse­la, ricorse a tutto. Si aggirava senza seguito pe r le s t rade di Napol i p a r l a n d o con la gen te e r accog l i endone le suppl i ­che, moltiplicava le para te militari - che tanto piacciono ai napoletani - esibendovisi a cavallo alla testa di repar t i rive­stiti in sgargianti uniformi, andò perfino in processione pe r San G e n n a r o m a n d a n d o in bestia Napo leone che gli det te del «burattino».

Ma questa attività di «pubbliche relazioni» non era che il complemento di un disegno politico ben preciso, ispiratogli dai consiglieri e funzionari di cui si era c i rcondato: fare di Napoli u n o Stato in te ramente napole tano, che all 'occorren­za potesse d iventare i n t e r amen te italiano. Il compito gli fu facilitato dall ' improvvisa mor te di Saliceti che, pe r la sua fe­deltà a l l ' Impera tore e pe r il posto che occupava di ministro della polizia, e ra il p iù autorevole e r igoroso dei suoi con­trol lori . N a p o l e o n e disse che con Saliceti « l 'Europa aveva

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perso u n a delle sue teste più forti». Ma Murat prese la palla al balzo pe r rimpiazzarlo con un uomo suo che tuttavia, es­sendo di Genova , aveva o r m a i c i t tad inanza francese: Ma­glietta. Le male l ingue dissero ch ' e r a stato lui a e l iminare col veleno Saliceti. N o n era vero. Ma il fatto che lo dicessero d imos t ra che fama godesse ques to pe r sonagg io e q u a n t o fosse qualificato a un posto in cui i galantuomini n o n h a n n o mai fatto b u o n a figura. Era insomma propr io l 'uomo che ci voleva pe r il dopp io giuoco che Mura t si p r epa rava a svol­gere pe r affrancarsi dalla Francia senza rimetterci il t rono .

Su questa strada lo spingevano gli alti dignitari napoleta­ni del suo r eg ime : i l minis t ro degli Esteri Gallo, che nella sua carr iera era riuscito ad essere l 'uomo di fiducia di tutti: p r i m a di Caro l ina d i B o r b o n e , poi d i N a p o l e o n e , po i d i G iuseppe , e o ra di Mura t . C 'e ra i l min is t ro d e g l ' I n t e r n i Zurlo, anch'egli ex-servitore del vecchio regime. C'era quel­lo della Giustizia, Ricciardi. C ' e r ano militari , funzionar i e intellettuali, come Carascosa, Colletta, Cuoco, Borrelli, tutti o quasi tutti affiliati alla Massoneria, di cui Gioacchino si at­teggiava ad alto pa t rono .

Esponent i di un movimento che si chiamava italico, que­sti uomin i speravano , p e r realizzare i l loro p r o g r a m m a di unità nazionale, di servirsi del Re, il quale sperava di servir­si di loro pe r diventare un Re italiano ind ipenden te . Per far questo, occorreva anzi tut to sloggiare dalle più alte cariche dello Stato i francesi, cui N a p o l e o n e le aveva affidate ap ­p u n t o pe r impedi re che questo avvenisse. La lotta fu a col­tello e si svolse in un groviglio d ' intr ighi da far impall idire quelli orditi a suo t empo da Carolina di Borbone. La polizia di Maghella sorvegliava quel la dei servizi napoleonic i che sorvegliavano il Re e la Regina, che a loro volta cercavano di sorvegl iare tut t i e di sorvegliarsi t r a loro in un nugo lo d ' in fo rmator i al servizio di un cer to Boria che , a furia di dopp i giuochi, n o n sapeva più egli stesso da che par te era. In ques to guazzabugl io n a t u r a l m e n t e i n z u p p a v a n o tut t i : non soltanto gli agenti borbonici e inglesi, ma anche i diplo-

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matici austr iaci , russi e quelli del R e g n o Italico di Milano che cercava un contatto con gl'Italici d i Napoli pe r un p ro ­g r a m m a di azione unitaria.

Di tu t to ques to , N a p o l e o n e e ra informat iss imo. La sua collera esplodeva in lettere fulminanti al cognato. U n a delle crisi p iù grosse scoppiò q u a n d o l ' Impera tore decise di r ipu­d iare Giusepp ina p e r i m p a l m a r e l 'austriaca Maria Luigia. Essa era la nipote di quella Carolina di Borbone, che Napo­leone odiava a mor te , ma che con questo mat r imonio diven­tava ora sua zia. I napole tani , pe r i quali n o n c'è rag ion di Stato che t enga con t ro quel la d i famiglia, p e n s a r o n o che Napoleone volesse restituire Napoli ai Borbone, e a quanto p a r e lo t eme t t e a n c h e Mura t , che accorse a Parigi p e r le nozze. L'incontro fu tempestoso. L ' Imperatore minacciò ad­dir i t tura il cognato di fargli tagliare la testa. Poi si riconciliò con lui e anzi, come pegno di benevolenza e b u o n a volontà, lo autorizzò a u n a spedizione contro la Sicilia pe r annet ter la al Reame.

To rna to a Napol i , M u r a t affidò l ' impresa al gene ra l e Grenier che, di qua t t ro divisioni, riuscì a sbarcarne nell'iso­la u n a sola; ma, attaccato dagl'inglesi, r ichiamò anche quel­la. Que l fiasco fu causa di nuovi e più gravi dissapori fra i d u e cognati . Napoleone rinfacciò a Gioacchino di aver mal p repa ra to la spedizione e di aver dato pubblicità al suo falli­m e n t o . Gioacchino si convinse o si lasciò conv incere che Grenier si e ra ritirato su o rd ine segreto de l l ' Impera tore cui interessava soltanto tenere impegna te le forze inglesi in Si­cilia. E n o n è da escludere che fosse p ropr io così.

Abi lmente sfrut tato dai suoi consiglieri «italici», ques to incidente lo spinse ad accentuare i suoi a t teggiamenti d'in­d ipendenza . Già da t empo egli andava rafforzando l'eserci­to e molt ipl icandone gli effettivi. I 20 mila uomini lasciatigli in e red i tà da Giuseppe e r a n o diventat i 40 e ora si s tavano avviando ai 60 mila. Napoleone se ne al larmò. «Il deficit del vostro bilancio - scrisse al cogna to - è dovu to al man ten i ­m e n t o di u n a milizia sproporzionata ai vostri bisogni. Se vi

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contentas te di quindic i o vent imila uomin i , sareste ricco.» Murat fece orecchio da mercante , e anzi volle da re a questo suo esercito u n a band ie ra che ne sottolineasse l ' indipenden­za: un tricolore bianco, celeste e amaran to . Nell 'annunziar-lo a l l ' Imperatore , gli disse che il bianco voleva simboleggia­re i legami di Napol i con l ' Impe ro e gli chiese il pe rmesso di accorrere a Parigi pe r la nascita del sospirato e rede .

Vi andò infatti nel marzo del 1811. Pare che nei colloqui a t uppe r tù si r ipetessero le scenate del p recedente incontro. Ma formalmente i r appor t i furono cordiali, anzi Napoleone pregò Carolina di tenere a battesimo il Re di Roma. Il fatto è che l ' Impera to re n o n voleva creare incidenti con Napoli , ora che gran par te delle sue forze e rano impegna te in Spa­gna e il resto aveva dovuto concentrar lo in Polonia pe r p re ­venire un attacco della Russia che , da alleata, s i stava tra­sformando nuovamen te in nemica. Probabi lmente si r ipro­poneva di regolare più tardi i conti con Murat , che in caso di gue r ra gli faceva comodo, anzi era insostituibile.

Tornato a Napoli con la certezza della p ropr ia intoccabi-lità, Gioacchino credet te di po te r assestare il colpo decisivo. Nel g iugno e m a n ò un decre to che ord inava a tutti gli stra­nieri che occupavano cariche civili di naturalizzarsi, pena la perdi ta del posto. Era chiaro che la misura era diret ta con­tro i francesi. Furiosi, essi si appe l l a rono a Napo leone che in tervenne con un contro-decreto brutale : «Tutti i cittadini francesi sono anche ci t tadini del Regno delle D u e Sicilie» diceva. Ma c'era anche di peggio: l 'esercito napo le tano ve­niva t ras formato in semplice «corpo di osservazione» agli ordini del generale Grenier, il quale li avrebbe presi diretta­mente da l l ' Impera tore . E il p r imo di questi ordini , segreto, era di occupa re , in caso di reaz ione da pa r t e di Mura t , la fortezza di Gaeta su cui s ' imperniava tutto il sistema difensi­vo settentrionale del Reame.

Come spesso gli accadeva fuori del campo di battaglia, il cuor-di- leone d iventò cuor di coniglio e scrisse al cogna to una lettera piagnucolosa: «Mi avete fatto quasi morire , avete

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pe rdu to il vostro amico migliore, mai mi sarei aspettato un'a­zione così barbara da par te vostra...» Ma Maghella gli fornì il pretes to di u n a rivincita facendogli recapi tare delle let tere dalle quali risultava che il minis t ro francese della g u e r r a Daure , u n o dei p iù r inghiosi gua rd i an i d i Mura t , e ra l'a­mante della Regina. Gioacchino lo sapeva da un pezzo, e sa­peva anche che Daure non era il solo ad aver goduto i favori di sua moglie, alta pa t rona del part i to francese. Ma finse di esserne sorpreso e indignato per liberarsi del l 'uno e met tere l'altra in castigo. Rientrato a Parigi, Daure sporse le sue con­tro-accuse al l ' Imperatore che frattanto aveva ricevuto anche u n a let tera di Carol ina . Fu r ibondo , Napo leone o r d i n ò a Grenier di occupare Gaeta, tolse le credenziali all'ambascia­tore di Napoli, Campochiaro, convocò a Parigi Maghella e lo incriminò di fellonìa e intelligenza col nemico.

C o m e s e m p r e avveniva fra i coniugi Mura t , l ' interesse delia ditta f inì pe r prevalere sulle loro disarmonie. Renden­dosi conto che la disgrazia del mari to era anche la disgrazia sua, Carolina corse dal fratello pe r p lacarne le ire. Ma, più che la sua sottile diplomazia , furono le circostanze ad aiu­tarla. La g u e r r a con la Russia appar iva o rmai inevitabile e imminen te . Per ba t tere quelle cosacche, le cavallerie napo­leoniche avevano bisogno di Murat , che infatti fu richiama­to alla loro testa nella pr imavera successiva (1812). La guer­ra, di cui d i r emo più tardi , fu dappr inc ip io la solita marcia trionfale del l 'armata francese. Ma q u a n d o a Napoli il cardi­nale Firrao celebrò un Te Deum, di r ingraz iamento per que­sti successi, Zur lo gli disse: «Mons ignore mio , anco ra un paio di queste vittorie, e Voi ed io siamo fottuti!»

A Napol i , M u r a t n o n si era limitato a fare la f ronda al co­gnato . Aveva anche spinto avanti le r i forme già iniziate da Giuseppe . Ques t i , a l m o m e n t o di pa r t i r e p e r a s sumere la corona di Spagna, sapeva che l 'unico sostegno del reg ime, oltre le baionette francesi, e ra la nuova borghesia di funzio­nar i , magistrat i , ufficiali, professionisti, intellettuali , divisi

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da varie sfumature ideologiche, ma uniti da d u e ideali: l'u­nità nazionale e qualche forma di governo rappresentat ivo. N o n p o t e n d o , è ovvio, concedere la p r ima , concesse la se­conda lasciando in eredi tà al suo successore un abbozzo di Cost i tuz ione che p r evedeva la convocazione di un par la ­mento .

Mura t r iprese con maggiore energia l 'opera r i formatr i­ce, e successi ne o t tenne . Le resistenze degl'interessi conser­vatori che fin allora e r a n o riusciti a r e n d e r e i nope ran t i le leggi contro la feudalità venne ro demolite. «Divise le te r re e suddivise, videsi n u m e r o infinito di nuovi possidenti, franca la p ropr ie tà dei già baroni e dei già vassalli; tut te le servitù disciolte» scrive Colletta, che fu par tecipe di quest 'azione, e qu ind i t e n d e v a a sopravvalu ta r la . In rea l tà i nuov i possi­denti mos t r a rono un'ostinata reni tenza a moltiplicarsi, cia­scuno aggrappandos i al suo ed esercitandovi i diritti di p ro ­pr ie ta r io con lo stesso egoismo e p r e p o t e n z a che avevano caratterizzato i «già baroni». Per quan to di estrazione citta­dina, essi se rbavano u n a menta l i tà te r r ie ra , anche p e r c h é quasi esclusivamente in t e r r e invest ivano, in mancanza di attività industriali , mai decollate un po ' pe r scarsezza di ca­pitali e molto pe r totale assenza di spirito imprendi tor ia le .

Mura t , c o m e Giuseppe , cons iderava ques ta classe bor­ghese il puntel lo del regime, e aveva ragione. Ma commise, nei suoi confronti, d u e error i . Il p r imo fu di sopravvalutar­ne la forza, e si capisce perché : era questa classe che gli for­niva funzionari e consiglieri , e che qu ind i esercitava su di lui la maggiore influenza. Il secondo fu quello di de luder la nelle sue aspirazioni a un governo rappresentat ivo. Salendo sul t rono , egli aveva definito «eccellente» lo Statuto abboz­zato da Giuseppe . Ma lo aveva messo nel d iment ica toio , e questo dimostra la sua malaccortezza politica. Quello Statu­to prevedeva un par lamento muni to di poter i soltanto con­sultivi e formato di «notabili» già perfe t tamente , come oggi si direbbe, integrati nel sistema e quindi facili da domina re e maneggiare . Gioacchino avrebbe potu to farsi forte del lo-

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ro avallo nel l 'az ione che s i r i p r o m e t t e v a d ' i n t r a p r e n d e r e per affrancarsi dalla tutela della Francia e presentars i come un Re «nazionale». Ma da b u o n militare r ipugnava a qual­siasi decen t ramento di poteri : credeva che anche in politica tut to dipendesse soprat tut to dalla rapidità delle decisioni, la quale esige uni tà di comando .

Un'al t ra cosa che dovette t rar lo in inganno fu la sua po­polarità. Egli scambiava pe r devozione alla sua persona e al­la sua corona gli applausi che mieteva quando , nelle sue ru­tilanti un i formi , si mos t rava a cavallo alla testa delle sue t r u p p e in parata o q u a n d o si aggirava nei vicoli e si fermava a pa r la re con la gente . I suoi mod i di «guappo» piacevano molto a quei meridionali , e perfino in Calabria, la più ribel­le di tu t te le sue p rov ince , lo avevano accolto con calore . N o n capiva che si t ra t tava di en tus iasmi di pel le , suscitati soltanto dalla sua prestanza e spavalderia.

Per rafforzare la p ropr i a posizione, egli cercò di at t i rare a sé anche quella frangia estremista di patrioti di formazio­ne democra t ica e giacobina che aveva cominciato a racco­gliersi nelle società segrete e specialmente nella Carboneria . Ufficialmente, ques ta e ra fuori legge. Di fatto Maghel la , lungi dal persegui tar la , teneva con essa stretti contatti cer­cando di at trarla nel giuoco del Re. Forse ci sarebbe riusci­to, se M u r a t avesse concesso la sospirata Cost i tuzione. Ma anche d o p o l 'aper ta ro t tu ra provocata dall 'ost inazione del Re, Maghella m a n t e n n e i suoi buon i rappor t i coi Carbona­ri, così come li manteneva - a quanto pa re - anche coi Bor­b o n e di Pa lermo. Molto più accorto del suo p a d r o n e , egli comprendeva che la sorte del regime d ipendeva soltanto da u n a s i tuazione in te rnaz iona le che poteva cambia re da un m o m e n t o all 'altro. Il part i to italico su cui esso si appoggiava era quello di u n a borghesia asfittica, poli t icamente immatu­ra, con pochissimo seguito in provincia e p u n t o nelle cam­pagne , tu t tora pervase dai sent imenti sanfedisti e dall 'odio verso i «giacobini».

Mura t se ne sarebbe presto accorto a p ropr ie spese.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

LA C O S T I T U Z I O N E SICILIANA

Ment re Mura t a Napoli faceva la fronda a Napoleone , Ma­ria Carolina da Palermo pre tendeva fargli la guer ra . Privato del pun te l lo di Acton o rma i def in i t ivamente in d i sa rmo e assorbito dalla sua fresca sposina, Ferd inando si e ra ritirato nella sua villa della Ficuzza, unicamente intento alla caccia, e il Principe Eredi tar io lo imitava dedicandosi alla pollicol­tura nella sua tenuta di Boccadifalco. A pres iedere il Consi­glio dei Ministri era lei, più egocentrica, p iù imperiosa, più intrigante, p iù declamatoria e più grafomane che mai. Scri­veva a tutti, allo Zar, a suo nipote l ' Impera tore d'Austria, ai ministr i e d iplomat ic i inglesi, e s o r t a n d o , c o n d a n n a n d o , p r o p o n e n d o alleanze e piani di g u e r r a u n o più assurdo del­l'altro. Q u a n d o nel 1809 l'Austria r i tentò la carta contro Na­poleone impegnato dalla rivolta spagnola, essa riuscì a per­suadere gl'inglesi a t r a spor t a re con le loro navi un contin­gente di t r u p p e a Napoli, convinta che alla loro vista la città sarebbe insor ta con t ro Mura t . I napo le t an i s a lu t a rono la flottiglia dai loro balconi, e n o n si mossero. Anzi, accorsero in Via Chiaia pe r acclamare l 'altra Carol ina che passava in carrozza. Gl'inglesi occuparono Ischia e Procida, vi lasciaro­no dei distaccamenti e si r i t i rarono.

A questa delusione ne seguì un'al tra. Ferd inando diede il consenso al m a t r i m o n i o della f iglia Amalia col Duca d 'Orléans, figlio del famoso Luigi Filippo Egalité, considera­to il t radi tore di casa Borbone perché aveva simpatizzato coi rivoluzionari che avevano tagliato la testa al Re. «La disob­bediente Amalia - scrisse Maria Carolina - ha sposato il Du­ca d 'Orléans (nome terribile!), e io posso soltanto sospirare

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e sot tomet termi . Non h a n n o mezzi pe r vivere...» Que l ma­t r imon io da lei avversato , che d u r ò senza nub i p e r ol t re q u a r a n t ' a n n i e condusse Amalia sul t r o n o di Francia, fu il più felice tra quelli delle sue figliuole.

Ma il colmo per lei doveva ancora venire e lo toccò quan­do da Vienna giunse notizia delle prossime nozze di Napo­leone con sua nipote Maria Luigia. Ecco cosa le toccava: di­ventare zia del «brigante còrso» che l'aveva cacciata dal t ro­no! «Ho det to addio per sempre alla te r ra dove sono nata e che ho t e n e r a m e n t e amato . Tra tutt i gli eventi terribili che mi minacciano, speravo di t rovare là un rifugio sicuro dove mor i re in pace, ma è finita anche questa speranza...»

C'è tuttavia da credere che quella parente la le dispiaces­se m e n o di quan to mostrava perché in quel momen to , nella gerarchia dei suoi odi, al p r imo posto n o n c'era più il «bri­gan t e còrso», ma i l gene ra l e Bent inck, che c o m a n d a v a i l cont ingente inglese in Sicilia, circa 17 mila uomini , e quindi era i l vero p a d r o n e dell'isola. Bentinck era un u o m o d' idee radicali, complicate da un cattivo carat tere. In India, dov'e­ra stato governatore , aveva vietato ai suoi soldati di po r t a re i segni di casta, p r o v o c a n d o n e l ' ammut inamen to . S'era ri­fatto a r ruo landos i con gli spagnoli in rivolta cont ro Napo­leone e guadagnandos i i galloni di Generale . Nei suoi ideali democratici portava un imperioso a rdore , che lo rendeva di difficile maneggio.

La situazione che trovò a Palermo, q u a n d o venne ad as­sumervi il comando , era fra le più ingarbugl iate . Gl'inglesi avevano b u o n i motivi d i scontentezza nei confront i del la Cor te . I l sussidio ch'essi le passavano p e r c h é provvedesse alla difesa dell'isola contro i francesi, si pe rdeva pe r mille ri­voli come sempre avviene in Sicilia e n o n produceva nean­che un r e g g i m e n t o . I l Re n o n aveva band i to n e m m e n o la coscrizione, t rovando molto più comodo farsi difendere dal­le forze terrestr i e navali br i tanniche.

Economicamente , l'isola attraversava un m o m e n t o di re­lativa p rospe r i t à . Gl ' inglesi e r a n o b u o n i clienti: n o n solo

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compravano sul posto de r r a t e al imentari , ma vi sollecitava­no la nascita d ' indus t r ie po r t andov i i loro capitali e il loro spirito imprendi tor ia le . Fu in questo per iodo che le zolfare si molt ipl icarono e nacquero i cantieri O r l a n d o . Ma questa r ianimazione rendeva ancora p iù u rgen te u n a revisione d i tut to il sistema fiscale, tu t tora inceppato dai privilegi baro­nali: i l p r o b l e m a che il Caracciolo aveva invano ten ta to di risolvere tornava a galla.

Come il lettore r icorderà, la competenza in questa mate­ria e r a r iservata a l Pa r l amento , un p a r l a m e n t o ch ' e ra tale solo p e r m o d o di d i re . Diviso in t re C a m e r e come quel lo francese di p r ima della rivoluzione, esso era comple tamente d o m i n a t o dalle p r i m e d u e , quel la dei nobili o ba ron i , e quella del clero, contro cui la terza, quella delle città «dema­niali», cioè sottratte alla giurisdizione di qualche feudatario, non poteva nulla, e con essa qu ind i n o n po tevano nul la le classi medie che in maggioranza la componevano .

La Regina, che seguitava a governare nella totale assenza del Re, aveva bisogno di soldi p e r finanziare le sue assurde imprese di riconquista. Si rivolse a Medici, che stavolta ave­va segui to i suoi Sovrani a Pa le rmo , e Medici si rivolse al Pa r l amen to c e r c a n d o d i d iv idere la C a m e r a del clero da quella dei baroni con promesse di esenzione pe r i beni della Chiesa. Ma i baroni con t ra rono la mossa facendo al clero al­tre e più sostanziose promesse. Sicché q u a n d o l'assemblea si r iunì ai p r imi del 1810, si r i fo rmò con t ro le p re t e se della Corte il solito fronte clerico-baronale, guida to dai Principi di Castelnuovo e di Belmonte , che fra l'altro e rano zio e ni­pote. Esso dimezzò il contr ibuto richiesto dal governo e ac­cettò solo l ' imposizione di u n a tassa del 5 pe r cento su tutti i beni mobili, che q u i n d i n o n colpiva le i m m e n s e p r o p r i e t à terr iere della nobiltà e della Chiesa.

Abi lmente sfrut tata dalla p r o p a g a n d a , ques ta vit toria inorgoglì tut ta la Sicilia, che credet te di vedervi un'afferma­zione della p ropr i a ind ipendenza . In realtà n o n aveva fatto che r ibadire i poter i e i privilegi dei ba ron i e del clero che,

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dietro lo schermo del l ' indipendent ismo siciliano, seguitava­no a far r icadere tut to il peso fiscale sulle altre classi. Secon­do i calcoli di Mack-Smith, i baroni pagavano annua lmen te 35 mila scudi, il clero 31 mila e il resto povero della popola­zione oltre 400 mila. Ma i siciliani n o n lo sapevano. Vedeva­no soltanto che i loro baroni davano scacco mat to al gover­no del Re napoletano, e ciò bastava a r iempirl i di fierezza.

A smontare il meccanismo di questa omer tà n o n era riu­scito Caracciolo. Figuriamoci se poteva riuscirvi Maria Ca­ro l ina che , col suo solito pass ionale egocen t r i smo , in ter­pre tò l 'opposizione pa r lamenta re come un affronto alla Co­rona e a lei stessa, fo rnendo così alla pubblica opinione vali­di motivi p e r v e d e r e in quel la d ia t r iba un con t ras to fra i l po tere centrale e l 'autonomia siciliana. Essa diede di «giaco­bini» ai baroni , di «usurpazione» al loro rifiuto, e suo gene­ro D'Orléans , che aveva un certo b u o n senso, dovette met­tercela tutta pe r persuader la che il ricorso alla forza n o n so­lo e ra impossibile p e r c h é l 'unica forza del gove rno e r a n o gl'inglesi che mai si sarebbero messi al servizio di quella cau­sa, ma sarebbe anche stata con t roproducen te . Su suo consi­glio, a lcune alte cariche furono affidate a ba ron i siciliani, e ques to bastò ad a m m o r b i d i r n e la resistenza. Si consent ì al Re d ' impor re una tassa sulle vendite che, pe r quan to mode­sta, infrangeva l'esclusiva pa r l amen ta re in mater ia d ' impo­ste, e su ques to p u n t o si r u p p e il f ronte de l l 'oppos iz ione . Qua lcuno dice che Belmonte si ribellò pe rché dalle cariche e ra r imasto escluso, ma ne m a n c a n o le p rove . C o m u n q u e , la sua reazione fu da siciliano vero, cioè abnorme . Si rivolse s eg re t amen te agl ' inglesi d icendosi p r o n t o a convocare un al t ro p a r l a m e n t o a Messina e a fargli p r o c l a m a r e Re qual­siasi pr incipe, anche protes tante , L o n d r a designasse al t ro­no di Sicilia.

Il Re ne fu subi to in fo rmato e, sotto le solite p ressan t i sollecitazioni della Regina, fece a r res ta re e depo r t a r e in va­rie isole Belmonte , suo zio Castelnuovo e altri t re influenti ba ron i . I nvano l 'Orléans cercò di oppo r s i a quel gesto av-

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ventato . Maria Carol ina disse a sua figlia: «Poiché ho com­messo la pazzia di p r e n d e r l o pe r genero , devo soppor tar lo , ma deve r ende r s i conto che l 'autori tà legit t ima vince sem­pre». Sembrava che fosse p rop r io così. Privata dei suoi capi e in t imid i ta da l l ' e sempio , l ' oppos iz ione b a r o n a l e vacillò. Ma p r o p r i o in quel m o m e n t o a r i a n i m a r l a s o p r a v v e n n e Bentinck.

Il manda to che aveva ricevuto dal suo governo era anche politico. Allarmata dalla totale inefficienza del regime di Pa­lermo e dal malcontento che regnava nell'isola, L o n d r a cre­deva che a r imediarvi bastasse qualche istituto rappresenta­tivo che desse ai siciliani «una giusta partecipazione al pote­re» e che il Pa r l amen to dovesse a p p u n t o servire a ques to . Era logico che gl'inglesi lo credessero pe rché così era avve­n u t o in Inghi l te r ra . Il loro e r r o r e - del resto comprensibi­le - e ra di at tr ibuire al Par lamento siciliano le stesse finalità che aveva persegui to quello inglese, men t r e esso non era in realtà che il ba luardo dei privilegi feudali. Ma ad aggravare l 'equivoco c'era anche il fatto che questi privilegi feudali il governo borbonico n o n voleva eliminarli o r idurl i pe r istau­ra re u n a maggiore giustizia sociale, ma solo pe r a l imentare i p r o p r i sciali, soprusi e capricci. Lo scontro era quindi fra d u e antagonist i en t rambi prevaricatori ed en t r ambi in ma­lafede. O g n u n o di essi si batteva pe r i p rop r i esclusivi inte­ressi. Ma era logico che l'occhio del radicale Bentinck fosse colpito soprat tut to dalle inadempienze della Corte.

Avendo capito che i l Re c 'era solo p e r figura, egli a n d ò subito dalla Regina e le t enne tale l inguaggio ch'essa lo de­finì «un insolente caporale». Fra i d u e cominciò un duel lo senza esclusione di colpi. O ra ch 'era diventata sua zia, pa re che Mar ia Carol ina iniziasse un negozia to sotto banco an­che con N a p o l e o n e , i l qua le le d i ede spago p e r t e n e r e in briglia Mura t , che a: sua volta denunz iava queste manovre agl'inglesi. La tensione e ra tale che la Regina fu colpita da un attacco apoplettico, ma se ne r iprese con disperata ener­gia. Era convinta che gl'inglesi volessero servirsi del Parla-

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mento pe r rovesciare la monarchia e annet ters i l'isola, e di questo cercò di convincere anche il Re.

Fe rd inando ne fu più annoia to che al larmato: non vole­va seccature specie o ra che , ol t re alla caccia, aveva trovato anch e un al t ro piacevole pas sa t empo : la c o m p a g n i a del la Principessa di Par tanna. Ma come al solito si lasciò travolge­re dalle frenesìe del la mogl ie e si rifiutò di r icevere Ben-tinck. Costui si rivolse al pr incipe eredi tar io Francesco, e gli pa rve di t rova re in lui un in t e r locu to re rag ionevole e di b u o n senso. In realtà il pr incipe era un burocra te pignolo e abi tudinar io, pedan tescamente attaccato al part icolare, che «si p e r d e nelle piccole cose e n o n vede le grandi» come di­ceva Ascoli, e cercava di evadere le responsabilità. Ma tale lo aveva reso sua m a d r e te r ror izzandolo . Anche stavolta essa cercò d' intimidirlo tacciandolo di «ribelle» perché si era mo­strato accomodante con Bentinck. Ma questi n o n gliene det­te i l t e m p o . Ai p r imi di genna io del 1812 o r d i n ò alle sue t r u p p e di marciare su Palermo e int imò al Re di delegare il po tere al Principe in qualità di Vicario sotto minaccia di de­por taz ione di tu t ta la famiglia reale a Malta e d ' is t i tuzione di u n a reggenza affidata al l 'Orléans. Maria Carol ina gr idò al t rad imento e invocò la resistenza a oltranza. Ferd inando, più ragionevole di lei e in fondo contento di essere esentato da tutti quei fastidi, si rassegnò.

Le pr ime misure del Vicario furono il r ichiamo dei baro­ni depor ta t i , la n o m i n a di Be lmon te agli Affari Esteri e di Cas te lnuovo alle F inanze , e la revoca del la tassa impos ta senza il consenso del Par lamento . Dopodiché fu nomina to un comitato di giuristi, p res ieduto dall 'abate Balsamo, pe r redigere un testo di Costituzione. Secondo alcuni storici, fra cui Haro ld Acton, fu Bentinck a volerlo ricalcato sul model­lo inglese. Secondo Mack-Smith invece il Generale , il quale o rma i agiva da proconsole in t e r r a di conquista , fece p r e ­senti a Balsamo i pericoli di un simile t rapianto in un conte­sto sociale così diverso da quello br i tannico e molto più ar­caico. Per il modello inglese si p ronunc iò invece cer tamente

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i l Re, cons iderandolo n o n il meglio ma il m e n o peggio pe r gl'interessi suoi e della dinastia. Egli odiava la Costituzione, si r i p r o m e t t e v a di abolir la e sperava che il suo complesso meccanismo contribuisse al suo discredito r e n d e n d o l a ino­pe ran te . Il calcolo si rivelò abbastanza fondato.

Un ' au ra di entusiasmo pervadeva i l Par lamento q u a n d o si r iun ì pe r la discussione e l 'approvazione di quello Statu­to, nell 'estate del '12. Sulla carta, esso rappresentava la fine del reg ime feudale. I «bracci» da t re e rano ridotti a d u e che si chiamavano, come in Inghi l ter ra , dei Pari e dei Comuni . La Sicilia e ra p roc l ama ta R e g n o i n d i p e n d e n t e : i l Re n o n po teva lasciarla senza il consenso del p a r l a m e n t o , e se un g iorno fosse tornato a Napoli avrebbe dovuto affidare il t ro­no dell ' isola a l f ig l io p r i m o g e n i t o . Tut t i e r a n o ugua l i d i fronte alla legge e nessuno poteva essere imprigionato sen­za regolare processo. La to r tu ra e ra abolita e la censura li­mitata alle questioni religiose.

Ancora p iù impor t an t e fu l 'abrogazione di tut t i quegl ' i -stituti su cui si basava l ' impalcatura feudale della società si­ciliana. Questa dichiarazione di pr incipio fu letta fra le ge­neral i ovazioni, comprese quelle dei ba ron i che avrebbero dovuto farne le spese. Ma q u a n d o si cominciò a discuterne l 'applicazione ai casi concret i , ci si accorse che il feudalesi­mo o g n u n o lo vedeva a m o d o suo e aveva un ' idea sua p ro ­pria di cosa in realtà dovesse essere abolito e come lo si do­vesse abolire.

La battaglia più grossa s ' imperniò sul fedecommesso che fin allora aveva fatto obbligo al testatore di lasciare la p r o ­pr ie tà indivisa a un unico successore, pe rché era su questo diritto di «maggiorasco» che si reggeva tutta la s t ru t tura feu­dale. Q u i i l f ronte dei ba ron i , che d o m i n a v a n o la C a m e r a dei Pari, s i r u p p e perché Castelnuovo, n o n avendo f igl i , e ra per l 'abolizione, cioè pe r la libertà di r ipar t i re il pa t r imonio fra più eredi , m e n t r e Belmonte che, come suo p r imo nipo­te, e ra designato alla sua cospicua eredità, voleva la confer­ma della indivisibilità, cioè del fedecommesso.

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Non fu il solo p u n t o su cui non si riuscì a t rovare l'accor­do , pe r il semplice motivo che mancava quello di base. Al­cuni baroni e rano per la resistenza indiscriminata e la dife­sa di tut t i i privilegi, anche i p iù retr ivi , come l 'esenzione totale dai t r ibut i e il m a n t e n i m e n t o della p r o p r i a giurisdi­zione nei rispettivi feudi. Ma anche quelli che con maggio­re accortezza si most ravano disposti ad abbandona r e queste t r incee del p iù ot tuso conservator ismo, in real tà mi ravano n o n a l iqu idare , ma solo a r i d imens iona re il feudales imo, salvandone l'essenziale e anzi punte l landolo . Facendosi co­me al solito s c h e r m o del la pa ro l a «libertà», essi vo levano soltanto rafforzare la p ropr i a nei confronti del po te re cen­trale, cioè del Re. Quella delle plebi, in s t ragrande maggio­ranza contadini , restava p u r a m e n t e platonica pe rché , n o n avendo essi p rop r i mezzi di sussistenza, tut ta la loro libertà consisteva al massimo nel cambiare p a d r o n e . Insomma, era u n a r ivoluzione t i p i camen te i tal iana, cioè che s i esaur iva nei nomi . Nel pa r l amen to siciliano si faceva un g ran scialo di parole inglesi: le leggi si chiamavano bills, il bilancio bud­get e ad ogni passo s'invocava Yhabeas corpus. Ma al r ipa ro di ques ta t e rmino log ia , d i r i fo rme sostanziali , come quel la agraria, non se ne varò una , e il risultato fu u n a r iconferma degli assoluti e intangibili dirit t i del p rop r i e t a r i o n o n sol­tanto sul suolo, ma anche sul sottosuolo, che p rop r io allora d iven tava impor t an t i s s imo p e r l a famelica d o m a n d a d i zolfo sul mercato mondiale . Alcuni propr ie ta r i come i Lam­pedusa ci fecero degli affari che compensavano la rgamente la r inunzia alla giurisdizione sul «feudo», il quale in sostan­za tale restava.

Ques to imbroglio fu favorito dalla inesperienza e pastic-cioneria di chi cercava di avversarlo, cioè della Camera dei Comuni , in terpre te delle esigenze dei ceti medi , sopra t tu t to delle province orientali . Essa era guidata da d u e ex-fuoru­sciti vissuti en t rambi in Francia, dove si e r ano intrisi di gia­cobinismo: Vaccare e Rossi, det to «il Mirabeau della Sicilia». Invece di appoggia re il r i formismo realistico, anche se mo-

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dera to , di Castelnuovo, col loro astratto e demagogico mas­simalismo - dest inato a res tare la dannaz ione delle sinistre italiane -, favorirono soltanto il subdolo giuoco dei Pari, in­tesi a svuotare la Costituzione di ogni contenuto economico e sociale. Come i loro predecessor i della Repubblica Parte­nopea , essi par lavano delle masse popolar i come se le aves­sero avute d ie t ro di loro , m e n t r e queste e r a n o in piazza a t umul tua re cont ro il Par lamento , cui addebi tavano la care­stia di p a n e che le aveva colpi te , e Be lmon te dove t te fare appello alle t r u p p e inglesi pe r r iprist inare l 'ordine.

Il Re si fregava le mani . Egli aveva accettato la Costitu­zione perché Bentinck gliel'aveva imposta e pe rché essa gli assegnava una «lista civile» che, con g rande scandalo del Ge­nerale inglese, ammontava alla metà del reddi to nazionale. Ma la Regina n o n si contentava di questo e seguitava a tre­scare, t an to che Bent inck a un cer to p u n t o chiese al Re di a l lontanar la come pe r tu rba t r i ce de l l ' o rd ine pubbl ico. «La figlia di Maria Teresa p u ò essere oppressa e calunniata, non disonorata!» essa rispose nel suo melodrammat ico tono. Ma di lì a poco, q u a n d o il Principe Vicario cadde vittima di un malanno che lo r idusse in fin di vita e presentava tutti i sin­tomi di un ' intossicazione, la voce pubbl ica accusò sua ma­d r e di averlo avvelenato ed egli stesso ne ebbe i l sospet to. Bent inck, ci c redesse o n o n ci credesse , ne approf i t tò pe r rei terare in termini ultimativi la sua richiesta, e Ferd inando dove t te rassegnars i a esiliare la moglie a S. Margher i t a in quel di Girgenti , con l ' impegno che nella successiva pr ima­vera essa sarebbe part i ta pe r Vienna.

Invece di tenersi finalmente tranquilla, la turbolenta don­na tornò segretamente da lui pe r indur lo a revocare il Vica­riato, a r ip rendere in mano il potere e ad annul lare la Costi­tuz ione . Bent inck, q u a n d o lo seppe - e lo seppe subito -, perse le staffe. Della Costituzione, anche lui era deluso: «Da q u a n d o è e n t r a t a in v igore - scriveva -, n o n si è e m a n a t a una legge che si sia conformata alle sue regole», e aveva fi­nito pe r da r ragione a Balsamo q u a n d o diceva che la libertà

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nelle man i dei siciliani era «come u n a pistola nelle mani di un b imbo o di un pazzo». Ma a l m e n o su u n a cosa n o n in­tendeva to rna re indietro: nella r iduzione dei poteri del Re. Q u a n d o seppe che questi, come al solito succubo di sua mo­glie, e ra to rna to a Pa lermo pe r d isarc ionare il figlio, lo af­frontò di persona e lo costrinse a r inunciare al proget to e a firmare u n a lettera con cui ingiungeva alla Regina di part i­re , «consigliando ciò come amico, chiedendolo come mari to e o rd inando lo come Re».

Come al solito Maria Carol ina si r icordò di essere figlia di Maria Teresa e si sfogò in let tere degne di un personag­gio di Racine. Ne scrisse a tutti, anche a Bentinck. «Fu forse pe r subire questo t ra t tamento che sfuggii alla scure, alle co­spirazioni , ai t r ad imen t i dei giacobini napole tan i? Fu p e r questo che aiutai Nelson a vincere la battaglia del Nilo? Per ques to che por t a i il vostro eserci to in Sicilia? Gene ra l e , è questo il vostro o n o r e inglese?» Partì in maggio e impiegò ot to mesi p e r r agg iunge re Vienna, dove se n 'escogi tarono di tut te pe r r i t a rdare il suo arrivo. Q u a n d o vi giunse, il Pri­mo Ministro Metternich la confinò a sei miglia dalla Corte , col divieto di recarvisi. «Vi a n d r ò ugua lmente - ella disse -: vedremo se ne scacceranno l 'ultima figlia di Maria Teresa.» N o n la scacciarono. E fu, fra t an te amarezze , l 'unica sua consolazione.

, Pochi mesi dopo , morì .

A Pa le rmo, il g iuoco con t inuava se r ra to nella paralisi de i pubblici poter i . Bentinck, impress ionato dal massimalismo parolaio dei Comuni , cercò di r ipor ta re la concordia alme­no fra i Pari r iconci l iando Be lmonte con Caste lnuovo, ma n o n c i r iuscì . Fu forse p e r ques to che chiese un c o m a n d o militare ih Spagna. L'ottenne, ma n o n vi guadagnò molti al­lori e ci r imase poco. L o n d r a lo rivolle a Palermo, dove la si­tuazione n o n faceva che deteriorarsi . Belmonte p ropose ad­d i r i t t u r a che , p e r r imet te rv i o r d i n e , l ' I n g h i l t e r r a facesse della Sicilia un suo prote t tora to , e Bentinck non respìnse l'i-

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dea. Ma da L o n d r a r isposero che, come fonte di guai, l ' I r­landa gli bastava, e che l 'unico interesse inglese in Sicilia era strategico e quindi sarebbe finito con la guer ra , cioè con Na­po l eone . Nel P a r l a m e n t o n o n si r iusciva a fo rmare u n a maggioranza su nulla, il governo si dimise, quello che prese il suo posto era formato di uomini la cui età media superava i 75 anni , e i conservator i prof i t ta rono di tu t to ques to pe r abbozzare u n a manovra intesa a restituire al Re tutti i pote­ri, compreso quello di abolire la Costituzione.

Di fronte a ques ta minaccia, Bent inck assunse il m a n t o del d i t ta tore , sciolse governo e p a r l a m e n t o , indisse nuove elezioni e vi par tecipò di pe rsona raccogliendo tali ovazioni dovunque si presentava che ricominciò ad accarezzare il so­gno di u n a Sicilia r i do t t a a suo p roconso la to in n o m e di S.M. Britannica. Per sua for tuna la gue r ra che ormai divam­pava in Eu ropa dopo la catastrofe di Napoleone in Russia lo richiamò ad altre mansioni . Ma il seguito di questa vicenda lo ved remo dopo .

A Pa le rmo il suo pos to e r a stato p reso dal d ip lomat ico A Court , che nei suoi r appor t i a L o n d r a fece della situazio­ne u n a disamina molto obbiettiva. In Sicilia, scrisse pressap­poco, un g o v e r n o cost i tuzionale p u ò reggers i solo su u n a forza esterna, pe rché di sue non ne ha. L'analfabetismo n o n consente la nascita di u n a pubblica opinione che possa eser­citare il suo peso. «Abituati all 'obbedienza passiva, i siciliani si aspet tano che a far pe r loro siano gli altri», e nel caso spe­cifico gl'inglesi. Se costoro, invece di appoggia re «una cosa poco adatta al Paese come la Costituzione», avessero appog­giato delle riforme spicciole come l 'uguaglianza di fronte al­la legge e u n a p iù equa r ipart izione fiscale, avrebbero fatto molto meglio. Ora , bisognava scegliere: seguitare a difende­re la Costi tuzione significava assumere in qualche m o d o il governo dell 'isola. Disinteressarsene, significava abbando ­narla nelle mani di un Re che n o n vedeva l'ora di revocarla. Q u a n t o a l l ' indipendenza della Sicilia da Napoli , questo sa­rebbe equivalso ad abbandona re l'isola alla mercé di u n a ca-

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sta ba rona l e ancora più sa t rapesca e re t r iva dei B o r b o n e . Per i siciliani, concludeva A' Court , la Costituzione è soltan­to un balocco, un pretes to di vuota logomachia, in cui n o n si sa se sia più spregevole il dopp io giuoco dei reazionari o la demagogia dei radicali. I siciliani h a n n o capito che la li­ber tà è solo la libertà dei baroni di cont inuare a oppr imer l i . Perciò, sotto sotto, e p u r d i ss imulandolo , essi d e s i d e r a n o u n a res tauraz ione dei poter i del Re, i l quale ce r t amen te l i userà p e r i m p o r r e u n a «tirannia esosa», ma s e m p r e m e n o esosa di quella dei baroni .

Ma a ques to p u n t o b isogna far pausa p e r r i p r e n d e r e i l corso degli avvenimenti internazionali , di cui quelli italiani n o n e rano che un riflesso.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

LA CATASTROFE

Verso la fine del 1812, il vocabolario degl'italiani si arricchì di nuove e strane parole, ch 'e rano soprat tut to nomi di città e di fiumi: Vilna, Kovno, Smolensk, la Vistola, Borodino , il Niemen. Abituato ad aspet tare che altri decidesse la sua sor­te, il popol ino n o n aveva mai seguito con molto interesse le avven tu re g u e r r i e r e di N a p o l e o n e . Ma stavolta, sotto le bandie re de l l ' Impera tore , c 'erano anche gl'italiani: 30 mila l omba rd i sotto i l c o m a n d o del viceré Eugen io , e o t tomila napoletani sotto il comando di Murat . Le notizie sembrava­no a r r ivare da un al tro m o n d o , t an to r e m o t o e ra i l t ea t ro degli avvenimenti . Ma da una lettera di Eugenio a sua mo­glie, a Milano si r iseppe che in un certo paese dalla p r o n u n ­cia impossibile, Malojaroslawetz o qualcosa del gene re , 17 mila italiani guidat i dal genera le Pino avevano re t to vitto­r iosamente il confronto contro 60 mila russi, tanto da meri­tarsi la citazione al l 'ordine del giorno.

Di singoli italiani dotati di virtù militari, ce n ' e rano sem­pre stati, anzi era l'Italia che aveva fornito alla Spagna e al­l'Austria i loro d u e più g rand i generali : Alessandro Farnese ed Eugenio di Savoia. Ma era la p r ima volta che si sentiva di un reparto italiano che si copriva di gloria sotto bandiera ita­liana. E per quanto scarsi fossero nel nostro Paese l'orgoglio e gli en tus iasmi mil i tari , la gen te si appass ionò a quegl i eventi e ne at tese con impaz ienza i r educ i p e r farseli rac­contare.

Di reduc i ce ne furono pochi, a p p e n a un migliaio. Altri to rnarono alla spicciolata d o p o mesi, e qualcuno dopo anni , distrutti nel fisico e nel mora le . Ma di ol tre 25 mila n o n si

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ebbe più nessuna notizia. I sopravvissuti par lavano con gli occhi sbarrati di u n a marcia senza fine in solitudini senza fi­ne , coper te da un man to di neve in cui le gambe sprofonda­vano, di mort i e moren t i lasciati pe r strada. Così era termi­na ta la c a m p a g n a di Russia, con cui N a p o l e o n e aveva so­gnato di diventare il Car lomagno della nuova Europa , e che invece lo aveva condot to alla catastrofe.

Riepiloghiamone il filo.

Nel 1810 egli aveva b u o n i motivi di c reders i a l r i p a r o da qualsiasi sorpresa. A combatterlo, perseverava solo l 'Inghil­terra , r imasta da sempre in gue r ra con lui, salvo l'armistizio di Amiens du ra to a p p e n a tredici mesi fra il 1802 e il 1803. Ma era una g u e r r a che n o n si combatteva pe rché gl'inglesi po tevano farla solo sul m a r e , dove invece N a p o l e o n e n o n poteva farla d o p o l ' annientamento della sua flotta a Trafal-gar da pa r t e di Nelson (1805). Gl'inglesi cercavano di met­tere in crisi la Francia e i suoi satelliti i m p e d e n d o n e il com­mercio mari t t imo. Napoleone r ispondeva col «blocco conti­nentale», cioè c h i u d e n d o i por t i alle navi inglesi. Sebbene recasse gravi dann i all 'economia di en t rambi i contendent i , ques ta s i tuazione avrebbe p o t u t o c o n t i n u a r e all ' infinito. L'Inghilterra n o n poteva risolverla che a n n o d a n d o alleanze con potenze in g rado di attaccare Napoleone anche coi loro eserciti. A ques to aveva s e m p r e teso la sua diplomazia , in­stancabile suscitatrice di «coalizioni» antifrancesi.

Ma o rma i sembrava che ques to giuoco n o n potesse più riuscirle. Di po tenze infatti in g r a d o di sfidare Napo leone ce n 'e rano d u e sole: la Russia e l'Austria, e di en t rambe egli si e ra g u a d a g n a t a l 'amicizia. Nel 1807 si e ra i ncon t r a to a Tilsit con lo Zar Alessandro, e aveva stabilito con lui una pa­ce, che fin allora aveva funzionato abbastanza bene e pareva fornire garanzie anche pe r i l futuro. Q u a n t o all'Austria, do­po averla pe r l 'ennesima volta bat tuta a Wagram nel 1809, Napo leone se n 'e ra assicurata la benevolenza con un lega­me dinastico sposando la f igl ia del suo I m p e r a t o r e , Maria

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Luigia. Queste parente le t ra famiglie regnant i in realtà con­tavano m e n o di quan to pensasse e sperasse Napoleone . Ma contavano. Sicché q u a n d o nel 1811 Maria Luigia gli det te il sospirato e rede , che fu subito insignito del titolo di «Re di Roma», N a p o l e o n e c rede t t e d i aver f ina lmente da to u n a stabile base al suo I m p e r o e di poter lo t rasmettere al legitti­mo successore: mescolato con quello Asburgo, il «sangue di Napoleone», come lui lo chiamava con orgoglio, avrebbe re­gnato su mezza Europa .

Ma fu p r o p r i o in quel m o m e n t o che l ' accordo di Tilsit en t rò in crisi. Non è qui il caso di analizzare i complicati mo­tivi che ne provocarono l ' incrinatura. Quello fondamentale è che en t rambi i contraent i lo avevano stipulato in mala fe­de, diffidando l 'uno dell 'altro e in attesa di u n a b u o n a occa­sione p e r rego la re i conti . Per lo Zar quest 'occasione fu la raggiunta pace con l ' Impero Turco che finalmente lo libera­va da un nemico insidioso, coraggioso e ostinato. Egli r iaprì i po r t i al commerc io inglese e impose forti dazi alle merc i francesi, cioè fece il con t ra r io di ciò che aveva p romesso a Tilsit. E Napoleone , che dal canto suo aveva r idot to il Gran­ducato di Varsavia a base militare, decise la «spedizione pu­nitiva».

Quella che nel g iugno del 1812 iniziò la lunga marcia nel cuore della Russia, si chiamava «Grande Armata», e lo era: quasi 800 mila uomini delle più diverse nazionalità. I tecni­ci dicono che fu p ropr io la sua imponenza a fare la sua im­potenza di fronte alla strategia russa, basata su rapidi sgan­ciamenti e r i t i rate . Sta di fatto che pe r t rovare un esercito schierato in quel l 'ordine di battaglia in cui era un insupera­to maes t ro , N a p o l e o n e dove t te a r r iva re fino a Mosca, e n e m m e n o lì riuscì a r ipor ta re una vittoria definitiva. Sebbe­ne ba t tu to , il nemico riuscì a sfuggire alla sua manovra ag­girante, men t r e la città, quasi tutta di legno, finiva in un im­menso r o g o e i p r imi f reddi cominc iavano a m o r d e r e la t r u p p a s t remata da que l l ' in te rminabi le cavalcata. Per cin­que sett imane, Napoleone attese dei plenipotenziari con of-

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ferte di pace . E forse fu ques to il suo p iù t ragico sbaglio. Q u a n d o diede il via alla ritirata, già la neve ricopriva come un funebre sudario quegl ' immensi spazi, e il nemico riorga­nizzato tornava alla controffensiva con le sue cavallerie.

Q u a n t i ne m o r i r o n o ? Impossibi le d i r lo . Ma sta di fatto che l 'unico r e p a r t o organico che riuscì a r i a t t r ave r sa re il confine polacco fu quello delle Guard ie al comando di Ney. Napoleone aveva affidato il comando sup remo a Mura t pe r accorrere a Parigi dove alcuni congiurat i , dandolo pe r mor­to, avevano tentato un colpo di Stato e pe r poco non c'era­no riusciti. Con la sua sovrumana energia e a mezzo di mi­sure spietate raccolse un altro esercito pe r farsi incontro ai russi cui ora si e r ano uniti anche i prussiani. Bisognava bat­terli pe r p r even i r e un in te rven to dell 'Austria, i l cui a t teg­g iamento , m a l g r a d o i legami dinastici, stava r i d iven t ando incer to . Ma incer to fu anche l'esito delle d u e p r i m e batta­glie. Seguì un armistizio che si sarebbe anche po tu to t r adur ­re in u n a pace, se Napoleone si fosse indot to a qualche con­cessione. Ma ne e ra incapace , e ques to fornì all 'Austria il pretesto pe r scendere in campo contro di lui. Dresda fu l'ul­tima vittoria del g r ande condott iero. A Lipsia, d u e mesi do­po , il suo raccogliticcio esercito, p iù che essere disfatto, si disfece, e l 'esausta Francia n o n era più in g rado di fornirne un altro.

Ment re gli Alleati cominciavano a invaderla, il Parlamen­to chiedeva la pace, cioè la resa. Se Napoleone ne avesse ac­colto l ' invito r i n u n z i a n d o a tu t t e le sue conquis te , forse avrebbe po tu to conservare il t rono . Invece sconfessò i par­lamentar i tacciandoli di fellonìa, riuscì a raccogliere qualche migliaio di uomini , e tra il febbraio e il marzo 1814 inflisse ancora gravi pe rd i t e agli invasori , ma senza r iuscire a fer­marl i . Essi e n t r a r o n o a Parigi, e v ' i s taurarono un governo provvisorio con cui in tavola rono negoziat i d i pace . N a p o ­leone era ancora col suo quar t ier generale a Fontainebleau, a pochi ch i lometr i dalla capi ta le . N o n voleva a r r e n d e r s i . Consultò i suoi marescialli che a lui dovevano tut to: carrie-

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ra, gloria, titoli, onori . Ma il loro rifiuto di r i p r ende re le ar­mi n o n era un t rad imento , anche se tale a lui parve; era so­lo u n a constatazione d ' impotenza.

Il 6 apri le abdicò. Ma pe r il comodo del let tore, seguia­m o n e ancora la vicenda. I suoi riflessi sull'Italia li ved remo dopo .

Pr ima ancora che i vincitori decidessero il da farsi, r i en t rò in Francia i l legi t t imo p r e t e n d e n t e al t r o n o dei B o r b o n e . Era il Conte di Provenza, fratello minore del Re finito sotto la ghigliott ina. Egli assunse il titolo di Luigi X V I I I , «Re di Francia e di N a v a r r a p e r grazia di Dio» d i m o s t r a n d o con ques ta fo rmula che n o n teneva a lcun con to della volontà della Nazione e cioè che si cons iderava un Re assoluto se­c o n d o i l concet to del l 'ant ico r eg ime , come se in que i vent 'anni n o n fosse successo nulla. E gli Alleati cominciaro­no a negoziare con lui i l secondo dei t an t i t ra t ta t i che ora sono conosciut i col n o m e r iassunt ivo di «Trattati di Vien­na», dove si conclusero.

I l p r i m o , quello di Fonta inebleau , lo avevano st ipulato fra loro pe r decidere la sorte di Napoleone . L'avversario più cavalleresco nei r iguardi del vinto si era mostrato lo Zar, che gli aveva fatto assegnare l'isola d 'Elba col ti tolo di Re, un decoroso appannaggio e un piccolo presidio pe r difendersi contro le incursioni dei pirat i saraceni. Napo leone par t ì in carrozza pe r Fréjus. Nel Nord ricevette le acclamazioni del­le città in cui passava. Ma via via che scendeva verso Sud, l'accoglienza si faceva s empre più ostile: tanto che pe r non farsi r iconoscere , indossò u n a divisa di ufficiale aust r iaco (un episodio che a noi italiani dovrebbe r icordare qualcosa) e prefer ì imbarcars i su u n a fregata inglese t e m e n d o che i francesi lo avvelenassero.

Non aveva che quaran tac inque anni , un 'e tà a cui è diffi­cile rassegnarsi, e le notizie che gli arr ivavano dalla Francia non e rano tali da invogliarvelo. I saccheggi commessi dagli Alleati avevano resuscitato il pat r io t t i smo francese m e n t r e

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l 'assolutismo del nuovo regime r ianimava lo spirito rivolu­zionario. Luigi aveva già firmato la r inunzia a tut te le con­quiste pe r cui il Paese si e ra d issanguato : O landa , Belgio, Germania , Svizzera, Italia. Certo, non poteva sottrarvisi. Ma era la fine di u n a Grandeur, di u n a grandezza cui la Francia o rmai si era abituata. E pe r di più infierivano le «purghe», disgrazia di tu t te le Restaurazioni . Gli alti comand i civili e militari venivano monopolizzati dagli émigrés, dai fuorusciti, che la Francia si e ra ormai avvezzata a considerare dei tra­ditori, e che ora sfogavano le loro vendet te sugli uomini che avevano contribuito a render la potente e temuta . L'indigna­zione raggiunse il colmo quando al vecchio glorioso tricolo­re , che aveva sventolato su tanti campì di battaglia e di vitto­ria, fu sostituito il vessillo bianco dei Borbone.

Di tutto questo, Napoleone era informato dai suoi segua­ci. Alla fine di febbraio (del 1815), part ì di nascosto dall'El­ba, e il 1° marzo sbarcò a Fréjus. I suoi calcoli si r ivelarono esatti. Alla sua comparsa la Francia prese fuoco. Un repar to mandatogl i incontro, invece di arrestarlo, si mise ai suoi or­dini. La colonna in marcia su Parigi n o n faceva che ingros­sare . I vecchi genera l i di N a p o l e o n e , che poi e r a n o quasi tutti giovani, si schieravano con lui. Il Re fuggì. Le Grand i Potenze accan tona rono i negoziat i pe r res t i tui re la paro la agli eserciti.

Da Parigi, che lo aveva accolto in delirio, Napoleone lan­ciò un proclama con cui s ' impegnava a r inunciare al g rande Impe ro , ma senza precisare fino a che pun to . Sapeva benis­simo che, anche se si fosse contentato delle antiche frontiere natural i , n o n avrebbe evitato la guer ra . Voleva soltanto di­mostrare ai francesi che questa gli era imposta, e infatti non perse t empo a prepararv is i pe r n o n da re al nemico quello di concentrare le sue imponent i forze.

I p repara t iv i , da u n a pa r t e e dal l 'a l t ra , d u r a r o n o circa t re mesi, i famosi «Cento giorni». Al t e r m i n e Napo leone , che aveva sperato di raccogliere 600 mila uomini , non se ne trovò sotto le bandie re che 130 mila. I soli prussiani ne ave-

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vano altrettanti, e con gli altri alleati lo a t tendevano in Bel­gio. Ancora una volta furono sorpres i dalla sua rapid i tà e colti di contropiede , p r ima che russi e austriaci arrivassero. Il 18 g iugno , a Water loo, il c o m a n d a n t e in capo inglese, Wellington, fu sopraffatto, e Napoleone spedì a Parigi l'an­nunz io della vittoria. Ma al m o m e n t o di assestare il colpo decisivo, fu a sua volta sorpreso dai prussiani, e la vittoria si t r amutò in disfatta.

Rientrò a Parigi il 2 1 . Voleva ancora tentare . Ma il Paese stremato n o n gli obbediva più. Per la seconda volta abdicò, e stavolta senza speranza. Scrisse u n a lettera al Re d ' Inghil­terra r imet tendosi alla sua generosità. E l ' Inghil terra , a cui Napo leone era costato ven t ' ann i di gue r re , r ispose invian­dogli a Rochefort una nave che lo condusse, senza dirglielo, nel l ' Isola di Sant 'E lena , a duemi l a chi lometr i dalla costa africana.

Ci visse, o meglio ci agonizzò ancora sei anni.

Lo Zar Alessandro che aveva dato il maggior contr ibuto alla vittoria cercò di res ta rne anche il maggior beneficiario im­p e g n a n d o gli altri alleati ( Inghi l te r ra , Austr ia e Prussia) a firmare quel documento che poi fu chiamato «Santa Allean­za». Gli storici ancora si scervellano sulle in tenzioni che lo spinsero a compi la re ques ta specie di magna charta della nuova Europa , redat ta su toni ispirati di «pietismo mistico». Goethe la salutò come l 'accendersi di u n a g rande speranza per tutta l 'umanità. Ma il ministro inglese Castlereagh ci vi­de soltanto «un sublime miscuglio d' idealismo e di follia» e quello austriaco Metternich «un pomposo vuoto». A loro in­teressavano d u e cose sole: r ipr is t inare in E u r o p a il pr inci­pio della legitt imità dinastica, che la Rivoluzione francese aveva negato e violato, e impedi re che il vuoto di potere la­sciato da Napoleone fosse r iempito da qualche altra Poten­za. La più qualificata a occuparlo era l ' immensa Russia, ve­ra vincitrice di quella gue r ra che aveva por ta to i suoi eserci­ti nel cuore d 'Europa . Bisognava d u n q u e imbrigliarla. E a

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ciò p rovvide l ' Ingh i l t e r r a , insuperab i le maes t r a in questi giuochi di cont rappeso, i nducendo gli altri alleati a trasfor­m a r e la Santa in u n a Q u a d r u p l i c e Alleanza, che ne impe­gnava i m e m b r i a regolar i consultazioni tra loro allo scopo di garant i re , anche con interventi armati , l 'ordine europeo , e appogg iando le mire territoriali dell 'Austria in m o d o che questa potesse far da diga all 'avanzata russa.

La sistemazione italiana fu a p p u n t o il frutto della combi­nazione fra queste d u e esigenze: quella del legittimismo che imponeva la rest i tuzione dei vecchi Stati ai Sovrani spode­stati da Napoleone , o ai loro discendenti ; e quella dell 'equi­librio, che favoriva l 'Austria in quan to ba lua rdo ant irusso. Ecco pe rché , p r i m a di vedere come venne in concreto ap­plicata, occorre fare un rap ido sopral luogo a Vienna che si appres tava a svolgere sulla penisola la par te fin allora svol­tavi da Parigi.

Sul suo t rono sedeva, col titolo di Sacro Romano Impera to­re , Francesco I I . Era f igl io di Leopo ldo , l ' ex-Granduca di Toscana, e ra nato e cresciuto a Firenze, e qu ind i l 'Italia la conosceva abbastanza bene . Al pad re era succeduto nel '92, q u a n d o aveva a p p e n a vent iquat t r 'anni , e sulle sue spalle era r icaduto il peso delle cinque gue r r e combat tute contro Na­poleone. Per al tret tante volte aveva dovuto umiliarsi a chie­dergli pace. Ma questo non aveva affatto sminuito il concet­to quasi religioso ch'egli aveva della dinastia Asburgo e del­la sua missione. Dal p a d r e aveva eredi tato lo zelo e la tena­cia, ma n o n l ' intell igenza politica e lo spiri to r i formatore . Era un buroc ra te coscienzioso, ma freddo e senza fantasia. Lavorava quat tordici o re al g iorno un po ' perché era di l'i-flessi lenti , un po ' p e r c h é r i p u g n a v a a qualsiasi de lega di potere . Sospettoso verso ogni novità e diffidente di tutti, vo­leva tutto vedere e regolare di persona. «Qualche volta sono riuscito a governare l 'Europa, ma mai l'Austria» si lamenta­va il suo p r imo ministro.

Era questi il Principe di Metternich, un r enano cresciuto

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nell 'odio della r ivoluzione da q u a n d o , bambino , l'aveva vi­sta arr ivare a Coblenza sulla pun ta delle baionette francesi e sovvertire tutti i valori nei quali l 'avevano educato a crede­re. Tutti i suoi talenti, ch 'e rano notevoli, li aveva spesi in di­plomazia al servizio d e l l ' I m p e r o e della causa legittimista. Ed era p e r questo che Francesco aveva preso a benvoler lo fino a farne, oltre che il suo Cancelliere, anche il suo uomo di fiducia, come sua n o n n a Maria Teresa aveva fatto col p r inc ipe Kauni tz , d i cui Met te rmel i e r a anche n ipo te pe r par te di moglie. Mettermeli e ra destinato a restare alla gui­da dello Stato anche oltre la mor te del suo Sovrano, fino al ] 848, cioè fino allo sfaldamento in tutta Europa del sistema di cui egli era stato nel T5 il massimo artefice e di cui d'allo­ra in poi sarebbe rimasto il più vigile guard iano .

Nelle sue voluminose Memorie, Metternich assume spesso la posa di uomo di pensiero . Se lo fosse veramente stato, si sarebbe accorto che la sua ope ra andava contro la Storia, di cui p re tendeva invertire il corso. Ma a questo era fatalmen­te por ta to dal suo t e m p e r a m e n t o ed educazione. Per lui la parola «libertà» n o n era che un sinonimo di «anarchia», alla quale n o n vedeva altra alternativa che un ord ine basato sul­l 'autorità e la tradizione. Tutta la vita spese a punte l lare Tri­na e l 'altra sino a fare dell 'Austria «la Cina dell 'Europa», un fossile isolato in un m o n d o avviato alle libertà individuali e alle i nd ipendenze nazionali . Ma al servizio di questa causa sbagliata, egli mise incomparabili doni di tempismo, d'intel­ligenza tattica, di zelo e di onestà. Non aveva la spregiudica­tezza e lo spiri to tagl iente di Ta l leyrand, ma n e m m e n o la sua disponibil i tà al d o p p i o giuoco e la sua a r rendevolezza agl ' interessi persona l i . Ta l leyrand n o n c redeva a nul la , e qu indi e ra s e m p r e p r o n t o a t r ad i re c h i u n q u e . Met te rn ich rimase sempre specchiatamente fedele al suo Paese e al suo Sovrano, e in ciò che faceva ci credeva, anche se era sbaglia­to. Q u a n d o diceva che l'Italia era «un'espressione geografi­ca», n o n ci faceva un t ra t tamento di sfavore. Così considera­va anche le al tre nazioni che facevano pa r t e del Sacro Ro-

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mano I m p e r o affidato alla sua custodia: la Polonia, la Mora­via, la Boemia, l 'Ungher ia , la Slovenia, la Croazia. Era fer­mamen te convinto che il vero interesse di tutte queste p ro ­vince e dei loro rispettivi popoli fosse di res tare unit i sotto la corona di u n a dinastia come quella degli Asburgo in gra­do di garant i re a tutti o rd ine e sicurezza. Ed era al tret tanto convinto che dello stesso p a r e r e fossero d o v u n q u e le d u e classi che ai suoi occhi contavano: i nobili e i contadini . Le sue antipatie e diffidenze si appun tavano tutte verso le bor­ghesie c i t tadine, e dal suo p u n t o di vista n o n aveva to r to . Ma era questo che faceva di lui, anche socialmente, un con­servatore dell'ancien regime, del vecchio reg ime pre-illumini­sta. Per lui, anche Pietro Leopoldo era stato un pericoloso e avventato progressista.

Tale e r a l ' uomo che o ra d iventava l ' a rbi t ro de l nos t ro Paese. Per il comodo del lettore, r iassumiamo alla svelta l'as­setto ch 'egli gli d i ede coi t ra t ta t i di V ienna del 1815, che rappresen tano il suo capolavoro. Essi furono il frutto di un intenso e complicato armeggio diplomatico su cui esiste u n a s terminata let teratura, ma in cui n o n vogliamo addent ra rc i pe rché l'Italia e gl'italiani vi figurano solo come oggetto. Per chi voglia approfondi re questo capitolo, che coinvolge tutti i g rand i Stati d 'Eu ropa e la loro politica, ind icheremo nella nota bibliografica i testi principali . E veniamo agli Stati no­stri.

Il p r inc ip io che prevalse fu quel lo della r e in tegraz ione delle dinastie prenapoleoniche , ma con qualche deroga, ec­cezione e compromesso . Il P iemonte venne restituito ai Sa­voia, ma maggiorato. Nei trattati di Parigi del '14, quelli cioè stipulati p r ima del r i torno di Napoleone dall 'Elba, si e ra sta­bilito di anne t te re la Repubblica di Genova al Regno sabau­do pe r compensar lo della perdi ta di Nizza e della Savoia la­sciate alla Francia. Ma in quelli di Vienna del '15, a p p u n t o p e r cast igare la Francia de l l ' appogg io da to a N a p o l e o n e , anche Nizza e Savoia fu rono res t i tu i te al P i emon te senza pe r questo ritogliergli Genova.

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Sulla Lombard ia che già p r ima le appar teneva come do­minio diret to, e sul Veneto che col trat tato di Campoformio le era stato «venduto» da Napoleone , anche se poi questi se lo era r ipreso, l 'Austria fece facilmente valere i suoi diritti , a iutata - come v e d r e m o - dalle divisioni, dalla litigiosità e dal confusionarismo degli esponent i locali che cercavano di contestarglieli . Le d u e province furono alla fine r iuni te in un Regno Lombardo-Veneto che non fu n e m m e n o un Vice­regno , tanto e ra s t re t tamente sottoposto a l po te re centrale di Vienna.

Pa rma e Piacenza furono un p o m o di discordia. Su que­sto Ducato i Borbone spagnoli , che lo avevano r icevuto in dote da Elisabetta Farnese moglie del loro Filippo V, avan­zavano pretese indiscutibili sul p iano della legittimità, e che infatti furono riconosciute. Essi ne sarebbero tornat i in pos­sesso, ma solo alla mor t e di Maria Luigia, la moglie di Na­poleone, che frattanto avrebbe occupato quel t rono a titolo vitalizio. Nell 'attesa, Maria Luisa di Borbone che Napoleo­ne, d o p o averla istallata nel Granduca to di Toscana, aveva scacciato, avrebbe gest i to , p e r sé e p e r il figlioletto Car lo Ludovico, il Pr incipato di Lucca che , q u a n d o essi avessero r e c u p e r a t o P a r m a , sa rebbe stato annes so a l G r a n d u c a t o . Un bel l ' imbrogl io , come vede te . Ma ques ta e ra la politica dinastica cui si p r e t endeva to rna re , che concepiva gli Stati come pa t r imoni di famiglia, da r ipar t i re secondo le pa ren­tele.

Sempre pe r il principio di legittimità, il Ducato di Mode­na toccava agli Este, rappresenta t i da u n a donna , Ricciarda, vedova di un Arc iduca L o r e n a , e da suo f ig l io . La m a d r e ebbe a titolo vitalizio il piccolo Principato di Massa e Carra­ra. M o d e n a a n d ò al figlio Francesco IV, che aveva sposato una Savoia, figlia di Vittorio E m a n u e l e I: ma t r imon io che sulle sorti del Piemonte era destinato a pesare.

Il Granduca to di Toscana e gli Stati pontifici furono re­stituiti nel la loro in terezza ai Sovrani che ne e r a n o stati spossessati e che tu t tora vivevano: il p r imo a Ferd inando I I I

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di Lorena , figlio di Pietro Leopoldo e fratello de l l ' Impera­tore, i secondi a papa Pio VII , il pr igioniero di Napoleone.

La s is temazione più difficile e complessa fu quel la del Reame delle Due Sicilie, che r imase a lungo in sospeso per via della ondegg ian te politica di Mura t . E di questa, come di tu t te le al t re vicende che a c c o m p a g n a r o n o la Restaura­zione come si chiamò, nel suo complesso, il r i torno dell 'Ita­lia al suo vecchio r eg ime pulviscolare, d i r e m o a propos i to dei singoli Stati.

Ma p r ima occorre s tendere un rap ido consuntivo dell 'e­redi tà lasciata da Napoleone.

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

C O N S U N T I V O

A N a p o l e o n e sono stati a t t r ibu i t i mol t i p i an i e mi ragg i . Qua lcuno dice che il suo sogno era quello di ricalcare le or­me di Alessandro il G r a n d e conqu i s tando l 'Or iente e l 'In­dia. Qua lche al tro dice che tut ta la sua politica si svolse in funzione dell 'Italia pe rché egli stesso e ra e si sentiva italia­no . Ques t 'u l t ima tesi t rovò e loquent i avvocati specie al tem­po del fascismo che nella sua cupid ig ia di g lor ia mi l i ta re cercò di a p p r o p r i a r s i i l g r a n d e condo t t i e ro cambiandogl i anche il c o g n o m e da B o n a p a r t e in B u o n a p a r t e . Se oggi a ques te ba lordaggin i si è r inunc ia to , n o n è tan to p e r a m o r d i ver i tà q u a n t o p e r un rovesc i amen to d i m o d e che o r a h a n n o ceduto il passo a quelle pacifiste e antimili tariste. Il napoleonismo è, come quella maltese, u n a febbre a fasi r i­corrent i .

Ai sos teni tor i del la sua i tal ianità, N a p o l e o n e stesso ha prestato argoment i con le parole e coi fatti. «Più che france­se e còrso, io sono italiano e toscano» disse u n a volta. E n o n c'è dubbio che dei molti Paesi in cui p ian tò b a n d i e r a nella sua vertiginosa corsa di conquistatore, l'Italia fu quello a cui più t enne e in cui più si sentiva a suo agio. Ne parlava la lin­gua, ne predi l igeva la cucina, ne capiva i l ca ra t t e re anche pe rché in molte cose Io condivideva: da b u o n còrso, anche lui era, come gl'italiani, un «uomo di famiglia» che odiava la famiglia, ma si sentiva t e n u t o a r e n d e r l a pa r t ec ipe delle p ropr ie for tune. Di s tampo t ipicamente italiano, anzi guic-ciardiniano, e rano la sua sfiducia negli uomini , il suo reali­smo spinto fino al cinismo. Per quan to di cul tura abborrac­ciata, sentiva il valore del g r ande retaggio italiano, e soprat-

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tut to Roma lo affascinava sebbene n o n ci avesse mai messo piede, o forse p r o p r i o pe r questo . Roma era p e r lui i l mo­dello della s t ru t tura che in tendeva da re a u n ' E u r o p a unifi­cata sotto la stessa legge. Non è da escludere che l'ambizio­ne di dare a suo figlio l 'altisonante titolo di Re di Roma ab­bia contr ibui to alla sua rovinosa ro t t u r a col Papa. E infine c'era il r ichiamo dei ricordi. Era stato in Italia che il piccolo genera le , manda tov i a reci tare u n a pa r t e di compr imar io , era diventato protagonista. Era qui che aveva combat tuto le sue più belle battaglie e r ipor ta to le più squillanti vittorie. Era a Mombello che aveva trascorso la sua luna di miele con Giuseppina nel m o m e n t o della sua bruciante passione pe r lei.

Ma questo è tut to, e r imane confinato in un ambito pura ­m e n t e sen t imenta le . Pol i t icamente egli assegnò all ' I talia u n a pa r t e d i p r i m o p i ano f inché ques to gli pe rme t t eva d i assumerla egli stesso nei confronti del Direttorio e agli occhi dei francesi. Fu il suo t r ampo l ino di lancio nella scalata al po t e r e . Ma u n a volta r agg iun to lo , essa n o n fu p iù p e r lui che una provincia di conquista, anche se la più vicina al suo cuore , e u n a dispensatrice di troni pe r i suoi familiari. A re­sti tuirla agl ' i tal iani, f acendone un Paese un i to e i nd ipen­den te , non pensò mai. Ma gli uomini n o n con tano p e r ciò che pensano . C o n t a n o pe r ciò che fanno, e che spesso è il contrar io di ciò che pensano di fare. Se lo proponesse o no, fu Napoleone a da re avvìo al Risorgimento, o a lmeno ad ab­breviarne di parecchi decenni la scadenza. E vediamo per­ché.

Apparen temen te , il bilancio del suo quasi ventennale domi­nio si chiudeva pe r l'Italia in passivo, specialmente dal pun­to di vista economico. Già fragile e dissestato di suo, il Paese era stato messo a d u r a prova dai tr ibuti e dai saccheggi. Il man ten imen to del l 'armata di occupazione francese, che Pa­rigi g l ' imponeva, era al di sopra delle sue forze. I capitali, già scarsi, venivano drenat i da un fisco implacabile. E diffi-

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cile fare un conto globale delle estorsioni subite. Ma all'in­grosso si p u ò dire che un b u o n terzo del reddi to nazionale, in dena ro e in na tura , finiva nelle fauci dei commissari fran­cesi. A questo si aggiunga la spoliazione del pa t r imonio arti­stico. E vero che g ran par te venne restituito d o p o la caduta di Napoleone . Ma parecchi vuoti r imasero.

Napo leone non nascose mai la sua in tenzione di fare di quella italiana un 'economia complemen ta re di quella fran­cese, u n a sua appendice agricola e coloniale. Tutti gli Stati in cui egli aveva frazionato la penisola erano tenuti per diktat a espor ta re soltanto in Francia i loro p rodo t t i e a i m p o r t a r e manufatt i soltanto dalla Francia. Secondo le parole dell 'am­basciatore francese a Napoli , l 'Italia doveva «restare paese agricolo, esclusivamente agricolo».

Questa d ipendenza dalla Francia diventò ancora più ri­gida nel 1806, d o p o la proclamazione del blocco cont inen­tale contro l ' Inghil terra . I por t i italiani, pe r i quali la flotta inglese era la migliore cliente, furono fra quelli che più ne r isentirono. «Venezia è un cadavere» si legge in un r appor to del 1807. Anzi, la crisi arrivò a tal p u n t o che, pe r salvare le città di mare , furono introdot te delle «licenze di esportazio­ne e importazione», cioè in parole povere delle eccezioni al blocco. La misura era circoscritta alle merci considerate «in­dispensabili». Ma servì di grimaldello per far saltare tut ta la serratura. Se il blocco fallì, fu in gran par te pe r colpa (o me­rito) degli i taliani che sp i ega rono un au ten t i co gen io nel con t rabbandare anche le merci proibite. Ma e rano , si capi­sce, palliativi.

La medaglia tuttavia aveva il suo rovescio. Se la r iduzio­ne dell 'I talia ad a p p e n d i c e agricola della Francia bloccò il suo t imido slancio industriale, giovò allo sviluppo dell 'agri­coltura, che ricevette parecchi incentivi . Per r e n d e r l a p iù produttiva, Giuseppe e Murat abolirono nel Reame le stroz­zature doganali e v ' introdussero alcune colture, come quel­la del cotone. Negli Stati pontifici il prefetto T o u r n o n spinse a fondo con energia la bonifica delle paludi pont ine già ini-

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ziata da Pio VI. In Piemonte venne sviluppata al massimo la cul tura dei bozzoli da seta, da cui le industr ie lionesi stretta­mente d ipendevano . E gran par te dei pascoli lombardi ven­ne ro convertiti a risaie.

Ma dal suo assorbimento nel sistema politico ed econo­mico francese, l'Italia trasse ben altri e p iù sostanziosi bene­fìci . Anzitutto, le s trade. Napoleone era un tecnocrate piani­ficatore che, p r ima ancora che la parola venisse coniata, cre­deva nelle «infrastrutture». Delle s trade aveva la passione, e l'Italia fu il Paese in cui più la sfogò. Abbiamo già det to che u n o dei motivi fondamenta l i del l 'annessione del P iemonte fu il controllo e la sistemazione dei passi alpini. Non si con­ten tò d ' i n t r a p r e n d e r e g r a n d i lavori sul S e m p i o n e e sul Moncenis io . Siccome l ' inverno r e n d e v a malcer ta la loro transitabilità, fece costruire la s trada della Comiche che col­lega i d u e Paesi a t t raverso la Riviera. A guidar lo e r ano so­pra t tu t to le considerazioni strategiche: di tut te le gue r re , la p ianura p a d a n a era sempre stata u n o dei principali teatri. E siccome la sua strategia era affidata soprat tut to alla rapidi tà di manovra , egli curò par t icolarmente la rete settentrionale, quella che si snoda trasversalmente da Torino a Trieste.

Ma non vi si limitò. Nei suoi piani l'Italia doveva diventa­re u n a specie di p ropagg ine allungata verso il Levante, i cui mar i e rano gli unici che sfuggissero al controllo della flotta inglese. Le merci in arrivo dall'Asia Minore e da Salonicco, sop ra t tu t to i l co tone , s a rebbero sbarcate nelle Puglie. Per avviarle alle Alpi, bisognava d u n q u e costruire anche u n a re­te s t radale dal sud al n o r d , che infatti venne affidata a un corpo d ' ingegner i appos i t amen te costituito nel 1809. Esso n o n ebbe il t empo di c o n d u r r e a t e rmine l ' impresa, ma co­struì alcuni pont i come quello sul Garigliano e a p p o r t ò so­stanziosi miglioramenti , specie alla via Emilia.

E difficile calcolare l ' incidenza che questa r istrutturazio­ne , come oggi si dice, ebbe sulla vita del Paese. Ma è certo che u n o dei motivi della «incomunicabilità» fra italiani era anche l 'arteriosclerosi s tradale. Un po ' pe r incapacità e in-

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curia, un po ' pe r istinto di conservazione, i vecchi Stati non favorivano la circolazione degli uomin i e delle idee, in cui vedevano u n a minaccia al lo ro immobi l i smo. Traspor t i e servizi postali e rano , specie dal Po in giù, fra i più arre t ra t i d 'Europa . La g rande massa della popolazione rura le , ch 'e­ra la g r ande massa della popolazione italiana, nasceva, vive­va e mor iva nello stesso p o d e r e o nello stesso villaggio, mummificata nelle sue piccole autarchie, nei suoi tabù, p re ­giudizi e abitudini.

Su questo intorpidito organismo, l 'invasione napoleonica agì da elettrochoc. Dietro alle a rmate pe r raccoglierne le bri­ciole o davanti ad esse pe r sfuggire le loro angher ie , chi pe r sottrarsi alla persecuzione dei vecchi regimi, chi pe r par te ­cipare alla costruzione di quelli nuovi , gl'italiani comincia­rono a muoversi e quindi anche a conoscersi fra loro. L'emi­graz ione in t e rna , che p r i m a e ra stata un fatto sol tanto d i «notabili» e d ' intellet tuali , d iventò un f enomeno di massa. Sulle s trade riassettate dai genieri francesi pe r i bisogni del­l'esercito, passavano anche le diligenze, che por tavano lette­re e giornali . A saperli leggere e r ano pochi . Ma costoro ne comunicavano il contenuto anche agli altri. L'orizzonte mu­nicipale, e spesso pa r rocch ia l e de l l ' uomo del b o r g o e del campo, si allargava ponendo lo in contat to con nuove realtà che, anche q u a n d o gli r ipugnavano, gli facevano sentire l'a­nacronismo di quelle tradizionali. Infatti n e m m e n o i regimi della Restaurazione po t e rono più ristabilire del tu t to i vec­chi compar t iment i stagni che pe r secoli avevano preservato le loro arca iche s t r u t t u r e : alla l iber tà di m o v i m e n t o e di scambio dovet tero fare delle concessioni.

Più importante ancora fu la rivoluzione legislativa. Napo­leone era tutto fuorché un ideologo. Però si e ra formato nel clima illuministico del Settecento e, da b u o n allievo di Rous­seau, e ra f e rmamen te convinto che la salute dei popol i di­pendesse unicamente dalle loro leggi e istituzioni e che quel­le francesi fossero le migliori di tutte. In Italia aveva trovato il caos. N o n solo i sistemi giuridici e r a n o diversi da Stato a

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Stato, ma o g n u n o di essi era una jungla di regolamenti spe­ciali che si contraddicevano o si eccepivano a vicenda. Nella sola Toscana, che poi era una delle regioni più organiche e meno ingarbugliate, c 'erano 1.500 leggi speciali, fra le quali lo stesso magistrato non riusciva a raccapezzarsi.

Su questo intrico, Napo leone o p e r ò con l'accetta, né al­tro poteva fare pe r venirne a capo. Le regioni d i re t tamente annesse come il P iemonte ebbero senz'altro le leggi france­si. Ma anche le altre dovet tero accettarle, sia p u r e con qual­che ada t tamento . Nel Regno (per capirci una volta pe r tut­te: q u a n d o si dice Regno s ' in tende quello italico l ombardo -emil iano-veneto; q u a n d o si dice Reame, s ' intende quello di Napoli), il codice civile francese, che fra l'altro contemplava anche il divorzio, venne introdot to nel g iugno 1805, e pe r i suoi parziali adat tament i alle necessità locali Napoleone non concesse ai legislatori che sei mesi di t empo . I nvocando il nome di Beccaria, costoro o t tennero un te rmine più largo e magg io re a u t o n o m i a pe r i l codice pena le . Ma N a p o l e o n e accettò i sugge r imen t i di Romagnos i solo p e r q u a n t o ri­guardava la p rocedura . Per il resto, non fu che la t raduzio­ne di quello francese.

Nel Reame l 'operazione fu in pa r t e r i ta rda ta dalle resi­stenze di Giuseppe, che si fece in te rpre te delle esigenze lo­cali con m a g g i o r e au to r i t à di Eugen io . Egli paventava (e n o n senza qualche fondamento) gli scompensi che poteva­no derivare da u n a drastica abolizione di tutti i diritti e pri­vilegi feudali in un Paese di s t ru t tu re t r o p p o a r re t ra te pe r potersi adat tare d ' un colpo a quelle mode rne . Ma Napoleo­ne lo pungo lava : «Non lasciatevi inf luenzare: i n t roduce te nei vostri Stati il codice francese, così com'è». Tutto somma­to, aveva ragione lui. Scompensi ce ne furono, e gravi. L'a­bolizione del «fedecommesso» che rendeva intoccabili e in­divisibili i beni eredi tar i da un pr imogeni to all 'altro, e quel­la dei «monti di famiglia» che ne congelavano grosse aliquo­te, le cui r e n d i t e dovevano servire pe r l ' is truzione dei ra­gazzi e la do te delle ragazze, m a n d ò in l iquefazione molti

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patr imoni . Ma e rano pat r imoni di parassiti, la cui scompar­sa n o n r app re sen t ava p e r la società nessuna perd i ta . Pur­t roppo , ad approfi t tarne non furono i contadini , t r oppo po­veri, ignorant i e legati alle loro abi tudini di gleba; ma u n a borghesia te r r ie ra non m e n o avida, reddi t ie ra e feudalesca dell 'aristocrazia.

Lo stesso si dica del divorzio. Nel Reame, a quanto pare , n o n ce ne furono che un paio di casi, tanto a fondo era ra­dicata l'intoccabilità del mat r imonio n o n nella coscienza, ma nel costume della gente. Ma il r iconoscimento del diritto di divorziare det te uno scossone a questa mentalità, così come glielo de t t e ro le l imitazioni poste all 'esercizio della pa t r ia potestà, che fin allora aveva fatto del capo di casa un despo­ta e della famiglia la roccaforte di tutte le resistenze ai dirit-ti della società.

Il t r auma più grosso lo subirono Roma e gli Stati pontifi­ci perché qui il disordine legislativo e giudiziario era al col­mo, grazie alla e terna incapacità della Chiesa di dist inguere fra legge e precet to morale , fra giustizia e legalità, fra reato e peccato, fra p e n a e peni tenza. Neanche i p iù g rand i lumi­nari della p rocedura riuscivano a orientarsi nel groviglio di compe tenze fra t r ibunal i del Campidogl io , della Rota, del Governatore , della Camera Apostolica, del l 'Udi tore Pontifi­cio, del Buon Governo (!) eccetera, oltre a quelli che pre ten­devano di costituire per loro conto i singoli prelati e pa r ro ­ci. Ques ta fungaia di Fori fu abolita con un trat to di p e n n a insieme ai privilegi del clero e allo scandaloso «diritto di asi­lo» che, cons iderando «ospite di Dio» e quindi intoccabile il d e l i n q u e n t e r ifugiato in chiesa, faceva di R o m a la m a d r e non più del diritto, ma del delitto. Lo sconvolgimento p ro ­do t to da l l ' i n t roduz ione d i pr inc ìp i e l emen ta r i come: «La giustizia è dovuta a tutti, e tutti debbono ot tenerla a mezzo delle stesse leggi» e «Gli autori e i complici di delitti n o n po­t r a n n o in alcun luogo essere prote t t i dal l 'azione delle leg­gi», d imost ra in quale stato confusionale versasse la legisla­zione pontificia.

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Sui vantaggi recati all'Italia da questo massiccio t rapian­to di princìpi e istituti giuridici francesi, si p u ò discutere a lungo . Si p u ò d i re che fu t r o p p o precipi toso e b ru ta le . Si p u ò dire che certe n o r m e violentavano la società italiana ob­bl igandola a fare un passo p iù l u n g o della gamba . Si p u ò dire che tutta questa riforma s'ispirava al proposi to colonia­lista di francesizzare l 'Italia. Si p u ò di re ch 'ebbe il tor to di spregiare i suggeriment i del pensiero giuridico italiano, più p r o f o n d o - a lmeno sul p iano teorico - di quel lo francese. Ma c'è u n a cosa che n o n si p u ò discutere: il suo effetto uni­ficatore. L'Italia ancora n o n c'era, ma già c 'erano dei princì­pi giuridici che valevano per tutti, a qua lunque Stato appar ­tenessero, di Roma, di Napoli, o di Milano. La Restaurazio­ne n o n riuscirà che parzialmente a d is t ruggere questa unità e ad ogni m o d o ne lascerà un diffuso r impianto .

Ma anche a un 'al t ra unità gl'italiani si e rano frattanto af­fezionati: quella amminis t ra t iva. O g n u n o degli Stati in cui Napo leone aveva diviso la penisola aveva, si capisce, la sua amministrazione. Ma tutte r i spondevano agli stessi criteri di simmetria e di centralismo, e tutte r ichiedevano gli stessi re­quisiti di competenza e di efficienza. In fatto di au tonomia politica, Napoleone era avaro: non ne concedeva n e m m e n o ai suoi più fidati vicari, come Eugenio a Milano e Giuseppe a Napoli. Ma ai suoi «funzionari» n o n lesinava onori e p r e ­bende . Salvo il Piemonte e un po ' Napoli , l'Italia non aveva mai conosciuto la re l ig ione del servizio di Stato p e r c h é lo Stato e ra un Pr inc ipe s t ran ie ro , s i confondeva con la sua pe r sona e qu ind i lo si poteva servire solo da cortigiani. Fu Napoleone a in t rodur la , e i suoi effetti si videro soprat tut to a Milano. Molte delle più impor tant i cariche e rano occupa­te da francesi. Ma molte altre furono aper te ai figli dell 'ari­stocrazia e della borghesia, che pe r la p r ima volta sentirono l 'orgoglio del pubblico servizio e ci t rovarono il loro torna­conto . Un capodivis ione era un pe r sonagg io i m p o r t a n t e , che poteva contare su un lauto st ipendio e sugl'inviti ai rice­vimenti di Corte. Un magistrato era quasi un intoccabile. I l

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sogno del giovane laurea to in ingegner ia era l 'assunzione nei r a n g h i del Genio Civile, indaffarat issimo a cos t ru i re s t rade e canali. I Verri di questo t empo n o n avevano biso­gno di fondare Caffè p e r p r o p u g n a r e le loro r i forme; si a r ruolavano, pe r realizzarle, nel Ministero di Prina. Il p re ­mio di queste carr iere era il Senato. I suoi poteri e rano sol­t an to consult ivi , cioè po teva e s p r i m e r e dei pa r e r i , n o n p r e n d e r e decisioni. Però era ambitissimo sia perché riuniva il meglio della società, sia pe r il prestigio che conferiva, sia pe r la p r ebenda che procurava: 24.000 lire l 'anno.

Non d a p p e r t u t t o le cose e rano anda te allo stesso modo . A Napoli u n a classe legata allo Stato c'era già p r ima che ar­r ivassero i francesi, le cui in f ramet tenze p r o v o c a r o n o sol­tanto - come abbiamo detto - gravi conflitti. In Toscana n o n ci fu il t empo di formarla. A Roma ne mancò l'occasione, un po ' perché gli Stati pontifici furono ridotti a semplici dipar­timenti francesi, un po ' per la reni tenza della borghesia, ir­riducibile nella sua fedeltà alla Curia di cui era abituata a vi­vere. Alla collaborazione si most rò molto più docile l'aristo­crazia, u n o dei cui massimi esponent i , il pr incipe Borghese, aveva sposato la sorella di Napoleone , Paolina, l 'unica Bo-napar te che preferiva l 'amore al potere e lo faceva con tutti, qualche volta anche col mari to .

Ma insomma, anche là dove p r ima n o n c'era - Lombar ­dia, Veneto, Emilia - le amministrazioni napoleoniche ave­vano get tato il seme di quel sacerdozio laico ch 'è il servizio civile. E anche questa era u n a delle tante rivoluzioni provo­cate da Napoleone .

Un'altra fu la coscrizione obbligatoria, che meri ta un discor­so a par te , anche perché ci sembra che la nostra storiografia ne trascuri i decisivi riflessi sociali e morali .

Oltre ai tributi in dena ro , Napoleone esigeva dalle te r re conquistate quelli in uomini . Non lo faceva soltanto pe r in­grossare i suoi eserciti, ma anche pe r fondere i popol i sog­getti: n o n c'è nulla che unisca più dello «spirito di corpo» e

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che affratelli più della «naja». Anche in Italia i giovani di le­va vennero recensiti e ricevettero la cartolina-precetto.

In Piemonte la cosa n o n suscitò reazioni. C 'e rano abitua­ti. Da secoli il P iemonte e ra u n o Stato e aveva un esercito. Qua lcuno in cuor suo avrà obbiettato che u n a cosa era ser­vire l 'esercito p iemontese , un 'a l t ra quello francese, e avrà anche diser ta to . Ma l 'abi tudine al servizio l'aveva. Suo pa­d r e , suo n o n n o e suo b i snonno lo avevano assolto. Faceva par te dei suoi doveri di suddito. Anche nel Reame era pres­sappoco così. L'esercito napo le t ano n o n valeva quello p ie­montese . Però anche a Napoli un esercito c 'era perché c'era u n o Stato, e quindi c 'era anche la coscrizione.

Ma in tu t to i l resto della penisola, no . Fin dal Trecento , le sue varie Repubbl iche e Principati avevano appal ta to la p r o p r i a difesa alle milizie mercena r i e s t raniere , e pe r que­sto l 'Italia si e ra r ido t ta a u n a galassia coloniale di Stati sa­telliti alla m e r c é di qualsiasi invasore , c o m e l u c i d a m e n t e aveva p rev i s to Machiavel l i . «Gl ' i tal iani n o n h a n n o v i r tù mi l i ta r i p e r c h é n o n h a n n o pat r ia» scriveva M a d a m e D e Staél d i m e n t i c a n d o solo di a g g i u n g e r e un «e viceversa». Foscolo la r imbeccò fur iosamente , ma di lì a poco n o n solo le de t t e r a g i o n e , ma r i nca rò la dose . Se n o n sape te com­ba t te re , disse agl ' i taliani in un suo celebre discorso, «siate servi e tacete».

La car tol ina-precet to provocò t ra loro il finimondo, so­pra t tu t to negli Stati pontifici. Dei 450 giovani che la ricevet­te ro (450 in tu t to , m e n o di un bat tagl ione), se ne p resen tò m e n o della metà , seguiti da m a m m e e sorelle che si s t rap­pavano i capelli, e accompagnat i dai par roc i che li esorciz­zavano con segni di croce. Gli altri d i ser ta rono e si de t te ro alla macchia p re fe rendo arruolars i nelle b a n d e dei fuorileg­ge che infestavano l ' i n t e r n o . Perfino l 'aristocrazia, che in tut te le altre par t i del m o n d o si atteggia a depositaria della t rad iz ione e delle vir tù mili tari , q u a n d o u n a se t tan t ina di suoi giovani r ampol l i v e n n e r o prece t ta t i , si vestì a lu t to e sp rangò le po r t e dei suoi palazzi. I l conte Patrizi, piut tosto

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che consegnare i suoi figlioli, preferì addir i t tura farsi getta­re in p r ig ione . N o n e r a n o «obbiezioni di coscienza», o lo e rano solo in pochissimi casi. Era la secolare disabitudine al concetto del «servizio». Gl'italiani consideravano quello del­le a rmi un «mestiere» p e r c h é come tale lo p ra t i cavano i mercenar i a cui si e r ano s empre affidati. E il vederselo im­p o r r e lo cons ideravano un inaud i to sopruso . I l conte Mo­naldo Leopard i , p a d r e di Giacomo, diceva che la gue r r a era un dovere pe r i soldati, ma un disonore per i cittadini. Non era una quest ione di codardia: i disertori, q u a n d o s ' imbran­cavano coi bandi t i , mos t ravano un coraggio che spesso ra­sentava la t emer i tà . Era - come diceva M a d a m e De Staèl, che gl ' i tal iani l i aveva capiti megl io di q u a n t o pensasse ro Foscolo e gli altri - «la totale mancanza delle idee di ono re e di dignità» su cui si r eggono n o n soltanto gli eserciti, ma i popoli .

Le medes ime reazioni la coscrizione provocò dappr inci ­pio anche nel Regno. Anche qui, sebbene essa n o n colpisse che un giovane su tre, fu considerata un 'angher ia , e casi di diserzione ce ne furono parecchi. Ma poi questa reni tenza si a t tenuò, e sempre più docilmente i coscritti affluirono nelle caserme. Dai 23 mila uomin i del 1804, q u a n d o era ancora Repubbl ica Cisalpina, l 'esercito italico salì ai 90 mila de l 1813. E, cosa ancora p iù i m p o r t a n t e , n o n e r a n o affatto u n ' a r m a t a b ranca leone , come gli avveniment i s tavano pe r d imos t ra re . Erano , a l cont rar io , repar t i disciplinati, a d d e ­strati e ben comandat i , specialmente quelli speciali dei «Ve­liti» e della «Guardia».

Ques ta trasformazione era visibile soprat tut to negli uffi­ciali, sfornati dalle scuole militari di Modena pe r l'artiglie­ria, di Lodi pe r la cavalleria, di Pavia e Bologna pe r la fan­teria. Fra di essi all ignavano alcuni fra i p iù bei nomi della nobiltà e della borghesia, su cui la carr iera militare comin­ciava p e r la p r i m a volta a eserci tare un notevole fascino. Fosse la smania di gloria o il semplice desiderio dell'evasio­ne dalla vita quot id iana o l 'attrattiva della bella un i fo rme,

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fatto sta che questi giovani dall 'aria marziale «costituivano - dice Pingaud - un fatto del tut to nuovo nelle città lombar­de, emiliane e venete», fin qui abituate ai cicisbei e agli aba­tini. Fra di essi c 'era anche Ugo Foscolo che, d o p o aver ab­bandona to la divisa pe r la penna , nel 1812 tornò ad abban­dona re la p e n n a pe r la divisa, t rovandola molto più conso­na alla sua vocazione d ' i tal iano. La camera te r ia del reggi­mento spegneva le differenze e i meschini campanilismi del­la vecchia Italia pe r accendere lo spirito di corpo e l'ansia di emulazione. A mensa, i dialetti e r ano fuori legge: tutti era­no tenut i a pa r l a re i taliano, poss ibi lmente con un accento toscano.

Tutto questo d iede avvìo a u n o «snobismo» militare, che n o n si limitò alla retorica e alle appa renze . Q u a n d o Napo­leone li chiamò a combat tere in Spagna, gl'italiani vi accor­sero in t rentamila e ce ne persero ventimila. Altri venticin­quemila caddero nelle s teppe russe. Leopard i pianse e r im­pianse nei suoi versi («Oh, misero colui che in g u e r r a è spento - non per li patr i lidi...») questo sacrificio di sangue, cons iderandolo inuti le. Ma sbagliava. E vero ch'esso aveva privato l'Italia della sua gioventù migliore, ma aveva lascia­to un seme che non doveva a n d a r e pe rdu to . Furono infatti i reduci di queste ul t ime avventure napoleoniche, messi per castigo in congedo dai regimi della Restaurazione o rimasti in servizio da «sorvegliati speciali», ad a l imentare i focolai insurrezionali accesi dalla Carboner ia e dalla «Giovane Ita­lia». Scrisse S tendhal : «Il colonnello di un r egg imen to del Papa, che in passato era un lacchè, oggi è il colonnello della Moscova e di Montmirail» e - aggiungiamo noi - n o n si ras­segnava a r idiventare un lacchè.

Erano t roppo pochi pe r t rasformare l'Italia in una nazio­ne guerr ie ra . Ma furono abbastanza pe r farle capire ch 'era imbelle e che pe r questo era divisa e schiava. Fu da loro che gl ' i taliani disposti a i m p a r a r e qualcosa i m p a r a r o n o che il servizio mili tare n o n è che u n a delle tante espressioni del­l ' impegno civile, e cioè che un cittadino è t enu to anche a fa-

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re il soldato, e anche a mor i re , q u a n d o la patria lo richiede. I l R isorg imento , cui le masse r e s t a r o n o cosp icuamen te es t ranee, q u a n d o n o n addi r i t tu ra ostili, doveva d imost ra re che ad approf i t t a re di questa lezione era stata solo un'esi­gua minoranza . Ma se un Risorgimento ci fu, lo si deve so­pra t tu t to a questi uomini e al loro «inutile» sacrificio.

Ma forse lo sconvolgimento più grosso e decisivo fu quello sopravvenuto nel campo della cultura.

L'irrequieto Angeloni, che trascorse la vita a ord i re con­giure cont ro di lui, accusava Napoleone di coar tare il pen­siero italiano e di voler perf ino «cor rompere la nos t ra lin­gua dolcissima». Ma è un 'accusa rec isamente sment i ta dai fatti. Come tutti i dittatori, Napoleone considerava la cultu­ra - n o n soltanto quella italiana, ma anche quella francese -un instrumentum regni, u n o s t rumento del potere . Ma in Ita­lia n o n ebbe bisogno di fare sforzi pe r piegare a questo sco­po u n a cul tura , che n o n era mai stata al t ro. I poet i non si fecero p regare per sciogliere inni al Conquistatore. La sfilza delle Napoleonie e delle Napoleonidi pubblicate nel ventennio è interminabile. Ce n'è anche u n a di Foscolo, la Ode a Bona-parte liberatore, che p e r ò ha il suo alibi: a ispirar la era u n a speranza sincera, n o n la piaggeria. Della piaggerìa, il gran­de c a m p i o n e fu Vincenzo Monti che ne fece u n a proficua industr ia . A furia di omaggi e di elogi, d iventò «assessore» del gove rno di Milano, storiografo ufficiale e poe ta aulico del Regno, ricevette u n a cospicua pensione e le insegne del­la Legion d ' O n o r e e della Corona di Ferro, si fece s tampare tutte le ope re a spese dello Stato, ed Elisa gli pagò in gioiel­li le sonanti quar t ine ch'egli le aveva dedicato. Ques to non gl ' impedì, q u a n d o Napo leone cadde , di spiegare a s tormo le sue argentee campane per il r i torno degli austriaci. E nes­suno se ne scandalizzò; i poeti italiani da secoli non faceva­no che questo: sciogliere inni a l p a d r o n e di t u r n o pe rché , non avendo un pubblico, solo del p a d r o n e e dei suoi favori vivevano. U n a simile le t teratura non si poteva co r rompere :

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smisero di anda re a sentire Goldoni. Era insomma la schiac­ciante superiori tà della le t teratura, della saggistica, del tea­t ro francesi che metteva in crisi la cul tura italiana, sottratta­si fino allora, grazie alla censura dei vecchi regimi , al con­fronto pubblico e diret to con quelle straniere. Era fatale che l ' irruzione dei Diderot, dei D'Alembert, dei Lesage, dei Do-ra t nel Paese dei pastorel l i del l 'Arcadia vi provocasse lo scompiglio.

La reazione fu goffa. Minacciata da questa terribile con­cor renza che smascherava tut te le sue m a g a g n e - l 'accade­mismo p a r r u c c o n e , la bor ia aulica, le iperbol i cor t ig iane­sche, la disabitudine ad affrontare i problemi concreti della società, i l re tor ico t r ionfal ismo al servizio del p o t e r e - , la cu l tura i taliana assunse a t teggiament i di d i sdegnoso spre­gio. «Bestia francese» chiamò il Monti , che inondava l'Italia d ' inni ai francesi, l 'abate Guillon, che aveva osato muove re qualche critica alla poesia italiana. «Testa n o n italiana», «di st irpe e formazione straniera» si diceva e si scriveva di tutti quei francesi che osavano p ronunc ia re giudizi su cose italia­ne . Sembrava, a leggere questi scampoli polemici, che la cul­tu ra italiana fosse ancora, come lo era stata fra il Tre e il Cin­quecento, il faro del l 'Europa, men t r e ne reggeva soltanto il fanal ino di coda. Foscolo c h ' e r a l 'unico vero e serio ant i ­francese, capì tut ta la r idicolaggine di questo starnazzìo di pedant i e gli det te il n o m e che meritava: eunucomachia.

Ma il f enomeno aveva anche un aspet to positivo. Per la p r i m a volta, di fronte alla minaccia della cu l tura francese, quella italiana si e ra sentita italiana. Di appelli all'Italia, nel­le pagine dei nostri scrittori e poeti , ce n 'e rano sempre stati. Ma n o n e r a n o che vuota e tronfia retorica, un 'es igenza di r i tuale. Stavolta, no . Pur negandola , gl ' intellettuali italiani avevano capito che la superiori tà della cul tura francese de­rivava dal fatto ch'essa aveva alle spalle u n a patr ia e u n a so­cietà di cui finalmente avvert i rono la mancanza. La furiosa lotta ch'essi i m p e g n a r o n o cont ro i «gallicismi», cioè cont ro le contaminazioni della l ingua, n o n fu che l 'aspetto più pe-

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dantesco di questa reaz ione , che ne ebbe degli altri mol to più sostanziosi.

I l dominio francese funzionò insomma da reagente . Per paura che Napo leone gliela togliesse, la cu l tura italiana ri­trovò la p ropr ia an ima e serrò i r anghi in sua difesa con u n a compattezza che non aveva mai conosciuto p r ima di allora. Non avendo da con t r appor r e a quella francese nulla o qua­si nulla di valido in senso m o d e r n o , si mise a r icercare e a r inve rd i r e i p r o p r i blasoni di nobil tà d isseppel lendol i dal sot tosuolo, e n o n sol tanto in senso figurato: si p r o p a g a la febbre archeologica , si scopre la civiltà e t rusca , cui v iene frettolosamente attribuito, a d a n n o della Grecia e di Roma, un ruo lo d i «grande madre» nei confront i d i quel la e u r o ­pea, si «lancia» Dante , o meglio lo si rilancia, ma in g r ande stile, facendolo «padre» di tu t to: della l ingua, della poesia, del pensiero, della democrazia, della patria.

Questa patr ia era ancora un concetto astratto e retorico, ma lo e ra molto m e n o di p r ima . I t r ombon i alla Monti se­gui tavano a farne ogget to solo di qua r t ine (e di quat t r ini) . Ma i giovani intel let tual i cresciuti nel clima di N a p o l e o n e cominc iavano ad accorgersi che solo un ' I t a l i a naz ionale avrebbe p o t u t o r i t rovare il suo pos to e il suo r a n g o anche nella cultura.

Ma stiamo attenti a non pe rde re , come spesso si fa, il sen­so delle misure . Ad averne coscienza n o n era neanche tut ta la cu l tu ra , ma solo u n a sua s p a r u t a m i n o r a n z a , che p u r ­t roppo n o n si rese conto del p ropr io isolamento e non fece nulla, o fece t roppo poco pe r romper lo . Per quanto infinita­m e n t e migl ior i dei loro p a d r i e n o n n i , gl ' intel let tual i che nei successivi decenni salirono sulle forche e popola rono le galere , ne p o r t a v a n o ancora nel s angue i l vizio: quel lo di parlare soltanto fra loro come den t ro le m u r a di un'Accade­mia. Un 'ope ra di apostolato popo la re n o n la svolsero: n o n ne avevano l 'abi tudine, n o n ne avevano i l l inguaggio, n o n ne avevano l 'umiltà. Per ques to tu t ta la loro vita n o n sarà che un segui to d i t rag iche de lus ioni . Nel ' 2 1 , nel ' 3 1 , nel

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'48, li ved remo insorgere lanciando appelli al popolo , nella certezza di esserne seguiti; e il popolo non si muoverà o ad­dir i t tura li consegnerà agli sbirri. È logico. Ad esso nessuno aveva parlato. Il discorso seguitava a svolgersi fra «iniziati», anche q u a n d o verteva sulla «democrazia» (e tu t tora è così). Alla cu l tura i taliana seguitava a m a n c a r e ciò che mancava alla burocrazia, all'esercito, a tut to, cioè il senso, la religione del «servizio pubblico». Alle masse n o n volle o n o n seppe ri­volgersi. Intrisa di clericalismo - anche q u a n d o faceva p ro ­fessione di fede anticlericale - le considerava «gregge», co­me faceva la Chiesa. Così c o n d a n n ò se stessa e la p r o p r i a o p e r a - il R isorg imento - a res ta re un fatto di élite e, n o n r iuscendo a dargli un contenuto popolare , dovette cede rne l'iniziativa alla monarchia sabauda.

PARTE SECONDA

LA RESTAURAZIONE

CAPITOLO VENTESIMO

IL BALLETTO DI MI RAT

Di tutti i problemi italiani che i rappresentant i delle Grandi Potenze dovet tero affrontare pe r da re al l 'Europa u n a siste­mazione che r ispondesse ai loro princìpi e soprat tut to ai lo­ro interessi , e che va sotto il n o m e di Restaurazione, il p iù complicato fu quello del Reame, cioè delle Due Sicilie.

Abbiamo lasciato Mura t , alla vigilia della c a m p a g n a di Russia, intento a tessere la sua tela, combat tuto fra la paura di N a p o l e o n e e l 'ambizione di affrancarsi dalla sua tute la pe r diventare un vero Re, e non soltanto di Napoli . Con la sua consue ta leggerezza aveva condo t to le cose t a lmen te male che o ra si t rovava quasi e sau to ra to e sotto la s tret ta sorveglianza dei fiduciari del suo imperiale e p repo ten te co­gnato. Temeva di essere estromesso dal t rono, e pe r storna­re questa minaccia m a n d ò a Parigi Carolina. Costei si vantò in seguito di avere riconciliato mar i to e fratello, e forse lo credeva sul serio. In realtà a compie re il miracolo n o n era stata la sua diplomazia, ma la situazione internazionale. Na­poleone si e ra definitivamente persuaso che il conflitto con la Russia e ra inevitabile, e in quel r epen tag l io n o n voleva storie con Mura t , di cui anzi des iderava la col laborazione. Con lui avrebbe regolato i conti a campagna conclusa.

M u r a t fu in formato delle sue in tenzioni di g u e r r a solo quando , nell 'aprile del 1812, ricevette l 'ordine di raccoglie­re le sue migliori t r u p p e , di affidarne il c o m a n d o a un ge­nerale di sua scelta e di assumere egli stesso quello di tut ta la cavalleria francese. Napoleone lo voleva al suo fianco non solo perché a cavallo lo considerava insostituibile, ma anche perché non si fidava di lasciarlo a Napoli.

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Gioacchino par t ì cont ro voglia. Per quan to di testa piut­tosto debole, capiva benissimo che un Napoleone vittorioso gli avrebbe tolto il t rono o gliel'avrebbe lasciato in posizione più subalterna di pr ima. Per di più, doveva affidare lo Stato a sua moglie e temeva che costei, smaniosa com'era di pote­re pe r sona le , ne approf i t tasse p e r m a n d a r e in fumo quel part i to italico su cui egli fondava tut te le sue ambizioni.

La sua condotta in Russia fu condizionata da questi crucci. Alla testa dei suoi cavalieri si batté bene , come sempre . Ma quando, dopo la disastrosa ritirata, Napoleone gli affidò il co­mando di tutto l'esercito per accorrere a Parigi a repr imervi un colpo di Stato, egli contravvenne agli ordini r inunziando a qualsiasi resistenza anche sulle posizioni che vi si prestavano, t rasformando la ritirata in u n a vera e p ropr i a rotta, e final­mente cedendo a sua volta il suo posto a Eugenio di Beauhar-nais, per r ientrare precipitosamente a Napoli. Ci arrivò ai pri­mi del '13, accolto da fiori e applausi. Apparve sorridente e si­curo di sé, ma n o n lo era affatto. Come avrebbe reagito alla sua diserzione il cognato, che non era più in grado di garan­tirgli il t rono, ma era ancora in grado di toglierglielo?

Il cognato reagì con d u e lettere. Una, a Carolina, diceva: «Vostro mari to e un gran b rav 'uomo sul campo di battaglia, ma è più debole di u n a d o n n a o di un frate q u a n d o n o n è davant i a l nemico. Manca comple tamen te di coraggio mo­rale». L'altra, a lui, conteneva queste frasi: «Spero che n o n siate di quelli che pensano che il leone è mor to . Il titolo di Re vi ha fatto girare la testa. Se questa testa volete salvarla, comportatevi bene».

Per q u a n t o ferito nel l 'orgogl io , Gioacchino r e sp i rò : se l 'era cavata con un «cicchetto», e quel «comportatevi bene» implicava la concessione di u n a p rova d 'appe l lo . Ma c 'era anche un 'a l t ra consta tazione da fare, e i suoi consiglieri la fecero subi to: p e r mos t ra rs i così a r r e n d e v o l e , voleva d i re che Napoleone era p ropr io allo s t remo. Bisognava approfit­t a rne , m a n o v r a n d o in m o d o da p r o c u r a r s i qua lche con­troassicurazione pe r il futuro.

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La Potenza più disposta a dar la era l'Austria, tu t tora neu­trale, ma p ron ta a gettarsi anch'essa sul vinto pe r partecipa­re alla spart izione del bot t ino. Met ternich pe rò voleva fare il giuoco suo, n o n quello della Russia che già aveva steso le mani sulla Polonia, e della Prussia che già reclamava la Sas­sonia. Era in Germania ch'egli voleva la gue r r a pe r sottrarla a questi d u e famelici concorrent i , ed era lì che contava quin­di di concent rare tutte le sue forze. Per l'Italia, bastava neu­tralizzare Eugenio o Gioacchino, o tut t 'e due , staccandoli da Napoleone . E questo era compito della diplomazia.

Con Eugenio , Metternich n o n potè t ra t tare pe r t re moti­vi. P r ima di tu t to pe rché il Viceré era r imasto disciplinata­men te al c o m a n d o dei brandel l i della G r a n d e Armata , ave­va raggiunto l ' Impera tore a Parigi, e solo nel maggio questi lo r i m a n d ò a Milano. Secondo, perché sarebbe occorso dar­gli qualche garanzia di p e r m a n e n z a sul t rono del Lombar ­do-Veneto cui l'Austria n o n intendeva assolutamente r inun­ziare. Terzo, pe rché fu subito chiaro che Eugenio n o n tradi­va. Motivi ne avrebbe avuti : d o p o avergliela fo rma lmen te p romessa , Napo leone gli aveva s e m p r e rifiutato la co rona d'Italia e n o n gli aveva mai concesso un minimo di au tono­mia. E, ne avrebbe avuto anche i mezzi: suo suocero, Re di Baviera, gli aveva già offerto la sua mediazione presso Vien­na. Ma Eugenio l'aveva respinta . Come mot to si e ra scelto: «Onore e fedeltà», e n o n vi contravvenne.

Il Regno di Napoli n o n rivestiva, agli occhi di Metterni­ch, la stessa importanza. U n a volta res taura to il p r edomin io austr iaco sull 'Italia, che su quel t r ono sedesse un Borbone o un Mura t , avrebbe c o m u n q u e dovu to accet tare i l pa t ro ­nato di Vienna. E pe r di p iù l 'ambasciatore austriaco Mier riferiva che Gioacchino era trattabile. Metternich lo sapeva già p e r c h é , p r i m a ancora di r i e n t r a r e a Napol i , M u r a t gli aveva m a n d a t o un messo, Cariati, a sondare le sue intenzio­ni. E r a n o così al let tanti che M u r a t si affrettò a r i sped i re a Vienna l ' in te rmediar io che, a q u a n t o sembra , invece di li­mitarsi ad ascol tare come Gioacchino gli aveva o r d i n a t o ,

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par lò , e anzi par lò t roppo sino a p r o p o r r e una vera allean­za militare in cambio di u n a garanzia per la corona del suo sovrano.

La transazione restò a mezz'aria pe r vari motivi. Anzitut­to , occor reva l 'avallo degl ' inglesi che o rma i eserc i tavano u n a specie di tutela sulle Due Sicilie, e gl'inglesi n o n e rano d ' accordo n e m m e n o t ra loro . A L o n d r a i l P r imo Ministro Castlereagh, preoccupato anche lui del rafforzamento russo e p russ iano , voleva in tutt i i modi secondare l 'Austria pe r consentirle di fare da contrappeso. Ma l'inglese di Palermo, cioè Bentinck, aveva tutt 'al tre idee. «Questo g r ande popolo - scriveva (bontà sua) degl ' i taliani - n o n deve d iventare lo s t r u m e n t o di un soldato t i r anno o di qualche altro oscuro personaggio , ma u n a formidabile bar r ie ra alzata sia contro l'Austria che contro la Francia.» Secondo lui insomma si do­veva but tare a mare sia Mura t che i Borbone pe r pun t a r e su un'I tal ia unita e ind ipenden te . Questo inglese autori tar io e generoso precorreva il Risorgimento, ma di t roppi decenni .

Q u a n d o r icevet te l ' o rd ine d i p r e n d e r e conta t t i con Gioacchino, li eseguì, ma a m o d o suo. Andò a Ponza, che la sua flotta aveva occupa to con un colpo a sorpresa , e di lì m a n d ò ambascerie a Mura t invitandolo a r o m p e r e con Na­poleone, ma senza dargli nessuna garanzia pe r i l futuro, an­zi rec lamando la consegna di Gaeta, pilastro di tut to il siste­ma difensivo n a p o l e t a n o . M u r a t repl icò c h i e d e n d o , ol t re Napol i , gli Stati pontifici: anche lui voleva un ' I ta l ia uni ta , ma sotto la p ropr ia corona.

Napo leone e ra informato di tut to , e le sue let tere al co­gnato si facevano s e m p r e più violente. Fece pubbl icare sul giornale ufficiale la notizia che i napoletani , cioè Murat , ave­vano «venduto» Ponza agl'inglesi, impose il ritiro di Cariati da Vienna, e chiese otto battaglioni napoletani con contor­no di artiglieria e di cavalleria pe r le successive operazioni in Germania . Gioacchino tergiversò finché potè. Ma alla no­tizia delle vit torie r i po r t a t e dal cogna to a Dresda e a Lut-zen, s ' impaurì , p iantò a mezzo le trattative con Mettermeli e

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Bentinck, e accorse anche lui pe r par tec ipare alla battaglia decisiva.

Il rovesc iamento di fronte sembrava scongiura to , ma a ricucirlo fu Carolina, rimasta a Napoli. Essa conosceva mol­to bene Met ternich pe rché ne e ra stata l ' amante , e col suo femminile intui to aveva capito che la stella del fratello era ormai t ramonta ta e i suoi successi non avrebbero avuto do­mani . Il g iorno stesso in cui suo fratello e suo mar i to scen­devano in c a m p o a Lipsia, essa convocò Mier e si disse di­sposta a conc lude re la t ra t ta t iva schierandos i in g u e r r a a fianco dell'Austria, q u a n d o questa vi fosse entrata, pu rché a lei e a suo mar i to fosse garant i to il t rono di Napoli . Mura t ne fu in formato d o p o la bat taglia che si e ra risolta in u n a completa sconfitta. Non poteva aver più nulla da eccepire. A b b a n d o n ò l 'esercito e il cogna to al lo ro des t ino , accorse prec ip i tosamente a Napoli , ch iamò Mier, e gli disse ch ' e ra p ron to a met tere a disposizione degli Alleati 30 mila uomini pe r marc i a re con t ro i l Regno Italico. Ma p o n e v a la solita condiz ione : gli Stati della Chiesa, e anzi ne agg iungeva un'altra: Corfù.

Per s t r ingere la trattativa, alla fine de l l ' anno Vienna in­viò il conte Neipperg . La controfferta era questa: Gioacchi­no avrebbe fornito 30 mila uomin i in appogg io ai 60 mila che l 'Austria avrebbe m a n d a t o in Italia, e in compenso sa­rebbe stato confermato «nei suoi Stati attuali». Ne ippe rg vi aggiunse di suo l ' impegno , che n o n impegnava a nulla, di adoperars i pe r assicurargli «una frontiera migliore».

Subito d o p o aver accettato le deludent i proposte , Gioac­chino scriveva a Napoleone: «Sire, eccomi nel m o m e n t o più doloroso della mia vita. Si tratta, pe r me, di scegliere t ra la perdi ta dei miei Stati, della mia famiglia e della mia gloria, ed il mio inalterabile affetto pe r la Francia... Voi n o n m'ave­te dato alcun potere sul paese da me occupato, n o n m'avete n e p p u r par la to della garanzia dei miei Stati...» Ot to giorni dopo firmò l 'accordo con gli austriaci, ne iniziò un altro, più difficile, con l'inviato di Bentinck, e riscrisse a Napo leone :

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«Sire, colui che ha combat tu to a lungo vicino a Voi, vostro cognato, vostro amico, ha firmato un atto che sembra fargli assumere un a t teggiamento ostile nei vostri confronti... Ho dovu to farlo, ma il mio cuore è s e m p r e lo stesso. Ho biso­gno di sapere che Voi mi amate ancora pe rché io vi a m e r ò sempre...» Quasi con temporaneamen te scriveva al l ' Impera­tore d'Austria: «Prego Vostra Maestà di essere persuasa del­la mia sincera amicizia e riconoscenza.. .» Molti biografi di Mura t si chiedono se questi mentisse più a Napoleone o agli Alleati. Forse, nel m o m e n t o in cui scriveva, era sincero con l 'uno come lo e ra con gli altri: voleva b e n e a tut t i e voleva che tutti gli volessero bene .

Bentinck, che aveva r icevuto l 'o rd ine di ap r i r e i l nego­ziato con lui, stava facendo il possibile pe r mandar lo a mon­te, e q u a n d o da L o n d r a gl ' ingiunsero di concluder lo s'im­pegnò alla cessazione delle ostilità fra Napoli e l ' Inghil terra, ma senza fornire nessuna garanzia sul futuro del Regno. E ora bisognava agire. Alla testa dei suoi uomini , Gioacchino varcò i l confine pontificio ed e n t r ò in Roma. Il gene ra l e Miollis, non avendo forze da opporgli , si chiuse in Castel S. Angelo. Evitando di attaccare le t r u p p e francesi, Mura t p ro ­seguì pe r Bologna, e da Ancona lanciò un proc lama ai sol­dati in cui, nel tentativo di giustificare il p ropr io voltafaccia, denunciava «la folle ambizione di Napoleone», e pe r la pr i ­ma volta si firmava col solo n o m e italianizzato Gioacchino. Come u n a volta aveva cambiato il Mura t in Marat , così ora voleva farlo d imen t i ca re p e r meglio accredi tars i come Re ind igeno , p e r c h é ques to e ra o rma i i l suo giuoco: me t t e r e tut t i , amici e nemici (sebbene ancora n o n sapesse chiara­mente chi fossero gli uni e gli altri) dinanzi al fatto compiu­to di un'Italia unificata sotto il suo scettro.

«La condot ta del Re di Napoli che spara contro i francesi è infame e quella della Regina inqualificabile. Spero di vive­re abbastanza a lungo pe r vendicare me e la Francia d 'una ingra t i tud ine così spaventosa» scrisse Napo leone che stava t en t ando un 'u l t ima dispera ta resistenza all ' invasione allea-

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ta. In realtà fin allora Gioacchino aveva sparato solo parole. Ma i movimenti delle sue t ruppe , c reando una minaccia alle spalle di Eugenio, avevano costretto quest 'ul t imo ad abban­d o n a r e le difese dell 'Adige a p r e n d o così la s t rada agli au­striaci in marc ia sulla Padania . Gioacchino, in p r e d a a un delir io di att ivismo, nelle pause dei suoi con t inu i trasferi­ment i scriveva a tutti i potent i della ter ra pe r professargli il suo amore e guadagnar l i alla causa del Regno Italico. Scris­se anche a Ferd inando VII di Spagna, ch 'era fuori del giuo­co. Scrisse perfino a Luigi XVII I dicendosi p ieno di «vene­raz ione pe r il s angue di Enr ico IV e di San Luigi». Aveva sguinzagliato i suoi fiduciari in tut ta la penisola a suscitarvi adesioni e d o m a n d e di a r r u o l a m e n t o nel suo esercito. Ma u n o di essi, Gabriele Pepe, sebbene fra i p iù entusiasti , an­notava nel suo diario: «Il Re manca di coraggio politico. Crii alleati, che n o n h a n n o po tu to ancora constatar lo, n o n tar­d e r a n n o ad accorgersene e n o n m a n c h e r a n n o di approfit­tarne».

Il 1° marzo (sempre del T4) , Gioacchino scrisse ancora a Napoleone, sebbene ormai fosse con lui in gue r r a guer reg­giata: «Sire, Vostra Maestà cor re pericolo. La Francia è mi­nacciata nella sua capitale. Sire, dite u n a parola, e sacrifico la mia famiglia e i miei sudditi . Questa lettera vi r e n d e inte­ramente p a d r o n e della mia sorte. La mia vita vi appar t iene . Amatemi. Mai fui più degno della vostra tenerezza. Fino al­la mor te vostro amico». Cos'era accaduto? Era accaduto che Napoleone aveva r ipor ta to qualche piccolo successo, men­tre il c o m a n d a n t e aus t r iaco aveva lanciato a sua volta un proclama in cui annunciava agl'italiani il proposi to di rico­stituire i vecchi Stati «che h a n n o assicurato così a lungo la loro felicità e la loro gloria». Vedendo sfumare il suo sogno di Regno Italico, Gioacchino era p ron to a un ennes imo ro­vesciamento di fronte, ma le sorti della g u e r r a n o n gliene det tero il t empo: il 6 apri le (1814) Napoleone era costretto ad abdicare e pochi giorni dopo partiva per l'Elba.

Napoli r iservò le solite g rand i accoglienze a Gioacchino

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che se ne finse pago. Non si sa cos'avvenne nell ' intimità fra lui e la moglie, ma n o n dovett 'essere un facile incontro. Na­poleone diceva che Carolina «portava la testa d ' un uomo di Stato sulle spalle d ' u n a bella donna» . Molto p iù realistica del mari to , essa aveva capito fin dappr inc ip io che il Regno Italico era u n a ch imera , che conservare i l t r ono di Napoli sarebbe già stata u n a m a n n a e che , di tut t i gli Alleati, solo sull'Austria si poteva fare qualche affidamento. Perciò, non essendo riuscita ad accredi tare dei r app resen tan t i ufficiali al Congresso di Vienna, vi teneva d u e «osservatori» e priva­t amen te scriveva a Met termel i pe r rassicurarlo: la dinastia M u r a t si sarebbe legata s t r e t t amente all 'Austria e avrebbe monta to b u o n a guard ia cont ro i r ivoluzionari . Era il capo­volgimento di tutta la politica di suo mari to.

Ques t i sapeva tut tavia che Met te rn ich e ra s e m p r e più isolato fra le altre Potenze che volevano r ipor ta re i Borbone sul t rono di Napoli, ed aveva r ipreso ad armeggiare . Alla fi­ne di febbraio ricevette u n a lettera di Napoleone dall'Elba: «Caro Mura t , vi r ingraz io di quel lo che avete fatto p e r la contessa Walewska. Ve la raccomando, e vi raccomando suo figlio (che era figlio di Napoleone). Colonna vi dirà cose gravi e important i . Conto su di voi». Questo messaggio era il risul­tato di una complessa manovra di riavvicinamento condotta da Gioacchino, al l ' insaputa di sua moglie, at t raverso la co­gnata Paolina e il cardinale Fesch. Evidentemente lo aveva­no informato delle intenzioni di Napoleone e, vedendosi ab­bandona to dagli Alleati, puntava nuovamente su di lui che, freddo calcolatore, Io riaccoglieva nel p ropr io giuoco.

Pochi giorni d o p o il pr igioniero dell 'Elba fuggì, sbarcò a Fréjus, e sulle ali dell 'entusiasmo popola re volò a Parigi, do­ve lo raggiunse una lettera di Murat : «Sire, non ho mai ces­sato d'essere vostro amico. Attendevo solo un'occasione fa­vorevole. Tutto il mio esercito è in movimento e alia fine del mese sarò sul Po». In quel l 'eserci to e r a n o affluiti da tut ta Italia i veterani delle gue r re di Spagna e di Russia, ma solo quelli dal g rado di colonnello in su. Di subal terni , sottuffi-

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ciali e soldati, nessuno. E il part icolare ha il suo significato: il patr iot t ismo in Italia restava la prerogat iva di coloro che ad esso legavano un r a n g o e un s t ipendio. Sugli altri, n o n esercitava nessun fascino. Quasi tutt i gli storici d icono che questa reni tenza fu colpa di Mura t che, contro il pa re re dei suoi consiglieri e l uogo tenen t i , de luse le d u e p iù g r a n d i aspirazioni del popolo: l 'adozione della bandie ra tricolore e di una Costituzione liberale. Ma noi ci c red iamo poco. Que­ste d u e mi su re gli av rebbe ro a t t i ra to qua lche s impat ia in più; ma i l popo lo sarebbe r imasto u g u a l m e n t e iner te pe r ­ché quegl ' ideal i di naz ione e di l iber tà gli e r a n o del tu t to estranei. Pietro Colletta, che Gioacchino aveva nomina to ca­po di Stato Maggiore e comandan te del genio, lo disse chia­ramente : «Un filone d 'uomini colti si abbandonerà a questa idea lusinghiera, ma la massa degl'italiani o la spregerà , o la r iguarderà con indifferenza, o si a rmerà per combatterla...»

Il 22 marzo Gioacchino, ormai deciso a p u n t a r e tut to sul­la carta di Napoleone , par t ì alla testa del suo esercito, e il 30 lanciò da Rimini il famoso proclama, impastato di retorica e di ambigui tà : « . . .Ottantamila i taliani degl i Stati di Napol i marciano comandat i dal loro Re, e g iu rano di non d o m a n ­dare riposo se n o n d o p o la liberazione d'Italia... Io chiamo d ' intorno a me tutti i bravi pe r combattere.. .» Questo enfati­co appel lo riuscì a i sp i rare a Manzon i a lcuni dei suoi più brutt i versi, che sono quasi tutti brutt i . Ma di veri bravi pe r combattere ne accorsero cinquecento in tutto.

Gli an imi n o n si sca ldarono n e m m e n o alla notizia dei pr imi successi di Mura t . Presi di con t rop iede , gli austriaci a b b a n d o n a r o n o M o d e n a e Bologna e si fecero ba t t e re sul Panaro. Ma l ' indomani , a Occhiobello, respinsero un assal­to, sebbene condot to pe rsona lmente da Gioacchino col suo impeto consueto. Perdite fra gli italiani ce ne furono poche, ma diserzioni a centinaia.

A me tà apr i le gli austr iaci in iz iarono la controffensiva. Gioacchino si ritirò pe r at tenderl i fra Macerata e Tolentino. Abituato ai ferrei e disciplinati repar t i francesi, non riusciva

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a d o m i n a r e quel raccogliticcio esercito dove ogni genera le faceva ciò che voleva e voleva sempre il contrar io di ciò che faceva l'altro. Pepe e Carascosa si odiavano. Pignatelli quali­ficava Colletta «un mozzorecchi». Ciò malgrado la battaglia iniziata ai p r imi di magg io sembrava volgere al megl io , q u a n d o giunse la notizia che u n a seconda colonna austriaca aveva sfondato in Abruzzo e u n a terza scendeva da Roma su Gaeta. R inunz iando a un successo che pa reva a por t a t a di mano , Gioacchino r ipiegò in furia e, abbandona to il coman­do ai suoi l uogo tenen t i , accorse a Napol i . La folla di Via Ghiaia lo p o r t ò in tr ionfo (non si capisce di che) a palazzo reale. Ma nei «bassi» si cantava: «Tra Macerata e Tolentino -è finito Re Gioacchino. - Tra il Chien t i e il Potenza - finì l ' indipendenza!», e si p r e p a r a v a n o luminar ie pe r il r i to rno dei Borbone . A Carolina disse: «Tutto è p e r d u t o fuorché la vita, n o n sono riuscito a mori re», le affidò i p ieni poter i , e s ' imbarcò p e r Cannes . O r a m a i d o p p i giuochi n o n po teva più farne. L'unica sua speranza era Napoleone .

Napoleone , che se ne rendeva conto, fu d u r o . Attraverso un messo, gli chiese spiegazioni sulla sua condot ta del l 'anno p r ima e respinse la sua d o m a n d a di a r ruo lamento nell 'eser­cito che intanto stava allestendo pe r l 'ultima battaglia. Scri­verà nelle sue Memorie: «Non mi sentivo abbastanza forte da impor r e ai soldati francesi un t radi tore come quello. Eppu­re, a Waterloo, forse Mura t mi avrebbe dato la vittoria».

Conf inato in u n a casa d i c a m p a g n a presso Grenoble , Gioacchino trascorreva quella febbrile vigilia a piangersi ad­dosso in l u n g h e le t tere a tutt i . Il 19 g iugno ne scrisse u n a anche a Napoleone: «Non ho più nulla da chiedere a Vostra Maestà. Ella p u ò o rma i pronunzia rs i t ranqui l lamente sulla mia sorte, le sue volontà sa ranno eseguite: felice d 'essermi p e r d u t o p e r voi, nes sun l amen to uscirà dalla mia bocca. Che i vostri ministri mi facciano conoscere il luogo del mio esilio...» Ma n e a n c h e N a p o l e o n e aveva p iù nul la da fargli conoscere . Era lui che , def ini t ivamente sconfìtto i l g iorno pr ima, aspettava di conoscere il luogo del suo esilio.

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A Napoli , Carol ina aveva t rasmesso i suoi po te r i agl ' in­glesi che vi e rano sbarcati alla fine di maggio e che l'accolse­ro su u n a loro nave p e r i s t radar la a Trieste e consegnar la agli austriaci. Por tò via tu t to quel che poteva, perf ino u n a mucca che aveva un corno solo e si chiamava come lei, Ca­rolina, in modo che d u r a n t e la traversata i bambini avessero il latte fresco. Dopo pochi giorni di navigazione, la nave in­crociò lungo le coste Calabre quella che r ipor tava a Napol i Ferd inando . II comandan te si scusò con la Regina di dover sparare ven tun colpi di cannone a salve. «Lo prescrive il re­golamento» disse in tono mortificato.

CAPITOLO VENTUNESIMO

DA FERDINANDO IV A FERDINANDO I

Sulla nave che lo r ipor tava a Napoli e che aveva incrociato quella che ne conduceva via Carol ina Bonapar te , re Ferdi­n a n d o era allegrissimo, e i motivi n o n gli mancavano. Il mi­nistro inglese a Palermo A Cour t gli aveva pra t icamente la­sciato carta bianca sulla Costituzione che il suo predecessore Bentinck aveva imposto, e Ferd inando ne aveva approfitta­to pe r appor tarvi delle r iforme che pra t icamente l 'annulla­vano. Poi, siccome il pa r lamento n o n si decideva a stanziare i «sussidi» richiesti dalla Corona , lo aveva sciolto. E o ra si cons iderava l ibero da tut t i g l ' impegni che con esso aveva contrat to , compreso quello di n o n lasciare la Sicilia senza la sua autorizzazione.

Ma c 'era di più. Pochi mesi p r ima , a Vienna , e ra mor ta Maria Carolina, che pe r Ferdinando rappresentava un peso ancora più oppr imente della Costituzione. Egli fece celebra­re in suo suffragio un' infinità di messe, o rd inò la ch iusura dei teatri , indisse sei mesi di stretto lutto, e alla fine del se­condo lo infranse sposando la signora Migliaccio, promossa pe r l'occasione Duchessa di Floridia, «donna - dice Colletta -di nobile stirpe, di volgare ingegno e pe r antiche libidini fa­mosa». Dicono che il figlio Francesco tentò di oppors i alle nozze r ivelando al p a d r e gli scabrosi precedent i di quella si­gnora , e che Ferd inando rispose: «Pienza a màmmeta , figlio mio, pienza a màmmeta!» Anche se non è vero, po t rebbe es­serlo. Ora , secondo Lady Morgan, il Re andava r ipe tendo a tutt i : «Che bellezza! Ho u n a moglie che mi lascia fare quel che voglio, e un ministro che non mi lascia niente da fare!»

Il ministro era Medici. Ferd inando n o n lo amava, anzi lo

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detestava, ma ne riconosceva l'efficienza. Era stato lui che aveva ideato le manovre pe r l iquidare Costituzione e Parla­mento e p repa ra to il g rande r i torno a Napoli senza bisogno di c h i e d e r e permess i a nes suno . Il Re si e r a imbarca to in g iugno (del '15 , si capisce) facendosi p recedere da un p ro ­clama che diceva fra l'altro: «Napoletani, r i tornate fra le mie braccia, io sono na to t ra voi» e si ch iudeva con la so lenne promessa «della moderaz ione , della bontà , della reciproca fiducia».

De Nicola racconta che , sba rcando a Portici, il Re sem­brava in stato di ubriachezza, tanto era eccitato e felice. Stra­par lava mezzo r i d e n d o , mezzo s inghiozzando, e di ques to suo stato d 'an imo Medici approfittò largamente per indur lo a m a n t e n e r e il suo impegno di moderaz ione e di bontà . In realtà u n a repress ione tipo '99 sarebbe stata impossibile: il regime francese era du ra to un decennio e tutti, di b u o n a o di malavoglia, vi avevano collaborato. Di epurazioni quindi n o n ce ne furono , o si r idusse ro a ben poco . Forse Ferdi­n a n d o avrebbe voluto a lmeno a l lon tanare dall 'esercito gli ufficiali che vi avevano fatto ca r r i e ra sotto le b a n d i e r e di Mura t . Ma un c lamoroso episodio sop ravvenne a d i m o ­strargli che n o n c'era motivo di diffidarne.

Abbiamo lasciato Gioacchino al m o m e n t o in cui, fuggiasco da Napoli, r iparava in Francia. Non ci si trovò bene . Inviso a tutti, nostalgici del vecchio e fautori del nuovo regime, vi­veva in semiclandestinità gi rovagando fra Marsiglia, Tolone e Lione. Attraverso Fouché, Met ternich gli fece sapere che l'Austria era p ron ta a dargli asilo, a riconoscergli il titolo di Conte e a concedergli una decorosa pensione p u r c h é faces­se atto di solenne r inuncia al t rono di Napoli. Ma m e n t r e si svolgevano questi negoziati , Gioacchino seppe che a Parigi era stato spiccato contro di lui manda to di cat tura e pe r sot-trarvisi r iparò , d o p o varie per ipezie , in Corsica. Anche qui la genda rmer i a voleva arrestar lo, ma i veterani della Gran­de Armata insorsero in sua difesa.

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Forse fu questo episodio a t rar lo in inganno , facendogli c redere che il suo prestigio e la sua popolari tà e rano ancora intat t i . Spedì emissari a Napol i p e r saggiarne gli u m o r i , e quelli to rna rono con notizie incoraggianti, che poi si rivela­r o n o del tu t to infondate : la popolaz ione lo r impiangeva e soprat tut to l'esercito sperava in un suo r i torno. Superficiale ed entusiasta com'era , e viziato dalla for tuna, fece presto a convincersi che il suo sbarco laggiù sarebbe stato come quel­lo di N a p o l e o n e in Francia al r i t o rno dall 'Elba coi soldati che, d o p o avergli mirato al pet to, avrebbero abbassato i fu­cili p e r sollevarlo in t r ionfo. Alcune teste calde i tal iane e francesi che gli si e r ano raccolte in to rno gliela davano pe r fatta. Col loro aiuto noleggiò sei t a r t ane , e su di esse il 28 se t tembre (del T5) p rese i l largo. In tutti e r ano duecen to ­cinquanta.

Buono dapprincipio , il t empo si mise al brut to , e una vio­lenta tempesta scompaginò la flottiglia. Due dei sei legni fu­r o n o trascinati verso la Sicilia, d u e su Policastro. U no solo riuscì a res tare in contat to con quello di Gioacchino spinto nel Golfo di Sant 'Eufemia . Scoraggiato dalla malasor te , Gioacchino chiese al cap i tano , un ex-corsaro mal tese , di p rosegu i r e il viaggio a t t raverso lo stret to di Messina e l'A­driatico fino a Trieste. Il capi tano rispose che in tal caso do­veva scendere a t e r r a pe r far incetta di viveri. Mura t , che forse diffidava di lui, rifiutò, e ne seguì un lungo alterco, cui alla f ine Gioacchino tagliò corto con u n a brusca decisione: scialuppe in acqua, e via al l 'avventura coi t ren ta compagni rimastigli. Era l'8 ot tobre.

Per la g rande scena che aveva immaginato e che doveva concludersi con la marcia trionfale su Napoli, Gioacchino si e ra confezionata u n a divisa appos ta con un cappello guar­ni to d i un f iocco t r icolore a p p u n t a t o con fermagli d i dia­mant i , spada con l'elsa dora ta e un c in turone g rondan t e di pistole. Alla testa del suo piccolo drappel lo , salì verso il pae­se ch 'e ra Pizzo di Calabria, e ne trovò la piazza affollata di gen te p e r c h é e ra g io rno di merca to . I l canonico Masdea,

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che si trovò presente alla scena, racconta che tutti r imasero a bocca aper ta e senza fiato all 'apparizione di quegli uomini forse scambiandoli pe r banditi , ma q u a n d o questi l 'invitaro­no a g r ida re : «Viva re Gioacchino!», vol ta rono le spalle, si d iedero a precipitosa fuga, e di colpo la piazza fu vuota.

Gioacchino s i g u a r d ò i n t o r n o in t e rde t to , vide poco di­stante u n a compagnia di reclute che facevano le loro eserci­tazioni, si diresse verso di loro e li apostrofò in tono milita­resco: «Voi siete miei soldati, ubbidi temi . Anda te su quella torre , ammaina te la bandiera , e al suo posto metteteci que­sta tricolore del vostro re Gioacchino». Anche quelli lo guar­da rono a bocca aper ta e senza fiato, poi fecero ciò che ave­vano fatto i villici in piazza: voltarono le spalle e si d iedero a precipitosa fuga.

In quel momen to Mura t dovette capire che né lui era Na­poleone, né l'Italia era la Francia. Ma ormai non aveva più scelta: bisognava andare avanti. Avanti c'era il capoluogo del c i rcondario, Monte leone , dove forse poteva t rovare dei se­guaci, e vi si avviò di b u o n passo. Ma intanto a Pizzo la noti­zia della sua comparsa, volando di casa in casa, giunse all'o­recchio di un capitano Trentacapilli, borbonico arrabbiato e arrivista di pochi scrupoli, che ci vide subito la g rande occa­sione di u n o scatto di grado. Alla testa di u n a banda di pae­sani a rmat i di schioppi e forconi, si lanciò al l ' inseguimento della pattuglia murat t iana , la raggiunse e l'assalì. Sotto u n a gragnuòla di pallottole, Gioacchino e i suoi si get tarono per balzi e d i rup i verso il m a r e nella speranza di r agg iungere i canotti e con essi la tar tana. I canotti c 'erano, ma la ta r tana era già scomparsa al largo. Molti mor i rono sotto la fucileria, altri cercarono a nuo to scampo sugli scogli, e Gioacchino si trovò solo di fronte alla turba inferocita. Per aver salva la vi­ta, offrì i suoi gioielli, ma quelli non capi rono perché dove­vano mercanteggiarl i , visto che potevano strapparglieli , co­me fecero, lasciandolo seminudo è coperto di ecchimosi e di sputi : perf ino i baffi gli avevano po r t a to via. Poi a calci e spintoni lo ri trascinarono in paese e lo chiusero nel sotterra-

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neo del castello negandogl i anche l 'acqua. Solo q u a n d o so­pravvenne da Reggio il genera le Nunzian te , al pr ig ioniero fu concessa una stanza decente e un t ra t tamento umano .

A Napol i la notizia n o n g iunse inaspet ta ta . I servizi d ' informazione avevano già saputo dei preparat ivi di Gioac­chino, ma ignoravano dove e q u a n d o sarebbe sbarcato e so­p r a t t u t t o come sarebbe stato accolto. Perciò la città era in stato di p rea l la rme e i comandi militari sotto controllo pe r preveni re sollevazioni e ammut inament i . Ma i t imori si rive­l a rono del tu t to infondat i . Nessuno mosse un di to , n o n c i furono n e m m e n o degli appelli alla clemenza. Il Re o rd inò a Nunz ian te d i r iun i re sedu ta s tante un t r ibuna le d i g u e r r a che giudicasse i l p r ig ion ie ro come pubbl ico nemico . N o n suggeriva quale dovesse essere la sentenza, ma ingiungeva ch'essa fosse eseguita en t ro un quar to d 'ora dalla sua lettu­ra. Cosa intendesse, era chiaro.

Gioacchino non se l 'aspettava. Anzi, nei suoi colloqui con Nunz ian te aveva de t to ch ' e ra p r o n t o a met ters i d 'accordo con Ferd inando r iconoscendo tutti i suoi diritti sulla Sicilia pu rché Ferd inando riconoscesse a lui quelli su Napoli: il che d imos t r a q u a n t o fosse fuori della real tà . P u r e , q u a n d o la b e n d a gli fu s t rappata dagli occhi, quegli occhi n o n bat tero­no ciglio. Si rifiutò di compar i re e di difendersi di fronte al t r ibunale perché , disse, un Re n o n p u ò essere giudicato dai suoi sudditi; scrisse u n a lettera di addio, commossa, ma sen­za enfasi, alla moglie e ai figli, e dopo aver ricevuto la comu­n ione da p a d r e Masdea, si avviò dicendo: «Andiamo a fare la volontà di Dio». Davanti al p lotone di esecuzione, rifiutò la b e n d a , si d e n u d ò il pe t to e p r e g ò i soldati di m i r a r e al c u o r e r i s p a r m i a n d o la faccia. Più che coraggio , sarà stata magari spavalderia e teatralità. Ma quella mor te salvò la leg­g e n d a del «Re cavalleresco e sventura to» . Croce racconta che fino al '60 e oltre, «era dato incontrare vecchi napoleta­ni che usavano por ta re come reliquia, nel taschino, u n a mo­ne ta di quel Re, e la t r aevano fuori p e r con t empla r l a e la baciavano sospirando».

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Con la sua abituale insensibilità, Fe rd inando n o n capì che, graziando Mura t e m a n d a n d o l o a fare il pens ionato in Au­stria, avrebbe più facilmente debellato il murat t i smo. Egli si finse dispiaciuto di aver dovuto sacrificare la sua vittima alla ragion di Stato, ma in realtà t r ipudiava pe r quella ch'egli ri­teneva u n a dimostrazione di lealtà da par te del popolo; e di questo Medici approfit tò pe r por t a re avanti la sua cosiddet­ta politica «di amalgama», cioè di distensione. Il codice na­poleonico fu sottoposto a u n a commissione di giuristi pe r i necessari adat tament i alle esigenze locali, ma per il momen­to venne confermato con la sola revoca del divorzio che del resto nessuno voleva.

Il grosso problema era la Sicilia, che seguitava a reclama­re la sua au tonomia nel r ispetto della Costi tuzione del '12, secondo la qua le , se il Re fosse t o rna to a Napol i , av rebbe dovuto insediare sul t rono di Palermo il figlio pr imogeni to . In realtà, fo rma lmen te , le d u e co rone e r a n o s e m p r e state divise, t an t ' è vero che F e r d i n a n d o si ch iamava «Re delle Due Sicilie», ed era IV a Napoli e I I I a Palermo. Ma su que­sto p u n t o Medici, da b u o n illuminista fautore di un po te re accentrato, la pensava come il suo Sovrano, che di deleghe e divisioni n o n voleva sentir par lare . Con un trat to di pen­na, cui le Grand i Potenze non mossero obbiezioni, il Re del­le Due Sicilie diventò «Re del Regno delle Due Sicilie», e di questo Stato g iur id icamente nuovo si p roc lamò titolare col n o m e di F e r d i n a n d o I . N o n era u n a ques t ione soltanto d i parole. Ciò significava che il Regno era unico con u n a unica capitale, Napoli , e un unico regime, quello di Napoli , dove di Costituzioni non se n 'e rano mai p romulga te .

A Palermo reagirono i baroni e i loro clienti; ma non certo le masse, che dal l ' au tonomia n o n avevano mai t ra t to alcun beneficio. Essi si rivolsero al l ' Inghi l terra ch 'era stata la ma­drina delle loro libertà costituzionali. Ma l ' Inghil terra aveva in quel momento un governo conservatore e per di più lega­tissimo all'Austria, l'alta pa t rona dell'assolutismo. Ferdinando potè quindi procedere in tutta tranquillità anche perché l'u-

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nifìcazione del Regno era caldeggiata dagli stessi quadr i mili­tari e amministrativi murat t iani , formatisi nel culto francese del central ismo. Anzi, F e r d i n a n d o ebbe anche i l des t ro di p r ende r s i u n a rivincita persona le sul suo arcinemico Ben-tinck, che gli aveva fatto inghiott ire tante umiliazioni, e che propr io in quel momento ebbe la cattiva idea di fare una visi­ta a Napoli. Il Re, sapendolo ormai in disgrazia presso il suo governo, gli fece dire che non si azzardasse. Bentinck, col suo caratteraccio, non se ne dette per inteso e si presentò ugual­mente , a bordo di una nave. La polizia consentì a sua moglie di andare a u n o spettacolo del San Carlo, e ve la scortò. Ma a lui non permise di metter piede a terra.

Tutto d u n q u e sembrava p rocedere nel migliore dei modi pe r il vecchio Re che aveva r ipreso le sue abitudini «lazzaro­ne», convinto che il Decennio non fosse stato che un brut to sogno o rma i d i leguato . Viceversa n o n tu t to e ra così roseo come lui lo immaginava. L'opera distensiva di Medici trova­va un grosso ostacolo nel Principe di Canosa che, come mi­nistro della polizia, sfogava i suoi uzzoli reaz ionar i in u n a lotta a coltello cont ro la Carboner ia . Per meglio colpirla, le con t rapponeva un 'a l t ra società segreta, quella dei Caldera-ri, «atroce avanzo dei sanfedisti del '99», come la chiamava Medici che, fedele alle p r o p r i e vecchie ricette, n o n voleva persecuzioni . Canosa n o n badava ai mezzi pe r discreditare il suo avversario. Ritirò fuori la storia delle sue collusioni coi giacobini, intercettava la sua corr ispondenza, ispirava libelli contro di lui, e poteva contare sulla benevolenza del Re che, di t emperamen to , p ropendeva più pe r i suoi criteri spiccia­tivi e forcaioli che p e r quelli di Medici. Quest i p e r ò aveva dalla sua la Duchessa di Floridia, che sia p u r e con metod i mol to p iù sottili e sfumati di quelli di Maria Carol ina , ma a p p u n t o p e r ques to più efficaci, esercitava su F e r d i n a n d o un forte ascendente . Fra i d u e ministri ci fu ape r t a ro t tu ra che scoppiò in piena r iunione di Gabinetto alla presenza del Re. Canosa det te a Medici di doppiogiuochista e Medici ri­spose dandogl i di p ro te t to re degli assassini. Bisognava sce-

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gliere: o la politica del l 'uno, o quella dell 'altro. Ferd inando ci p e n s ò sopra un mese , po i scelse quel la di Medici , ma a mal incuore . Canosa si trasferì a Pisa dove pose m a n o a un t ra t ta to in t re volumi dal titolo: Perché il sacerdozio dei nostri tempi e la moderna nobiltà non siansi dimostrati egualmente gene­rosi ed interessati come gli antichi per la causa della Monarchia e dei Re. Era un inno all 'Inquisizione, ai roghi e alla tor tura .

Liberato da quell 'ot tuso opposi tore , Medici ne incont rò tut tavia degli altri a ostacolare il suo lavoro di ama lgama . Specie nelle forze a rmate la pressione e i raggiri dei vecchi e lementi borbonici si facevano sentire. Per sventarli, fu no­minata u n a commissione pres ieduta dal pr incipe Leopoldo , secondogeni to del Re, e formata da d u e general i della vec­chia guardia e da d u e murat t iani . Ma i pr imi, p iù vicini alla Cor te anche pe r ché nobili, r iusc i rono a i n t r o d u r r e discri­minaz ioni facendo d i u n a nuova decoraz ione che a n d a v a solo ai fedelissimi pe r «Costante Attaccamento» un titolo di preferenza negli scatti di g rado . Questa infelice trovata acuì a tal p u n t o la tensione fra gli un i e gli altri che pe r impedir­le di scoppiare il c o m a n d o s u p r e m o fu affidato a un Gene­rale austriaco, Nugent . Ma il r imedio si rivelò peggiore del male pe rché en t r ambe le par t i ci videro un affronto all 'ono­re nazionale.

Un al tro grosso m a l a n n o era i l b r igantaggio , che aveva r ipreso più v i ru lento di p r ima nelle province de l l ' in terno . Anche p e r comba t t e r e ques ta piaga, s i prefer ì d a r n e l 'ap­palto a un generale straniero, l'inglese Church , che un cer­to o rd ine lo r ipor tò , ma a prezzo di carneficine. I l r eg ime insomma, malgrado gli sforzi di Medici, seguitava ad essere quello ch 'era sempre stato: un regime di polizia, basato sul­la pazienza e la rassegnazione dei sudditi , non sul loro con­senso e partecipazione. La sua unica vera garanzia restava il trat tato stipulato con l'Austria che s ' impegnava a man tene r ­lo anche con le baionette. Qualsiasi moto liberale o costitu­zionale sarebbe stato u n a provocazione alla Potenza protet­trice e un invito al suo intervento.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

LA FINE DEL R E G N O ITALICO

Alcuni storici dicono che se Gioacchino perse il t rono per il suo d o p p i o giuoco, Eugenio Io perse pe r la sua fedeltà. Ci p e r m e t t i a m o di d u b i t a r n e , anzi c r ed i amo che lo avrebbe perso comunque .

Il Viceré era r ientrato dalla campagna di Russia nel mag­gio del ' 13 , d o p o aver eserci tato p e r qua lche t e m p o i l co­m a n d o sup remo disertato da Murat . Napoleone lo aveva ri­m a n d a t o in tu t ta fretta a Milano a p r e p a r a r e la difesa del Lombardo-Veneto dall 'attacco dell 'Austria che o rmai si p ro ­filava imminente : un compito che la situazione politica ren­deva molto difficile. Del disastro di Russia la gente sapeva poco pe r ché le notizie a que i t empi viaggiavano len te e la censura vigilava. Ma, abituati da secoli a fiutare il vento pri­ma che soffiasse, gl'italiani avevano capito ch'esso era gira­to: lo diceva, se n o n altro, il mancato r i torno dei loro solda­ti. Di 27 mila che n ' e r ano part i t i , n ' e r ano r ientrat i solo un migliaio, e i loro brandel l i e i loro racconti n o n lasciavano dubbi . Questi reduci e rano ciò che restava di un esercito la cui formazione era costata una d u r a lotta contro la secolare reni tenza degl'italiani alla coscrizione. I pochi cui si era riu­sciti a istillare una certa coscienza militare e rano stati sper­perat i nelle gelate s teppe russe. E ora che si trattava di sosti­tuir l i , i coscritti r i s p o n d e v a n o con la d iserz ione in massa. Gl ' i taliani n o n si ba t t evano volent ier i n e m m e n o sotto le b a n d i e r e del vincitore; f iguriamoci se volevano ar ruolars i sotto quelle del vinto. Quelli che accorsero al b a n d o cerca­r o n o di c o m p e n s a r e i vuoti col coraggio ind iv idua le . Ma e rano pochi, i soliti pochi di tutte le gue r r e italiane.

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Per n o n restare in t rappola fra le d u e colonne austriache che scendevano dall 'Est e dal Nord , Eugen io concen t rò le p r o p r i e t r u p p e sull 'Adige, a b b a n d o n a n d o n a t u r a l m e n t e Istria, Dalmazia, T ren t ino , Friuli e quasi t u t to il Veneto compresa Venezia, che pe r sei mesi resistè pe r conto suo al­l'assedio d e n t r o la c intura delle sue lagune. In quel momen­to al Viceré si p r e s e n t ò il des t ro di con t r a t t a r e il p r o p r i o t rono. Suo suocero, il Re di Baviera, che frattanto era passa­to nel campo degli Alleati, gli m a n d ò un messo pe r invitarlo a fare al t re t tanto promet tendogl i in compenso la corona di Re, che Napoleone gli aveva sempre negato. Rispose Euge­nio: «Credo che anche Voi preferiate un gene ro senza coro­na a un g e n e r o senza onore» . N o n che alla co rona avesse ormai r inunziato. Q u a n d o l ' Impera tore gli o rd inò di accor­re re col suo esercito in Francia dove stava t en tando l 'ultima resistenza, il Viceré nicchiò a p p u n t o pe r affermare i suoi di­ritti sul Regno Italico; ma si rifiutò di comprar l i col t radi­mento .

I l voltafaccia di Gioacchino che sopraggiungeva da Sud col suo esercito, l 'obbligò a r e t r o c e d e r e ancora sulla l inea del Mincio; ma qui gli austriaci r icevettero u n a secca bato­sta, e a infliggergliela fu rono sopra t tu t to i r epar t i italiani, comanda t i dal genera le Zucchi. Era i l m o m e n t o (febbraio del T4) in cui anche Napoleone r iportava i suoi ultimi suc­cessi. Sembrava che la for tuna stesse pe r cambiare nuova­mente cavallo. Sebbene ufficialmente in gue r ra con la Fran­cia, Gioacchino non si muoveva dalla linea del Po, anzi man­dava lettere p iene di devozione a l l ' Impera tore e di affetto a Eugenio, assicurandolo che n o n avrebbe mai attaccato.

Ma a Milano sentivano tuonare il cannone , e il c annone in Italia trova sempre un part i to disposto a fargli eco. Quel­lo austriacante, di cui negli ultimi anni s'era perso ogni trac­cia, risultò improvvisamente fortissimo. Dalla sua aveva n o n solo i buoni r icordi della seria, onesta, efficiente burocrazia di Vienna, ma anche la litigiosità degli avversari , divisi fra quelli che volevano la conferma del Regno Italico sotto la

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corona di Eugenio, quelli che preferivano un Principe indi­geno come Francesco di Lorena-Es te (il fu turo Francesco IV di Modena) ch 'era nato a Milano, e quelli che pensavano a d d i r i t t u r a a un R e g n o p iù vasto e di ca rà t t e re nazionale sotto lo scettro di Murat .

Costui nel mese di apri le rompeva gl ' indugi a t taccando da sud l'esercito franco-italiano. Sebbene ancora non sapes­se che Napo leone aveva abdicato, lo aveva intui to e voleva g u a d a g n a r s i b e n e m e r e n z e presso gli Alleati. Per Eugen io non c'era scampo. Il 15 aprile concluse un armistizio col ge­nera le austr iaco Bel legarde, che autorizzava ufficiali e sol­dati francesi a r ient rare in patria, men t r e gl'italiani sarebbe­ro rimasti nelle loro fortezze e guarnig ioni . Le t r u p p e au­str iache avevano l ibero passo, ma senza dir i t to di occupa­zione, nei terri tori del Regno, la cui sorte sarebbe stata deci­sa dagli Alleati a Parigi, dove i milanesi potevano m a n d a r e una delegazione pe r espr imere i loro desideri .

Di questi des ider i cercò di farsi i n t e r p r e t e Melzi d 'Eril . Era ancora il migl ior cervello polit ico, anzi l 'unico, di cui Milano disponesse. Con l'istituzione del Regno, non era più stato in p r i m o p iano , ma aveva segui ta to a eserci tare u n a forte inf luenza come p re s iden t e del Senato . Egli la usava con la discrezione del gran signore, ma a p p u n t o pe r questo il suo consiglio pesava, specie nelle emergenze . Il 17 con­vocò i l Senato , e sebbene n o n potesse in tervenirvi p e r un attacco di gotta, m a n d ò un messaggio con la propos ta d'in­viare subito a Parigi la delegazione pe r ch iedere l ' indipen­denza e l ' integrità del Regno sotto la corona di Eugenio. Ma il Senato n o n fu d 'accordo e preferì imboccare una di quel­le «mezze vie» che sono sempre state la specialità del piccolo machiavellismo italiano. Esso decise di m a n d a r e a Mantova u n a commissione p e r e sp r imere al Viceré «i sent iment i di ammirazione pe r le sue virtù e di gra t i tudine per il suo go­verno», ma senza nessun impegno di difendere la sua causa a Parigi.

Disorientata da voci contrastanti e aizzata da improvvisa-

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ti t r ibuni, la città tumultuava. Annusando odore di saccheg­gio, mol ta gente vi e r a accorsa dal con tado , carica di od io verso le cosiddette «marsine ricamate», cioè in parole pove­re gli esponenti del regime. Il 20 u n a folla inferocita n o n si sa b e n e con t ro cosa i r r u p p e d e n t r o il Senato e lo devastò, poi s ' incolonnò in corteo verso la casa di Melzi. Ma per stra­da cambiò idea e si diresse invece verso l 'abitazione di Pri-na, di cui si diceva che nascondesse favolose ricchezze. Non era vero: Prina non aveva un soldo, ma aveva monta to u n a macchina fiscale rigorosa ed efficiente, di cui tutti, dal più al meno , e rano stati vittime.

Gli amici gli avevano consigliato di p r e n d e r e il largo. Ma il ministro n o n aveva voluto saperne . Vedendosi assalito, si nascose in soffitta e tentò di ecclissarsi vestito da pre te . Ma lo r iconobbero, lo t rascinarono per strada e cominciarono a di laniar lo . Alcuni coraggiosi passant i lo sp insero d e n t r o il po r tone di un 'al t ra casa, e fra di essi c'era anche Foscolo che a r r ingò gli aggressori pe r persuader l i a desistere. Ma fu tra­volto anche lui e Prina, non volendo espor re a rappresagl ie i suoi soccorritori, si r iconsegnò di p ropr i a volontà ai mani­goldi che lo sot toposero a un coscienzioso linciaggio s t rap­pandogl i occhi, dent i e lingua.

Q u a n d o Eugenio seppe di que l l ' o r r endo delit to, scrisse al genera le Pino che comandava la guarn ig ione di Milano: «Fate sapere al popolo che se n o n si acquieta, compromet te la sua esistenza politica e l ' i n d i p e n d e n z a avvenire». Ma il popo lo a tu t to pensava fuorché a l l ' i nd ipendenza ; e i dir i­genti, atterrit i dall 'esempio del Prina, spedi rono emissari al quart ier generale austriaco pe r supplicare l'invio di t r u p p e che ristabilissero l 'ordine. Tale era l 'abi tudine a fidare sol­tanto nello s t raniero e a chiamarlo arbitro nelle contese ita­liane che a nessuno venne in testa di chiamare in soccorso i r epa r t i italiani tu t to ra concent ra t i a Mantova . E questa ri­nuncia alla p ropr ia difesa era anche la r inuncia alla p ropr ia indipendenza .

Per Met te rn ich fu la m a n n a . Egli aveva già avuto dagli

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Alleati solidi aff idamenti circa i l r e c u p e r o del L o m b a r d o -Veneto. Ma la faccenda n o n e ra stata ancora regolata, e in sede di trattative potevano nascere complicazioni. L'appello della Reggenza milanese creava il fatto compiuto e lo giusti­ficava d imos t rando che il Regno non aveva n e m m e n o la for­za di garant i re i l p ropr io o rd ine in terno. Eugenio ne trasse le sue conclusioni. Scrisse a Melzi: «Tutti i miei doveri sono finiti , io n o n ho più ordini da dare», e la mat t ina del 27, con la moglie e i figli, si avviò attraverso il B renne ro alla volta di Monaco di Baviera, la capitale di suo suocero.

A insorgere contro la Reggenza furono gli ufficiali dell 'e­sercito che se ne sen t i rono tradi t i . Alcuni di essi corsero a Milano p e r i n d u r r e i l loro c o m a n d a n t e , genera le P ino , a band i re la resistenza a oltranza. Ma Pino diplomaticamente decl inò. Allora b r u c i a r o n o le b a n d i e r e sotto cui avevano comba t tu to in Russia sa lvandone sol tanto gli s t emmi che venne ro affidati al generale Lechi, il quale visse abbastanza pe r farne omaggio a Carlo Alberto nel '48.

Alla fine del mese le t r u p p e austr iache fecero il loro in­gresso a Milano, dove si e r ano riuniti i collegi elettorali, ma della sola Lombardia , perché ormai Veneto ed Emilia e rano dati pe r persi. Li presiedeva il conte Giovio che, d o p o aver innalza to p e r a n n i elogi alla Francia , concluse così la sua orazione: «Possano le Alpi, le u n e sopra le altre ammassate, separarci da quella nazione che sempre por tò l ' infortunio e la desolazione nella patr ia nostra». E quell 'ammasso di Alpi dimostrava che questi Italici valevano poco anche come ré-tori.

Solo ora che l 'occupazione austriaca era cosa fatta, si de­cisero a m a n d a r e a Parigi la famosa delegazione, il cui capo più autorevole era il conte Confalonieri. Poco d o p o l 'arrivo, egli scrisse ai colleghi di Milano: «Tardi siam giunt i , e ciò pe r inesplicabile imbecillità di chi ordì la p ropr i a e la nostra rovina», comple t amen te d iment ico di essere stato p r o p r i o lui ad avversare e r i t a r d a r e f in al lora quella missione pe r odio cont ro Eugenio . L ' imperatore Francesco d'Austria gli

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aveva det to chiaro e tondo: «Voi mi appar tene te pe r diritto di cessione e pe r dir i t to di conquista». E il p r i m o minis t ro inglese Cas t le reagh lo avvertì che cons iderava l 'Italia u n a r iserva di caccia austr iaca. Q u a n d o , di r i t o r n o a L o n d r a , p ropr io pe r questo fu attaccato in par lamento , Castlereagh r ispose: «Che ha d u n q u e fatto l 'Italia pe r meri tars i di me­glio?»

I I n o n aver fatto nul la n o n i m p e d ì agl ' i tal iani, q u a n d o conobbero il t rat tato di Fontainebleau che faceva del Lom­bardo-Veneto u n a provincia austriaca, di sentirsi le vittime di un t r ad imento . Subito cominciarono a complot tare ; ma, come al solito, invece di affidarsi alle p ropr ie forze cercaro­no di evocarne qua l cuna dal di fuori che venisse a t rar l i d ' impaccio. E siccome nessuna delle Grandi Potenze ne ave­va l ' intenzione, eccoli rivolgersi al pr igioniero dell 'Elba. Fra le molte lettere che questi cominciò a ricevere a p p e n a arr i ­vato nell'isola, le più pressanti e r ano p rop r io quelle degl'i­taliani raccolti in g r u p p i e circoli dai nomi immaginosi : Gli avvoltoi di Bonaparte, Lo spillo nero, I Cavalieri del Sole ecc. Di­cevano: «Vasta congiura ferve pe r tut ta Italia... Sire, un sol grido vostro, un sol passo, bas te ranno a far sorgere la nazio­ne intera...» Era l 'anticipo della g r a n d e illusione di cui si sa­rebbe nutr i to tut to il Risorgimento.

U n a congiura ci fu, ma tut t 'a l t ro che vasta, ed ebbe pe r protagonisti un g r u p p o di ufficiali. Gli austriaci avevano de­ciso d ' incorporar l i nel loro esercito, ma dislocandoli in altre province del loro I m p e r o pe rché di lasciarli in Italia n o n si fidavano. La r ipugnanza a questo trasferimento in cont rade r e m o t e d i cui n o n conoscevano n e m m e n o la l ingua, ol t re che quella a servire sotto una bandiera diversa dal tricolore, spinse alcuni di loro a cercare contatt i con gl'inglesi. A far sperare in un loro aiuto era Bentinck che si trovava tut tora in Italia e che, come al solito, seguitava a svolgere una poli­tica personale in contrasto con quella del suo governo. Tra i fautori di questa iniziativa ci fu anche Foscolo ch 'e ra r ima­sto sotto le a rmi col g rado di maggiore e che prese contatti

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col genera le Macfar lane. Ques t i fu esplicito nel r i f iutare qualsiasi collaborazione. Ma n e m m e n o questo valse a smon­ta re gli an imi . Tut t i e r a n o convint i che sa rebbe successo qualcosa, che qualcuno sarebbe venuto in aiuto, e il ba rone von Hùge l annotava nel suo diar io: «Aspettano un Messia, che ristabilisca il Regno di Dio in Italia».

Perfet tamente al co r ren te di queste tresche, gli austriaci a l l on tana rono Foscolo facendogli affidare dalla Reggenza u n a vaga missione militare a Bologna e accelerarono i tem­pi dell ' integrazione dei d u e eserciti. Fu in questo m o m e n t o che nacque la vera e p ropr ia congiura. Essa part ì dai colon­nelli, coinvolse alcuni civili, ma n o n trovò nessun genera le in attività di servizio disposto ad assumerne la guida e la re­sponsabil i tà . I l p iù au torevo le , Zucchi, accettò di esserne in formato , ma r ispose che n o n c redeva alla disponibi l i tà della t r u p p a né alla partecipazione popolare che i congiura­ti davano pe r scontate. Lo stesso Foscolo rifiutò la sua ade­sione. «L'Italia è cadavere - scrisse -, che n o n va tocco né smosso pe r non provocare più tristo il fetore», e si augurava che i venti ne disperdessero le ceneri .

Il Maresciallo austriaco Bellegarde non p rendeva sul se­rio questo t ramest io. Fu la polizia che l 'obbligò ad agire in seguito alla denuncia d 'un delatore francese, insinuatosi fra i cospiratori. Sulla fine del l 'anno i maggiori responsabili fu­rono tratti in arresto e trascinati davanti a un t r ibunale spe­ciale sotto accusa di t rad imento . Ma le condanne furono mi­ti: nessuna superò i d u e anni di carcere. Zucchi, che già ave­va assunto il suo c o m a n d o in Moravia, fu messo agli arresti in fortezza, ma poco d o p o re integrato nelle sue funzioni. La collocazione a r iposo la chiese egli stesso, c o m p r e n d e n d o che la sua carr iera era c o m u n q u e finita. Più spietato del tri­buna le , Foscolo scrisse che i protagonis t i di quella vicenda ne uscivano copert i non di eroismo, ma di ridicolo. Forse a ispirargli tanta severità e ra anche i l r imorso di n o n avervi partecipato. Ma tutti i torti non aveva: quel tentativo era sta­to velleitario, di let tantesco e fuori t empo . La g r a n d e occa-

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sione, gl 'I taliani di Milano l 'avevano persa q u a n d o , invece di unirsi a difesa della propr ia indipendenza , si e r ano divisi di f ronte agli avanzant i eserciti austr iaci , anzi l i avevano chiamat i a ristabilire l 'ordine , e o ra n o n facevano che r in­facciarsi le colpe gli uni agli altri app ro fondendo e moltipli­cando le p ropr ie divergenze.

Gli effetti si videro q u a n d o la gue r ra to rnò a d ivampare in segui to alla fuga di N a p o l e o n e dal l 'Elba. N e m m e n o la comparsa in Emilia di Murat e il suo proclama di Rimini su­sc i tarono in L o m b a r d i a a lcuna eco. In tu t ta t ranqui l l i tà l'Austria potè c o n d u r r e a te rmine la sua opera d' integrazio­ne che poi , d o p o Water loo , i l Congresso di V ienna san­zionò. Il Lombardo-Veneto fu eret to in Regno, ma solo prò forma. I d u e Governa to ra t i che lo c o m p o n e v a n o - quel lo della Lombard ia con sede a Milano, e quello del Veneto con sede a Venezia - d ipendevano d i re t tamente dalla Cancelle­ria austriaca. Molto p iù intel l igente dei Savoia e del Papa, Met ternich n o n pre tese t i rare un colpo di spugna su tu t to l ' o rd inamento amminis t ra t ivo e legislativo francese. Molte cose le man tenne , e se altre ne riformò, fu pe r i n t rodu r r e al loro posto le regolamentazioni austriache ch 'e rano anch'es­se fra le più avanzate d 'Eu ropa . Tuttavia a lcune conquis te a n d a r o n o p e r d u t e . Per esempio , v e n n e res taura to i l fede-commesso e altre consuetudini feudali che consent i rono al­la nobiltà di r i p r e n d e r e il passo sulla borghesia. Fu abolita la pubblici tà dei processi ch ' e r a la più solida garanzia del cittadino contro i soprusi della polizia e gli arbitri della ma­gistratura. Fu confermata la coscrizione, ma le reclute anda­vano a servire fuori d'Italia sotto u n a band ie ra che n o n era i l t r icolore, ma quella giallo-nera dell 'Austria ch ' e ra anche la b a n d i e r a del Regno . L 'o rd inamento t r ibu tar io , che con Pr ina aveva da to eccellenti p rove di funzionali tà, r imase . Quan to a quello scolastico, fu migliorato, ma anche sottopo­sto a un controllo molto più severo. «Sappiate, signori - dis­se l ' Impera tore ai professori dell 'Università di Pavia, quan­do venne a p r e n d e r possesso delle province lombarde - che

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io n o n voglio letterati; voglio solo suddit i fedeli a me e alla mia Casa.»

Bellegarde, che dappr incipio esercitò i pieni poteri , non ne abusò, anzi. D'origine savoiarda e quindi mezzo italiano, fece del suo meglio pe r togliere al nuovo regime ogni carat­tere repressivo. Ma l'ostacolo più grosso lo trovò nella stessa popolazione. La sua scrivania era i ngombra di lettere ano­nime scritte da italiani contro altri italiani pe r farli licenzia­re e occuparne il posto: un vizio di antica data , dest inato a restare nel sangue del nostro Paese. Q u a n d o l 'arciduca Gio­vanni venne a Milano a insediarsi nella carica di Viceré, do­vette mettercela tut ta pe r frenare lo zelo di nobili e pret i au­striacanti che volevano far e p u r a r e perfino gli affreschi di­pinti dall 'Appiani in palazzo Reale.

Nelle sue mani , Bellegarde aveva rimesso i p rop r i poteri e gl ' italiani g i u r a r o n o «di essere fedeli e obbedien t i a Sua Maestà». Il Viceré contava poco: i suoi compiti e r ano pura ­m e n t e r appresen ta t iv i . Ma i l Mont i , che tant i inn i aveva sciolto a Napo leone e a Eugenio , ne sciolse u n o g r o n d a n t e d'iperboli anche a lui. Foscolo, cui sarebbe bastata una quar­tina per «inserirsi», n o n solo tacque, ma rifiutò la direzione d ' un giornale let terario che gli austriaci gli avevano offerto per adescarlo, e prese la via dell'esilio. Non avrebbe mai più rivisto la sua patria.

CAPITOLO VENTITREESIMO

IL R I T O R N O DEI SAVOIA

Il 20 maggio 1814, Torino si e ra para ta a festa pe r accoglie­re i l Re sabaudo che tornava sul t rono . Napo leone in quel m o m e n t o era all'Elba, e doveva ancora giuocare la sua ulti­ma carta. Ma il Congresso di Vienna aveva già deciso di re­st i tuire il P i emon te al suo legi t t imo Sovrano e anzi di ag­g i u n g e r e alla sua co rona la Repubbl ica di Genova pe r in­dennizzarlo di Nizza e della Savoia che il ministro degli este­ri francese Talleyrand era riuscito a conservare - pe r il mo­men to - al p ropr io Paese.

Vittorio Emanue le I aveva c inquantacinque anni , ma ne d imos t rava molt i di p iù . Era i l s econdogen i to di Vit tor io Amedeo I I I che, scomparso nel '96 q u a n d o la bufera napo­leonica si abbat teva sui suoi Stati, aveva avuto sul letto di m o r t e u n a sola consolazione: quella d i vedersi c i rconda to da ben cinque figli maschi che sembravano garant i re la con­tinuità della dinastia. A succedergli era stato il p r imogeni to Carlo Emanuele , che p u r t r o p p o era il m e n o qualificato a fa­re i l Re, specie in un m o m e n t o come quel lo . Tu rba to da scrupoli religiosi cui si agg iungevano forti crisi depressive, aveva anche avuto la disgrazia di sposare u n a pr inc ipessa spagnola ancora più bacche t tona e t imida di lui. I l matr i ­monio era anda to benissimo pe rché o g n u n o dei d u e cerca­va e trovava nell 'altro uno scampo alle p ropr i e angosce; ma non aveva dato eredi .

La situazione che Carlo Emanuele aveva eredi tato era ca­tastrofica. La pace di Cherasco det tata da Napoleone nel '96 faceva p r a t i c a m e n t e del P i emon te un p r o t e t t o r a t o del la Francia, che solo p e r comodi tà vi aveva lasciato la vecchia

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dinastia. Ma tre ann i d o p o il Diret torio decise di l iquidare anche quella. Il Re par t ì di not te con la Regina, suo unico confor to . Ma q u a n d o essa mor ì , n o n ebbe più la forza di cont inuare a por ta re da solo il peso di quelle t r e m e n d e re­sponsabil i tà, e abdicò in favore del fratello pe r r i t i rarsi in un monas te ro p r ima di Firenze, poi di Roma, dove tu t tora viveva, mezzo cieco.

Vittorio Emanuele , che con gli altri fratelli aveva dovuto seguirlo nell 'esilio, n o n aveva molta più stoffa e vocazione di lui. Nella speranza che Napoleone fosse finalmente scon­fìtto dalle coalizioni che c o n t i n u a m e n t e gli si a n n o d a v a n o con t ro , aveva girovagato fra Roma e Napoli pe r teners i in contat to con le altre Potenze e r ichiamar loro alla memor ia i suoi diri t t i sul P iemonte . Solo d o p o che il Bonapa r t e si fu annessa tut ta la penisola scacciando dai loro t roni anche il Papa e i Bo rbone , si decise a rifugiarsi nel l 'unico Stato ri­mastogli, la Sardegna , dove già si era istallato il resto della famiglia, e di cui aveva affidato il governo al fratello Carlo Felice.

Furono anni di afflizioni, anche finanziarie. I Savoia non avevano mai guazzato nel l 'oro , e poco c'era da s p r e m e r n e in quell ' isola a r re t r a t a , semideser ta e infestata dalla mala­ria, le cui uniche risorse e rano la pastorizia e un po ' d'agri­coltura. Per quanto abituata alla parsimonia, la Corte dovet­te fare parecchi sacrifici. Ma alle difficoltà mater ia l i si ag­g iungevano le preoccupazioni politiche: Napo leone segui­tava a vincere e il suo secondo mat r imonio con Maria Lui­gia, che creava un legame di parente la fra le dinastie impe­riali di Francia e Austria, toglieva ogni prospet t iva di rina­scita allo Stato p iemontese vissuto s e m p r e sulla rivalità fra quelle d u e potenze . E infine si profilava un altro pericolo, p r o p r i o quello da cui Vittorio Amedeo si era c redu to al si­curo : la mancanza di un successore. Dei c inque figli ch'egli aveva lasciato, d u e nel f ra t tempo e r ano mort i ; Carlo Ema­nue le n o n aveva avuto e red i , Vit torio E m a n u e l e ne aveva avuti t re , ma d u e e r a n o femmine, i l maschio era mor to in

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fasce e la r eg ina Maria Teresa, figlia d ' u n Arc iduca d 'Au­stria e di u n a Este di Modena, non riusciva più a concepire. Restava, u l t ima speranza , l 'altro fratello, Carlo Felice che, p u r n o n avendone p u n t a voglia, dovette decidersi a l matr i­monio , ma scelse male . La sposa, figlia di Fe rd inando e di Maria Carolina di Napoli, era p iena di virtù, ma sterile. In­somma, di tut ta la dinastia Savoia, così frondosa fino all'ulti­ma generazione, non restava che un lontano cugino del ra­mo cadet to Car ignano : un ragazzo di n o m e Carlo Alberto, di cui si e r ano un po ' perse le tracce pe rché suo pad re , ar­ruolatosi nell 'esercito napoleonico, lo aveva condot to e alle­vato in Francia.

Nel 1812, la magg iore delle d u e figlie di Vit torio Ema­nue le , Maria Beatr ice, a n d ò sposa a Francesco di Lo rena -Este, fratello della Regina e quindi zio della Principessa, e la voce corse che il Re si disponesse a nominar la e rede al t ro­no. N o n era così. Nel contrat to matr imoniale anzi era speci­ficamente det to che Maria Beatrice giurava di r inunciare a qualsiasi pretesa sugli Stati del pad re . Ma il p rob lema si era posto ed era stato discusso. Se lo si e ra risolto in quel senso, era perché la legge salica che vigeva in casa Savoia esclude­va la successione in l inea femmini le , e p e r inf ranger la sa­rebbe occorso i l consenso delle a l t re m o n a r c h i e e u r o p e e , che Dio sa di quale mercato ne avrebbero fatto oggetto. Tut­tavia lo stesso contrat to aggiungeva che, in mancanza assolu­ta di eredi maschi - cioè nel caso in cui anche Carlo Alberto fosse venu to m e n o p e r qualche r ag ione - , l ' impegno n o n avrebbe avuto effetto. Restava quindi u n o spiraglio alla suc­cessione di Maria Beatrice, d o n n a ambiziosa e moglie di un mar i to ambiziosissimo. E ques to spiragl io e ra des t ina to a pesare sui successivi avvenimenti .

I l mat r imonio era avvenuto p ropr io nel m o m e n t o in cui Napoleone part iva pe r la catastrofica spedizione in Russia. Dopo poch i mesi rientrava con l 'esercito in b rande l l i , e le G r a n d i Potenze , n u o v a m e n t e coalizzate, Io ba t tevano a Lipsia. Vittorio Emanuele , che invano aveva cercato di met-

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tere insieme un po ' d'esercito pe r par tec ipare all 'ultima fase di quella campagna , a p p e n a potè s 'imbarcò pe r Genova, af­fidando la Sardegna alla moglie e a Carlo Felice. E Massimo D'Azeglio, che vi si t rovò p r e sen t e , così descrive la sua ri­comparsa a Torino nella carrozza prestatagli da suo pad re :

«In questo cocchio il b u o n Re, con quella sua faccia, via diciamolo, un po ' di babbeo, ma al tret tanto di ga lantuomo, girò fino al tocco d o p o mezzanotte passo passo le vie, fra gli evviva della folla, d is t r ibuendo sorrisi e saluti a diritta e a si­nistra; i l che portava, pe r meccanica conseguenza, un inces­sante spazzolare da sinistra a destra di quella sua coda, tan­to curiosa ormai pei giovani della mia età». Era infatti vesti­to all 'uso antico con par rucca incipriata, e in to rno a lui e ra tut to un frusciare di z imarre settecentesche e tonache frate­sche.

Quale senso letterale egli desse alla parola restaurazione lo d imost rò i l decreto emana to l ' indomani , che r ichiamava in vigore tut te le leggi e costituzioni del '96 facendo tabula ra­sa di quelle degli ultimi t re lustri. Nobili e pre t i riacquista­vano tutt i i loro privilegi ai d a n n i della borghesia che per­deva molti dei suoi più sudati diritti. E l 'applicazione di que­sta n o r m a venne affidata a funzionari come il Bellosio che proget tò addi r i t tura di far saltare il pon te sul Po pe rché era stato costrui to dai francesi, e dovet te r inunciarv i solo per ­ché a u n o dei suoi capi c 'era u n a villa della Regina. Ma se ne rivalse c h i u d e n d o i l valico de l Moncenis io p e r c h é ad apri r lo era stato Napoleone e i s t radando il traffico sulla dis­selciata e tor tuosa s t rada della Novalesa. Gli alti quadr i del­l 'amminis t razione v e n n e r o epura t i p e r fare pos to a coloro che li avevano occupat i p r ima del '98 e, se frat tanto e rano mort i , ai loro figli e nipoti . Gli ufficiali che avevano servito sotto la band i e r a francese e vi avevano g u a d a g n a t o meda­glie ed esperienza, venne ro retrocessi d i un g rado , men t re gli alti comand i venivano affidati a vecchi ufficiali in ri t iro da quindici anni . L'Università venne meticolosamente pur­gata dei suoi migliori docenti , i Gesuiti r iebbero l'esclusiva

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dell ' istruzione, e il mercato del lavoro r icadde in mano alle resuscitate corporazioni, r igide custodi d'interessi m o n o p o ­listici.

E te rna dannaz ione di tu t te le Restaurazioni , gli ex-fuo­rusciti e r ano tornat i in massa, pieni di rancore e convinti di p o t e r r ip r i s t ina re i l vecchio r e g i m e assolutista, in tu t t a la sua feudalesca impalcatura. Si giunse fino a negare al credi­tore plebeo il diritto di citare in giudizio il debi tore nobile.

Men t re il Re era intento a r imet tere indiet ro di quindici ann i la lancet ta del suo orologio , gli g iunse u n a le t tera di Carlo Alberto, s tudente in un collegio di Bourges, che met­teva «ai suoi piedi l 'omaggio della sua sottomissione». E su­bito d o p o la lettera, arrivò lui stesso. Vittorio Emanuele ac­colse pa t e rnamen te quel giovanotto altissimo e magrissimo, e scrisse al fratello di averne r i trat to l ' impressione di «un ra­gazzo di b u o n cuore e di b u o n a volontà, ma di cui c'è da ri­fare tut ta l 'educazione». N o n ci voleva molto pe rché l 'edu­cazione di Carlo Alberto era poca cosa. Ma quella poca era pe r metà francese, cioè giacobina, e pe r l 'altra metà svizze­ra, cioè pro tes tan te : che, in u n a Cor te retr iva e bigotta co­me quella, e ra considerata farina del diavolo. Per far lui un b u o n Savoia, i l Re gli det te come tu tore i l conte d i m a ­ni, che ai Savoia r improverava di n o n aver res taura to l 'In­quisizione, la to r tu ra e i roghi .

F ina lmente , d o p o tanti u ragan i , sembrava che nel cielo del P iemonte il sole fosse to rna to a bril lare. La fuga di Na­poleone dall 'Elba aveva costretto il Congresso di Vienna ad aggiornare le sue decisioni per da r m o d o alle Potenze di ri­p r e n d e r e la lotta con t ro i l «br igante còrso». P u r con un esercito in crisi di r icosti tuzione, Vittorio E m a n u e l e riuscì ad agganciars i all 'alleanza e , anche se n o n po tè esser p r e ­sente a Waterloo, fu in g rado di sparare qualche cannona ta con t ro i francesi a Grenob le . Q u e s t o gli valse, q u a n d o il Congresso to rnò a riunirsi , u n a posizione di cobelligerante, che a sua volta gli fruttò la resti tuzione di Nizza e della Sa­voia.

I In

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Così, da tut to quel t rambusto di gue r r e e di occupazioni, il Regno usciva non soltanto re integrato nei suoi vecchi Sta­ti, ma maggiorato della Liguria. E n o n era poco.

Ma n o n altret tanto favorevole era la situazione interna. Com'era logico at tendersi , sbolliti i p r imi entusiasmi pe r

il r i torno della vecchia dinastia cui la popolazione era since­ramen te affezionata, cominciò a farsi sentire la reazione de­gl ' interessi lesi da quel l ' insensato r i to rno al passato. L'epi­centro della scontentezza era Genova, ent ra ta a mal incuore a far pa r t e di u n o Stato che aveva s e m p r e cons idera to ne­mico, e ancora attaccata alle p rop r i e istituzioni repubblica­ne . Q u i le incompat ib i l i tà n o n e r a n o sol tanto poli t iche e ideologiche; e r ano anche economiche . Come tut t i i g rand i port i , Genova viveva di traffici, cioè di libero scambio; e ora si trovava invece pr ig ioniera di un sistema vincolistico, che aveva riprist inato perfino le dogane in te rne fra provincia e provincia. Per di più vedeva affidate tut te le cariche ammi­nistrat ive a p iemontes i , che di m a r e , di navi e di noli n o n sapevano e n o n capivano nulla. Il r isent imento era condivi­so da tutti: dagli scaricatori alle grandi famiglie, che si chiu­sero sdegnosamente nei loro palazzi r if iutando ogni contat­to coi proconsoli di Torino.

In Piemonte la cosa era diversa. Contadina e montanara , la massa della popolazione aveva visto con favore quel ritor­no all 'antico. Ma e r ano le borghesie ci t tadine che n o n vi si rassegnavano perché e rano esse a farne le spese. Sotto l'am­ministrazione napoleonica e r ano cresciute di n u m e r o e di po tenza p e r le g r a n d i occasioni che gli avevano offerto le forniture militari, la vivacità degli scambi con la Francia e la Svizzera, la facilità di accesso alle più alte funzioni militari e civili. Era logico che non si rassegnassero a un regime che le escludeva dal potere , le colpiva nel portafogli e le squalifica­va socialmente.

Il loro scontento trovava eco in quella frangia della no­biltà che, p u r devota alla dinastia, nutr iva sentimenti libera-

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li, aveva in qualche m o d o collaborato con le autori tà france­si, e pe r questo era stata al lontanata dalla Corte e dalle cari­che. Alcuni suoi rappresentant i , e fra i più illustri, str insero rappor t i s empre più stretti con gl'intellettuali di estrazione borghese. Di questi ultimi i più vivaci, come il Di Breme e il Pellico, prefer i rono emigrare a Milano, dove a lmeno aveva­no un giornale cui far capo: // Conciliatore. Gli altri si r iuni­rono in un'Accademia, i Concordi, che tuttavia potè fare ben poco, sottoposta com'era a u n a censura puntigliosa e ottusa.

In ques ta statica e asfissiante a tmosfera , in ques to am­biente meschino e senza orizzonti, era fatale che soprat tut to i giovani si volgessero alle società segrete che schiudevano, se n o n al t ro, prospet t ive di lotta e d ' i m p e g n o . Ce n ' e r a n o già d u e , gli Adelfi e i Filadel.fi che nel '18, a quan to pa re , si fusero nel corso di un segre to convegno tenutos i ad Ales­sandr ia , o p e r megl io d i re pa s sa rono sotto i l cont ro l lo di u n a nuova organizzazione, i Sublimi Maestri Perfetti, fondata e d i re t ta da un r ivoluzionario italiano ormai natural izzato francese, di cui dovremo r ipar lare: Filippo Buonarro t i .

Ma queste società por tavano nel sangue un vizio d'origi­ne che ne annullava le capacità di proselitismo: e rano d'im­por taz ione. Infatti si e r ano costituite sul model lo di quelle francesi, di cui condividevano anche le finalità: abbat tere il r eg ime napo leon ico p e r res t i tu i re alla Rivoluzione i l suo slancio repubblicano, democrat ico ed egalitario. Tut to que­sto aveva un senso finché Napoleone era stato sul t rono e il P iemonte un d ipa r t imen to francese. Ma ora queste condi­zioni n o n sussistevano più. Le vecchie società cercarono di adeguarsi a quelle nuove; ma Buonar ro t i , lontano dall 'Ita­lia, e i suoi fiduciari e r a n o t r o p p o legati alle loro vecchie premesse ideologiche pe r poter capire le nuove esigenze e adattarvisi. Ai loro ordini n o n r imasero che i pochi soprav­vissuti matusa delle cospirazioni del '92 e del '96. Le forze giovani s i o rgan izza rono in u n a n u o v a formazione che in poco t e m p o fu assoluta p a d r o n a del campo : la Federazione italiana.

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I suoi quad r i e r ano formati da uomini che provenivano da quei ceti borghesi e aristocratici di cui abbiamo det to , e che a p p u n t o pe r questo n o n miravano alla sovversione del sistema, ma soltanto alla sua correzione in senso patriottico e l iberale. N o n contes tavano la monarch ia , cui anzi e rano tutti o quasi tutti s inceramente affezionati. Volevano soltan­to che ripudiasse l 'assolutismo, concedesse la Costituzione e assumesse r isolutamente la guida del movimento nazionale e un i t a r io i ta l iano c o n t r o l 'Austria: cioè an t ic ipavano di qua lche decenn io quel lo che poi sarebbe d iventa to i l p ro ­g r a m m a del Piemonte sabaudo.

Ecco pe rché la Federazione potè svilupparsi e far prose­liti senza t r o p p a difficoltà: l'affiliazione n o n implicava una slealtà nei confronti del Sovrano, e quindi potevano aderir­vi anche uomini fedeli allo Stato e alla dinastia, come gli uf­ficiali dell 'esercito che infatti le det tero molte reclute. Ed ec­co anche pe rché i loro sguardi cominciarono ad appuntars i su Carlo Alberto, unico Principe di Casa Savoia ch'essi pote­vano sperare di t r a r r e dalla loro par te , visto che sul retrivo Vittorio Emanue le e su suo fratello Carlo Felice, ancora più retrivo di lui, non c'era da fare assegnamento.

A far da t ramite fra Carlo Alberto e i Federati fu il Colle­gno, un ufficiale che aveva servito nell 'esercito napoleonico e pe r un momen to aveva avuto la tentazione di farsi france­se. Il Principe lo aveva nomina to suo scudiere, e lui ne ap­profi t tò p e r i n t r o d u r r e a palazzo Ca r ignano San to r re di Santarosa e altri suoi amici - Provana, Vidua, Cesare Balbo -che subito ne d iventarono abituali frequentatori . Sebbene il Re gli dimostrasse molta benevolenza e lo avesse nomina to G r a n Maest ro , cioè c o m a n d a n t e in capo dell 'Artiglieria, i l Principe n o n nascondeva la sua insofferenza pe r le grettez­ze e il misoneismo della Corte . Si era ribellato al Grimani , e o ra recalcitrava al mat r imonio che gli avevano imposto con Maria Teresa, figlia del G r a n d u c a di Toscana e n ipote del­l ' Impera to re d 'Austria. Q u a n d o a n d ò a Firenze pe r i l ma­tr imonio, fece sosta ad Arquà e a Ravenna pe r inginocchiar-

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si sulle tombe di Petrarca e di Dante , e a Firenze si legò di stretta amicizia con Gino Capponi con cui a lungo par lò del­la sua voglia «di m a n d a r via i tedeschi dall ' I tal ia». Tu t to questo fece presto a essere r isaputo anche negli ambienti li­berali delle altre città. Vincenzo Monti scrisse a un p iemon­tese: «Beati voi che avete il Principe di Carignano», il Gior­dan i lo definiva «un Messia», e perf ino un incallito r e p u b ­blicano come l 'Angeloni ne par lava come di «un as t ro che maes tosamen te s 'erge sull 'a lpino lembo del l 'or izzonte no­stro».

Tu t to ques to offriva a S a n t o r r e e ai suoi c o m p a g n i un fertile t e r reno , ed essi vi seminarono a piene mani . Influen­zabile com'era , il Principe soggiacque alle loro suggestioni, si affezionò alla pa r t e di Eroe della «gioventù dorata» tori­nese , e s ' inebriò della popo la r i t à che gliene der ivava. Ciò n o n significa ch'egli fingesse. Il suo fremito d'italianità era sincero, anche se mescolato con un 'ambiz ione sproporz io­nata ai mezzi suoi e a quelli del Piemonte. I discorsi dei suoi amici, che già lo vedevano alla testa di u n a crociata pe r la li­beraz ione nazionale, lo entus iasmavano. Lo entusiasmava­no a l p u n t o da fargli c o m m e t t e r e pa recch ie i m p r u d e n z e . Tanto che Cappon i si sentì in obbligo di scrivergli pe r racco­mandargl i di «non p r o m e t t e r e quelle cose che non pot reb­be mantenere» . Ma Carlo Alberto ne fece poco conto anche pe r ché i l Re, nella sua bonomia , n o n ne faceva a lcuno dei rappor t i che gli pervenivano sulle pericolose frequentazioni del Pr incipe. Quest i , d o p o il ma t r imonio , gli aveva da to la più g r a n d e delle gioie: un bel maschiet to ch ' e ra stato bat­tezzato con lo stesso suo nome: Vittorio Emanuele .

Sia p u r e p e r un r a m o col laterale , i l vecchio t ronco dei Savoia aveva ge rmogl i a to un n u o v o pol lone , e la dinast ia era salva.

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

LA V I T T O R I A DEGLI «ZELANTI»

Di tutti i Sovrani spodestati da Napoleone , il Papa fu senza dubbio quello che ricevette, al suo r i torno, l'accoglienza più calorosa. Dalle Alpi a Roma, il suo viaggio fu u n a marc ia trionfale. Alle por te del l 'Urbe i nobili staccarono i cavalli dal cocchio pe r condur lo a braccia fino a San Pietro fendendo a fatica u n a mareggia ta di folla osannan te . Vestite di bianco, le ragazze gli rovesciavano addosso ghi r lande di fiori. Era il 24 maggio del 1814.

Era stato Napoleone stesso ad anticipare il suo r i torno, al termine di un duello di cui abbiamo ricapitolato soltanto la p r i m a par te . I l le t tore ci scusi se to rn iamo un po ' indie t ro pe r r icostruirne il seguito: esso esercitò un peso decisivo sui successivi a t t egg iament i assunt i dalla Chiesa sia in c a m p o spirituale che in campo temporale .

Poco dopo l ' in ternamento del Papa a Savona, nel 1810, e m e n t r e in tut ta l 'Italia fioccavano le depor taz ion i di sacer­dot i e di laici che si r if iutavano di p res ta re g i u r a m e n t o al­l ' Impera tore , questi aveva r ipudiato Giuseppina pe r impal­mare la principessa austriaca Maria Luigia. Ma a Vienna re­clamavano il ma t r imon io religioso che p r e s u p p o n e v a l'an­nul lamento di quello precedente . Nel clero francese Napo­leone trovò dei prelati abbastanza compiacenti pe r p ronun­ciare quella sentenza. Ma tredici Cardinali invitati alle noz­ze, che lo sposo voleva sp l end ide e solenni , si r i f iu tarono d ' intervenire. Napoleone ne fu ta lmente irritato che in pie­na cerimonia sbottò a gr idare : «Questi pazzi! Vogliono rovi­na re la mia dinastia r ec l amandone in dubbio la legittimità! Gliela farò vedere!» L ' indomani li convocò, e d o p o avergli

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imposto u n a inutile ant icamera, li fece r ibut tare sulla s t rada d o n d e aveva fatto a l lon tana re le car rozze . D o p o d i c h é gli tolse gli e m o l u m e n t i , g l ' ing iunse di vestire come semplici p re t i , p e r cui d 'a l lora in poi v e n n e r o ch iamat i «Cardinal i neri», e ne m a n d ò alcuni in esilio, fra cui Pacca, il più d u r o .

Subito dopo convocò un concilio di Vescovi pe r fargli di­ch ia ra re che il Papa agiva con t ro i veri interessi della reli­gione; ma i Vescovi, anche in assenza di Pacca, r innovarono il loro g iu ramento di fedeltà al Papa, e n o n vollero avallare le nomine fatte da Napo leone nelle sedi episcopali r imaste vacanti. L ' Imperatore m a n d ò a Savona u n a commissione di Cardinal i rossi, cioè docili ai suoi ord in i , pe r convincere il p r ig ion ie ro , t e n u t o r i g o r o s a m e n t e a l l 'oscuro di tu t to , a scendere a un accordo: se nello spazio di sei mesi egli n o n avesse disapprovato le nomine fatte, queste sarebbero state r i tenute regolari . Il Papa accettò, ma a m o d o suo, cioè dira­m a n d o c o n t e m p o r a n e a m e n t e u n a «lettera a i Vescovi del­l ' Impero» in cui ribadiva che tutte le Chiese nazionali resta­vano sottomesse a quella di Roma, «loro Madre e Signora». Stavolta fu Napoleone a rifiutare. Pre tendeva che il Papa ri­conoscesse il p r imato del Concilio dei Vescovi di Parigi e si sottomettesse ai suoi deliberati. Più tardi scrisse nelle Memo­rie: «Volevo che i Concili della mia Chiesa fossero considerati i legittimi in terpre t i di tut ta la cristianità e che il Papa ne di­ventasse il portavoce. Sarei stato io ad a p r i r e e c h i u d e r e le sue sessioni e ad approvare e r e n d e r e obbligatori i suoi deli­berati , come avevano fatto Costantino e Car lomagno». For­se Tal leyrand n o n faceva un paradosso q u a n d o si chiedeva se il cervello di Napoleone era del tut to in ord ine . Al princi­pio del '12 l ' Impera tore scrisse al Papa invitandolo a dimet­tersi, come un prefetto, eppoi o rd inò che venisse trasferito a Fontainebleau, presso Parigi, pe r poter lo meglio control­lare.

Per il fragile vecchio, quel viaggio fu un calvario, che pe r poco n o n gli costò la vita. Al passaggio del Moncenisio ave­va la febbre alta, bisognò sistemare una lettiga den t ro la car-

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rozza, e invano il medico che lo accompagnava chiese u n a sosta. Negli abitati i cavalli venivano messi al ga loppo p e r n o n da r t empo alla popolazione di r iconoscere il viaggiato­re e di rendergl i omaggio, e le scosse met tevano a d u r a p ro ­va le res idue forze del malato. A Fontainebleau giunse più mor to che vivo, e stentò parecchio a r iprenders i , ma si trovò più isolato di p r ima e ancora più all 'oscuro di ciò che succe­deva. Ai p r imi di genna io (del T3 ) a l l ' improvviso, gli an­nunz ia rono u n a visita de l l ' Impera tore .

Ques t i e r a a p p e n a r i en t r a to , sconfìtto, dal la Russia, s i p reparava a bandi re la leva in massa pe r l 'ultima battaglia, e qu ind i aveva b isogno di r i c rea re i n t o r n o a sé l ' unan imi tà della nazione che il conflitto con la Chiesa aveva pericolosa­men te incrinato. Non c'era che un mezzo: la riconciliazione col Papa. Ma p r ima di tentarla gli m a n d ò , a saggiarne le in­tenzioni , u n a delegazione di Cardinal i rossi con un elenco di nuove proposte , u n a più insensata dell 'altra: che il Papa­to si trasferisse a Parigi, che i Cardinal i venissero designati pe r d u e terzi dai loro rispettivi Sovrani, cioè da Napoleone, e che i Cardinali ner i venissero castigati. Il Papa si disse sgo­men to - e doveva esserlo - che dei prelati gli sottoponesse­ro simili richieste, e le respinse ne t tamente .

Poi v e n n e Napo leone . Il colloquio si svolse a qua t t r 'oc­chi, si p ro lungò pe r sei giorni, e non n'è r imasta nessuna te­stuale documentaz ione . Anche in seguito il Papa si rifiutò di d a r n e esat to con to e solo casua lmen te ne lasciò t r ape l a re qualche episodio. Napoleone , disse, n o n aveva alzato la ma­no contro di lui, come si e ra raccontato in giro; ma u n a vol­ta, d o p o aver f rantumato parecchie porcel lane, lo aveva af­ferrato pe r il lembo della sottana e trascinato qua e là pe r la s tanza. Alla f ine, d o p o u n a se t t imana di ques te scenate e scenette, aveva riconvocato i Cardinali rossi alla cui presen­za aveva fatto f irmare al Papa un accordo di mass ima che i m p e g n a v a i con t r aen t i a ce rcare un c o m p r o m e s s o . Poi, con t ravvenendo all 'intesa, p resen tò quel d o c u m e n t o come un vero e p rop r io concordato; ma, pe r addolcire la pillola,

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rilasciò i Cardinali ner i e gli permise di ragg iungere il Papa. Pacca raccontò in seguito che aveva trovato un uomo pal­

lido, incurvito e come t rasognato, che con u n a voce d 'ol tre tomba rot ta dai singhiozzi gli aveva raccontato di essere sta­to trascinato al tavolo «da quei Cardinali» (i Cardinal i rossi) e costretto a firmare. Ma ora che aveva ri trovato i suoi, si af­frettò a far sapere che il foglio firmato n o n aveva nessun va­lore p r ima di tut to pe rché era soltanto un d o c u m e n t o p r e ­parator io , eppoi perché la firma gli e ra stata estorta. Di que­sta protes ta p e r ò l 'opinione pubblica n o n seppe nulla. Ve­d e n d o che i Card ina l i ne r i e r a n o stati rilasciati e si e r a n o riunit i al Papa, tutt i p e n s a r o n o che questi o rmai n o n fosse più pr igioniero, né ebbero t empo di ricredersi sotto l'incal­zare di nuovi e più d rammat i c i avveniment i . Sconfitto a Lipsia, Napoleone non era più in grado di fermare gli Allea­ti in marcia su Parigi. Un po ' perché non voleva che costoro si attribuissero il meri to di aver «liberato» il Papa, un po ' pe r vendicarsi di Mura t che, come abbiamo già raccontato, ave­va invaso gli Stati pontifici nella speranza di annetterseli , ri­spedì in Italia quell ' imbarazzante e irriducibile prigioniero.

In que l m o m e n t o l ' au tor i tà mora le di Pio toccò i l suo apogeo. Anche gli anticlericali p iù arrabbiat i dovevano in­chinarsi al coraggio, alla tenacia, alla forza d ' an imo con cui quel fragile vegliardo aveva difeso gl'interessi di u n a Causa che n o n era soltanto quella della Chiesa, ma anche della li­be r t à e della d ign i tà de l l ' uomo . E di ques ta u n a n i m i t à di consensi dovet tero tener conto anche i p lenipotenziar i che a Vienna stavano dec idendo le sorti dell 'Italia.

Qu i nessuno metteva in discussione il diri t to del Papa a r ip rende re possesso dei suoi Stati. Ma c'era il p rob lema del­le Legazioni (Bologna, Ferrara e la Romagna) che, annesse pr ima alla Cisalpina, poi al Regno Italico del Lombardo-Ve­neto, e o ra presidiate dalle t r u p p e austr iache, n o n mostra­vano nes suna voglia di t o r n a r e sotto i l gove rno di Roma . Metternich cercava di sfruttare la loro agitazione pe r r ende ­re p e r m a n e n t e l 'occupazione e confermare l 'unione di quel-

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le p rov ince al Lombardo-Vene to , di cui l 'Austria e ra r idi­ventata padrona .

Per pa ra re la sua mossa, il Papa aveva manda to a Vienna l 'e lemento migliore di cui la Chiesa disponeva: il cardinale Consalvi, segretar io di Stato, un u o m o di formazione illu­minis ta , f e r m a m e n t e avverso a ogn i ideologia che avesse qualche pa ren te l a con quelle della Rivoluzione, ma altret­t an to ostile a un p u r o e semplice r i t o r n o al passato . Egli sventò la manovra del Cancelliere austriaco e o t tenne la re­sti tuzione delle Legazioni, ma solo al t e rmine di u n a spos­sante lotta n o n tanto contro la volpina abilità di Metternich quan to cont ro l'ottusità del suo p ropr io governo.

Part i to infatti Consalvi pe r la sua missione, la Cur ia era rimasta in m a n o agli Zelanti, cioè a quel g r u p p o di Cardina­li che, pe r essersi distinti nella resistenza a Napoleone , ora tenevano banco e det tavano legge. I loro maggiori esponen­ti e r ano Pacca e Rivarola, uomini senza dubbio coraggiosi e risoluti, ma di cui la persecuzione aveva acuito l 'odio verso ogni novità fino a r e n d e r l o patologico. A p p e n a r ien t ra t i a Roma al seguito di Pio, si e r ano messi a cancellare tut to ciò che avevano fatto i francesi che avevano fatto anche molte cose buone . Al posto delle leggi semplici e chiare ch'essi ave­vano in t rodo t to sia nel campo penale che in quello civile e amministrativo, re in t rodussero quella j ung l a di n o r m e con­t raddi t to r ie e di fòri privilegiati che lasciavano il ci t tadino al l 'oscuro dei p r o p r i diri t t i e che avevano s e m p r e fatto di quello pontificio lo Stato italiano più disordinato, inefficien­te e arbitrario. Lo stesso D'Azeglio, che in quel m o m e n t o si trovava a Roma e che n o n si p u ò certo tacciare di giacobini­smo, annotava scandalizzato: «Tutto fu rimesso com'era tem­poribus illis. Vidi to rna to il Bargello colla corte , i birr i , il ca­valletto ecc. ecc. con tut to quel che gli s'assomiglia».

Invano Consalvi riferiva da Vienna nei suoi rappor t i che di queste d issennate misure Met te rn ich si faceva forte pe r pe r suade re gli altri soci del Congresso che il governo ponti­ficio con la sua retriva ottusità avrebbe finito pe r sollevare le

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violente reazioni dei suddi t i r ivelandosi così u n a fonte di per turbazione più che una garanzia di stabilità, e quindi era meglio r i d u r n e i te r r i tor i . Pacca e compagn i pers is tevano nella loro opera . Tutto, specialmente nelle province det te di «primo recupero» (Lazio e Umbria) fu ricostituito come pri­ma e peggio di pr ima, cioè nell'esclusivo interesse di un ri­stretto g r u p p o di prelati che, come poi scrisse il Farini, «ten­g o n o lo Stato come un g r a n d e beneficio ecclesiastico, un predio da usufruttuarsi dagli uomini di Chiesa».

Q u a n d o , a l t e r m i n e della sua missione, Consalvi t o r n ò da Vienna con le Legazioni in tasca, mise a frutto il successo pe r r i p r e n d e r e in m a n o i l po te re e governar lo in man ie r a più ragionevole. Egli capì che quelle province, dette «di se­conda recupera» n o n si potevano t rat tare come le altre, da­to il loro super iore livello economico e sociale e gli consentì di conservare in g ran par te gl'istituti giuridici e amministra­tivi introdott i da Napoleone , ai cui benefici esse si e rano or­mai affezionate. Poi o t t e n n e dal Papa un motuproprio che , col pre tes to della unificazione legislativa, es tendeva questo criterio a tutti gli Stati. Così la dissennata ope ra degli Zelan­ti venne bloccata e in certi campi addir i t tura capovolta. Per esempio venne ro riconosciute le alienazioni dei beni eccle­siastici compiu te nel pe r iodo francese, venne m a n t e n u t a la revoca delle giurisdizioni baronali , cioè del dirit to dei nobili a istituire loro p rop r i tr ibunali , e venne abolita la tor tura .

Erano sensibili progressi nei confronti dello Stato pont i ­f ic io d i p r i m a del la Rivoluzione. Ma n e m m e n o Consalvi , malgrado i suoi sforzi, riuscì a impedi re il solito s t rapotere di u n a polizia ciacciona e oppress iva , il r i t o rno alle infra-mettenze del po te re esecutivo in quello giudiziario, il ripri­stino di un sistema doganale asfissiante che condannava l'e­conomia pontificia a un totale ristagno e di una censura ot­tusa come sono tu t te le censu re e specia lmente quel le dei preti , il r istabil imento dell 'assoluto monopol io ecclesiastico sul l ' i s t ruzione, s e m p r e cons ide ra ta un per icoloso veicolo d ' infezione. E sop ra t tu t to n o n riuscì a laicizzare g l ' ingra-

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naggi amministrativi su cui parroci e monsignor i montava­no ringhiosa guardia e in cui por tavano la loro tradizionale incompetenza.

Successe ciò ch 'era inevitabile che succedesse: e cioè che specialmente nelle province di seconda recupera , cioè le Le­gazioni, vissute pe r molti anni nel giro di un m o n d o più li­bero e m o d e r n o qual era il Vicereame del Lombardo-Vene­to, il malcontento de te rminò immedia tamente gravi tensio­ni. La carestia del '16 acuì la crisi. Secondo calcoli del Can­de lo ro , su u n a popo laz ione complessiva di d u e mil ioni e mezzo di abitanti, lo Stato pontificio contava mezzo milione di accattoni, u n o su cinque. Era il risultato dell 'amministra­zione clericale. Essa n o n riusciva a renders i conto che la re­lativa libertà dei traffici, le forni ture militari, le vendi te dei ben i ecclesiastici e demania l i avvenute nel l 'u l t imo venten­nio avevano p r o f o n d a m e n t e al terato il tessuto sociale dan­do l'aìre a u n a borghesia di funzionari, professionisti, mer­canti, ex-fittavoli diventati propr ie tar i , che n o n si rassegna­vano più a quel regime di lager e alla p ropr i a esclusione dal potere e dagli uffici.

Già nel '17 la polizia scoprì un complot to pe r u n a solle­vazione popola re a Macerata. Ci furono un centinaio di ar­resti, e un processo che si concluse con undici c o n d a n n e a mor te . Consalvi ebbe il suo daffare pe r commutar le in car­cere a vita. Irri tati dalla sua clemenza, gli Zelanti passarono al cont ra t tacco i s t i tuendo anch 'ess i u n a società segre ta di squadristi manganel latori , la Santa unione, det ta anche, sen­za alcun sottinteso umorist ico, Ipacifici. Era u n a riedizione del Sanfedismo di Ruffo. Così Consalvi si t rovò p r e s o fra d u e estremismi.

Egli n o n aveva p iù a l t ro a p p o g g i o che i l Papa . Ma Pio VII era ormai alla fine. Oltre ai triboli della vecchiaia, dove­va affliggerlo la sensazione di essersi sopravvissuto t roppo a l u n g o . Fosse m o r t o a Fonta ineb leau , sa rebbe passa to alla Storia come un Gregor io V I I , e tale infatti e ra a p p a r s o ai cattolici di tut to il m o n d o q u a n d o era tr ionfalmente tornato

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a Roma. Di tut to quel capitale di prestigio accumulato nel­l ' emergenza , d o p o sei ann i d i o r d i n a r i a ammin i s t r az ione n o n gli restava neanche una briciola. L'uomo che aveva sa­puto sfidare i fulmini di Napoleone e affrontare coraggiosa­mente depor taz ione ed esilio, non riusciva a sottrarsi al «si­stema» e ne era restato pr igioniero.

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

I DUCATI CENTRALI

Secondo le f igurazioni al legoriche del t e m p o , F e r d i n a n d o I I I di L o r e n a r i en t rò a Fi renze togato e cinto d 'a l loro, su un carro t rainato da un leone e da un agnello. L'agnello an­dava bene , ma il leone no. Il mite e affabile Granduca , che n o n aveva mai voluto dichiarar g u e r r a a Napo leone e anzi lo aveva invitato a cena q u a n d o era passato da Firenze, non gli serbava nessun r a n c o r e n e m m e n o del fatto d i esserne stato scacciato. Tut tora gli scriveva all'Elba lettere affettuose pe r dargli notizie della moglie Maria Luigia, sua p ropr ia ni­pote . Sicché q u a n d o alcuni vecchi nobili, andatigli incontro a porgergli il ben tornato , si vantarono di non aver mai col­laborato coi francesi, rispose: «Faceste male. Se l 'ho servito io, potevate servirlo anche voi». E con questa bat tuta tagliò corto a ogni velleità di epurazioni .

La sua res tauraz ione n o n e ra stata esente da difficoltà. Come forse il lettore r icorda, la Toscana era stata oggetto di un barat to fra Napoleone e i Borbone di Spagna, che se l'e­r a n o accaparrata per la loro infanta Maria Luisa cedendo in cambio il Ducato di Pa rma . Poi N a p o l e o n e aveva cacciato via anche costei pe r assegnare i l G r a n d u c a t o alla p r o p r i a sorella Elisa. Al Congresso di Vienna la Spagna, che aveva dato un contr ibuto de te rminan te alla lotta antinapoleonica, e ra tornata ad avanzare i suoi diritti ch iedendo la restituzio­ne di u n o dei d u e principati . Ma Metternich era riuscito ad assicurarseli en t rambi r i po r t ando Ferd inando , fratello del­l ' imperatore Francesco, a Firenze, e facendo assegnare Par­ma a Maria Luigia con l'intesa che alla sua mor te il Ducato sarebbe r i tornato ai Borbone.

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Q u a n d o ci arrivò nella primavera del '14, i fiorentini accol­sero Ferdinando sventolando le tube al posto dei tricorni per­ché ormai vestivano «alla francese» con lunghi pantaloni attil­lati e alti colletti a sbuffo men t re le donne avevano smesso la parrucca e portavano la vita sotto il petto. Ma al Granduca an­che la nuova moda piacque, perché in quel momento gli pia­ceva tutto. Unica ombra nella sua felicità di ritrovarsi a Firen­ze era il fatto di averci dovuto tornare da solo perché sua mo­glie era morta duran te l'esilio in Germania, e lui non era mai riuscito a consolarsene. Ma subito dopo lo raggiunsero le due figlie e poi anche il figlio, Leopoldo, che i fiorentini, appena lo videro, battezzarono immediatamente «Canapino» per il colo­re biondo sbiadito dei capelli. Il ragazzo, ch'era nato anche lui a Firenze, non prometteva, quanto a salute, granché. Infatti subito dopo l'arrivo si ammalò, e i medici gli prescrissero una strana cura a base di latte di donna. «L'hanno r imandato a ba­lia» dissero i fiorentini e quando, guarito, il giovane ricompar­ve per le sue abituali passeggiate a cavallo alle Cascine, lo fer­mavano e gli chiedevano: «Che s'è divezzato, Altezza?»

Il r i o rd inamen to dello Stato si svolse in quest 'a tmosfera di familiarità. Invece che a qua lche vecchio nobile incaro­gnito nelle nostalgie dell 'antico regime, Fe rd inando lo ave­va appal ta to a un borghese ex-collaborazionista, l ' ingegnere a re t ino Vit torio Fossombroni , che aveva servito l ' ammini­s trazione francese e che Napo leone chiamava «un gigante nel mezzanino». La revisione del codice napoleonico si ri­dusse a ben poco. Fu abolito il divorzio, che nes suno d'al­t ronde reclamava. Furono ristabilite le decime parrocchial i e r i s t re t te le a u t o n o m i e munic ipa l i , ma fu conserva ta la pubblicità dei processi e, sebbene alla polizia venissero con­cessi ampi poteri , essi furono usati in tale manie ra che la To­scana diventò lo Stato italiano di g ran lunga più libero e la Mecca di tutti i perseguitati politici. Q u a n d o Metternich co­minc iò 'a l amenta r s i del fatto che la c e n s u r a n o n faceva i l p ropr io dovere , Ferd inando gli rispose: «Ma il dovere della censura è quello di n o n farlo».

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Le innovazioni si r idussero al c a m p o economico, e n o n fu rono innovazioni p e r c h é si t r a t tò di un r i t o r n o ai saggi criteri liberistici di Pietro Leopo ldo . A p p e n a finita la care­stia che in quest i ann i si e ra abba t tu ta sull ' I talia e che co­strinse anche la Toscana a calmieri e cont ingentament i , Fos-sombron i spalancò le f ront iere alle impor taz ioni , facendo piazza pulita di dazi e gabelle. Indust r ia e agricoltura dilata­r o n o i polmoni , e lo si vide dal bilancio. Per sedici milioni di spese annue , ce n ' e rano diciannove di entra te , e il Ministro ne approfit tò pe r da re avvìo a u n a serie di lavori pubblici o, come oggi si chiamano, di «infrastrutture» che contr ibuiro­no moltissimo al riequilibrio del Paese. Fu aper ta una strada p e r la valle t iber ina, un ' a l t r a da Volterra a Siena, un 'a l t ra ancora da Siena ad Arezzo che trasse la Valdichiana dal suo secolare isolamento. Ma gli sforzi maggiori furono rivolti al­la M a r e m m a per guarir la dalla malaria e metter la a cultura. Molti cr i t icarono questa impresa cons iderandola spropor ­zionata alle forze del Granduca to . «Per la smania d 'e ternar­si asciuga-tasche e maremme» scriveva il Giusti di Baldasse-roni , il giovane tecnocrate livornese che dirigeva questo as­salto contro b rughie re e acquitrini. E infatti l 'opera richiese i l sacrifìcio di parecchie generaz ioni . Ma n o n sarebbe mai arr ivata al t r a g u a r d o senza questo pionier ismo, che fu an­che la scuola delle migliori energie imprendi tor ia l i toscane nel campo dell 'agricoltura.

Dove Fossombroni si rivelò inflessibile fu nella difesa del­lo Stato dal le in te r fe renze ecclesiastiche. N o n volle r iam­met te re nel Granduca to i Gesuiti, di cui il Papa aveva rico­stituito l 'Ord ine e si e ra fatto l'alto p a t r o n o , e fu un vigile gua rd iano del cos tume di tolleranza che il Granduca aveva is taurato. Gli stranieri avevano scoperto Firenze, ci veniva­no sempre più numeros i , e molti ci restavano. Questo ne fa­ceva u n a f ines t ra spalancata sul m o n d o m o d e r n o , un pun to d ' incon t ro , u n a t a p p a d 'obbl igo, specie pe r gl ' intellettuali della penisola, messi in fuga dall'asfissiante atmosfera degli altri Stati. Il suo pr imato culturale cominciava a delinearsi.

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Le p iù grosse p reoccupaz ion i d i F e r d i n a n d o furono di o rd ine matr imoniale . La p r ima ad a n d a r e sposa fu la figlia Mar ia Teresa con un giovanot to sul qua le c o r r e v a n o voci con t radd i t to r ie . Si chiamava Carlo Alberto di Savoia Cari-gnano , e sembrava destinato a salire sul t rono del Piemon­te, ma n o n era del tut to sicuro perché contro questa succes­sione p e r via collaterale manovrava Francesco IV di Mode­na, genero del Re in carica. Q u a n d o il Principe venne a Fi­renze a conoscere la fidanzata, i fiorentini lo t rovarono «di leggiadro aspetto e di maniere assai civili», ma «più lungo e malinconico d 'una quaresima». E il Principe, dal canto suo, confidò a Gino Capponi , di cui era diventato subito g r ande amico, che Maria Teresa era, sì, mol to graziosa, ma «terri­b i lmen te austr iaca». Sbagliava p e r c h é ques ta aus t r iaca fu poi la più italiana delle regine , sposò in p ieno la politica di suo mari to , ne condivise i d r a m m i e l'esilio, e q u a n d o to rnò vedova a Firenze n o n volle più met te r p iede a palazzo Pitti pe rché c 'erano di guardia i soldati austriaci.

A Leopo ldo fu da ta in moglie u n a principessa di Sasso­nia, Maria Anna Carolina, che fece ai fiorentini la migliore impressione, ma n o n det te eredi maschi. Assillato dalla pau­ra di un 'est inzione della dinastia, Fe rd inando dovette deci­ders i a r i p r e n d e r mogl ie a c i n q u a n t a d u e ann i , e p e r n o n cor re re avventure fuori casa se la scelse nella sorella di sua nuora , il che lo rese cognato di suo figlio. Ma e ran cose che succedevano spesso, in questi mat r imoni dinastici. Pur t rop­po n e m m e n o lui riuscì a met te re al m o n d o un successore, e q u a n d o morì , ucciso p ropr io dalla malaria m a r e m m a n a che aveva cercato di debellare, temet te che l ' imperatore France­sco suo fratello ne approfit tasse pe r soppr imere , in caso di mor t e di Leopoldo , il Granduca to e r i d u r r e la Toscana co­me il Lombardo-Veneto. Era le mille miglia dal l ' immagina-re che a cacciare dal t r ono «Canapino» diventa to frat tanto «Canapone», sarebbe stato un cer to Vittorio Emanue le , f i ­glio di sua figlia Maria Teresa e del «giovane di l egg iadro aspetto».

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A Lucca si e ra installata Maria Luisa di Borbone , colei a cui N a p o l e o n e aveva concesso d i r e g n a r e p e r a lcuni a n n i sulla Toscana, e che poi aveva costretto a cedere il posto alla p ropr ia sorella Elisa Baciocchi. Il pat to stabilito al Congres­so di Vienna era, r ipet iamo, che i Borbone sarebbero rima­sti Principi di Lucca finché non avessero r ecupera to il loro vecchio Ducato di Pa rma e Piacenza, assegnato a titolo vita­lizio all 'altra Maria Luigia, la moglie di Napoleone; e che a quella scadenza, Lucca sarebbe stata annessa al Granduca to di Toscana.

Maria Luisa era rimasta la spagnola di sempre , sussiego­sa, bigotta e p rofondamente avversa alle idee liberali, tanto che si era preso come consigliere Canosa, l 'ex-ministro del­la polizia di Napoli . E m a n ò u n a legge con cui faceva obbli­go ai funzionari civili e militari di anda re a messa e ai geni­tori di m a n d a r e i figli a Dottrina, pena l'esclusione dai p u b ­blici impieghi . Era ossessionata dalla p a u r a dei Carbonar i , che a Lucca non c 'erano, e tutta la sua politica estera consi­stette in accordi di polizia con gli Stati vicini pe r il coordina­m e n t o dello spionaggio e l 'estradizione dei colpevoli. Il p ro­blema che più l'assillò fu di da re u n a buona moglie a suo fi­glio Carlo Ludovico e, come spesso capita alle m a m m e t rop­po ciaccione, la sbagliò.

Maria Teresa di Savoia, secondogeni ta di Vittorio Ema­nuele I (la pr imogeni ta Beatrice e ra anda ta sposa, come ri­cordere te , a Francesco IV di Modena) aveva diciassette an­ni, e ra a p p e n a uscita di convento e p a r e che fosse stata in­namora t a di Carlo Alberto. Aveva abbastanza riserve senti­mental i per innamorars i anche di Carlo Ludovico, ma fu lui che n o n s ' innamorò di lei. In c o m u n e ebbero un figlio, i l fu­t u r o Duca d i Parma, ma n ien te a l t ro . Car lo Ludovico era stato ta lmente oppresso dalla m a d r e che sognava di disfare tu t to ciò ch'essa aveva fatto, compreso il p rop r io mat r imo­nio; e q u a n d o le successe nel '24 , i n t rodusse anche , pe r b u o n a for tuna dei lucchesi, me tod i d i gove rno d iametra l ­men te opposti a quelli di lei. Ridusse l ' appannaggio che Ma-

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ria Luisa esigeva pe r a l imentare i suoi fasti spagnoleschi, li­beralizzò i commerci , e alla fine si convertì addir i t tura al lu­teranesimo, m e n t r e sua moglie diventava Terziaria domeni ­cana. Fu un cattivo mar i to , ma n o n un cattivo sovrano . E Lucca, sotto di lui, respirò.

A Parma, Maria Luigia giunse tardi , soltanto nel '16, e n o n fu bene accolta. I pa rmens i consideravano la moglie di Na­poleone un personaggio sproporz ionato a un ducato che si es tendeva solo fino a Piacenza e a Guastalla. Ma cambiaro­no opin ione q u a n d o la Duchessa o rd inò che le somme rac­colte pe r i festeggiamenti del suo arrivo fossero devolute al­la beneficienza.

Maria Luigia n o n aveva la stoffa dell 'eroina. Malvolentie­ri e ra anda ta sposa al l 'uomo più potente della terra , n o n lo aveva mai amato , né mai si e ra senti ta compene t r a t a della sua grandezza. Per p u r o senso del dovere , aveva pensato di restare accanto al mari to anche nella disfatta e di accompa­gnar lo all 'Elba, ma se n ' e ra lasciata facilmente d i s suadere da suo p a d r e e da Met ternich , anche pe rché già allora era innamora ta del conte Neipperg , che il Cancelliere le aveva messo al fianco, e a u n a cosa sola aspirava: a u n a vita t ran­quilla con lui, l on t ano dalla Cor te di Vienna , dove quel la «relazione» avrebbe c e r t a m e n t e i ncon t r a to degl i ostacoli. Per ques to aveva insistito pe r Parma: e ra u n a città di p ro ­vincia, ma piena di fascino, e con un suo r ango di capitale. Per averla, aveva consenti to a lasciare a Vienna anche il fi­glioletto avuto da N a p o l e o n e , i l piccolo Re di Roma, che Met te rn ich voleva al levare da aust r iaco p e r so t t ra r lo alle suggestioni della gloria pa te rna .

Con u n a b e n d a n e r a a c o p e r t u r a del l 'occhio p e r s o in combat t imento , Ne ipperg n o n era soltanto un be l l 'uomo e un p r o d e soldato. Era anche un politico di m e n t e ape r t a e di notevole accortezza, che seppe eserc i tare mol to b e n e i pieni po te r i conferit igli dalla Duchessa . Anzi, la vera Du­chessa fu lui, anche se lo fece con molta discrezione.

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Parma n o n aveva grossi problemi da risolvere. Subito do­po la caduta di Napoleone nel T 4 , i l suo governo e ra stato affidato dall 'Austria p r ima a Marescalchi col titolo di Com­missario Imper ia le , poi al conte Magawly-Cerati , un ir lan­dese naturalizzato, che si era rivelato un eccellente ammini­s t ratore . Ne ippe rg n o n appo r tò nessuna variante al suo si­stema e spinse avanti i lavori ch'egli aveva iniziato: il g r ande p o n t e sul Taro , la r iorganizzazione del l 'Universi tà che di­ventò una delle migliori d'Italia, e la r iforma legislativa che salvò il meglio dei codici napoleonici . Sulla censura , Neip­p e r g condivideva l ' op in ione del G r a n d u c a : che ci doveva essere, ma n o n farsi sent i re . E infatti i l Duca to gode t t e di u n a relat iva l ibertà, che a n d ò a vantaggio sop ra t t u t t o del suo sviluppo culturale. Sebbene ufficiale di carr iera , Neip­pe rg si contentò di un esercito di tremila uomini , e ciò che r i sparmiava in case rme , lo spese pe r le scuole, i l Museo, l 'Accademia, i teatri , e anche lui difese con tenacia lo Stato dalle in te r ferenze ecclesiastiche. Anche d o p o che , r imas ta vedova p e r la m o r t e d i N a p o l e o n e , Maria Luigia l 'ebbe morgana t i camen te sposato, egli r imase d iscre tamente nel­l 'ombra, lasciando che tut to il meri to di quel b u o n governo andasse a lei e giovasse alla sua popolari tà, che fu ed è anco­ra g rande .

A Modena si era istallato Francesco IV, figlio del l 'arciduca Ferd inando , a sua volta fratello de l l ' Impera tore . Francesco aveva eredi tato il Ducato di Modena, che comprendeva an­che Reggio, dalla m a d r e Ricciarda, ultima della casa d'Este. E un po ' pe r questa ascendenza mate rna , un po ' pe rché era na to a Milano, veniva cons ide ra to un Pr inc ipe i tal iano, i l che contribuì ad al imentare sul suo conto parecchi equivoci. Era un giovanotto tut t 'a l t ro che sprovveduto , a cominciare dai mezzi. Una serie di fortunate coincidenze lo avevano re­so e rede di molti cospicui pa t r imoni : quelli dei Cybo, dei Pi­co, dei Malaspina, il che faceva di lui uno dei più ricchi Prin­cipi d 'Europa . Fra poco gli sarebbe toccato anche il Ducato

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di Massa e Car rara , che pe r il m o m e n t o era stato assegnato a sua m a d r e a titolo vitalizio. Ma alle viste c 'era anche un boccone p iù grosso: i l P i emon te , del cui re Vit tor io Ema­nuele I egli aveva sposato la figlia pr imogeni ta . Abbiamo già det to che costei, nel contrat to di mat r imonio , aveva già fatto solenne r inunz ia agli Stati del p a d r e , destinati a Car lo Al­ber to . Ma Francesco n o n era rassegnato e, se n o n p ropr io al Piemonte, a lmeno alla Sardegna ci pensava: tant 'è vero che seguitava ad agitarsi pe r o t t enere La Spezia pe r assicurarsi le comunicazioni con l'isola.

Subito d o p o la catastrofe di Napoleone , a Francesco ave­vano g u a r d a t o molti patr iot i l ombard i nella speranza che , essendo egli un Principe della sua dinastia, l'Austria gli affi­dasse il Regno Italico e che poi, italianizzandosi sempre più, egli realizzasse sotto il suo scettro l 'unità nazionale. Ma sa­rebbero occorse d u e cose: che Metternich fosse d 'accordo, e invece non lo era, a p p u n t o pe rché prevedeva con chiarezza quel lo sv i luppo di s i tuazione; e che Francesco andasse in qualche m o d o incontro alle generali aspirazioni di libertà, e invece fece p ropr io il contrar io. Il suo p r o g r a m m a di gover­no si compend iava nelle paro le che più tardi p r o n u n c i ò al congresso di Lub iana : «Il p a r e g g i a m e n t o di tut t i in faccia alle leggi, la soverchia spartizione delle ricchezze, la libertà di s tampa, la via delle carr iere aper ta a ch iunque , l'eccessiva considerazione accordata agli scienziati e agli uomini di let­te re , la diffusione delle scuole, il l ibero passo accorda to a tutti d ' impara re a leggere e a scrivere: ecco i cattivi semi da cui germogl iano le rivoluzioni».

A questi princìpi aveva intonato i suoi criteri di governo. Tutta la legislazione napoleonica venne revocata e al suo po­sto ripristinata quella estense di p r ima del '97. Dell 'ordina­m e n t o francese venne m a n t e n u t o solo i l sistema t r ibutar io perché il cont r ibuente lo sapeva spolpare. Gli ordini religio­si furono richiamati, compresi i Gesuiti. Fu istituito un eser­cito di set temila uomin i a s so lu t amen te s p r o p o r z i o n a t o al peso politico del Ducato e alle sue esigenze.

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Francesco si rivelò un eccellente ammin i s t r a to re anche perché n o n distingueva fra finanze pubbliche e private, cioè considerava private anche quelle pubbliche. Fra le altre co­se affidò il monopol io dell ' industria più sviluppata nel Pae­se, la concia delle pelli, a una società di cui poi si scoprì che il titolare era lui. Non si può di re che l 'economia di Modena ne soffrisse. Anzi, tu t to il suo a p p a r a t o p rodu t t i vo e com­merciale funzionò bene perché Francesco aveva il culto del­l'efficienza e come manager era abbastanza dotato. Ma il Du­cato diventò u n a pr igione, in cui incubavano soltanto anal­fabetismo e ribellioni.

Qu i f inisce i l p a n o r a m a del l ' I ta l ia «res taurata». Alfredo Oriani doveva scrivere più tardi ch'essa n o n corr ispondeva più alla realtà del Paese pe rché «l'Italia dei cicisbei, addor ­m e n t a t a nelle r i forme, s t u p i d a m e n t e devota a i p r o p r i Re, adoran te il Papa come un semidio, sferzata da Parini, schiaf­feggiata da Alfieri, n o n esisteva più». Ma sbagliava. Quest ' I ­talia esisteva, eccome. Solo, ce n 'e ra o rma i anche un 'a l t ra : quella di coloro che n o n l 'accettavano più. Facciamo un ra­p ido sopralluogo nei loro rifugi: le «vendite» carbonare .

CAPITOLO VENTISEIESIMO

I CARBONARI

Giovanni Ruffini, che fu dei loro , racconta come e n t r ò in contat to coi Carbonar i . Era la sera di un mar t ed ì grasso, e suo fratello J a c o p o gli aveva da to a p p u n t a m e n t o in u n a piazza gremita di maschere . Due di queste gli si avvicinaro­no e gli chiesero se stesse aspe t tando u n a donna . Giovanni annuì , u n o dei d u e inter locutori gli m o r m o r ò all 'orecchio: «L'ora è suonata!» ch ' e ra la paro la d ' o r d i n e già datagli da Jacopo , e lo invitò a seguirli . Arrivati in un vicolo scuro lo benda rono , gli trassero il bavero del mantello fin sulla boc­ca, lo p resero a braccetto e gli fecero fare un lungo percorso a giravolte in m o d o da disorientar lo. Con u n a chiave apri­rono u n a po r t a e, q u a n d o gli tolsero la benda , Giovanni si trovò in una stanza rischiarata solo dal fuoco che ardeva nel camino , col p ianci to cope r to d ' u n t a p p e t o rosso s a n g u e e un globo d 'a labastro in mezzo. Ol t re agli accompagna tor i , c 'erano altri d u e domin i anch'essi mascherat i . U n o di loro gli chiese le generali tà e se aveva intenzione di far par te dei Buoni Cugini . Giovanni confermò.

«Hai un ' idea - disse l'altro - dei terribili doveri che t 'in­combono? Sai tu che, appena prestato il solenne g iuramen­to, il t uo braccio, le tue sostanze, la tua vita, tu t to te stesso insomma non a p p a r t e r r a n n o più a te, ma al l 'Ordine? Sei tu p r o n t o a m o r i r e mille volte anziché rivelare i suoi segreti? Sei p ron to a obbedire ciecamente e a r inunziare alla tua vo­lontà dinanzi a quella delle gerarchie dell 'Ordine?»

Finito l ' in terrogator io , al neofita fu imposto di p r o n u n ­ciare, inginocchiato e con un pugna l e in m a n o , la formula del g i u r a m e n t o : «Giuro e p r o m e t t o sopra gli s tabi l iment i

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1 d e l l ' O r d i n e in gene ra l e e su ques to fe r ro p u n i t o r e degli spergiur i , di cus todi re ge losamente tut t i i segret i della ri­spettabile Carboneria , di n o n scrivere o incidere o disegna­re cosa alcuna senz 'averne o t tenuto pe r iscritto il permesso dall'Alta Vendita. Giuro di soccorrere i miei Buoni Cugini pe r quanto compor tano le mie facoltà, e di n o n a t tentare al­l 'onore delle loro famiglie. Se divengo spergiuro, sono con­tento che il mio corpo sia fatto a pezzi, indi bruciato e le mie cener i sparse al vento affinché il mio n o m e sia esecrato da tutti i Buoni Cugini sparsi sulla terra . Così Dio mi aiuti!»

Dopodiché i l d o m i n o assegnò all 'iniziato un n o m e con­venzionale, gl ' insegnò alcuni cenni e paro le pe r farsi rico­noscere dai confratelli , ma r a c c o m a n d a n d o g l i di farne i l m e n o uso possibile. Poi gli disse: «Tu appa r t i en i da o ra al p r imo g rado de l l 'Ord ine , che è soltanto u n a fase di prova. N o n hai alcun dirit to, n e m m e n o quello di p resentare nuovi aspiranti ; hai p e r ò dei doveri , che ti sarà facile adempie re . Custodisci religiosamente il tuo segreto, a t tendi con pazien­za, fede e sommissione, e dent i p ron to ad agire nel momen­to o p p o r t u n o . A suo t e m p o saprai il n o m e della Vendita cui appar te r ra i e del capo da cui riceverai gli ordini . Se frattan­to dovremo dar tene qualcuno, t i sarà comunicato dal Cugi­no che ti presentò . L'Ordine ha occhi e orecchi ovunque , e da questo istante ti vigila o v u n q u e tu sia e q u a l u n q u e cosa tu faccia».

Ques to avveniva a Genova. Ma a Napoli s tando alle Me­morie sulle Società segrete s tampate anon ime in Inghi l terra , la cer imonia dell ' iniziazione era molto più complicata e tene­brosa. L'aspirante, chiamato pagano, veniva p r ima condot to benda to nel bosco e sospinto attraverso u n a bar r ie ra di fuo­co, «simbolo di quella fiamma di carità che deve a rde re sem­p r e nel vostro cuore pe r d is t ruggere i germi dei sette pecca­ti capitali». Poi gli si mostrava la testa recisa o la m a n o moz­za di un t r ad i t o r e , ed e r a su quest i trofei che gli si faceva p ronunc ia re il g iu ramento . Quind i il maestro vibrava t re col­pi di scure su un t ronco, comunicava al neofita il n o m e e i

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segni convenzional i , vibrava altr i t re colpi, e d ich iarava chiusi «i sacri travagli» con un dup l ice evviva al G r a n d e Maestro divino e u m a n o Gesù Cristo e a San Teobaldo.

Come si vede , n e a n c h e in questo p iù complesso r i tuale c 'erano accenni ai fini della società, cioè alla sua ideologia. Ed è na tu ra l e p e r c h é questa fu s e m p r e mol to composi ta e incerta , come composi ta e incer ta e r a l 'origine della setta. La Carboner ia era infatti un derivato, un amalgama di mol­te a l t re sètte, o g n u n a delle qual i c i aveva po r t a to del suo, spesso in contraddiz ione con quello delle altre. La loro sto­ria è e s t remamente arruffata e forse nessuno riuscirà mai a d ipanar la in manie ra esauriente anche pe rché ne mancano le impron te digitali, cioè i document i , che la segretezza im­poneva di d i s t r u g g e r e . Noi ci l im i t e r emo q u i n d i a r ico­s t ru i rne i l f i lone pr inc ipale , ma senza i m p e g n o di assoluta esattezza.

La g rande m a d r e di tu t te era stata cer tamente la Masso­neria, di cui abbiamo già disegnato la vicenda. Per non r ipe­terci, ci l im i t e r emo a r i c o r d a r e che di segre to , p e r l u n g o tempo, essa n o n aveva avuto che la liturgia. I suoi aderent i , quasi tut t i «illuministi», n o n pe r segu ivano scopi rivoluzio­nari e qu indi non avevano motivo di nascondersi . Lungi dal perseguitarli , molti governi li p ro teggevano, e fra di essi mi­l i tavano anche dei Re: G iuseppe I I d 'Austr ia , Ca te r ina di Russia, perfino Maria Carolina di Nàpoli ne fecero par te .

Le cose cambiarono con la rivoluzione francese, che mise anche i massoni alla scelta: o col vecchio regime, o col nuo ­vo. La spacca tura fu p ro fonda , e n o n si è mai p iù sanata . Per il nuovo regime e al servizio delle idee democrat iche fu cer tamente la massoneria di rito scozzese, che tutti r i tengo­no, p e r ques ta sua qualifica, di o r ig ine inglese. E r r o r e . Si chiamò così pe r ché i suoi aderen t i sos tennero pe r qualche t empo le pretese al t rono d ' Inghi l te r ra degli scozzesi Stuart - che oltre a tut to e rano fior di reazionari -, ma e rano fran­cesi. Essi si conver t i rono ben pres to all 'ideologia rivoluzio­naria , e le loro logge ne d iven ta rono fra i p iù efficaci s tru-

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menti di p ropaganda all 'estero. Ma ce ne furono delle altre che invece questa ideologia la r i f iutarono e anzi passarono all 'estremo opposto . Per s t rano che possa sembrare a qual­che le t tore ab i tua to a cons ide ra re la Massoner ia come la roccaforte dell 'anticlericalismo più arrabbiato, fra la fine del Sette e i pr imi del l 'Ottocento ce ne fu anche una domina ta dai nostalgici del vecchio reg ime assolutistico e dai Gesuiti al contrattacco dopo la soppressione del loro Ord ine .

Lungi dal combat ter la , Napo leone cercò di asservire la Massoneria e, anche se non del tutto, ci riuscì. Anche in Ita­lia i regimi ch'egli v ' instaurò ebbero l 'appoggio delle logge, che infatti furono pro te t t e sia da Eugenio a Milano che da Mura t a Napoli. E fu p ropr io pe r questo loro at teggiamento collaborazionistico che i dissenzienti se ne s e p a r a r o n o pe r da re avvìo ad altre società molto più segrete di quan to non fosse la Massoneria perché in dissenso con l 'ordine costitui­to che il dissenso lo perseguitava come sovversione.

La p r i m a ad a t tecchi re in Italia fu, a q u a n t o p a r e , u n a Lega nera, di cui avrebbero fatto pa r te uomini di varie ten­denze, ma accomunati dal proposi to di l iberare l'Italia dallo s t ran ie ro , austr iaco o francese che fosse. La cita nella sua Storia d'Italia il Botta che, senza da rne altri ragguagli , nel se­guito della sua - molto confusa - nar raz ione , attribuisce gli stessi connotat i a un 'al t ra società, quella dei Raggi, fra i cui più important i affiliati spicca il nome di Lahoz.

N o n si riesce a capire se le d u e organizzazioni facessero t u t t ' u n o o fossero in conco r r enza . Si è a p p u r a t o sol tanto che i Raggi si chiamavano così perché si diffondevano a rag­gerà dalla casa-madre centrale di Bologna, che la loro fiori­tura risale al pe r iodo della Repubblica Cisalpina, cioè fra il '96 e il 1804, e che in ogni capoluogo c'era u n a succursale formata di c inque «patrioti» sotto la gu ida di un «capo-co­lonna». Secondo un r a p p o r t o della polizia napoleonica , la setta aveva messo radici anche in Piemonte, dove perfino al­cuni membr i del governo provvisorio ne facevano par te . Es­si e r ano in stretti r appor t i coi giacobini di Parigi pe rché di

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questo a p p u n t o si t rat tava: di u n a r ipresa di giacobinismo d o p o la l iquidazione di Robesp ie r re e cont ro la politica di un Direttorio, s empre più domina to dai militari e soprat tut­to da Napoleone .

Tu t to lascia c r e d e r e che i Raggi siano stati al mass imo qualche centinaio di persone . Ma la loro presenza è impor­tante pe rché segna u n a ro t tu ra del fronte patriottico desti­nata ad approfondirsi sempre più lungo il Risorgimento: da u n a p a r t e i «democratici», di cui i Raggi r a p p r e s e n t a v a n o l 'avanguardia , e che la l iberazione dell 'Italia volevano affi­dar la all'iniziativa popo la re , cioè a un moto r ivoluzionario dal basso; dall 'altra i cosiddetti «moderati» che, non creden­do a questa iniziativa e n o n volendola pe r t imore dei disor­dini sociali ch'essa avrebbe compor ta to , cercavano di addos­sarla a qualche potere costituito e alla fine lo t rovarono nel­la monarchia piemontese dei Savoia.

Nel '99 ci fu nel Monfe r ra to u n a piccola i n su r r ez ione contro il regime instaurato dai francesi, che la polizia adde­bitò ai Raggi. Ma gli studi più recenti h a n n o dimostrato che l 'attribuzione era arbitraria. La rivolta era scoppiata per au­tocombustione, cioè dal malcontento dei contadini pe r i so­prusi e le requisizioni delle t r u p p e francesi. I Raggi cercaro­no di appropr iarse la e di darle un contenuto politico distri­b u e n d o opuscol i d i p r o p a g a n d a e r i t ra t t i de i g r a n d i capi giacobini di Parigi . Ma gl ' insort i , quasi tut t i contad in i , gli opuscoli n o n li lessero perché e rano analfabeti e i ritratti dei capi giacobini li scambiarono pe r immagini di Santi. Il loro p r o g r a m m a politico e ra l ' incolumità del pollaio, n iente al­tro.

I Raggi n o n ressero alla repress ione poliziesca di cui poi finirono pe r fare le spese: tant 'è vero che, dal 1802, della lo­ro setta non si trova più traccia. Ma da essa ne pul lu la rono infinite a l t re , di cui sarebbe vana impresa cercar di rico­struire i dati anagrafici e ideologici. U n a delle più impor ­tanti fu YAdelfia, versione ind igena della Filadelfia francese d'ispirazione giacobina. Ma ce ne furono anche di tendenza

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diametra lmente opposta, cioè reazionaria, come i Trinitari e i Calderari a Napoli, diretti discendenti dei Sanfedisti del car­dinale Ruffo, che cospi ravano pe r i l r i t o rno dei B o r b o n e ; come l'Amicizia cattolica e XAmicizia cristiana a Torino, domi­nata dai Gesuiti e dai nostalgici dei Savoia; e come la Società del Cuore di Gesù in Lombard ia , o rgano del par t i to austria­cante.

I motivi di questo improvviso pullulìo di sètte sono evi­dent i . Alla base, na tu ra lmen te , c 'erano le scontentezze p ro ­vocate dai regimi napoleonici . Ma questo non spiega nulla pe rché di regimi stranieri e sopraffattori gl'italiani soffriva­no da secoli, senza che ciò li avesse mai spinti a cospi rare . L'unica loro manifestazione di protesta e rano stati i tumult i e il br igantaggio . Di qualcosa che assomigliasse a una lotta politica organizzata n o n e r a n o mai stati capaci. Comincia­vano ad esserlo ora grazie all ' invasione francese che aveva acceso non soltanto molte speranze, ma anche molte ambi­zioni.

Le sètte pescavano i loro adept i sopra t tu t to nei ceti me­di. Abituati da secoli a restare esclusi dal potere , essi aveva­no visto nella rivoluzione la g rande occasione pe r inserirvisi e d iventa rne i protagonist i , come a p p u n t o era avvenuto in Francia; e perciò e rano corsi incont ro al conquistatore che la incarnava. Ma Napo leone aveva in g r a n pa r t e deluso le loro aspettative. All'Italia egli chiedeva soldati, ufficiali, ma­gistrati, funzionari, insomma m a n o d o p e r a e tecnici. Politici, no . La politica era privativa sua e dei suoi. Ci fu chi si con­tentò di diventare colonnello o magistrato. Ma ci furono an­che quelli che n o n si conten tarono . E furono costoro i pr imi militanti delle società segrete d'ispirazione democratica. Ma poco d o p o sopraggiunse u n a seconda e più massiccia onda­ta: quella dei colonnelli e dei magistrati epura t i pe r collabo­raz ionismo col despo ta , q u a n d o quest i c a d d e . Infatt i la g r ande fioritura delle sètte comincia p ropr io con la restau­razione, la quale mise sul lastrico tutta una categoria di «no­tabili» borghes i che , d o p o avere morso l ' inebr ian te p o m o

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del po t e r e , n o n i n t e n d e v a n o r e s t a rne a d ig iuno . C 'e ra d i mezzo anche una quest ione di pane . In un Paese economi­camen te depresso e cu l tu ra lmen te a r r e t r a t o come l 'Italia, dove il «posto» rappresen tava la più ambita delle grazie, la politica appariva la più p romet t en te di tutte le «carriere».

Con ciò non vogliamo dire che gli adept i delle società se­grete fossero soltanto degli ambiziosi carrieristi. Fra loro c'e­ra di tut to, e di tut to forse c'era in o g n u n o di loro, salvi i ca­si eccezionali di p u r o idealismo e di p u r o arrivismo. Voglia­mo soltanto dire che non c'è materiale più esplosivo e quin­di p iù d isponibi le alla cospi raz ione di u n a classe messa al b a n d o dal p o t e r e d o p o averlo assaggiato ed esserne stata, sia p u r e in avara misura, compartecipe. Fu essa infatti a for­nire le reclute della Carboneria .

Era la più giovane di tu t te le sètte, a lmeno in Italia. E per­ché prevalse su tutte le altre che l 'avevano preceduta , è dif­ficile dire . Ma, pe r quanto ancora molto discusso, a noi sem­bra che il suo albero genealogico sia abbastanza chiaro.

A fondar la , o p e r meglio d i re a t r ap i an ta r l a nel nos t ro Paese fu un commissar io politico francese, Briot, venu to a Napoli al seguito di Giuseppe Bonapar t e nel 1806, e man­dato in qualità d ' i n t enden te , cioè pressappoco di prefet to , p r ima a Chieti eppoi a Cosenza dove nacquero infatti le pri­me vendite. Briot e ra un ex -depu ta to giacobino che nel '99 aveva p ronunc ia to nel pa r l amento di Parigi un violento di­scorso in favore del l 'uni tà italiana cont ro la politica del Di­rettorio che l'avversava. Originar io della Franca Contea, fa­ceva pa r t e di un vecchio compagnonnage - o confraterni ta -locale di boscaioli, cacciatori e con t rabbandie r i che si chia­mavano charbonnìers, carbonai. Fra loro si davano di cugini o buoni cugini, e dicevano di risalire ai tempi medievali di u n a leggendaria regina Isabella che coi suoi soprusi li aveva co­stretti a rifugiarsi nella foresta. Qui si e r ano imbattut i in un eremita, Teobaldo, che poi era diventato i l loro Santo p ro ­tettore e li aveva miracolati facendogli incontrare e t r a r re a

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salvamento il Re smarritosi d u r a n t e una caccia che pe r rin­graziarli si fece anche lui carbonaio.

A pa r t e questa mitologia, e ra u n a società di m u t u o soc­corso, che n o n aveva mai avuto con tenu to politico. Lo ac­quistò con la rivoluzione, forse pe r ope ra dello stesso Briot che, essendo dei suoi, la convert ì ai p r o p r i ideali democra­tici e repubblicani . Q u a n d o questi ideali furono accantona­ti e con t r adde t t i dal Di re t tor io , i C a r b o n a r i pas sa rono al­l 'opposizione e, siccome l 'opposizione n o n e ra tollerata, si r i fugiarono nella clandestinità, d iven tando u n a vera e p ro ­pr ia setta.

Che da questa discendesse la Carboner ia italiana, lo pro­va n o n solo l ' ident i tà del n o m e , ma anche la qualifica di Buoni Cugini che si at tr ibuivano gli adepti , l 'organizzazione pe r Vendite, Alte vendite e Vendite madri, la gerarchia dei gradi - apprendista, maestro, gran maestro -, il r i conosc imento di Teobaldo come Santo prote t tore . Lunica differenza era for­se il con tenuto ideologico. E n o n già pe rché quello italiano differisse da quello francese; ma p e r c h é la Carboner ia ita­liana, a differenza di quella francese, un con tenu to ideolo­gico preciso n o n l 'aveva, o p e r lo m e n o n o n lo formulava ch iaramente ; e questa fu forse la ragione del suo prevalere sulle altre sètte.

Ques te e r ano m o r t e non tan to d i persecuzione , quan to di asfissia, cioè pe r mancanza di seguito e di eco in u n a po­polaz ione t r o p p o i g n o r a n t e e a r r e t r a t a p e r cap i re , o co­m u n q u e p e r cond iv idere , cert i ideali . La Ca rbone r i a n o n volle r ipe t e re ques to e r r o r e . E p e r evitarlo, n o n c 'era che un m o d o : adegua r s i agli u m o r i della pubbl ica o p i n i o n e e sopra t tu t to ai suoi malumor i , che variavano secondo il mo­m e n t o , la la t i tudine e le circostanze. Nel Sud, al t e m p o di Murat , le Vendite cercarono di sfruttare il sent imento cattoli­co offeso dalla politica anticlericale del reg ime e raccattaro­no proseliti perfino diffondendo u n a falsa «bolla» di Pio VII che consacrava la Carboner ia e invitava i fedeli ad aderirvi. In Romagna , dove ar r ivarono più tardi , esse furono r igoro-

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samente democra t i che e repubbl icane . In P iemonte , d o p o la Restaurazione, fecero fronte con la Federazione monarchi ­ca, o add i r i t t u r a vi si fusero. Ecco p e r c h é nelle iniziazioni non si faceva cenno al suo p r o g r a m m a .

Questa sua elasticità fu u n o dei motivi che contr ibui rono al r ap ido diffondersi della setta. Un altro furono i suoi lati ciarlataneschi. Essa si giovò moltissimo dell 'alone di t rucu­lento mistero che seppe creare in torno a sé e delle leggende a cui d i ede avvìo. Si raccontava di spergiur i r invenu t i p u ­gnalati nel letto accanto alla moglie ignara , di altri t rovat i crocefissi nel bosco con u n a corona di spine in testa, di altri fulminati da veleni inesplorabili . E l ' impressione che tu t to questo suscitava, insieme con la lugubre simbologia, eserci­tava sugli adept i un g ran fascino.

In seguito Mazzini denunz iò questo scialo di pugnal i , di veleno, d i croci , d i scuri , d i pa ro le d ' o r d i n e , tu t t a ques ta messinscena di formule, di sigle, di segni di r iconoscimento, d i cenni , d i ammiccamen t i , tu t to ques to t e n e b r o r e d i ap ­pun tamen t i nel bosco, di b e n d e , di baveri rialzati, d icendo che molto spesso e rano fine a se stessi, un giuoco pe r darse­la da be re a vicenda e credersi impor tan t i e pericolosi. In­fatti l ' a r ros to n o n e ra in p r o p o r z i o n e al fumo. Alla p rova dei fatti, risultò che questi g rand i cospiratori n o n riuscivano a sventare l ' infil trazione delle spie di cui le Vendite e r a n o sempre p iene , né i t r ad imen t i degli spergiur i con t ro cui i l castigo si r iduceva quasi s empre a innocui «bruciamenti in effigie», né le confessioni sotto gl ' in terrogator i . Però anche Mazzini, da giovanissimo, aveva a p p a r t e n u t o alla setta, anzi vi aveva fatto carr iera fino al g rado di Maestro. Ed era logi­co: fino alla «Giovane Italia», la Carboner ia fu l 'unico stru­mento di milizia rivoluzionaria, tutti i patrioti ci passarono, e molti di loro furono autentici mart ir i . Resta solo da vede­re se il suo tirocinio fu tut to positivo pe r i valori ch'essa in­tendeva p r o p u g n a r e .

Come abbiamo de t to , l 'organizzazione e ra r i g idamen te gerarchica . Ogn i Vendita o Baracca e ra costi tuita da vent i

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Buoni Cugini. U n o solo, il Maestro, conosceva il pa r ig rado delle altre diciannove Vendite che componevano la Vendita Cent ra le , la quale con lo stesso m e t o d o comunicava - solo ora lmente , mai pe r iscritto - con la Vendita Suprema. Questo o rgan ig ramma, come oggi si dice, e ra imposto dalle condi­zioni di clandestinità in cui la setta doveva agire. Ma intro­duceva, o meglio ribadiva, un criterio autor i tar io che pur ­t r o p p o in Italia trovava il p iù congeniale dei te r reni . Tutto veniva dall 'alto. Gli Apprendis t i , che poi e rano la massa di manovra , non par tecipavano min imamente alla formazione della volontà politica, e ne e rano tenut i comple tamente al­l 'oscuro. Nelle Vendite n o n c 'era un dibat t i to ideologico. Questo era riservato agli alti dignitari della Vendita Suprema, che considerava la r ivoluzione u n a sua privativa, ammin i ­s t r a n d o n e i pr inc ìp i come a l t re t t an te verità r ivelate di cui essa restava l 'unica depositaria. Ciò ne faceva, nel migliore dei casi, u n a casta sacerdotale coi suoi alti problemi ideolo­gici; nel peggiore , u n a consorter ia coi suoi interessi corpo­rativi che con t r apponeva a un ' I ta l ia autor i tar ia e «di verti­ce» un'I tal ia al tret tanto autori taria e «di vertice» sosti tuendo a u n a mafia di nobili u n a mafia di borghesi . Infatti la Car­boner ia fu a volte l 'una, a volte l'altra cosa, s t rumento - se­condo gli uomin i che l 'amminis t ravano - di alti ideali, o di arrivismi, e anche di basse vendet te . C o m u n q u e , n o n fu cer­to u n a scuola di educazione politica, e probabi lmente è an­che al suo esempio e modello che sono dovute le malforma­zioni della nostra democrazia e la sua intrinseca debolezza. Figli e n ipot i de i Ca rbona r i furono quei «notabili» che go­ve rna rono l'Italia fino alla p r ima gue r ra mondiale e che, in­sieme a innegabili virtù, ebbero anche il vizio di considerare il Paese una «clientela» di Apprendis t i esclusi dai «sacri tra­vagli». E anche la democraz ia a t tua le segui ta ad essere p ro fondamen te carbonara nei suoi partiti organizzati come Supreme Vendite e gestiti da ristretti g r u p p i di professionisti che agiscono n o n da «delegati» del popolo, ma da «pastori» del «gregge».

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Questo fu il vero lato negativo della Carboner ia che più tardi indusse Mazzini a divorziarne e a combatterla. E risali­va al l ' insegnamento e all 'esempio di un uomo che ne fu in­sieme il g r a n d e i sp i ra tore e il g r a n d e c o r r u t t o r e : Fi l ippo Buonarro t i .

CAPITOLO VENTISETTESIMO

B U O N A R R O T I

Quello che Bakunin ha chiamato «il più g r ande cospiratore del secolo» fino a pochi anni fa era conosciuto quasi esclusi­vamente come uno dei protagonist i del complot to e del pro­cesso di Babeuf. Oggi esiste su di lui un in te ro scaffale di o p e r e , fra cui fanno spicco quel le del Saitta e di Galante Gar rone .

Appar teneva alla famiglia fiorentina di Michelangelo, ma e ra na to a Pisa nel 1761, e lì fece i suoi s tudi che a quan to p a r e furono p iu t tos to d i so rd ina t i p e r c h é a n d a v a n o dalla matematica alla musica, di cui fu pe r tutta la vita un appas­sionato cultore. Tuttavia u n a laurea in legge la prese , sposò u n a ragazza nobile di Firenze, en t rò come paggio alla Corte del g r a n d u c a Pie t ro L e o p o l d o , fu fatto cavaliere di Santo Stefano, e insomma sembrava avviato a occupare un posto di tutto comodo e rispetto in quella piccola ma civile società di provincia . Anche la sua iscrizione alla Massoner ia n o n aveva nulla di rivoluzionario: la Massoneria era lo s t rumen­to dell ' I l luminismo, di cui lo stesso Sovrano era un adepto .

Ma lì fece conoscenza con le ope re di Rousseau, che agi­r o n o su di lui come un t r auma. Alla loro luce Pietro Leopol­do, che aveva abolito la to r tu ra e la pena di mor t e e che tut­ta la cul tura eu ropea salutava come il monarca più progres­sista d ' E u r o p a , gli a p p a r v e «un despota» e il suo reg ime un'infamia. Per combatterl i in nome della Democrazia e del­l 'Eguaglianza, fondò u n a Gazzetta universale che fece molto r u m o r e , ma suscitò poca eco. La polizia del «despota» si li­mitò a qualche perquisizione. Ma q u a n d o da Parigi giunse­ro le notizie della Bastiglia, Buonar ro t i non ebbe esitazioni'.

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piantò la moglie e le quat t ro figlie ch'essa gli aveva dato pe r trasferirsi in Corsica e mettersi al servizio della Rivoluzione. 11 gesto era rivelatore di una certa scelta: Buonarro t i si sen­tiva legato a un ' idea più che a una patria, e pe r tutta la vita seguiterà a considerare la patria u n o s t rumento dell ' idea.

A Bastia il suo zelo rivoluzionario gli valse un posto di di­r igente, ma anche l'ostilità dei benpensant i che alla fine in­sorsero con t ro di lui e lo cost r insero alla fuga. A Livorno, dove riparò a b o r d o d 'un peschereccio, la polizia lo arrestò per espatrio clandestino, ma il «despota» lo fece subito libe­r a r e p e r res t i tui r lo alle au tor i t à còrse che lo rec lamavano tra loro. Probabi lmente ricevette l'incarico di costituire del­le «cellule» rivoluzionarie in Toscana perché , malgrado l'in­cidente , poco d o p o to rnò di nascosto a Firenze, dove fu di nuovo arrestato. Ma evase, scampò a Genova, ne fu espulso e tornò in Corsica a r iprendervi il suo posto di agitatore.

Questo pe r iodo fu pe r lui molto impor tan te pe r d u e ra­gioni. Anzitutto perché le sue mansioni lo misero in contat­to coi Bonapa r t e e con Saliceti. Eppo i pe rché in quel l 'am­biente so t tosvi luppato le sue idee assunsero un indir izzo massimalista che di lì a poco lo avrebbe messo in contrasto con la politica del regime. Fu qui ch'egli elaborò la sua uto­pia di u n a società egalitaria e dispotica molto più vicina al modello di Sparta e degli Esseni che a quello borghese per­seguito dai Girondini allora al po tere .

Q u a n d o questi c adde ro nel '93, Buonar ro t i e ra a Parigi per sollecitare la natural izzazione. La sua intimità con Ro­bespierre fa par te più del mito di Buonar ro t i che della sua storia. Ma che frequentasse i circoli giacobini, vi fosse consi­derato di casa e tr ipudiasse del loro trionfo, è certo. Furono essi a dargli la cit tadinanza e a mandar lo in qualità di «com­missario» a Oneglia che le t r u p p e francesi avevano strappa­to al P iemonte . Vi trovò molti r ivoluzionari italiani in fuga dai loro rispettivi Stati e stabilì con loro dei rappor t i che eb­bero il loro peso sulla nascita delle p r ime società segrete nel nostro Paese e sul loro iniziale or ien tamento ideologico. Ma

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come politico n o n diede b u o n a prova a causa del suo estre­mismo. Come già a Bastia, istaurò il t e r ro re provocando an­che la reazione dei simpatizzanti. E finché il Te r ro re vince­va anche a Parigi, gli a n d ò bene . Ma q u a n d o Robesp ie r re cadde , fu denunz ia to pe r abuso di po te re e - come oggi si direbbe - «deviazionismo di sinistra», r ichiamato nella capi­tale e r inchiuso in prigione.

Fu qui che i ncon t rò Babeuf, i l r ivoluzionar io francese che portava le idee rousseauiane fino alle loro es t reme con­seguenze comuniste . Buonar ro t i n o n arrivava alle medesi­me conclusioni: egli restava fermo al Vangelo giacobino. Ma anche se divergevano sul piano ideologico, i d u e uomini sal­d a r o n o su quel lo u m a n o un vero e p r o p r i o gemel laggio . E n t r a m b i cons ide ravano l 'attività r ivoluzionar ia l 'unica compat ib i le con la d ign i tà de l l ' uomo , un sacerdozio che comportava il sacrificio di qualsiasi interesse e diletto perso­nale. Nelle loro utopie la Virtù doveva essere la gruccia del­la Giustizia.

Q u a n d o furono rimessi in libertà, Buonarro t i s'iscrisse al «Pantheon», la società segre ta che Babeuf aveva costituito pe r rovesciare il regime, sempre più borghese e conservato­re , del Direttorio, e anzi ne diventò u n o dei principali espo­nenti . Sciolto dalla polizia, il g r u p p o si r iformò clandestina­men te pe r sfociare più tardi nella cosiddetta «congiura de­gli eguali». Ma questo n o n impedì a Buonar ro t i di ricevere nel f ra t tempo e svolgere altri incarichi governativi , p roba­bi lmente procurat igl i dal vecchio amico Saliceti il cui astro cresceva col crescere di quello di Bonapar te . Fra l 'altro, ora che questi si d isponeva a invadere l 'Italia, gli fu affidato il compi to di riallacciare i r a p p o r t i coi r ivoluzionar i italiani pe r farne delle «quinte colonne». Stavolta dovette da r prova di efficienza p e r c h é nel '96 i l Di re t tor io lo p r o p o s e come collaboratore a Cacault, suo agente nella penisola. Ma que­sti declinò l'offerta. «Buonarrot i - scrisse - è ricco d ' imma­ginazione e di talenti le t terar i e filosofici. Ma di p rob lemi politici concreti non sa nulla.» Non ebbe bisogno d'insistere

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perché la scoperta della congiura condusse all 'arresto di tut­ti gli «eguali», compreso Buonarro t i .

Nel l 'emergenza r icomparve in scena - e fu, c redo, l'ulti­ma volta - sua moglie, che d o p o l 'espatrio lo aveva raggiun­to a Bastia dove gli aveva dato un quinto figlio. Sebbene egli l'avesse rimpiazzata con un 'amante , Teresa Poggi, la povera d o n n a fece del suo meglio pe r p rocura rg l i aiuti b u s s a n d o alla por ta dei personaggi più altolocati. E a lmeno d u e di es­si lo porse ro : Napo leone e il capo della polizia Fouché, un po ' p e r c h é B u o n a r r o t i aveva sapu to res tare in b u o n i r a p ­por t i con loro, un po ' forse pe r a l leggeri re la posizione di Saliceti ch 'era rimasto invischiato nella vicenda per i suoi le­gami con l'italiano.

Fatto sta che dei t r e pr inc ipal i impu ta t i , solo Babeuf e Da r thé furono c o n d a n n a t i a m o r t e e avviati al pa t ibolo . Buonar ro t i , che nel processo si e ra compor t a to con mol to coraggio e dignità, se la cavò con la depor taz ione in u n a for­tezza davant i a Cherbourg , dove gli consent i rono anche di ospitare la sua concubina. Ques to t ra t t amento di favore gli valse l 'ostilità degli altri «eguali» che n o n ci vedevano un g rande esempio di uguaglianza, ma gli permise di tenersi in c o r r i s p o n d e n z a coi vecchi amici giacobini di Parigi . N o n chiedeva aiuti. Chiedeva soltanto u n a revisione del proces­so nella speranza di farne una clamorosa affaire che riaccen­desse nelle masse lo spirito r ivoluzionario. Credeva che ce ne fosse ancora , che bastasse u n a scintilla p e r farlo divam­pare : e questo conferma il giudizio che di lui aveva dato Ca­cault.

Diventa to P r imo Console , N a p o l e o n e lo fece t rasfer i re come semplice sorvegliato speciale nelle Alpi Marit t ime, gli assegnò un piccolo sussidio; e finalmente, da I m p e r a t o r e , gli permise di trasferirsi come libero cittadino a Ginevra, al­lora ridotta anch'essa a d ipar t imento francese. Fu mal ripa­gato p e r c h é nel '12 i l Prefet to lo in fo rmò che B u o n a r r o t i aveva monta to u n a congiura contro di lui. Ma Napoleone, o che n o n ci c redesse , o che - com'è p iù probabi le - n o n lo

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prendesse molto sul serio, si limitò a farlo trasferire a Gre­noble. E stavolta la sua generosità fu compensata . Q u a n d o , dopo la parentesi dell 'Elba, r iprese il potere , Buonarro t i gli offrì i suoi servigi. Ma forse la g r a t i t u d i n e n o n c 'en t rava . Quasi tutti gli ex-giacobini, sebbene n o n avessero cessato di complot tare contro Napoleone che li aveva messi in dispar­te, nei Cento Giorni s i sch ie ra rono con lui: un po ' pe rché , di fronte all 'invasione straniera, il sent imento patriottico ri­p r e n d e v a in loro il sopravvento sull 'avversione ideologica; un po ' pe rché , p e r q u a n t o lo esecrassero, essi prefer ivano l ' Impero alla Restaurazione.

Dopo Waterloo, Buona r ro t i r i to rnò a Ginevra restituita alla sua patria svizzera, e qui si diede anima e corpo alla tes­situra della sua rete rivoluzionaria. Gli specialisti discutono ancora con accanimento a quale delle molte società segrete di allora egli attinse i criteri organizzativi. Sembra che s'ispi­rasse sopra t tu t to alla loggia massonica degli «Il luminati di Baviera». Ma questo c ' interessa poco. C'interessa molto di più vedere come funzionava in concreto la «macchina» che egli montò .

Per la p r o p a g a n d a e il proselitismo, creò u n a compagnia di «Sublimi Maestri Perfetti» che compor tava solo una som­maria iniziazione e l 'adesione a princìpi che, essendo di or­dine più morale che politico, non esponevano gli affiliati al­la persecuzione poliziesca e qu indi li a t t i ravano facilmente. Ma essa non era che lo schermo e lo s t rumento di un picco­lo stato maggiore d'intellettuali avvolti nel più fitto segreto e in te ramente dedicati alla Causa, che si chiamava «Aeròpa-go», corr ispondeva pressappoco al «Pantheon» di Babeuf, e doveva r appresen ta re un vero e p ropr io ord ine monastico, di cui lo stesso Buonar ro t i ammet teva il carat tere dittatoria­le. Solo i suoi membr i conoscevano i veri fini della setta, di cui av rebbe ro gu ida to l 'azione senza rivelarli n e m m e n o a coloro che la svolgevano. Era il concetto di una rivoluzione diret ta da un «vertice» d 'I l luminati , di cui le masse doveva­no essere gl 'inconsapevoli s t rument i .

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La Ca rbone r i a esisteva già, q u a n d o B u o n a r r o t i s i mise all 'opera, come esistevano gli Adelfi e tante altre società se­grete. Egli cercò di r idur le sotto il suo comando infiltrando­vi uomin i suoi e s t ipu lando con esse a m b i g u e al leanze. Q u a n t o ci riuscisse, è con t roverso . Secondo Saitta, il suo prestigio era immenso e lo rendeva, se n o n onnipoten te , al­m e n o onn ip resen te . Ma Galante G a r r o n e , che r id imensio­na a lquan to la sua inf luenza, c i p e r s u a d e di p iù . C o m u n ­que, egli incorse presto in un incidente che, oltre a bu t t a re all 'aria tut ta la sua opera , n o n d e p o n e molto a favore della sua oculatezza ed efficienza.

Fra gli altri giovani che riuscì a irret ire, ci fu un certo An-dryane che, venuto da lui pe r impara r l'italiano, si lasciò ini­ziare alla politica sebbene vi fosse del tu t to allergico. Buo­n a r r o t i lo sped ì a Milano con u n a valigia p i ena «di docu­ment i u n o più inutile e pericoloso dell 'altro, ma tali da com­promet te re mezza Italia», fra i quali c 'erano anche le regole e gli statuti della società, i segni di r iconoscimento e le paro­le d 'o rd ine t ra affiliati. Inesper to ed emotivo, il ragazzo cad­de subito nei tranelli della polizia ed espiò la sua storditag­gine nella cupa pr igione dello Spielberg, dove lo r i t rovere­mo insieme a Pellico, Maroncell i , Confalonieri e tanti altri patrioti italiani. Ma la leggerezza con cui Buonar ro t i aveva manda to allo sbaraglio quel poveraccio si concilia male con la sua fama di «mago dei complott i» e ha fatto sorgere il dubb io , spe r i amo in fonda to , ch 'egli volesse que l disastro pe r a t t i ra re l 'a t tenzione sulla sua società e p rovoca re u n a repressione che gli fornisse nuovi adepti . Altra cosa curiosa è che, sebbene identificato come m a n d a n t e , n o n ebbe noie dalla polizia. Solo pe r p recauz ione si trasferì da Ginevra a Losanna, e alla fine prese stabile d imora a Bruxelles.

Bruxelles era il luogo di raccolta di quegli ultimi giacobi­ni, che n o n po tevano r i m p a t r i a r e p e r c h é nel '93 avevano c o n d a n n a t o a m o r t e i l Re. C ' e r a n o C a m b o n , Levasseur, Sieyès, Cambacérès e tant i altri che si r i un ivano la sera al «Caffè delle Mille Colonne». Come tutti i fuorusciti, si odia-

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vano come fratelli e passavano il t empo a scrivere memoria­li pe r rinfacciarsi gli un ì agli altri il fallimento della rivolu­zione. Buona r ro t i s ' imbrancò con loro, ma disprezzandol i dall 'alto della sua ortodossia robespierr iana. Per lui la Rivo­luzione e ra stata i l T e r r o r e ; tu t to ciò ch ' e r a venu to d o p o non n 'era stato che il t rad imento . E fu al lume di questa tesi che compose quella che passa p e r la sua ope ra capitale: La cospirazione per l'uguaglianza detta di Babeuf.

Come pezzo polemico contro i regimi res taurat i , questa esaltazione degli eroici ideali che avevano ispirato gli uomi­ni della Cost i tuente e della Convenz ione esercitò sui con­t e m p o r a n e i u n a notevole inf luenza. Ma come scampolo ideologico, è ben povera cosa: un r imast icamento del pen­siero di Rousseau condito con la retorica e la demagogia di Robespier re . Vi s'invoca «il dispotismo della l ibertà cont ro quello della tirannia», il dovere di r e n d e r libero l 'uomo an­che contro la sua volontà, il culto di un vago Essere Supre­mo eccetera. È un r i to rno alle origini del giacobinismo più rozzo e arcaico, che dà r ag ione a Ta lmon q u a n d o allinea Buona r ro t i fra i p recurso r i di quella «democrazia totalita­ria» che nel nostro secolo doveva incarnarsi nel comunismo e nel fascismo. Perfino il l inguaggio è il medes imo. Buonar­roti qualifica «tradimento» ciò che oggi si chiama «deviazio­nismo» e p r o n u n c i a il t e rmine «hébertista» o «dantonista» come i fascisti di ieri p ronunc iavano quello di «demopluto» e i comunist i di oggi quelli di «trotzkista» e «bucharinista». Il r ichiamo che questo libro esercitò sui con t emporane i fu dovu to solo alla sua forza, d ic iamo così, di c o n t r a p p u n t o . Era il m o m e n t o in cui il ministro Guizot lanciava ai francesi la famosa pa ro la d ' o rd ine : «Arricchitevi!» Era logico che a un invito così prosaico gli uomin i della nuova generazione romant ica preferissero quello di Buonar ro t i a un eroico ri­lancio rivoluzionario.

Siccome l'affare A n d r y a n e aveva sconvolto tut ta la re te dei Sublimi Maestri, Buonar ro t i si d iede a tesserne un'altra sotto una nuova sigla: Le, Monde, il Mondo , che tuttavia s'i-

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spirava ai medes imi cri teri organizzativi . Anch 'essa aveva d u e facce: quella pubblica che si at teneva a un p r o g r a m m a riformista, che anche i reg imi m o d e r a t i av rebbe ro po tu to adot tare; e quella segreta dei soliti «iniziati», pront i a impa­dronirsi del movimento pe r i loro fini rivoluzionari. Ancora u n a volta B u o n a r r o t i cercò d ' in f luenzare i Ca rbona r i , gli Adelfi, gli Apofasimeni e tut te le altre società segrete italia­ne col solito sistema delle alleanze e delle infiltrazioni. Saitta dice che quest ' influenza fu tale da far di lui il vero p a d r e del Risorgimento. Ma non ci convince pe r un motivo molto pre­ciso: e cioè che il Risorgimento si veniva sempre più ispiran­do a un ' idea di patria, cui Buonar ro t i era sordo. E vero che a suo t empo aveva det to ai patrioti di Oneglia: «Spicciatevi a fare l 'unità nazionale». Ma poi aveva aggiunto: «E la condi­zione per is taurare in tutta la penisola u n a democrazia ega­litaria». I l suo t r a g u a r d o restava ques t 'u l t ima; l 'uni tà ne rappresentava solo lo s t rumento e la scorciatoia. La Francia lo interessava molto più dell'Italia, era convinto che solo da essa potesse venire la r igenerazione del m o n d o , e pe r que­sto non aveva esitato a p r e n d e r n e la nazionalità. Come tanti suoi con temporane i , anche lui pensava che «l 'Europa star­nu ta q u a n d o Parigi p r e n d e il raffreddore», e che qui d u n ­que la battaglia andasse combattuta .

Ora , tutto questo p e r l'Italia aveva un senso finché l'Ita­lia fu francese e quindi al regime francese era d i re t tamente interessata. Ma dopo la restaurazione dei vecchi Stati, pe r i patr iot i i taliani l 'uni tà e l ' i nd ipendenza n o n furono p iù il mezzo, ma il f ine. Buonarrot i non ebbe né poteva avere più presa su di loro, e lo si e ra visto in Piemonte, dove la Fede­raz ione si e ra c o m p l e t a m e n t e sot t ra t ta alla sua influenza. Da allora n o n riuscì p iù a ese rc i ta rne ; e def in i t ivamente gliela s t r appe rà di m a n o Mazzini, che in te rpre tava questo «nuovo corso» con più impegno e anche - riconosciamolo -con più ingegno e coerenza e altezza morale di lui.

In u n a sola cosa B u o n a r r o t i r imase p r e c u r s o r e e mae ­stro: nel conio di que l l ' a rche t ipo u m a n o che la Eisenstein

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chiama «il r ivoluzionario professionista». In questo , anche Mazzini dove t te qualcosa alla sua lezione, come mol to gli devono anche gli altri g r a n d i r ivoluzionari de l l 'Ot to e del p r i m o Novecento da Nechaev a Bakunin a Malatesta a Le­nin. Si parla, r ipeto, di archet ipo umano , non di contenuto ideologico.

Ecco perché di tutti i suoi scritti il più significativo è, caso mai, quello che non ebbe il t empo - e forse neanche l 'inten­zione - di d iventare un libro. Si t rat ta di una specie di tac­cuino di appun t i , scoperto di recente e pubblicato dal Sait-ta, che rappresen ta u n a specie di catechismo per gli «inizia­ti» al sacerdozio r ivoluz ionar io . Esso esige, s econdo Buo­narrot i , doti di carat tere e regole di vita rigorosissime. L'ini­ziato dev 'essere u o m o di g r a n d e coraggio , ma riflessivo e p ruden t e , nonché paziente e perseverante . Deve tenere nel debito conto la liturgia dell 'organizzazione par tec ipando al­le sue cer imonie allegoriche, r i spe t t andone i riti, le forma­lità e le gerarchie. Deve osservare scrupolosamente il segre­to e r i f iutare qualsiasi os ten taz ione . Deve p a r l a r e poco e manteners i sobrio in tutto, specialmente in amore .

Di alcune di queste virtù, non si p u ò dire ch'egli fornisse un g r a n d e esempio . Le tes t imonianze dei c o n t e m p o r a n e i concordano nel presentarce lo come un personaggio estro­verso e bollente, che colpiva l'occhio non solo pe r la bizzar­ria dei suoi acconciamenti, ma anche pe r lo smalto della sua conversazione infiorata di paradossi . Un giovane francese che a n d ò da lui a p r e n d e r e lezioni d ' i ta l iano, lo t rovò che «suonava il p i ano improvv i sando e cavando dal suo stru­m e n t o g i rando le di fuoco». Invece che alla l ingua, volle a tu t t i i costi iniziare al can to l 'allievo, sebbene quest i n o n avesse né voce né orecchio, «e c redo che ci sarebbe riuscito grazie al suo musicale a rdore e indomabile energia». Si am­mantava di mistero, ma facendo in m o d o che tutti se ne ac­corgessero e incuriosissero. C 'era insomma in lui anche un lato ciarlatanesco che gli attirava in ugual misura simpatie e diffidenze. Aveva la pass ione degli p seudon imi , dei docu-

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menti falsi, dei rifugi clandestini, dei segni di riconoscimen­to stregoneschi. Quan to all 'amore, fu tutt 'al tro che astinen­te. Dopo aver a b b a n d o n a t o la moglie p e r l ' amante lascian­dole a carico cinque figli di cui più n o n si curò - b u o n allie­vo anche in ques to del maes t ro Rousseau che i figli suoi li aveva messi all'ospizio -, lasciò anche l 'amante pe rché costei si rifiutava di p renderg l i in casa un 'a l t ra aman te . Il carteg­gio fra lui e queste d u e d o n n e n o n è privo di comicità n o n solo perché si svolgeva fra protagonist i che avevano tutti su­pera to la sessantina, ma anche pe r i l candore con cui Buo­n a r r o t i sosteneva la per fe t ta regolar i tà del ménage a t r e . «Mio caro - gli scrisse un amico che agiva da paciere fra lo­ro - , tu p r e t ende re s t i che u n a s ignora educa ta secondo le regole de l l 'Europa c o n t e m p o r a n e a accettasse di vivere co­me u n a m u s s u l m a n a del sesto secolo». La conclus ione fu che Buona r ro t i dovet te contentars i della terza aman te che lo seguì a Parigi, p u r r e s t ando con la seconda in r a p p o r t i epistolari fino alla fine dei suoi giorni, che scadde nel '37.

Il rilancio ideologico di Buonarro t i , a cui abbiamo assisti­to in questo d o p o g u e r r a , si p u ò capirlo. Egli è stato un as­ser tore di quel le is tanze sociali che oggi , specie in Italia, h a n n o preso un net to sopravvento su quelle nazionali scre­ditate dal fascismo. Ma il tenta t ivo di farlo a p p a r i r e come un g rande innovatore e anzi un precursore del marxismo, è goffo e ridicolo. Buonar ro t i è s empre r imasto al '93 , e non se ne mosse più, convinto che la Storia si fosse fermata lì, a Robespierre . Di Robespierre aveva un tale culto, che firma­va i suoi scritti col nome di lui, Massimiliano. Ma non gli so­migliava affatto, anzi ne rappresentava l'antitesi umana . Era esa t tamente il cont rar io del gelido asceta della ghigliottina che chiedeva agli altri di d iventare . Come tut te le c rea ture u m a n a m e n t e ricche, lo era anche di contraddiz ioni . I l suo s a n g u e si accendeva p e r le sofferenze de l l ' umani t à , ma quelle dei singoli, anche se amici suoi, lo lasciavano indiffe­rente . Sebbene Blanch gli attribuisca una «augusta malinco­nia», era rimasto giovane anche da vecchio, imparzialmente

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p r o n t o al l 'entusiasmo e alla collera. È curioso che molti lo descrivano d ' imponen te presenza. Risulta invece che misu­rava poco più d 'un met ro e sessanta. Ma por tava la testa leo­nina con tale piglio e maestà da sembrare un gigante.

Q u a n d o mor ì , l'influsso ch'egli aveva esercitato sulle so­cietà segre te i taliane e ra f in i to , come del res to e r a logico: egli n o n aveva r appresen ta to che un m o m e n t o della storia francese, che poteva interessare solo l'Italia di Napoleone e le sue sopravvivenze. Però aveva creato una pedagogia rivo­luzionaria, e n o n delle migliori. Proprio a lui la Carboner ia doveva i vizi che l'afflissero - la spregiudicatezza morale , gli a t t egg iamen t i mafiosi, le s t r u t t u r e an t i democra t i che , le buffonesche messinscene - cui Mazzini più tardi si ribellerà. Il pa r agone fra i d u e uomin i n o n regge . Anzi, n o n si p o n e n e m m e n o .

CAPITOLO VENTOTTESIMO

I C O S T I T U Z I O N A L I DI NAPOLI

I moti italiani del '21 cominciarono in Spagna. Qui , d o p o la parentesi napoleonica, il t rono era tornato ai Borbone, e su di esso sedeva F e r d i n a n d o VI I che, ol tre ad essere n ipo te dell 'altro Ferd inando , quello di Napoli , ne era anche gene­ro perché ne aveva sposato la figlia. Per lui, la Spagna si era dissanguata e aveva dissanguato Napoleone . E Ferd inando se ne sdebitò revocando la Costituzione che i francesi le ave­vano concesso. Nel gennaio del '20 egli dovette m a n d a r e un corpo di spedizione nell 'America del Sud, ch 'era ancora do­minio in gran par te spagnolo. Le t r u p p e concentra te a Ca­dice si a m m u t i n a r o n o ch iedendo la revoca della revoca, e la rivolta si p ropagò di colpo a tut to il Paese. Le Potenze della Santa Alleanza minacc iarono d ' in te rveni re . Ma pe r questo occorreva alle loro forze libero transito attraverso la Francia che lo rifiutò, e Fe rd inando dovet te acconciarsi alla limita­zione dei p rop r i poteri .

L'Italia rimase contagiata dall 'esempio perché da q u a n d o era diventata u n a galassia di Stati coloniali, si e ra abituata a vivere di r ipor to . Incapace di e laborare qualcosa di suo, non faceva che copiare i modelli stranieri. Quello spagnolo era il più congeniale alle popolazioni delle Due Sicilie un po ' pe r gli strettissimi vincoli che un ivano le d u e dinastie borboni ­che, un po ' pe r similarità di condizioni semifeudali, un po ' p e r c h é la rivolta d i Cadice aveva u n a v e n a t u r a ana rco ide che si confaceva pe r fe t t amente agli u m o r i del nos t ro Sud. Fu Napoli infatti a dare il segnale.

Vediamola un po ' da vicino questa rivolta, poiché essa il­lumina come meglio n o n si po t rebbe la fragilità dei regimi

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restaurati , ma anche i limiti, le insufficienze e la confusione mentale delle forze rivoluzionarie italiane.

Nella notte fra il 1° e il 2 luglio del 1820, un piccolo repar to di cavalleria di s tanza a Nola e c o m a n d a t o da un t e n e n t e Morelli, scese in piazza al gr ido: «Viva la libertà e la Costitu­zione!» e si mise in marcia su Avellino. Morelli era un carbo­naro , ma aveva agito per conto suo, stanco di aspettare dal­la sua setta degli ordini che n o n venivano. Dappr ima nessu­no si mosse al suo appello. Ma ad Avellino qualche centinaio di «cugini» si u n i r o n o al suo p lo tone a p p u n t a n d o sui cap­pelli la coccarda azzurra, nera e rossa della Carboneria .

Morelli aveva scelto come meta quella città perché lì ave­va il suo comando il generale Guglielmo Pepe. Pepe non era carbonaro . Ma era la personali tà più in vista di quegli uffi­ciali formatisi nell 'esercito di Mura t che, sebbene rimasti nei q u a d r i grazie alla politica di «amalgama» del Medici, vi si t rovavano a disagio. Egli aveva sempre avuto contatti con la Carboner ia , e negli ul t imi mesi aveva anzi cercato di con­certare con essa un piano d'azione c o m u n e sul tipo di quel­lo spagnolo . N o n c 'era r iusci to p e r c h é la Ca rbone r i a n o n aveva né un capo né un 'organizzazione capaci di u n a vera volontà politica. Come abbiamo già det to, sul suo originario t ronco giacobino, s i e ra innes ta to un po ' di tu t to , trasfor­m a n d o l a in un deposi to di scontentezze senza u n a precisa ideologia e sopra t tu t to senza q u a d r i d i r igent i . I l magg ior contr ibuto glielo dava infatti un ceto piccolo-borghese di uf­ficiali subalterni , sottufficiali, artigiani, mercant i , professio­nisti di provincia e pret i di campagna (ce n 'e rano parecchi), tra i quali non emergeva nessuna personali tà di rilievo. Ec­co perché , tratto il dado , Morelli si rivolgeva a Pepe. Cerca­va un capo.

Pepe n o n c'era: e ra a Napol i . Morelli pa r lò d u n q u e col colonnel lo De Concilj che lo sostituiva, m u r a t t i a n o anche lui. Non sapendo che pesci p r e n d e r e , De Concilj lo invitò a restar fuori della città in attesa del r i torno del Generale . Ma

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l ' indomani Morelli vi en t rò e gli affidò pubbl icamente il co­m a n d o dei suoi uomini , come se si trattasse di cosa già con­cordata. Dopo aver provocato la rivolta, il carbonaro ne af­fidava la d i rez ione al m u r a t t i a n o r i lu t t an te che forse lo avrebbe messo agli arres t i , se le t r u p p e della gua rn ig ione non si fossero mostrate totalmente solidali con gl'insorti.

So rp reso dagli avven iment i , i l gene ra l e aust r iaco Nu-gent, che comandava l'esercito borbonico, spedì contro i ri­belli un corpo d 'a rmata al comando di Carascosa. Ma anche Carascosa e ra mura t t i ano , e si limitò a p r e n d e r posizione, ma senza attaccare. Il colpo di grazia lo det te Pepe che, mes­so alla scelta fra sconfessare la rivolta o d iventarne il prota­gonista, preferì la seconda alternativa, mobilitò alcuni reg­g iment i della capi tale , e alla loro testa marc iò su Avellino pe r unirsi a De Concilj e Morelli.

Anche re Fe rd inando dovette scegliere: o la g u e r r a civi­le, o la Costituzione. Seguendo l 'esempio del suo o m o n i m o e nipote di Madrid , scelse la Costituzione, cioè s ' impegnò a concederla en t ro otto giorni. Gl'insorti r isposero che la sca­denza e ra t r o p p o lunga, visto che si t rat tava di ado t t a r e il testo spagnolo , già bell 'e p r o n t o . E il Re cedet te anche su questo cont rof i rmando il decreto di suo figlio Francesco, cui frattanto aveva riaffidato poteri di Vicario. Il bello è che, da quanto risulta, quella famosa Costituzione spagnola n o n l'a­vevano mai letta né lui né gli altri. Tutt i sapevano soltanto ch 'era considerata la più democrat ica fra quan te ne fossero state fin allora redat te .

Il 9 luglio i Costituzionali, come ormai gl'insorti si chiama­vano, sfilarono p e r le vie di Napol i fra b a n d e e b a n d i e r e . Apriva il cor teo lo s q u a d r o n e di Nola, r ibat tezzato «batta­glione sacro». A cavallo seguiva Pepe coi suoi reggimenti . In coda si affollava u n a marea di civili con la coccarda azzurra, ne ra e rossa: gli stessi carbonar i dovet tero essere stupiti di quella loro improvvisa molt ipl icazione. Fra i nuovi iscritti c'era lo stesso Vicario che, con tutti i Principi reali, assisteva alla sfilata da un balcone della Reggia agi tando il cappello

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con la coccarda. Ferd inando si e ra dato malato, ma ricevette Pepe e gli altri capi del movimento.

La rapidi tà e facilità di questo successo che n o n era co­stato u n a goccia di sangue, fece dfre agli osservatori stranie­ri nei loro rappor t i ch'esso era dovuto a una unanimità po­pola re d ' in tent i , di cui il pronunciamiento mil i tare era stato solo lo s t rumento . Tutto infatti sembrava a n d a r e pe r il me­glio. Fu costi tuito un nuovo gove rno , n u o v o pe r m o d o di d i re pe r ché vi figuravano tutti i vecchi nomi , m e n o quello di Medici: il solito Gallo, il solito Zurlo, il solito Ricciardi, il solito Campochiaro . I nuovi e rano solo quello di Carascosa, ministro della Guer ra , e di Pepe, comandan te dell 'esercito. Tradot ta in italiano, la Costituzione spagnola venne adotta­ta senza modifiche, e il Re giurò sul Vangelo di r ispettarla. Ma propr io a questo p u n t o cominciarono i guai.

Alla notizia della vittoria r ipor ta ta dagl ' insort i napole tani , a n c h e Pa l e rmo esplose , ma p e r tu t t ' a l t r i mot ivi . La città n o n si e ra rassegnata all 'abolizione de l l ' au tonomia siciliana e alla perd i ta del suo r ango di capitale che n o n coinvolge­va soltanto l 'orgoglio di campani le , ma si t raduceva anche in crisi economica e disoccupazione. Protagonis te della ri­volta furono infatti n o n la Carboner ia , ma le maestranze, co­me già e r a accaduto nel ' 73 . Per p lacarne la violenza, che immerse la città in un bagno di sangue, il genera le Naselli, l uogo tenen te del Re, si affrettò a concedere la Costituzio­ne . Ma questo n o n d isarmò affatto gl ' insorti che anzi l'ob­bl igarono a reimbarcarsi d o p o aver debellato e scacciato la guarn ig ione .

Fino a questo m o m e n t o c'era stata t ra loro una certa con­cordia perché il malcontento verso Napoli era condiviso da nobiltà, borghesia e p ro le ta r ia to . Ma ora che si t ra t tava di scegliere un p r o g r a m m a politico, si accorgevano che i loro fini e rano assai diversi e difficilmente conciliabili. La Costi­tuzione che volevano i nobili e ra quella siciliana del ' 12 che r ibadiva i loro privilegi e li r e n d e v a p a d r o n i dell 'isola. La

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Costituzione che volevano le maestranze era quella spagnola, che i privilegi li aboliva e il po t e r e lo affidava alla volontà popo la re . Di questo conflitto, la borghesia avrebbe po tu to diventare l 'arbitra. Ma, impaur i ta dalle violenze di piazza e abituata da sempre a vivere agli st ipendi e al r imorchio dei baroni , tentò di far fronte con loro in u n a Giunta provviso­ria di governo. Le maestranze scesero di nuovo pe r le strade, massacrarono d u e dei nobili più influenti, e istituirono u n a nuova Giunta composta di nove aristocratici e nove borghe­si, ma posti sotto il controllo dei p rop r i Consoli. A differenza di quella di Napoli, la rivolta di Palermo era d u n q u e di mar­ca p o p o l a r e con forti vena tu re di radical ismo giacobino. Ma, pe r mancanza di quadr i , era costretta ad affidarsi a uo­mini di altri ceti.

A questo motivo di debolezza, se ne aggiunse subito un secondo: la ren i tenza delle al t re città siciliane. Con la sola eccezione di Girgenti , n o n solo esse r imasero sorde all 'ap­pello di Palermo, ma vi si mos t ra rono ostili. Questo dissen­so era dovuto anzitutto al fatto che in queste città, e special­men te a Catania e a Messina, il ceto borghese era molto più forte che a Palermo e non si sentiva solidale con u n a rivolu­zione che n o n era ope ra sua e n o n lo vedeva protagonis ta ; eppo i alla rivalità di c ampan i l e . Nessuna di esse p o t e n d o aspi rare a l r a n g o di capitale, tu t te prefer ivano che ques ta restasse a Napoli.

A d o m a r n e la resistenza, Palermo inviò delle «squadrac-ce» che r iuscirono a pene t r a re a Caltanissetta e la misero a sacco. Ma Trapani e Siracusa le respinsero, men t r e nel con­t ado si accendeva la guerr ig l ia . In ques t ' emergenza , la Giunta spedì a Napoli una deputaz ione che si chiamava sici­liana, ma che in realtà era soltanto pa le rmi tana , compos ta pari te t icamente di nobili, borghesi e maestranze, pe r tratta­re un accordo, men t r e Napoli spediva a Palermo un nuovo Luogotenente , il pr incipe Ruffo, e un Generale , Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, che mosse su Palermo alla testa delle sue t ruppe . La Giunta decise di negoziare con lui, ma

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il popol ino scese in armi pe r le strade, e Pepe dovette aprir­si la s t rada a suon di cannona te . Nel f ra t tempo a Napoli la delegazione trattava, e alla fine raggiunse un accordo: il go­ve rno centra le riconosceva a Palermo il dir i t to di e leggere un pa r l amen to separa to che p e r ò avrebbe esercitato i suoi po te r i solo se la sua au tonomia fosse stata app rova ta dalle altre città e comuni siciliani. Nobiltà e borghesia palermita­ne accet tarono questi termini . Le maestranze, r imaste sole, r i nunz i a rono alla lotta. E il 6 o t tobre Pepe potè fare il suo ingresso in città.

Cinque giorni p r ima a Napoli si e ra inaugura to il p r imo pa r l amento di t ipo m o d e r n o , cioè autent icamente «rappre­sentativo», che l'Italia abbia avuto. Gli eletti e r ano ottanta­nove, di cui i nobili n o n raggiungevano la diecina. Il grosso era formato da professionisti, intellettuali, magistrati , possi­den t i e p re t i , cioè da borghes i . Q u a n t i fossero iscritti alla Carboneria , non si sa. Ma si trattava, dice Croce, «di vecchi o uomin i ma tu r i , che avevano cospi ra to t ra il '92 e il '99 , pa r t ec ipa to alla Repubbl ica , gue r r egg ia to e ammin i s t r a to nel Decenn io di Mura t , e o ra p r o c u r a v a n o di m a n t e n e r e quan to s'era acquistato, n o n solo dal p rop r io paese, ma dal­le p ropr ie persone». Di rivoluzionario quindi avevano poco, e lo d i m o s t r a r o n o q u a n d o si t ra t tò di ratificare l 'accordo raggiunto coi siciliani. Sicuri che Palermo era ormai isolata r i spe t to alle a l t re città isolane e che anche le Maes t ranze avevano perso il morden te , lo respinsero, r ich iamarono Pe­pe e al suo posto m a n d a r o n o un «duro», Pietro Colletta, con al t re t r u p p e di r inforzo. La resistenza pa l e rmi t ana s'illan­guidì. Ma s'illanguidì anche lo slancio rivoluzionario di tut­to il Mezzogiorno, che aveva sperato di r o m p e r e il centrali­smo dello Stato assoluto. Assoluto, lo Stato nuovo n o n lo era più. Ma il centralismo restava.

A Vienna , Met te rn ich aveva segui to lo svolgimento di queste vicende con molta inquie tudine . Ciò che lo preoccu­pava n o n e rano gli at teggiamenti del nuovo regime napole­tano, di cui aveva capito benissimo il carat tere «moderato»,

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ma la forza di contagio ch'esso poteva sviluppare sugli altri Stati italiani. U n a volta impiantata a Napoli, u n a Costituzio­ne liberale n o n vi si sarebbe fermata: l 'avrebbero voluta an­che a Milano, a Torino, a Firenze; e sarebbe stata la fine del dominio austriaco sulla penisola. Bisognava quindi estirpa­re quella pianta velenosa con un p ron to intervento. Questo era legittimato dai trattati del '15 che riconoscevano all'Au­stria u n a specie di tu te la sugli Stati i taliani. Ma sul p i a n o pratico l 'operazione presentava parecchie difficoltà.

Anzi tut to , quelle di politica estera. La Francia, che ora­mai aveva riacquistato il suo rango di g r a n d e Potenza, n o n era favorevole al reg ime costituzionale di Napoli, ma lo era ancora m e n o a l ra f forzamento del l ' inf luenza aust r iaca in Italia. Al t re t tanto ostile, pe r gli stessi motivi, e ra la Russia. Per l ' intervento era invece l ' Inghil terra, o pe r meglio dire il suo P r imo Ministro Cas t lereagh, conserva tore a r rabb ia to . Ma poi bisognava fare i conti anche con gli Stati italiani, e soprat tut to con quello Pontificio che avrebbe dovuto conce­d e r e l ibero t rans i to alle t r u p p e aus t r iache . N a t u r a l m e n t e anche il governo papal ino paventava il movimento costitu­zionale da cui si sentiva esso stesso minacciato. Ma n o n pa­ventava di meno l'Austria che al Congresso di Vienna aveva cercato di s t rapparg l i le Legazioni e po teva prof i t ta re di quel la spediz ione puni t iva su Napol i pe r r ioccupar le . In­somma, le opposizioni non mancavano. Per metter le a tace­re, n o n c'era che un modo : far sì che fosse la stessa Napoli, cioè il suo legit t imo sovrano - visto che i reg imi res taura t i n o n riconoscevano altra r appresen tanza - a r ichiedere l'in­tervento pe r motivi di o rd ine in terno.

Ques ta richiesta, Met ternich n o n ebbe neanche bisogno di sollecitarla. Ferd inando gli aveva già segretamente scritto che n o n vedeva l'ora di r innegare la Costituzione e per far­lo chiedeva l 'aiuto delle baionette austriache. Il Cancelliere convocò d 'urgenza pe r il 27 ot tobre (1820) i r appresen tan t i delle maggior i Potenze a Lubiana . Ci fu rono l u n g h e con­trattazioni dovute alle solite reciproche diffidenze e gelosie.

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Ma alla fine prevalse la tesi austriaca secondo cui l ' interven­to era legittimo là dóve si compivano riforme «illegali» (cioè cont ro l 'o rd ine costituito degli Stati assoluti) e che ques to era propr io il caso delle Due Sicilie (un'anticipazione, come si vede, del principio di «sovranità limitata» che oggi l 'Unio­ne Sovietica applica ai suoi Stati satelliti). E Ferd inando ven­ne invitato a presentarsi a Lubiana pe r chiar i re se la situa­zione del suo Regno rispondesse al caso previsto.

Governo e par lamento napoletani si t rovarono di fronte a una scelta in realtà assai difficile. N o n avevano combinato molto, in quei mesi, né come politica estera, né come politi­ca in t e rna . In un r a p p o r t o de l l ' ambasc ia tore inglese sta scritto: «Si occupano di tut to, fuorché del necessario. La set­t imana scorsa vi fu una lunga discussione, risoltasi in dispu­ta, pe r giudicare se Dio fosse o no il legislatore dell 'univer­so». Altri p rob lemi a s p r a m e n t e d iba t tu t i e r a n o se Napoli dovesse essere ribattezzata Pa r t enope e il Pa r l amen to n o n fosse da chiamare Cortes come in Spagna. Come sempre , co­me anche oggi, le sole rivoluzioni che gl'italiani sanno fare sono quelle dei nomi. Ora p e r ò si t rat tava di dec idere ben altro. Concedere al Re il passaporto per Lubiana significava rimettersi nelle sue mani pe rché solo alla sua parola le Po­tenze avrebbero creduto . Negarglielo significava la g u e r r a con esse.

Su Ferdinando, nessuno si faceva illusioni. La sua avver­sione a qualsiasi istituto costituzionale era nota, come lo era la sua infedeltà a qualsiasi g iu ramento . Ma n o n c'era alter­nativa: o fingere di credergli, o battersi. Ferd inando, già de­ciso al t radimento , m a n d ò al Par lamento un messaggio con cui s ' impegnava a d i fendere presso le Potenze la causa di una «Costituzione saggia e liberale», ma senza dire quale. 11 Par lamento gli chiese di precisare. E il Re precisò che allu­deva alla Costituzione vigente, cioè a quella spagnola. I Car­bona r i n o n e r ano persuas i , p r o p o n e v a n o di r if iutargli i l passapor to , e q u a n d o ques to invece gli fu accorda to , gli m a n d a r o n o una deputazione f in sulla nave che doveva con-

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dur lo a Trieste pe r r icordargl i la p romessa . «Pur acca' me véneno a r omp ' e bballe!» brontolò in dialetto il Re lazzaro­ne . E a p p e n a a r r iva to da L ivorno a F i renze , get tò la ma­schera rilasciando una dichiarazione in cui diceva che la Co­stituzione gli e ra stata estorta con la violenza e per tan to egli la sconfessava.

Per Met te rn ich , quel la d ich ia raz ione g iungeva a b u o n pun to . Francesi e russi ricominciavano a muovere obbiezio­ni all ' intervento, e il governo pontificio cercava a tutti i costi di sventar lo . Ma il Re lo legi t t imava col suo t r a d i m e n t o . Metternich se ne avvalse pe r lanciare al governo napoleta­no l'invito a sottomettersi senza condizioni ai voleri del So­vrano, sul quale tuttavia n e m m e n o lui si faceva illusioni. «E la terza volta - scriveva - che r imetto in piedi Ferd inando, il quale ha il malvezzo di r icadere s empre . Nel 1821 egli se­guita a c redere che il t rono sia un seggiolone su cui potersi sdraiare e dormire .» N e m m e n o in quei frangenti il Re laz­zarone aveva muta to pare re . Le uniche sue preoccupazioni anche a Lubiana, e rano la caccia di giorno e il «picchetto» a carte la sera. Non si curava n e p p u r e di sapere cosa succede­va a Napoli.

In real tà n o n vi succedeva g ranché . All 'arrivo del mini­stro Gallo, latore del messaggio di Metternich, i Carbonar i p r o p o s e r o la lotta a ol t ranza, ma l 'ebbero vinta sol tanto a parole . I l Principe Vicario dichiarò che suo p a d r e era stato cer tamente costretto a r innegare la Costituzione, ma che lui l 'avrebbe difesa anche con le armi, e impart ì l 'ordine di mo­bil i tazione. Ma si vide subi to ch 'esso cadeva nel vuo to . Il Par lamento sentiva di non «rappresentare» nulla: la g rande massa della popo laz ione e ra r imas ta del tu t to e s t r anea a l mov imen to costi tuzionale, come del resto e ra logico, visto che i ceti med i che ne avevano assunto l'iniziativa avevano mi ra to a u n a cosa sola: a costituirsi in g r u p p o di p o t e r e e casta privilegiata al posto della vecchia aristocrazia. C o m e nel '99, n e a n c h e stavolta n ien te era stato fatto pe r d a r e al nuovo regime un contenuto popolare e autent icamente de-

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mocrat ico. L 'emergenza por tava a galla tu t te le con t radd i ­zioni che lo minavano dalla nascita, e soprat tut to quella fra il central ismo della capitale e l ' au tonomismo della provin­cia. La Costituzione aveva coper to tutti questi contrasti so­ciali e municipal i , ma senza p u n t o risolverli, e qu ind i n o n poteva contare su nessuna concordia di voleri.

Ques ta condiz ione si rifletteva au toma t i camen te sull 'e­sercito. L'azione dei Carbonar i ne aveva minato la disciplina ed era servita soltanto ad al lontanare la t r u p p a dagli ufficia­li, quasi tutti murat t iani . A questo si e r ano aggiunte le riva­lità personali . Filangieri scrisse al generale Carascosa: «I ge­nerali napoletani non possono mor i re che pe r m a n o dei lo­ro soldati pe rché siamo arrivati a tal p u n t o che gli ufficiali, qua lunque grado abbiano, n o n r iusci ranno mai a vedere il nemico, neanche con un cannocchiale». Ma Carascosa non se ne diede per inteso perché il suo vero nemico n o n erano gli austr iaci , ma Pepe che aveva assun to i l c o m a n d o delle milizie provinciali reclutate pe r l'occasione.

Ciascuno di questi d u e general i redasse il suo p iano al­l ' insaputa e in c o n c o r r e n z a con l 'a l t ro. Carascosa assunse u n a posizione difensiva schierando p r i m a sul Garigl iano e poi sul Vol turno un esercito mut i la to dei suoi migliori re ­par t i , p r e c e d e n t e m e n t e m a n d a t i di gua rn ig ione in Sicilia. Pepe, u o m o di scarso carat tere ma di fervida fantasia, prese l ' iniziativa m u o v e n d o incon t ro a l gene ra l e F r i m o n t che scendeva dalla Lombard ia alla testa delle sue solide t ruppe e p e r s e g u e n d o il g randioso p r o g r a m m a di r agg iunge re la Romagna , sollevarla e accendere la g u e r r a in tu t ta l 'Italia settentrionale. O pe r lo m e n o così scrisse nelle sue Memorie. Ma già a Rieti fu bloccato dalle avanguard ie austriache che con pochi colpi di fucile misero in fuga i suoi raccogliticci repar t i . Tentò la resistenza ad Antrodoco, ma senza migliori r isultat i . Carascosa, dal can to suo, p e r evi tare la disfatta, evitò il combat t imento. E il 20 marzo gli austriaci en t ra rono a Capua quasi senza colpo ferire.

Il giorno p r ima il Par lamento, contagiato a sua volta dal-

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la diserzione e r ido t to a ventisei depu ta t i , votò la p ro tes ta redat ta da Poerio cont ro il r ipud io della Costituzione e de­cise il p r o p r i o agg io rnamen to , soave eufemismo di sciogli­men to . I lazzaroni appese ro sulla po r t a un cartello con la scritta «Affittasi», e corsero in piazza ad acclamare le t r u p p e austriache che en t r a rono in città il 23 .

CAPITOLO VENTINOVESIMO

I FEDERATI DI T O R I N O

Q u a n d o Metternich decise a Lubiana la spedizione punit iva contro Napoli, si p reoccupò del Piemonte. Per quel l ' impre­sa, le t r u p p e austriache avrebbero sguarni to la Lombardia , e questo poteva rappresen ta re pe r Torino una grossa tenta­zione. Non che diffidasse di Vittorio Emanue le che sapeva di sen t iment i ant iaustr iaci , ma legato c o r p o e a n i m a alla causa legittimista di cui l 'Austria era l'alta pa t rona . Ma an­che a lui poteva succedere ciò ch 'era successo a Ferd inando: di trovarsi pr igioniero di un movimento patriottico e liber­tario.

Ricevette informazioni rassicuranti, ma sbagliate. Il moto cost i tuzionale napo le t ano aveva acceso g rand i entus iasmi fra i Federat i che smaniavano d ' imitare i Costituzionali na­poletani e di cor re re in loro aiuto occupando la Val Padana e p r e n d e n d o gli austriaci fra d u e fuochi. I patrioti milanesi, con cui avevano strettissimi contatti , si dicevano pront i a in­sorgere pe r far causa c o m u n e con loro.

La p r ima avvisaglia del l 'uragano fu del tutto casuale. La sera dell ' I 1 gennaio (1821), molti s tudent i affollavano il tea­tro in cui recitava Carlotta Marchionni , una delle più famo­se attrici del t empo che r i t roveremo mescolata alla vicenda di Silvio Pellico. Qua t t ro di essi por tavano berret t i rossi con fiocco nero , i colori della Carboneria . All'uscita, la polizia li fermò. I giovani resistettero, altri ne accorsero, e ne nacque un grosso tafferuglio che si concluse con alcuni feriti e pa­recchi arresti.

L'indomani tutti gli s tudent i di Torino e molti professori espressero il loro sdegno p e r l 'accaduto, rec lamarono l'im-

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mediata scarcerazione dei fermati e, non avendola o t tenuta n e m m e n o con l ' intercessione del min is t ro de l l ' i s t ruz ione Balbo - il p a d r e di Cesare -, chiusero l 'Università e vi si bar­r icarono. Per sloggiarli, b isognò m a n d a r e la t r u p p a all'as­salto dell'edificio. Morti non ce ne furono perché gli ufficia­li avevano saggiamente fatto scaricare i fucili; ma le corsie dell 'ospedale si r i empi rono di feriti.

La polizia era r icorsa a quella d u r a repress ione pe r ché era convinta che gli s tudent i avessero agito, d ' accordo coi patrioti, in base a un piano rivoluzionario ben definito. Non era vero. Fra gli uni e gli altri n o n c'era nessuna collusione, ma l 'episodio la creò e con t r ibu ì a p rec ip i t a re gli avveni­ment i . Nei confronti delle vittime ci furono molte manife­stazioni di simpatia, e la più vistosa fu quella di Carlo Alber­to che m a n d ò loro dolci e dena ro e anzi, s tando a Brofferio, a n d ò addir i t tura a visitarli.

Tra i Federati, i pare r i e rano divisi. I più p ruden t i , come Balbo e Sclopis, sostenevano che non valeva la pena r icorre­re a l l ' insurrezione: p r i m a di tu t to pe r ché difficilmente sa­rebbe riuscita; eppoi pe rché , anche se fosse riuscita, avreb­be messo in crisi lo Stato r e n d e n d o g l i impossibile quel la gue r ra all'Austria che tutti invocavano. Fra poco, dicevano, Carlo Alber to sarebbe salito au tomat i camen te sul t r ono , e quella rivoluzione l 'avrebbe fatta lui, nel l 'ordine.

Leali monarchici , Santarosa e i suoi amici n o n e rano in­sensibili a questi a rgoment i , ma nello stesso t e m p o n o n vo­levano p e r d e r e la g r a n d e occasione del la spediz ione au­striaca con t ro Napoli . Da Milano g iungevano appell i sem­p r e più pressant i , e lo stesso Carlo Alberto si mostrava im­paziente. Egli si era messo d i re t tamente in contat to coi pa­trioti di quella città, che gli avevano manda to un loro emis­sario, il conte Pecchio, pe r p r e n d e r e accordi. Non si è mai saputo con precisione quali furono i reciproci impegni ; ma che ce ne fossero e che a Milano se ne parlasse abbastanza l iberamente, sembra accertato. C o m u n q u e , era tut to un sus­seguirsi d ' incontr i , un intrecciarsi d i proget t i , un parlot t ìo

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che teneva Tor ino in stato di t ens ione e r e n d e v a incom­prensibile l'apatia del Re.

Si e ra anco ra in ques ta fase, q u a n d o il caso ci mise lo zampino . Il 3 marzo, in seguito a u n a delazione, venne ar­restato alla frontiera il pr incipe Pozzo della Cisterna, un li­berale che si era stabilito a Parigi pe r sottrarsi all'asfissia del­la Restaurazione. In tasca gli furono trovati document i che compromet tevano molti Federati con cui era r imasto in con­tat to e lo stesso Carlo Alberto. La cosa fu subito r i saputa e anche i più esitanti, p e r sottrarsi al pericolo di venire coin­volti in quella faccenda che si annunziava clamorosa, si de­cisero all 'azione.

La sera del 6, Santarosa, Collegno, San Marzano e Lisio a n d a r o n o a palazzo Ca r ignano , dove li aspet tava Rober to D'Azeglio. Al Principe che li ricevette nella sua biblioteca, i congiurat i dissero che, fatta salva l ' incolumità personale del Re e della sua famiglia che n o n era n e m m e n o in discussio­ne , l ' indomani (o il dopodomani ) avrebbero sollevato i reg­gimenti di artiglieria e di cavalleria di stanza a Fossano, alla loro testa av rebbe ro marc ia to su Moncal ier i dove il Re si trovava con la Corte e che, approf i t tando anche dell'assenza di Car lo Felice, mol to p iù d u r o e r isoluto de l fratello, ma che in quei giorni si trovava con la moglie a Modena, avreb­b e r o impos to a Vit torio E m a n u e l e la Cost i tuzione e la di­chiarazione di gue r ra all'Austria.

Sulla risposta del Principe, la polemica n o n è ancora fini­ta fra gli storici del Risorgimento. Secondo Santarosa, egli a p p r o v ò il p roge t to e si d ichiarò p r o n t o a secondar lo . Se­condo Carlo Alberto e i suoi agiografi, egli dichiarò in tono indignato che non solo se ne dissociava, ma era fermamente deciso a schiacciare con le sue t r u p p e la ribellione, visto che di altro n o n si trattava.

Fra le d u e versioni, è molto più attendibile la pr ima, che gli altri qua t t ro par tec ipan t i n o n smen t i rono mai e che fu resa da Santarosa q u a n d o era già all 'estero e fuor di perico­lo, m e n t r e Carlo Alberto rese la sua nei p a n n i del l ' imputa-

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to, q u a n d o il Re lo accusò di fellonìa. Ma forse il referto più esatto è quello che si trova negli appun t i di Santarosa, stesi subito dopo l'intervista, e in cui è det to che il Principe «si ri­servò, come i l compi to p iù ada t to al suo r a n g o , quel lo di media tore fra gl'insorti e il Re». Questo non smentisce il suo consenso, ma lo sfuma e anche pe r questo somiglia molto di p iù al pe rsonaggio . Ch'egl i avesse d i sapprova to , come poi pretese e i suoi agiografi seguitano a p re t ende re , lo smenti­sce il seguito dei fatti.

Rimasto solo e resosi conto della terribile responsabili tà che aveva assunto , fu colto dallo sgomen to , t rascorse u n a notte insonne, e l ' indomani chiamò il Collegno e il San Mar-zano pe r dirgli che ritirava la sua parola (che d u n q u e aveva dato) e ingiungergl i di revocare gli o rd in i . Poi si pen t ì del p e n t i m e n t o , si l a m e n t ò che i cong iura t i lo avessero p reso sul serio e r ich iamò Santarosa e San Marzano . Costoro gli confermarono il p iano della sollevazione ma, avendo capito con che t ipo avevano a che fare, gliene t enne ro nascosta la data d icendo che n o n l 'avevano ancora stabilita. Invece l'a­vevano già fissata al 10; ma, viste le contraddizioni del Prin­cipe, decisero di r imandare .

Anche stavolta il caso fu più forte delle loro intenzioni . La matt ina del 10 giunse la notizia che il colonnello Moroz-zo di San Michele, n o n avendo ricevuto il con t ro rd ine , e ra par t i to da Fossano alla testa del suo r e g g i m e n t o . N o n e ra vero. Morozzo stava pe r farlo, q u a n d o ricevette il contrordi ­ne , ed era r imasto in caserma. Ma Santarosa e i suoi amici, c redendolo o rmai pe r strada, s i sent i rono mora lmen te im­pegnat i a n o n lasciarlo solo, e d iedero il via. Alessandria, ca­pitale della rivolta, issò sulla cittadella la band ie ra tricolore e insediò u n a «Giunta di Governo», m e n t r e Lisio e San Mar­zano sollevavano le guarnigioni di Pinerolo e di Vercelli.

Secondo i pat t i , Car lo Alberto avrebbe dovu to essere a Moncalieri pe r svolgervi la sua par te di media tore . E infatti c'era, ma pros te rna to ai piedi del Re pe r confessargli la sua tresca coi ribelli e chiedergliene p e r d o n o . Disorientato e at-

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terr i to, il Re r ient rò precipi tosamente a Torino, dove lo at­tendevano notizie peggiori : alle por te della capitale era già attestato un battaglione che sventolava u n a bandiera coi co­lori carbonar i e la scritta: «Viva il Re, gue r r a all'Austria!» Il Re a d u n ò un Consiglio che si mos t rò più i r resoluto di lui. Ma, dopo parecchie ore di t en tennament i e sotto l'incalzare di r appor t i sempre più al larmanti dalla provincia, si delineò u n a maggioranza favorevole alla concessione della Costitu­zione. E il Re stava pe r decidervisi q u a n d o sopraggiunse, di r i to rno da Lubiana, i l minis t ro degli esteri, con l 'annunzio che le Potenze alleate avevano affidato all'Austria il manda­to di ristabilire l 'ordine, cioè il r eg ime assolutistico in qua­lunque Stato italiano esso si trovasse in pericolo. La Costitu­zione quindi significava g u e r r a all'Austria, e ciò la rendeva impossibile.

D i spe ra t amen te , i l Re cercò un accordo coi ribelli, che dal canto loro vi si rifiutavano, convinti di avere la part i ta in p u g n o . I l mo to si e ra p r o p a g a t o p e r contagio e le t r u p p e costituzionali e rano ormai p a d r o n e di Vercelli, di Biella, d'I­vrea, di Vigevano. E p p u r e , c 'era qualcosa che avrebbe do­vuto metter l i sull 'avviso: la lati tanza delle masse opera ie e contadine. Gli entusiasmi libertari e rano condivisi solo dalla borghesia di città. Le fabbriche e le c ampagne vi restavano indifferenti, quando n o n addir i t tura ostili.

Tuttavia il moto, fra le t ruppe , si estendeva sotto l 'impul­so degli ufficiali, specie da capitano in giù. Il 12 d u e di essi, di stanza nella cittadella di Torino, ne sollevarono la guarni­gione, ucc idendo i l c o m a n d a n t e che o p p o n e v a resistenza. Anche sulla massiccia roccaforte dei Savoia sventolò il trico­lore. Smarr i to , il Re m a n d ò a pa r lamenta re con gl'insorti lo stesso Car lo Alberto, o ra p i eno di zelo assolutistico. Ma gl ' insort i gli ch iuse ro la po r t a in faccia, facendogli capire che ormai non avevano più in lui nessuna fiducia.

Sopraffatto dagli avvenimenti , Vittorio Emanue le ricon­vocò il Consiglio e gli a n n u n z i ò che in tendeva abdicare in favore del fratello tut tora a Modena, lasciando la Reggenza

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a Carlo Alberto. Quest i lo supplicò p i a n g e n d o di r ecedere dalla sua decis ione: la Reggenza in quei f rangent i lo sgo­mentava, e forse ancora di più era at terr i to dalla prospet t i ­va di trovarsi a t u p p e r t ù con Carlo Felice, di cui conosceva la durezza . Ma tu t to fu inutile. È probabi le che all 'abdica­zione Vit torio E m a n u e l e , che il Re n o n lo aveva mai fatto con entusiasmo, pensasse da un pezzo e che gli ultimi avve­niment i fossero stati solo la spinta decisiva. C o m u n q u e , die­de o r d i n e di p r e p a r a r subi to bagagl i e car rozze , e sul far della notte si avviò alla volta di Nizza. Prima pe rò volle rive­de re il bambinello che portava il suo nome , lo prese in brac­cio e disse alla m a d r e : «Spero che sia più fortunato di me». I vecchi gen t i luomin i , inginocchiat i , gli bac iavano la m a n o inondandog l i e l a di lacr ime, e n o n avevano tut t i i tort i . Di poca intel l igenza, d i p u n t a cu l tu ra , d i scarsa personal i tà , Vittorio E m a n u e l e n o n e ra stato un g r a n Re. Ma un g r a n ga lan tuomo, sì. Aveva assunto la corona senza desiderar la , l'aveva por ta ta come un pesante fardello, ligio ai doveri che gliene derivavano e che avevano fatto della sua vita u n a per­pe tua quaresima. Era stato, come quasi tutti i Savoia, un Re mal inconico, ma che s i e ra o n e s t a m e n t e p r o p o s t o i l b e n e dei suoi suddi t i , o p e r megl io d i r e quel lo ch 'egl i r i t eneva che fosse i l loro bene , e o ra se n ' andava a p p u n t o p e r n o n fargli del male o scatenando contro di loro una repressione violenta o i n g a n n a n d o l i con u n a Cost i tuz ione che n o n avrebbe po tu to m a n t e n e r e . Alla bassezza cui era sceso Fer­d inando di fingere di largirla pe r poi affidarne la revoca al­l'Austria, si rifiutò di arr ivare. Santarosa, che tanto lo aveva criticato, scrisse: «I nostr i cuor i identificavano t r o n o e pa­tria, anzi Vittorio Emanuele e patria. E i giovani p romotor i della rivolta avevano r i p e t u t a m e n t e esclamato. "Ci p e r d o ­nerà bene di averlo fatto Re di sei milioni d'italiani!"»

Per la rivolta quell 'abdicazione era un colpo mortale . Es­sa apriva una crisi dinastica di cui le Potenze n o n potevano disinteressarsi e gettava lo scompiglio del r imorso in molte coscienze soprat tut to degli ufficiali, ch 'e rano i veri protago-

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nisti del movimento. Jl p r imo a r isent i rne fu lo stesso Carlo Alber to che o ra , come Reggen te , avrebbe p o t u t o fare ciò che aveva sempre r improvera to a Vittorio Emanuele di non fare. Ai congiurati che lo assediavano badava a dire che non ne aveva i poteri . In realtà non ne aveva il coraggio. La no­tizia della par tenza del Re aveva r ichiamato davanti a palaz­zo Car ignano una g ran folla che reclamava la Costituzione forse senza ben sapere di cosa si trattasse. E siccome il Prin­cipe r ispondeva che ci voleva un voto formalmente espres­so, a fargliene esplicita r ichiesta v e n n e r o i Decur ion i che c o r r i s p o n d e v a n o p r e s s a p p o c o agli assessori del C o m u n e . Carlo Alberto chiamò a consulto i vecchi dignitari della Co­rona non t an to pe r ud i re la loro opin ione quan to p e r con­dividere con essi, legatissimi alla Corte , le p ropr i e responsa­bilità. Ma tutti convennero che bisognava inchinarsi alla vo­lontà popolare .

La sera del 13 Carlo Alberto firmò la carta costituzionale, e d u e g iorni d o p o p r o n u n z i ò su di essa il suo g i u r a m e n t o davanti a un' improvvisata Giunta Nazionale. Costituì anche un governo in cui Santarosa ent rò come ministro della guer­ra. Ma di gue r ra si rifiutò di discutere anche con gli emissari dei patrioti milanesi che subito e rano accorsi pe r concertare un'azione comune . Essi t rovarono un u o m o assai diverso da quello, infiammabile e gàrrulo , che avevano conosciuto fino a pochi mesi pr ima, si sent irono dire che con un Paese diviso e un esercito in pezzi alle gue r r e n o n c'era neanche da pen­sare, e furono bruscamente congedati . Il Principe era in pre­da a un profondo scoraggiamento, e Metternich dice di aver saputo che, q u a n d o era solo, era colto da crisi di pianto. Vi­veva nel t e r ro re di Carlo Felice, a cui aveva scritto u n a lunga le t tera pe r informar lo degli avveniment i e darg l iene una versione che metteva in risalto la sua innocenza. Ma, cono­scendo l 'uomo, non si faceva illusioni.

Dei c inque figli di Vittorio Amedeo , Carlo Felice e ra forse quel lo che p iù aveva stoffa di Re, ma n e m m e n o lui aveva

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mai aspirato a diventarlo. La sua lealtà nei confronti dei d u e fratelli che lo avevano p recedu to sul t rono era stata assolu­ta. A quattr 'occhi con loro e nel ristretto cerchio di famiglia, li aveva spesso criticati pe rché li trovava t r o p p o a r rendevo­li, ma aveva sempre scrupolosamente obbedito ai loro ordi­ni, anche q u a n d o gli andavano cont raggenio . Nel governo della Sa rdegna , che Vit tor io E m a n u e l e gli aveva affidato, aveva spiegato un t rat to ruvido, ma anche u n a notevole ef­f icienza. Nel suo assolutismo manicheo, n o n c'era posto pe r s fumature : pe r lui chi n o n era suddi to e ra fellone, e come tale andava trat tato. Nella repressione del br igantaggio sar­do , aveva avu to l a m a n o pesan te ; ma mol to p iù pe san t e avrebbe voluto averla coi piemontesi che avevano solidariz­zato con la Francia. Verso di essi nutr iva un rancore profon­do , che d iventava a d d i r i t t u r a ossessivo nei confront i de ­gl ' intellettuali. «Tutti quelli che h a n n o s tudiato all 'Univer­sità sono corrott i» scriveva al fratello nel suo francese lar­dellato di pittoreschi oltraggi all 'ortografia e alla sintassi. «I cattivi sono tutti pe r sone colte, e i buon i son tutti ignoran­ti». Aveva preso in uggia anche De Maistre, il fedelissimo sa­voia rdo , p e r c h é - diceva - «ha la testa confusa da t r o p p e idee». Inflessibile con tutti , a cominciare da se stesso, aveva avuto u n a sola debolezza sentimentale: quella pe r il suo più giovane fratello, i l Con te di Mor iana , pe r i l qua le nu t r iva un t r e p i d o a m o r e p a t e r n o . La m o r t e del ragazzo, ucciso dalla malaria in Sardegna, era stata pe r lui u n a tragedia, di cui le sue sgrammaticate let tere forniscono un patetico do­cumento . Al mat r imonio con Maria Cristina di Borbone , f i­glia del Re di Napoli, si era piegato pe rché gliel 'avevano im­posto nella speranza - poi delusa - di fornire un cont inua­tore alla dinastia; ma un po ' di resistenza l'aveva fatta dicen­do che non aveva soldi pe r man tene re u n a famiglia, ed era vero. N o n aveva soldi anche perché n o n li desiderava: i suoi gusti e r a n o quelli di un fattore di c a m p a g n a o di un guar ­dacaccia, ma p e r fo r tuna Maria Cris t ina li condivideva , e questo fu il cemento della loro felice un ione . Q u a n d o torna-

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r o n o a Torino ci vissero appar ta t i un po ' pe r allergia alla vi­ta di Corte e alle sue cerimonie, ma forse ancora di p iù pe r il rancore che Carlo Felice seguitava a nu t r i re nei confronti di un m o n d o che, salvo ra re eccezioni, si e ra macchiato del del i t to , ai suoi occhi inespiabi le , di col laborazionismo coi francesi.

È facile capi re qua le avvers ione provasse p e r Car lo Al­ber to , che il collaborazionismo lo aveva nel sangue a titolo, diciamo così, ereditar io, come figlio di un Principe che ave­va r i nnega to le p r o p r i e ascendenze sabaude f ino a l p u n t o di arruolarsi sotto le band ie re del nemico della dinastia. E il c o n t e g n o del ragazzo n o n e ra stato c e r t a m e n t e tale da smontare le sue prevenzioni . Da un u o m o educato in colle­gi svizzeri e francesi e che preferiva gl'intellettuali ai sergen­ti e ai marescialli d'alloggio, n o n c'era da aspettarsi nulla di b u o n o . E forse il vero motivo della sua par tenza da Torino alla vigilia della rivolta non era stato il desiderio d ' incontra­re a M o d e n a i l suocero Fe rd inando che to rnava da Lubia­na, ma quello di allontanarsi da una Corte in cui i l suo naso avvertiva sempre più un gran puzzo di zolfo liberale. Se fos­se al cor ren te di ciò che si preparava, n o n si sa. Ma che qual­cosa si p repa ras se doveva averlo senti to, e n o n voleva t ro-varcisi mescolato.

O r a i fatti gli d a v a n o rag ione . Egli ne sapeva già abba­stanza, q u a n d o lo scudiere Costa venne a recapitargli la let­tera di Carlo Alberto. Dopo averla letta, Carlo Felice gliela lanciò sul viso ing iungendog l i di n o n ch iamar lo «Maestà» p e r c h é l 'abdicazione di suo fratello, disse, e s sendo stata estorta con la violenza, era da considerare nulla. Poi aggiun­se: «Riferite al Principe che, se nelle sue vene c'è ancora una goccia del nos t ro sangue reale , p a r t a subi to pe r Novara e a t tenda là i miei ordini». Come risposta alla sua lettera, stilò un p roc lama ai suddi t i in cui diceva che la Reggenza non aveva fondamento in quan to il Re era tu t tora in carica. Ma da Modena non si mosse.

Nel leggere quel bando , Carlo Alberto fece al povero Co-

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sta la stessa scenata che poco p r ima gli aveva fatto Carlo Fe­lice. Il Pr inc ipe i m p r e c ò con t ro il Re, minacciò di passare nel c a m p o dei ribelli; ma poi , come sempre gli capitava, si lasciò soverchiare dallo s co ramen to , e decise di obbed i re , ma con la consueta doppiezza . T e n n e nascosti agl ' insort i i preparat ivi pe r la par tenza, anzi convocò pe r l ' indomani un consiglio dei ministri , e d u r a n t e la not te , alla testa di un reg­gimento di cavalleria, si avviò verso Novara, una città desti­nata a segnare le t appe più d rammat iche della sua carriera. Di lì e m a n ò un proclama con cui r inunziava alla Reggenza, invitava tutti a sottomettersi senza riserve al nuovo Re, e ne det te l 'esempio p a r t e n d o pe r Firenze, dove frattanto Carlo Felice gli aveva ing iun to di r i t irarsi . Passando da Modena , chiese di vede re i l Re, ma quest i si rifiutò di r iceverlo. In quel m o m e n t o sembrava che mai più egli sarebbe salito sul t rono dei Savoia.

A Torino, la diserzione di Carlo Alberto aveva get tato lo sgomento tra i Federati , che frattanto avevano costituita u n a Giunta . L'unico a reagirvi e r a Santarosa con energ ia e co­raggio ammirevoli . L'insurrezione dava ancora segni di vita­lità. A Genova il popo lo t u m u l t u a n t e aveva cacciato il Go­vernatore e istallato un nuovo governo. Perfino la conserva­trice e fedelissima Savoia si muoveva. Ma a raggelare questi entus iasmi g iunse ro le catastrofiche notizie di Napol i : l 'e­sercito in rotta, il regime costituzionale abbattuto, l'assoluti­smo r ipr is t inato . E c 'era anche di peggio: il genera le de la Tour, cui Car lo Felice aveva conferi to i p ieni po te r i , stava raccogliendo a Novara i repar t i fedeli.

N e m m e n o questo bastò a scoraggiare Santarosa, che al­l'offerta fattagli di un certo n u m e r o di passaport i p e r lui e i suoi c o m p a g n i p iù compromess i , r i spose a d u n a n d o a sua volta le t r u p p e federa te , p r o n t o a n c h e alla g u e r r a civile. Egli ignorava che Carlo Felice aveva fatto appello ag l ' Impe­ratori d 'Austria e di Russia pe rché , d o p o Napoli , venissero a r imet tere l 'ordine anche a Torino: non credeva che un Sa­voia potesse scendere al livello di un Borbone.

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Le t r u p p e federa te a v a n z a r o n o su Nova ra col fucile in spalla p e r c h é Santa rosa aveva o rd ina to di fare i l possibile p e r evitare i l sangue . Stavano p e r occupare pacificamente San Mart ino, q u a n d o si videro p iombare addosso la cavalle­ria austriaca. La sorpresa si t rasformò in panico, e il panico in rotta.

Il 9 apri le Santarosa r iun ì pe r l 'ult ima volta la Giunta e le p r o p o s e il t ras fer imento a Genova p e r ten tarv i l 'ul t ima resistenza. Ma la Giunta si rifiutò e preferì sciogliersi. I p ro ­motor i della rivolta cercarono scampo sui valichi alpini, chi verso la Svizzera, chi verso la Francia. I p iù prefer i rono pas­sare l 'Appenn ino nella spe ranza che Genova fosse ancora nelle man i dei loro amici. Invece la città aveva già r inunzia­to alla lot ta e p r e g a t o il G o v e r n a t o r e di r i p r e n d e r e il suo posto. Costui si most rò comprensivo verso i profughi e rila­sciò loro i passapor t i p e r e m i g r a r e . Anche la popolaz ione indisse ques tue pe r aiutarli. A da re il suo obolo ci fu anche un ragazzo dal volto pallido e dallo sguardo triste: Giusep­pe Mazzini.

In Piemonte gli austriaci di lagavano, e il Re n o n si face­va vede re . Era r imas to a M o d e n a di dove aveva m a n d a t o un proc lama minaccioso e a r rogan te : «Nessuna indulgenza pe r le cose passate, nessuna speranza di meglio pe r l'avve­nire , e guai a quel suddi to che si p e r m e t t a p u r soltanto di mormora re» . Gli stessi austriaci ne furono costernati , proi­b i r o n o ai lo ro giornal i di r i p r o d u r r e que l b a n d o e fecero pressioni su Vittorio Emanue le , rifugiatosi a Nizza, pe rché tornasse sul t rono . Anche Carlo Alberto gli scrisse in questo senso, ma Vit tor io E m a n u e l e fu i r removib i le e confe rmò l 'abdicazione.

Carlo Felice aveva delegato tutti i poter i al conte T h a o n di Revel e affidato il castigo a un t r ibunale speciale, che in t renta torna te p ronunc iò settanta condanne a mor te - di cui d u e sole eseguite perché gli altri e rano già in salvo -, e mol­te a l t re alla p r ig ione . Ol t r e t r ecen to ufficiali e a l t re t tan t i funzionari civili venne ro epura t i , le Universi tà di Tor ino e

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Genova chiuse p e r un a n n o , mol te ca t t ed re aboli te. I l Re era ta lmente indignato che n o n voleva n e m m e n o r ien t ra re a Torino. Vi to rnò controvoglia solo a metà ot tobre , ma né allora né mai volle più m e t t e r e p i ede n e l l ' a p p a r t a m e n t o reale, dove si era compiuto «l'orribile crimine» dell 'attenta­to alla «piena possanza» del Re, e ai Decurioni che gli por ­gevano il ben to rna to rispose che i torinesi si p reparasse ro «a r i pa r a r e col loro perfe t to suddit izio a t t accamento e col loro zelo pe r il servizio del Re allo scandalo che p u r t r o p p o un n u m e r o di scellerati h a n n o commesso fra le sue mura». Dopod iché par t ì p e r Genova e vi si t r a t t e n n e t an to da far cor re re la voce che intendesse trasferirvi la capitale.

Con Carlo Alberto n o n volle aver più r appor t i . N o n ri­spose alle sue implorant i let tere e p ropose a Metternich di escluderlo dalla successione, des ignandovi d i r e t t amen te i l figlioletto. Sembra che questo disegno gli sia stato suggerito dal Duca di Modena che, come mar i to della f igl ia di Vitto­rio Emanue le , n o n aveva mai cessato di aspirare al t rono di Torino e forse sperava di trovare con u n a Reggenza la stra­da pe r arrivarci. Ma Metternich che di Francesco, p e r quan­to di sangue austr iaco, diffidava p iù che di Car lo Alber to , forse perché lo sapeva più intelligente e spregiudicato, de­clinò. Al Congresso di Verona, dove le g rand i Potenze tor­n a r o n o a r iunirs i l ' anno d o p o , fu rono decisi i l r i t i ro delle t r u p p e austr iache dal Piemonte e la conferma dei diritti di Carlo Alberto alla successione.

Pochi mesi pr ima, Napoleone era mor to a S. Elena.

CAPITOLO TRENTESIMO

Q U E L L I DELLO SPIELBERG

Sullo scorcio del '20, q u a n d o la polizia del Lombardo-Vene­to a b b a n d o n ò i criteri di tolleranza che aveva fin allora se­guito, un n o m e cominciò a circolare su tut te le bocche, p ro ­nunciato con un misto di rispetto, di p a u r a e di odio: quello del l ' Inquis i tore Antonio Salvotti. I patr iot i lo d ip ingevano come un r innega to senza scrupoli , che so t toponeva gl 'im­puta t i a ogni sorta di t o r tu re pe r s t rappargl i le confessioni al solo scopo di mettersi in b u o n a luce presso il governo im­periale e di far carriera.

I documenti non lasciano dubbi sull'infondatezza di que­ste voci. Salvotti e ra un magistrato t rent ino che si e ra messo al servizio dell 'Austr ia pe rché nell 'Austria ci c redeva , cioè credeva nei sistema politico di cui l'Austria rappresentava il puntel lo e la garanzia. Secondo qualcuno vi spiegò zelo per farsi p e r d o n a r e di essere stato massone. Ma Salvotti aveva a p p a r t e n u t o alla Massoner ia q u a n d o ques ta era g u a r d a t a con favore anche dai regimi assolutisti, molti dei loro coro­nati titolari vi e rano iscritti, e come costoro l'aveva abbando­nata quando era diventata s t rumento delle ideologie r ivolu­zionarie. Il suo vero torto era di assolvere i suoi compiti con grandiss ima compe tenza e accortezza; il che tut tavia n o n gl ' impediva di mostrare i dent i anche ai suoi colleghi e supe­r iori austriaci q u a n d o cadevano in qualche eccesso o arbi­trio. Bell 'uomo, gran signore e dotato di poderose armi dia­lettiche, non rinunzia va a dire il fatto suo a chiunque, anche a l l ' Impera to re , q u a n d o gli capitava a t i ro. Molte delle sue stesse vittime gli tes t imoniarono la loro ammiraz ione rima­n e n d o dal carcere in affettuosi rappor t i epistolari con lui.

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Il processo che lo mise in luce fu quello a carico di t ren­taquat t ro carbonari , fra cui alcuni nobili e t re sacerdoti, ar­restati nel '19. A fare i loro nomi era stato il capo della ven­dita a cui appar tenevano , Villa. Costui n o n era un t radi tore; 10 diventò pe r debolezza sotto l ' interrogatorio, in cui spiat­tellò tut to e giunse perfino a offrirsi come informatore della polizia. Dal carcere in cui si t rovarono rinchiusi, ma da cui po t evano c o m u n i c a r e con l ' es te rno , gli altri r iusc i rono a fabbricarsi degli alibi con le t te re r e t r o d a t a t e . Ma Salvotti glieli s m o n t ò , e l i condusse u n o p e r u n o alla confessione. Non si p u ò infierire contro questi uomini che pagarono con la galera le loro colpe. Ma n o n si p u ò n e m m e n o dissentire dal giudizio poco benevolo che, forse anche pe r aiutarli, ne dette il Salvotti scrivendo nel suo r appor to finale che di quei cong iura t i l ì n o n c 'era r ag ione di aver p a u r a . I l t r ibuna le tuttavia n o n ne t enne conto e p ronunc iò ben otto c o n d a n n e a mor te , che poi l ' Impera tore commutò in carcere d u r o . Po­chi mesi d o p o , un dec re to p r o c l a m ò l ' a p p a r t e n e n z a alla Carboner ia reato di alto t rad imento passibile della pena ca­pitale.

Nel l 'o t tobre di quello stesso a n n o 1820, la polizia trasse in a r r e s to un a l t ro indiziato, lo s t u d e n t e di musica Pie t ro Maroncelli. Costui aveva già conosciuto la pr igione nella sua Forlì che appar teneva agli Stati della Chiesa, e se l 'era cava­ta con l'esilio perché le autori tà papal ine si e rano fatte di lui la stessa op in ione che Salvotti si e ra fatta di Villa e compa­gni. Sebbene t raumatizzato da quel l 'avventura , a p p e n a ar­rivato a Milano n o n solo si era rimesso a cospirare, ma ave­va a t t ra t to nella Carboner i a anche un al t ro giovane di cui era diventato g r a n d e amico: Silvio Pellico.

Silvio Pellico e ra un intel le t tuale p i emon tese che aveva abbandona to Tor ino pe r sottrarsi alla sua asfissiante a tmo­sfera. A Milano aveva conosciuto Foscolo, di cui era da sem­pre un fervente ammira tore e n 'era diventato pra t icamente 11 segretar io . Un g iorno gli aveva dato in visione il testo di u n a sua t ragedia , la Francesca da Rimini, in cui c ' e rano an-

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che, stivatici un po ' a forza, degli altisonanti appelli alla pa­tria. Foscolo l i aveva apprezzat i , ma n o n aveva apprezza to tut to il resto, e gli aveva consigliato di met te re quel d r a m m a nel cassetto e di n o n pensarci più.

Mortificato nelle sue ambizioni, ch 'e rano sproporzionate ai suoi talenti, e convinto di aver scritto un capolavoro, Pel­lico vi aveva appor ta to qualche ritocco e poi lo aveva dato in l e t tu ra alla p iù g r a n d e at t r ice del t e m p o , Car lo t ta Mar-ch ionni , che lo aveva r a p p r e s e n t a t o . C o n t r a r i a m e n t e alle previsioni di Foscolo, ma senza che questo infirmi il suo giu­dizio, e ra stato un g r a n d e successo, che aveva dato all 'auto­re un ' improvvisa notorietà.

Carlotta conviveva con u n a cugina, Teresa, che pe r que­sto tutti c redevano sua sorella e che era corteggiata da Pelli­co, m e n t r e Carlot ta e ra cor teggiata da Maroncell i . Fu così che i d u e s ' incontrarono e l 'uno attrasse l 'altro nella cospi­raz ione . Pellico, che vi e r a p red i spos to dalla sua fede pa­triottica e democratica, vi si bu t tò a capofitto con piena fidu­cia nel suo inizia tore che n o n ne mer i tava mol ta : n o n già pe r la sua disonestà - anche se in seguito gliene fu attribui­ta -, ma pe r la sua avventatezza e faciloneria. Lo dimostra il fatto che, q u a n d o lo a r res tarono, gli t rovarono addosso del­le car te che comprome t t evano i r r epa rab i lmen te parecchie altre persone , fra cui anche il Pellico.

Questi , nei pr imi in terrogator i , si difese bene . Ammise di conoscere Maroncelli, ma negò di aver parlato con lui di po­litica. Q u a n d o gli ch iesero p e r c h é fra loro si ch i amavano «cugini», ch 'era la qualifica con cui ci si riconosceva tra car­bona r i , r ispose che s i t ra t tava di un ant ic ipo di pa ren te la , visto che in t endevano sposare d u e cugine . P u r t r o p p o , dal canto suo, Maroncelli aveva ceduto e confessato la sua affi­l iazione alla setta, i m p e r n i a n d o la p r o p r i a difesa sul fatto che la Carboner ia romagnola non solo non e ra ostile all'Au­stria, ma anzi auspicava l ' anness ione del la R o m a g n a al Lombardo-Veneto austriaco.

Tuttavia, grazie alla sua ferma condotta, Pellico stava pe r

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cavarsela, q u a n d o l ' Impera tore , che quelle vicende le segui­va di persona, o rd inò che l ' istruttoria fosse affidata a Salvot­ti. In d u e in t e r roga to r i , quest i fece capi to la re Maroncel l i che f inì con l ' ammet te re tut te le p rop r i e colpe coinvolgen­dovi un certo Canova che, a sua volta in terrogato , confermò la complicità del Pellico. Costui, messo di fronte alle deposi­zioni firmate dagli altri due , si perse d 'an imo, r iconobbe di aver agi to da emissario della setta in Liguria , e fece anche altri nomi . Fu u n a frana. Maroncelli , nel leggere quelle di­chiarazioni , ve ne agg iunse d i n u o v e . Sicché, in m e n che n o n si dica, Salvotti ebbe in m a n o tut t i gli e sponen t i della cospirazione. Alcuni, avvertiti in t e m p o , si misero in salvo con la fuga, come il conte Porro Lamber tenghi , g r a n d e ami­co e pro te t tore di Pellico che fino all 'ultimo ne tacque il no­me. Ma tutti gli altri vennero arrestati , fra cui, nonostante il suo alto prestigio e la vene randa età, il p iù g r a n d e giurista del t empo , Domenico Romagnosi . Questi tuttavia, a p p u n t o p e r c h é giur is ta e n o n o s t a n t e gli acciacchi, fu l 'unico che seppe tener testa a Salvotti n e g a n d o tut to e o p p o n e n d o ar­g o m e n t o ad a rgomen to . Siccome a denunz ia r lo era stato il Pellico, chiese un confronto con questo «chiacchierone au­tore di cattive tragedie». E Pellico, inorr idi to all 'idea di t ro­varsi di fronte alla sua vittima, r i t rat tò. Un altro che riuscì a cavarsela fu l 'Arr ivabene, nel cui cassetto era stata t rovata u n a let tera che diceva: «Monti ha scritto un inno p e r l ' Im­pera tore , che è sotto i torchi. Bada bene: è sotto i torchi l'in­no, n o n l ' Impera tore , pe r nostra sventura».

Il processo si concluse con la condanna a mor te del Pelli­co, del Maroncelli e del Canova, con quella al carcere per ­p e t u o di altri d u e impu ta t i e con l 'assoluzione del Roma-gnosi e de l l 'Arr ivabene . Poi, come al solito, i n t e r v e n n e la grazia e la pena capitale fu commuta ta nel carcere a vita nel­la fortezza dello Spielberg. Prima del trasferimento, Maron­celli invocò da Salvotti un attestato che lo dichiarasse «puro d 'ogni infamia», e Salvotti glielo rilasciò «per quan to v'è di p iù sacrosanto». Voleva giustificarsi presso i compagn i che

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10 consideravano u n o spregevole delatore. E Pellico, ch 'era quel lo che più aveva di che dolersi di lui, d iede l 'esempio del p e r d o n o anche p e r c h é aveva anch 'egl i parecchie cose da farsi pe rdona re .

Fra le p i eghe di ques to processo era compar so a un cer to pun to , in qualità di agente provocatore, un certo Carlo Ca-stillia che, oltre alle attività carbonare , aveva segnalato in un suo r appor to alla polizia quelle dei patrioti lombardi che nel '21 avevano sollecitato l ' intervento p iemontese in Lombar ­dia. Fra i denunziat i c 'era anche il fratello del denunzia tore , Gaetano.

A quel r appo r to lì pe r lì le autori tà austr iache non aveva­no da to mol ta i m p o r t a n z a forse p e r c h é ne conoscevano l 'autore e, p u r servendosene, lo disprezzavano. Ma poi do­vettero esserci altre segnalazioni che condussero all 'arresto di Gae tano . Forse su di lui n o n p e n d e v a n o che gener iche accuse di liberalismo. Ma il marchese Pallavicino-Trivulzio, suo g rande amico, si precipitò alla polizia e, per scagionare 11 Castillia, dichiarò ch 'era stato lui a condur lo seco nella sua missione in Piemonte pe r recapi tare a Carlo Alberto la lette­ra del conte Confalonieri.

Impetuoso , avventato e anche un po ' esibizionista, è pro­babile che Pallavicino avesse agito così solo pe r generosità e cavalleria. Ma il suo odio pe r Confalonieri p u ò anche auto­rizzare ipotesi meno benevole. C o m u n q u e , le sue dichiara­zioni fornirono alla polizia il bandolo di u n a matassa che fin allora si era sforzata invano di d ipana re . Dei r appo r t i fra i pa t r io t i l omba rd i e p i emon tes i e del le loro collusioni nei moti del ' 2 1 , essa aveva subodora to qualcosa, e p r o p r i o su Confalonieri i suoi sospetti si appun tavano ; ma n o n era mai riuscita ad a p p u r a r e nulla di preciso. La spontanea confes­sione di Pallavicino le offriva u n a insperata traccia.

Lasciato l ibero lì p e r lì, Pallavicino fu a r r e s t a to la sera dopo a teatro, e sotto gl ' interrogatori si dimostrò u o m o ben diverso da come si e ra p re sen ta to con quella spavalda au-

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toaccusa. Crollò subito, disse tut to quel che sapeva, e pu r ­t r o p p o sapeva mol to . In d u e giorni l ' inquirente po tè rico­s t ruire tu t ta la t r a m a della cospirazione, di cui da mesi ri­cercava inut i lmente le fila. E queste fila r iconducevano tut te allo stesso protagonista: Federico Confalonieri.

Confalonier i a p p a r t e n e v a a quell 'ar is tocrazia mi lanese che da t e m p o si e ra alleata alla borghesia cond iv idendone lo spirito imprendi tor ia le . Ins ieme a Porro Lamber t engh i , aveva dato avvìo ad alcune fra le migliori iniziative agricole e industriali lombarde , e si era dimostrato anche un abilissi­mo u o m o d'affari. Pol i t icamente , e ra s e m p r e stato d ' idee avanzate ma piuttosto instabili e talvolta avventurose. I ne­mici lo accusavano di aver istigato la folla al massacro di Pri­na, tanto ch'egli si e ra visto costretto a scrivere un memoria­le in p ropr i a difesa. In realtà si trattava di responsabilità in­diret ta . Confalonieri aveva capeggiato i d isordini con t ro il viceré Eugen io con cui n o n aveva mai voluto col laborare : sperava di conservare il Regno Italico senza di lui, e ra an­dato a Parigi a pe ro ra re questa causa presso i r appresen tan­ti delle Grand i Potenze, e q u a n d o si era accorto che questa era ormai pregiudicata , se l 'era r ipresa con coloro che ave­vano r i tardato la missione, dimenticandosi che a boicottarla e ra stato p r o p r i o lui pe r t imore che andasse a profit to del Viceré . Ma lg rado il g r a n n o m e , la bella p re senza e le alte qualità intellettuali, n o n era amato. Gli r improveravano un ca ra t t e re altezzoso, u n a l ingua tagl iente e un ' ambiz ione smodata. Ad amar lo riusciva soltanto sua moglie, Teresa Ca­sati, ch'egli t rascurava pe r co r re r d ie t ro alle sue avventure galant i . Forse ai cangevoli u m o r i che r e n d e v a n o difficili i r appor t i con lui contribuiva anche il male da cui era affetto fin dalla nascita: l'epilessia.

Dei sospett i che g ravavano su di lui e dei pericoli che correva, lo avevano avvertito. La sera che precedet te il suo ar res to , i l Feldmaresciallo austr iaco Bubna, incon t rando lo pe r strada, gli disse: «Conte Confalonieri, avevo sognato che foste in Svizzera». Ma Federico si era rifiutato di mettersi in

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salvo c o n s i d e r a n d o la fuga un gesto i n d e g n o d i un u o m o come lui. La ten tò solo q u a n d o i g e n d a r m i bussa rono alla sua porta , ma ormai era t roppo tardi.

Fin dal p r i m o in te r roga to r io capì che Pallavicino e Ca-stillia avevano ormai fornito tutti gli e lement i della congiu­ra ordi ta coi Federati piemontesi , molto più grave di quelle ca rbona re . Ma negò tu t to con sdegnosa fermezza d icendo che Castillia e ra «plagiato» da Pallavicino, che a sua volta era soltanto un visionario i rresponsabile . E grazie a questo fermo contegno, l ' istruttoria s'insabbiò. Ma a questo p u n t o l ' Impera tore , che come al solito seguiva il caso di persona e si e ra convinto ch'esso «fosse pe r diffondere sui moti rivolu­zionari in Italia u n a luce ben maggiore di quan to avevano fatto le inconcludent i inquisizioni delle autor i tà p i emon te ­si», affidò il pr ig ioniero a Salvotti. E le cose p rese ro subito u n a diversa piega.

Dalla negat iva assoluta, Confalonier i passò alle ammis ­sioni che in questi casi sono come le ciliegie: u n a tira l'altra. Dalla sua bocca cominciarono a uscire i nomi di alcune per­sone, che na tu ra lmente vennero subito arrestate, si t rovaro­no fra loro in flagrante contraddizione e fecero a loro volta altri nomi . Fra tut ta questa gente ci fu chi seppe tacere, co­me il Mompian i e il Felber. Ma ce ne furono anche che, in p r e d a al t e r ro re , vuo ta rono il sacco e forn i rono all'abilissi­mo inquisi tore tut te le connessioni di u n a tresca che aveva messo profonde radici anche a Brescia e a Mantova.

L 'a t teggiamento di Confa lonier i lascia perpless i . Forse nel t imore che altri lo avesse già det to , confessò di aver ri­volto a Car lo Alberto l 'invito d ' in te rveni re a Milano e anzi fornì tut t i i det tagl i dei colloqui che aveva avu to con San Marzano. Cercò di spiegare che lo aveva fatto non pe r scac­ciare gli austriaci, ma anzi pe r d a r loro u n a m a n o a ristabili­re l 'o rd ine . Ma in tan to lo ammise , co involgendo nelle sue rivelazioni u n a tal massa di persone - il fior fiore della no­biltà e della borghesia l o m b a r d e - che a un cer to p u n t o lo stesso Salvotti si p reoccupò delle dimensioni che la faccenda

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stava p r e n d e n d o e p ropose a l l ' Impera tore di porvi un fer­mo r e s t r i ngendo l 'accusa ai maggior i indiziati e l iberando gli altri con un atto di clemenza. E, come al solito, il suo con­siglio fu accolto.

Propr io allora cadde nelle reti della polizia un altro per ­sonaggio che pe r un m o m e n t o parve da re ai fatti già accer­tati un tutt 'al tro risvolto e significato. Si trattava di quell 'An-dryane, di cui abbiamo già det to a proposi to di Buonarro t i . La polizia lì p e r lì credet te che i nomi e gl'indirizzi di cui il malcapitato era in possesso fossero di Federati , e ne dedus­se che costoro fossero collegati coi Sublimi Maestri Perfetti di cui Andryane era emissario. Ma Salvotti, nelle cui grinfie anche l 'Andryane capitò, fece pres to a renders i conto che il giovane n o n diceva nulla dei Federati pe r i l semplice moti­vo che n o n aveva nulla da dire , n o n ne conosceva neanche i nomi, come n o n li conosceva n e p p u r e il suo m a n d a n t e Buo­narrot i . Gl'indirizzi che costui gli aveva dato e rano quelli di cospiratori di vent 'anni pr ima, pe r la maggior par te affiliati a u n a setta di cui o rmai n o n restava quasi p iù traccia, l'A-delfia. E ciò d imost ra quan to Buona r ro t i o rmai fosse fuori del g iuoco. Ques to n o n salvò i l p o v e r o A n d r y a n e dallo Spielberg, ma smentisce l'accusa che alcuni storici gli h a n n o fatto di aver aggravato con le sue rivelazioni la sorte degli altri imputa t i . Sia p u r e pe r ignoranza , A n d r y a n e n o n fece altri nomi che quelli che gli avevano trovato addosso e che con la Federazione avevano ben poco a che fare, e solo pe r casuale coincidenza si trovò coinvolto in quel processo.

La sentenza fu dura . Dei sedici condannat i a mor te , nove e r a n o con tumac i . Gli altri sette e r a n o : Confalonier i , An­dryane , Borsieri , Castillia, Arese, Tonelli e quel Pallavicino che con la sua inutile spavalderia aveva messo in moto l'in­granaggio. La moglie e il p a d r e di Federico si precipi tarono a Vienna pe r impe t ra re grazia. Con l'aiuto di Bubna, Tere­sa o t t e n n e un col loquio con l ' Impe ra t r i ce che , commossa dal suo dolore, le promise aiuto e glielo diede. In suo favore anche Maria Luigia scrisse da Pa rma al pad re , che tuttavia

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parve irremovibile. Teresa r ient rò a Milano a briglia sciolta col t imore di non fare in t e m p o a r ivedere il mari to. Mandò a Vienna u n a petizione con centinaia di firme. L ' Imperato­re aveva chiesto ai suoi fiduciari che effetto avevano fatto le c o n d a n n e sulla pubblica opin ione . I l governa tore Strassol-do gli aveva risposto che la costernazione era generale e tut­ti a t tendevano la grazia. L ' Imperatore la concesse.

II 21 gennaio del '24, m e n t r e a Brescia continuava il p ro ­cesso a carico degli altri imputat i , me t t endo in luce il corag­gio di alcuni - il Moretti , il Mompiani , il Mazzoldi - e la fra­gilità mora l e di al tr i , i c o n d a n n a t i fu rono condot t i su un palco e legati con le catene al m u r o del palazzo di Giustizia pe r la let tura della sentenza. «Il Confalonieri - scrive D'An­cona - scorse nella folla molti volti amici e occhi pieni di la­cr ime, e insieme sorrisi e ghigni.» Andryane , che lo vedeva p e r la p r i m a volta, scrisse più ta rd i : «Avevo b e n visto re e g rand i della terra; ma la p o m p a che li circondava, ma i p re ­stigi della gloria e del regale d iadema non avevano mai p ro ­do t to in me un ' impress ione così p r o f o n d a di s tupore e di ammirazione come quel mar t i re della libertà». Ed è un fatto che tutti gli altri condannat i , m e n o il Pallavicino, gli cedeva­no il passo e lo t rat tavano come il loro capo.

Pr ima di essere avviato con loro oltre confine, gli permi­sero di r iabbracciare il p a d r e e la moglie . In viaggio ebbe u n a delle sue crisi che l 'obbligò a u n a sosta di dieci giorni . Poi, inaspet ta tamente , si vide dirot tato a Vienna. Fu ospita­to in g ran segreto nella direzione di Polizia, e qui u n a sera v e n n e a t rovar lo Met te rn ich in p e r s o n a . Su ques to collo­quio, q u a n d o lo si r iseppe, fu costruito tutto un romanzo . Si disse che il Cancelliere aveva chiesto al condanna to altri det­tagli sui suoi rappor t i con Carlo Alberto pe r completare un dossier di accuse contro il Principe, scartarlo dalla successio­ne al t rono e innalzarvi al suo posto Francesco di Modena .

Fatti e document i d imos t rano che il Cancelliere n o n ca­rezzò mai questo proget to , e quindi n o n c'è motivo di dubi­ta re del resoconto ch 'egli stesso de t t e di quel lo s t r ano in-

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cont ro . In un salotto sp l end idamen te addobba to e sorseg­giando il tè in squisite porcellane, il Cancelliere disse al pa­trizio lombardo che l ' Impera to re era p r o n t o a riceverlo, se aveva qualche confidenza da fargli, ma che in ogni caso egli n o n e ra l ì pe r es torcergl iene. Voleva sol tanto conoscere le sue op in ioni sui moviment i liberali n o n nella sola Milano, ma in tu t t 'Europa e come si potevano conciliare con l 'ordi­ne costituito della Restaurazione. Questa assicurazione ave­va recato «un evidente sollievo» al Conte che «molto difficil­m e n t e avrebbe accondisceso a r ivelare colpe e responsabi­lità altrui» e che, d u r a n t e tut to il colloquio du ra to oltre d u e ore, n o n p ronunc iò parola in p ropr i a difesa né chiese miti­gazioni di pena . Alla fine il Cancelliere disse: «Be', o ra deb­bo anda re a un ballo». E Confalonieri a n d ò allo Spielberg.

Lo Spielberg e ra u n a vecchia e tetra fortezza appollaiata in vetta a un 'a l tu ra che domina Brno . A popolar la pe r pri­mi e rano stati i condanna t i del processo di Villa: Foresti, So­lerà, O r o b o n i , Fort ini , M u n a r i , Bacchiega. Poco d o p o vi e r a n o g iunt i Maroncell i e Pellico, cui dobb iamo la m i n u t a descr iz ione d i que l p l u m b e o carcere . Le celle e r a n o ant r i sot terranei , stillanti umidi tà e senz'altro mobilio che un ta­volaccio e u n a brocca d 'acqua. Regola e dieta e rano così du ­re che, se i guardiani avessero dovuto applicarle alla lettera, nessun p r ig ion i e ro vi avrebbe sopravvissuto . Per fo r tuna e rano gente del posto, buon i diavoli che in fondo simpatiz­zavano con le loro vit t ime e il poco che po tevano pe r alle­viargli la p e n a e ar ro tondargl i il rancio, lo facevano. I dete­nuti li secondavano arrangiandosi , da buon i italiani, in mil­le modi . Alcuni si specializzarono in lavori di maglieria pe r r ipararsi alla meglio dal f reddo. Maroncelli riuscì a ricavare mater ia le p e r scr ivere i n g o m m a n d o con mollica d i p a n e sciolta nell 'acqua i fogli di carta igienica, fabbricando penni ­ni con lische di pesce e inchiostro con residui di medicinali.

Dapprincipio i prigionieri vennero tenuti in stretto isola­m e n t o , senza contat t i fra loro . Ma poi fu rono messi d u e a d u e p e r mancanza d i spazio. Confalonier i ebbe un t ra t ta-

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mento speciale: gli furono concesse d u e celle, le migliori, e il d i r i t to di scegliersi il c o m p a g n o . Scelse A n d r y a n e forse pe r ché aveva bisogno di ammiraz ione e quel g iovane n o n gl iene lesinava. C o m e capi ta spesso fra reclusi , i r a p p o r t i n o n e rano sempre di affettuosa fratellanza e solidarietà. L'o­dio di Pallavicino pe r Confalonieri non si e ra a t tenuato. Fo­resti e ra detestato da tutti pe r il contegno tenuto al processo in cui si e ra offerto come agente provocatore . Moret t i , che invece si era condot to con magnifico coraggio, ora dava se­gni di squilibrio, in tutti vedeva t radi tor i e delatori , e ogni poco p iombava in c u p e crisi d i d i speraz ione . Col m o n d o esterno, nessuno aveva rappor t i . Solo a Confalonieri la mo­glie riusciva, grazie ai suoi soldi e alle sue aderenze , a far ar­r ivare qua lche let tera . Le g io rna te si sg r anavano vuote e uguali: a r iempirle c'era solo la disperata lotta pe r sopravvi­vere alla fame e al freddo. Ma non tutti ci r iuscirono: d o p o soli tre anni , Oroboni e Villa mor i rono .

Alla fine del '27, si accese un raggio di speranza: Fortini, Solerà e Ducco e r a n o stati graziat i , e tut t i p e n s a r o n o che u n o alla volta sarebbe venu to anche i l loro t u r n o . Ma n o n fu così. Pellico e Maroncelli furono liberati solo d o p o nove ann i , q u a n d o o rma i e r a n o r idot t i a ro t tami . L'ultimo a la­sciare lo Spielberg fu Confa lonier i cui l ' I m p e r a t o r e n o n perdonava «di aver guastato lo spirito della classe più eleva­ta». Teresa , che p e r lui aveva c o m p i u t o autent ic i eroismi , era morta .

CAPITOLO TRENTUNESIMO

NEGLI STATI CENTRALI

Nel dire a Salvotti che la Carboner ia romagnola cui era affi­liato avrebbe preferito un governo austriaco a quello papa­lino, Maroncel l i aveva un po ' esagera to , ma n o n ment i to . Effettivamente c 'era nelle Vendite r o m a g n o l e u n a co r r en t e favorevole a questa tesi, e Salvotti lo sapeva, e lo sapeva an­che Metternich. A tal p u n t o d ' impopolar i tà era giunto il re­gime pontificio.

I l cardinale Consalvi aveva fatto del suo meglio pe r dar ­gli un m i n i m o di efficienza, e Pio VII aveva cercato di se­condar lo . Ma en t r ambi avevano u r t a to nella resistenza de­gli Zelanti che d o m i n a v a n o la Cur ia . Vecchio e ma landa to , i l Papa che aveva affrontato Napo leone n o n aveva più ab­bas tanza energ ia p e r sos tenere Consalvi ch ' e r a sos tenu to solo da lui. E il r isultato era un «comandare assoluto, cieco e variabile a capriccio» di par roc i e mons ignor i avidi e in­c o m p e t e n t i che s i c o m p o r t a v a n o c o m e feuda ta r i del p iù buio Medio Evo. Lo scontento era genera le , ma le sue ma­nifestazioni var iavano da reg ione a reg ione . In quelle più d e p r e s s e , Lazio e U m b r i a , la r eaz ione e ra i l b a n d i t i s m o . I n t e r e zone e r ano sotto i l control lo di br igant i che spinge­vano la loro audac ia f ino a p r e n d e r e c o m e ostaggi in te r i collegi di seminarist i , come fecero a Terrac ina , pe r farsene paga re i l r iscatto con u n a grossa taglia. Agivano in somma c o m e tupamaros avant i le t te ra , e u n a volta s e q u e s t r a r o n o pers ino un colonnello austr iaco. N o n avevano p r o g r a m m i politici. Era solo la pro tes ta con t ro la fame e i soprusi che li spingeva al saccheggio. Nelle loro b a n d e mil i tavano an­che dei p r e t i che d o p o le razzie ce l eb ravano Te Deum di

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r i n g r a z i a m e n t o cui i p r e d o n i facevano coro b i a sc i ando p regh ie re .

In Romagna la rivolta aveva un contenuto ideologico ed era condot ta dalle società segrete, fra cui na tu ra lmen te spic­cava la Carboner ia , cui il reg ime opponeva altre società se­gre te d ' ispirazione sanfedista. Dal l 'una pa r t e e dall 'a l tra si moriva di pugnale , e nessuno parlava, neanche i gendarmi , pe r pau ra delle rappresaglie . Per met te re fine a questo stil­licidio d i cadaver i , fu rono m a n d a t i d u e Cardinal i -Legat i , c o m e si ch i amavano i gove rna to r i , Rusconi a Ravenna , e Sanseverino a Forlì, i quali n o n seppero far altro che retate alla cieca. Alcuni pr igionier i accusati di Carboner ia furono consegnat i a Salvotti, che cercava di r icost ruire il mosaico dei mot i del '21 in tu t ta Italia. Risultò che fra le cong iu re del Lombardo-Veneto e quelle degli Stati pontifici, a lcune connessioni c 'erano, ma poche . I l p iano d 'azione nazionale che Met te rn ich paventava , n o n esisteva, o c o m u n q u e n o n operava. In ogni reg ione le Vendite agivano p e r conto p ro ­p r io , e spesso in con t radd iz ione fra loro . Accanto a quelle che auspicavano il passaggio della Romagna all'Austria, c'e­r ano quelle che auspicavano la sua annessione al Granduca­to di Toscana. Con le consorelle napole tane e i loro moti co­stituzionali, collegamenti non ce n ' e rano stati o risultavano molto aleatori.

In questa esplosiva situazione, volgeva al t e rmine il pon­tificato di Pio VII , che c o m u n q u e un po ' di prestigio perso­nale tu t tora lo conservava E con lui, che mor ì nel luglio del ' 23 , finiva anche il po tere di Consalvi, immedia tamente ac­cantonato. Il Conclave rimase a lungo incerto ma alla fine si risolse in favore del Della G e n g a che salì al Soglio c o m e Leone XII e, dice l'Anelli, «rinnovò i vi tuperi che il Consal­vi aveva saviamente frenati, e pose Io Stato in mano del Ca-leffi, del Pacca, del Cavalchini e del Rivarola, prelati di vec­chia infamia». Fu un diluvio di leggi e regolamenti , u n o più oltraggioso dell 'altro: proibizione assoluta del l ' insegnamen­to laico, obbligo del p r ece t t o pasqua le , divieto del le vesti

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femminili attillate e del l 'uso della l ingua italiana nei tribu­nali, abolito il diritto di p ropr ie tà pe r gli ebrei che vennero ricacciati nei ghet t i , cons idera ta rea to la vaccinazione che aveva salvato tanta gente dal vaiolo. In compenso fu bandi­to un Giubileo s t raordinar io pe r il 1825, che por tò a Roma qua t t rocen tomi l a pe l legr in i con g r a n sollievo de l l ' e ra r io sempre più dissestato, ma anche dei briganti che imposero robusti pedaggi nelle zone di loro competenza.

A Ravenna, con poter i s t raordinari , venne manda to il Ri-varola con largo seguito di genda rmi e predicator i . Il regi­me ch'egli istaurò era di stato d'assedio: chiusura anticipata delle t averne , pro ib iz ione di qualsiasi giuoco di car te o di dad i , divieto di circolazione d o p o il t r a m o n t o senza salva­condot to della polizia, incoraggiamento alle denunz ie ano­n ime . C o n quest i me tod i fu istruito un colossale processo contro oltre cinquecento indiziati, di cui, dice Farini, «tren­ta nobili, centocinquantasei possidenti o commerciant i , d u e pret i , se t tantaquat t ro impiegati, t rentot to militari, sessanta­d u e fra medici, avvocati, ingegneri e uomini di let tere, il re­sto artigiani». Quest i ultimi r appresen tavano u n a significa­tiva novità . Fin a l lora la cospi raz ione politica e r a r imas ta un'esclusiva della nobiltà e della borghesia. Per la p r ima vol­ta faceva capol ino il popo lo . Ma secondo il c a rbona ro La-derchi , si trattava solo di u n a «turba» di accoltellatori assol­dati dai caporioni pe rché non andassero a ingrossare la fa­zione opposta .

II ve rde t to fu d u r o . Ci fu rono sette c o n d a n n e a mor t e , anche se d u e colpivano imputat i contumaci e le altre c inque - fra cui quella del Laderchi - furono commuta te nel carce­re a vita; c inquan taqua t t ro ai lavori forzati pe r per iodi dai v e n t ' a n n i in giù; al tr i c i nquan ta alla p r i g ione in fortezza, pe rpe tua pe r sei; duecen to t ren ta al domicilio coatto con ob­bligo di confessione e di esercizi spir i tual i . Sicuro di aver da to prova di clemenza, il Cardinale volle completar la con un 'ope ra di distensione i m p o n e n d o d 'autori tà alcuni matr i­m o n i fra giovani e ragazze delle o p p o s t e fazioni e con t r i -

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b u e n d o perf ino di tasca sua, cioè di tasca dello Stato, alle doti delle spose. Quest i e rano i criteri con cui la Chiesa cre­deva di r ipor ta re il suddi to sulla ret ta via: obbl igandolo ad anda re in chiesa anche se non credeva e dandogl i perfino la mogl ie d i p r o p r i a scelta. Inu t i le d i re che que i m a t r i m o n i forzosi, invece di uni re , divisero ancora di p iù i «cani» - co­me i codini chiamavano i liberali - dai «gatti» - come i libe­rali chiamavano i codini - agg iungendo ai contrasti ideolo­gici quelli familiari.

Al t e m p o di Consalvi, Goe the aveva definito i l gove rno papa l ino con u n a frase del card ina le Albani: «A m e n o che voi n o n mont ia te su una sedia in piazza di Spagna pe r dire che il Papa è l 'anticristo, potete fare e d i re quel che volete»; Era il r i tratto di un dispotismo stanco che spesso è la miglio­re garanzia di liberalismo. Ma ora n o n era più così. Con gli Zelanti, il d ispot ismo aveva p e r d u t o la s tanchezza senz'ac­quis tare l'efficienza. «Quel vestire di toga l ' inquisi tore e il giudice di cocolla - scriveva Farini -, quel mescolare la reli­gione alla politica, gli ecclesiastici coi birri , e quel collocare il t rono sopra l 'altare, r endevano odioso il governo e il par­tito clericale.» Lo stesso Metternich si p reoccupava del suo autori tar ismo mescolato d'insipienza.

Q u e s t o e ra i l r e g i m e papa l ino : un r e g i m e in cui la re ­pressione rappresentava non l 'emergenza, ma la regola.

Da Parma, e rano s empre arr ivate a Vienna notizie rassicu­rant i . «Il paese e gli abitanti sono tranquillissimi, quan to a società segrete, n o n ne abbiamo traccia, e oserei aggiungere che n o n ne ammet to la possibilità neanche nel resto d'Italia, dove c redo pe r lunga esper ienza che n i u n a cosa possa re­star segreta pe r molto t empo: le genti sono soverchiamente incl inate a d i sco r re re , e i caffè e i luoghi di r i t rovo sono pubblici par la tor i , dove tu t to si dice e tu t to si sa», scriveva Neipperg , d a n d o prova della sua perspicacia.

A g o v e r n a r e e ra s e m p r e stato lui. Ma se p r i m a doveva contentarsi di farlo sotto banco, ora poteva farlo anche uffi-

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cialmente perché dopo la mor te di Napoleone - «il Serenis­simo Consor te dell 'Augusta Sovrana» l'aveva chiamato con squisito tatto La Gazzetta di Parma nel da re notizia della sua scomparsa a Sant 'Elena nel maggio del '21 - aveva sposato Maria Luigia, che già gli aveva dato u n a figlia ed era di nuo­vo incinta. Pur segui tando a res tare ne l l 'ombra , Ne ippe rg conduceva la barca con mano ferma den t ro il guanto di vel­luto. Aveva por ta to a t e rmine molte impor tant i opere pub ­bl iche, a l t re ne aveva messe in can t ie re , s i d imos t rava un oculato amminis t ra tore e non aveva sentito il bisogno di ap­pesan t i r e i control l i polizieschi n e m m e n o d o p o i mot i di Napol i e di Tor ino e la scoper ta delle cong iu re ca rbona re nel Lombardo-Veneto.

Furono le denunce di Francesco IV di Modena che l'ob­b l iga rono a misu re repress ive . Ques t i aveva segnala to a Vienna u n a rete di Sublimi Maestri Perfetti che dal suo Du­cato si d i ramava in quello di Parma, e ne dava anche i no­minat ivi . V ienna t rasmise l 'elenco a N e i p p e r g , che ne fu molto contrar ia to . A quan to pare , egli sapeva benissimo di queste conventicole, ma n o n le p r endeva sul serio conside­randole un 'accademia di dilettanti della politica destinata a esaurirsi in chiacchiere. N o n po tendo oppors i agli ordin i di Met ternich che gl ' ingiungeva un energico in tervento , fece d i sc re t amen te avver t i re i magg io r i indiziati p e r c h é p r e n ­dessero i l largo, t an to che in segui to qua l cuno l 'accusò di cercare i favori dei set tari p e r rafforzare il suo Stato e in­grandir lo : il che risulta assolutamente infondato. Ma è sin­tomatico che gl'indiziati trascurassero l 'avvertimento e si la­sciassero t ranqui l lamente arrestare .

Al processo, che fu condot to nel p ieno rispetto di tut te le formalità e garanzie legali, risultò che effettivamente a Par­ma c'era stata u n a chiesa di Sublimi Maestri buonar ro t i an i , la quale aveva cercato di stabilire collegamenti con le Vendite c a r b o n a r e emi l iane p e r un ' az ione a r m a t a in a p p o g g i o a i Cost i tuzionali di Napol i , che poi p e r ò si e r a risolta nella s tampa e nel lancio di alcuni manifesti in latino da distribui-

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re alle t r u p p e austriache e ungheres i di passaggio nella zo­na p e r la spedizione contro il Reame.

Il Presidente del t r ibunale si rifiutò di leggere la senten­za pe rché gli parve t r o p p o dura , e bisognò chiamare il mi­nis t ro della g u e r r a . C ' e r a n o d u e c o n d a n n e a m o r t e : u n a con t ro l ' i sp i ra tore della tresca, Micali, e l 'al tra con t ro un certo Martini che vi aveva par tecipato n o n già pe r sovverti­re lo Stato, ma pe r impadronirs i della Duchessa di cui s'era i nnamora to q u a n d o la serviva come guard ia d 'onore . A lui Ne ipperg non voleva p e r d o n a r e , ma gli p e r d o n ò con fem­minile indulgenza Maria Luigia c o m m u t a n d o sia a lui che a Micali la p e n a capitale in quella del carcere a vita.

Pagato questo t r ibuto al delirio repressivo che si e ra im­padron i to di Vienna, Parma to rnò al suo abituale reg ime di relativa tolleranza. Come la descrive Lamar t ine , Maria Lui­gia «era u n a bella figlia del T i ro lo , dagli occhi cilestri, dai capelli biondi , dal volto che rifletteva la bianchezza delle ne­vi e le rose delle sue vallate, dal l 'a t teggiamento languido e stanco di quelle tedesche che sembrano aver bisogno di ap­poggiarsi sul cuore di un uomo». Infatti q u a n d o Ne ippe rg mor ì , nel ' 29 , si affrettò a sosti tuir lo con un al t ro p e r c h é senza u o m o n o n sapeva stare: e ra l 'unica cosa che la inte­ressasse. Il suo liberalismo veniva dalla disappetenza del po­tere che a sua volta veniva da l l ' appagamento dei suoi sensi e s en t imen t i di d o n n a . A P a r m a c'è ancora chi r i m p i a n g e questa Sovrana affettuosa e m a t e r n a che ispirava ai rivolu­zionari il proposi to di rovesciarla dal t rono , ma solo pe r ro­vesciarla sul letto e che, invece che persegui tare i suoi sud­diti, avrebbe preferi to allattarli.

È molto probabi le che Francesco IV avesse sfoggiato tanto zelo nel d e n u n c i a r e anche i cospira tor i di P a r m a p e r fare b u o n a impress ione su Car lo Felice, zio di sua mogl ie e in quel momen to suo ospite a Modena. Abbiamo già det to che alla speranza di accaparrars i il t r o n o sabaudo o a lmeno la Sa rdegna non r inunciava, anche se nel cont ra t to di matr i-

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m o n i o e r a specificato che la figlia di Vit tor io E m a n u e l e I n o n aveva diritti da avanzare sugli Stati del p a d r e , che ora stavano a p p u n t o pe r toccare a Carlo Felice. Per con t rappor ­re la p r o p r i a severità ai ced iment i di Car lo Alber to , si e ra addi r i t tu ra scatenato cont ro le «sètte infernali» che voleva­no sovvertire l 'ordine costituito dell 'assolutismo di cui si er­geva a inflessibile campione . E i suoi tr ibunali e r ano già al­l 'opera.

Il corpo del rea to era, come a Parma, un volantino in la­tino distribuito ai soldati ungheres i di passaggio nel Ducato p e r la spediz ione su Napol i , che li esortava a far causa co­m u n e con gl'insorti. E molto dubbio che i destinatari il lati­no lo capissero. Ma il tentativo di sovversione c'era, e quindi doveva esserci anche il castigo. Il capo della polizia m o d e ­nese non era un Salvotti. Era soltanto un certo Besini, effi­ciente solo c o m e seviziatore. P rocede t t e alla cieca con t ro tutti i sospetti oppositori , e ce n ' e rano . I più sospetti di tutti e r a n o i r e d u c i del R e g n o Italico, ai cui q u a d r i d i r igen t i i modenes i avevano dato un fortissimo contr ibuto di uomini : Luosi, Venturi , Tassoni al l 'amministrazione; Zucchi, Fonta-nelli, Manares i all 'esercito, pe r limitarci a pochi nomi . Era logico che costoro si sentissero a disagio e guardassero con d isprezzo i l r e g i m e re t r ivo di que l piccolo Duca to che la p re tendeva a mosca cocchiera dell 'assolutismo reazionario. Di u n a loro cospirazione non c'era altra traccia che l ' incauta lettera di un giovane, Manzini. Ma bastò a de te rmina re l'ar­resto di tutt i coloro che n o n fecero in t e m p o a fuggire, se­guito da brutal i in terrogator i .

Pochi giorni d o p o il Besini fu raccolto pe r s t rada in fin di vita pe r un colpo di stiletto infertogli da un passante; e in­vece che un g iorno di lutto, fu pe r Modena un g iorno di fe­sta. Ma l ' istruttoria del processo r imase in mano a uomini li­gi ai voleri del Duca, che n o n voleva giustizia, ma vendet ta contro «questi nemici di Dio e della religione», fra cui c'era anche un giovane e dot to pre te , Andreoli . Fu condanna to a mor te , e il Duca respinse la sua d o m a n d a di grazia il giorno

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stesso in cui la concedeva a un pa r r i c ida p e r d i m o s t r a r e ch'egli cons iderava l 'anelito di l ibertà un deli t to più grave di qualsiasi assassinio.

Nei suoi r a p p o r t i a Vienna , Francesco si van tò di aver «sradicato la mala pianta». Era vero pe rché tutti coloro che n o n e r a n o f in i t i in galera avevano dovu to cercare scampo nella fuga, e r a p p r e s e n t a v a n o q u a n t o c 'era di megl io nel Ducato, che ne r imase i r reparabi lmente impoveri to . Anche Met tern ich lo capì, e n o n ne fu p u n t o gra to a quel suo ze­lante vassallo.

CAPITOLO TRENTADUESIMO

DA FERDINANDO A FRANCESCO

Dopo aver tradito a Lubiana l ' impegno preso col suo gover­no ch i amando gli austriaci, Fe rd inando n o n mostrava nes­suna fretta di t o r n a r e a Napol i . Vi m a n d ò sol tanto la lista dei nuovi ministr i , e A Cour t , q u a n d o la vide, esclamò co­s ternato: «Non ce n'è u n o che abbia m e n o di se t tant 'anni e la capacità di gove rna re un villaggio!» Medici ne e r a stato d e p e n n a t o , e il suo a l lon tanamento aveva consenti to al Re di reinsediare nel ministero di polizia il Canosa, la cui furia vendicat r ice si abba t té anzi tu t to sui suoi stessi funzionar i . Gran par te di essi, rei di essere rimasti ai loro posti nell 'in­termezzo costituzionale, vennero epurat i e sostituiti con ca­pi -camorra e «picciuotti di sgarro» illustratisi con delazioni e violenze.

Furono istituite «giunte di scrutinio», nuova edizione di quelle «d'inconfidenza» pe r la caccia al «costituzionale», si­non imo di «giacobino», e i castighi fioccarono. A mor t e fu­rono condannat i i generali Pepe e Rossaroll, pe r for tuna già fuggiti. Altri sei generali - Colletta, Pedrinelli, Colonna, Co­sta, Arcovito, Russo - finirono in carcere a far compagnia ai deputa t i p iù in vista, Poerio, Borrelli , Gabriele Pepe. Con­tro i minor i esponent i , Canosa escogitò punizioni più raffi­na te intese sopra t tu t to a discreditarl i . Li faceva sfilare pe r via Toledo a b o r d o di asini e vestiti da pagliacci sotto gli sberleffi e gli sputi della plebaglia.

Gli stessi austriaci si met tevano le mani nei capelli, e ave­vano rag ione p e r c h é quei t r a t t amen t i n o n facevano che spingere alla disperazione e alla rivolta. Piuttosto che rasse-gnarvisi, parecchi ufficiali fino al g rado di colonnello prefe-

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r i rono buttarsi alla macchia e darsi al br igantaggio, che in­fatti ebbe immedia tamente un notevole rilancio. Fra i prota­gonisti della guerriglia ci fu quel tenente Morelli, che a No­la aveva dato avvìo alla rivolta costituzionale e che ora cer­cava di r i a n i m a r n e il fuoco. Dopo la d is t ruz ione della sua banda , riuscì a ragg iungere l'Adriatico e a imbarcarsi per la Grecia. Ma una tempesta lo sospinse invece sulle coste alba­nesi. Gli austriaci che lo ca t tu ra rono , e ai quali aveva det to di essere un suddito papal ino, lo spedi rono a Ancona dove, r iconosciuto, fu consegnato ai borbonici . Fuggì ancora , ar­r ivò in Puglia , fu di n u o v o r iconosciu to e a r re s t a to , e finì sulla forca. Ma intanto altri ufficiali, il colonnello Vallante, il magg io re Poerio, i capi tani C o r r a d o e Venite, assaltavano paesi, tentavano agguati e vi cadevano. Un grosso contribu­to a questa guerr igl ia , lo dava il clero. In u n a sola diocesi, centovent iquat t ro pret i r isul tarono iscritti alla Carboneria .

Finalmente il 15 maggio (del '21), il Re si decise a torna­re , e i napoletani lo accolsero con bande e luminar ie , come se fosse reduce da chissà quale gloriosa impresa. Canosa gli fece subito un dettagliato resoconto delle p u r g h e che aveva inflitto, ma anche delle difficoltà che incontrava presso gli austriaci, i quali p re t endevano fermargli la m a n o e reclama­vano un 'amnis t i a . I l Re, d o p o averli ch iamat i , t rovò che «questi tedeschi si vogliono in t rome t t e r e e p r e n d e r e inge­renza in tutto», e n o n esitò a mettersi in u r to col loro amba­sciatore q u a n d o questi gli d imost rò , documen t i alla mano , che Canosa appaltava gran par te delle sue vendet te n o n al­la polizia e ai tr ibunali , ma a quell 'associazione a de l inquere ch ' e rano i Calderari , da lui apposta r ianimata.

Gli austriaci pe rò avevano il coltello dalla par te del mani­co. Per avere l 'aiuto del loro esercito, Fe rd inando a Lubiana si e ra impegna to a mantener lo . Ed esso costava caro perché e r a n o circa c inquan tami la uomin i . Per far f ronte a quella spesa, aveva dovuto contra t tare un prestito con Rothschildt, ch ' e r a venu to a n c h e lui a Napol i ins ieme al gene ra l e Fri-mont . Ora quel prestito bisognava r innovarlo pe rché lo Sta-

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to n o n e ra asso lu tamente in g r a d o d i r imborsa r lo . Roth-schildt vi si mostrò disposto, ma a una condizione: che fosse r ich iamato Medici, unico minis t ro che forniva garanzia di un riassestamento del bilancio. E Medici significava l 'estro­missione di Canosa . Il Re rifiutò, e segui tò a farlo finché potè, ma non lo potè a lungo perché aveva l 'acqua alla gola. Alla fine dovet te a r r ender s i e licenziare il suo zelante poli­ziotto, che pe r la seconda volta abbandonò il Reame, unico esule per amor di t i rannide in quell 'Italia di esuli per amor di libertà.

Con la consueta accortezza, ma in u n a situazione grave­men te de ter iora ta , Medici cercava di t a m p o n a r e le falle di quella sconquassata barca. Coi costi dell 'occupazione, il de­bito pubblico saliva ver t iginosamente , e l 'epurazione aveva but ta to sul lastrico to rme di funzionari e ufficiali. Questi ul­timi e r a n o stati radiat i anche p e r c h é i l Re aveva deciso di sciogliere g r a n pa r t e dell 'eserci to di cui più n o n si f idava, per sostituirlo con t r u p p e mercenar ie s traniere, soprat tut to svizzere. Al Congresso di Verona egli o t t enne che l'Austria richiamasse par te di quelle sue. Ma il grosso dovet te conti­nua re a tenerlo e a mantener lo fino al '26.

F e r d i n a n d o n o n fece in t e m p o a v e d e r n e lo s g o m b e r o pe rché mor ì l ' anno pr ima . Fino all'antivigilia e ra anda to a caccia, come s e m p r e , con g ran disperazione di sua moglie che poi e ra costre t ta a m a n g i a r la selvaggina, catastrofica pe r il suo fegato. Il 3 gennaio dovette restarsene a casa pe r un forte raffreddore, e il medico, no tando che aveva il volto congestionato e la parola inceppata, gli p ropose un salasso, ma il Re rifiutò. La matt ina d o p o lo t rovarono cadavere, ful­minato da un colpo apoplettico, come Maria Carolina. Ave­va settantasei anni e ne aveva regnat i sessantacinque.

Tutte le test imonianze, anche quelle a lui più ostili, con­cordano nel dire che il cordoglio fu g r ande da par te del po­polo, che pe r tre giorni affollò il palazzo pe r r e n d e r e l'estre­mo omaggio al Re lazzarone. «Era cer tamente un gran buon uomo» scrisse Lady Blessington. Ques to buon u o m o aveva

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sulla coscienza la vita di migliaia d'infelici, mort i sulla forca e nelle galere solo pe r aver voluto un po ' di libertà. Era sta­to spe rg iu ro . N o n aveva conosciuto che disfatte e fughe ignominiose di fronte al nemico. Politicamente, era rimasto fermo alla concezione settecentesca del più retrivo assoluti­smo. Non aveva fatto che i p r o p r i interessi, e più ancora i p rop r i comodi, della regalità p rendendos i soltanto i piaceri. Non aveva saputo inc rementa re che l ' ignoranza, di cui era egli stesso un campione . E p p u r e , i l cordoglio popola re pe r la sua mor te n o n ci stupisce, perché un dono lo aveva avu­to: la genuini tà . Ques to Re fellone e fannul lone n o n aveva mai cercato d i a p p a r i r e diverso da quel che era: u n o scu­gnizzo dei «bassi», p r e p o t e n t e , r idanciano e sboccato, nato pe r caso con u n a corona in testa, e che aveva sempre conce­pi to la sua p a r t e come quel la d i un b u o n capo-camor ra . Non aveva in te rpre ta to che i caratteri deter ior i del popolo napole tano, ma anche i più appariscenti e riconoscibili.

Il successore Francesco era forse un po ' meglio di lui, ma più opaco. Ridusse di parecchio le p e n e inflitte ai condan­nati politici, ed ebbe il b u o n senso di secondare l 'opera di­stensiva di Medici. Ma in tutto il resto fu figlio di suo padre . Come lui e ra neghit toso, sordo a ogni r ichiamo di libertà, e grossolano. Uno dei suoi divert imenti preferiti era di sgoc­ciolare la cera delle candele sul naso del suo cameriere che, p re s t andos i a quest i scherzi , riuscì ad acquis tare su di lui un ' inf luenza decisiva e la usò p e r dis t r ibuire cariche e im­pieghi. Bacchettone e domina to da una moglie spagnola più bacchettona di lui, d iede ai pret i il monopol io della scuola e bandì una crociata senza quar t iere contro ogni forma di cul­tu ra laica: proibì pers ino le ope re del Beccaria, le t ragedie dell'Alfieri e le poesie del Foscolo.

Ora che con la pa r t enza delle t r u p p e austr iache Medici poteva ricucire alla meglio le dissestate finanze, il problema p iù grosso restava quel lo del band i t i smo . G a s p a r o n e in Abruzzo aveva un vero e p r o p r i o esercito. Ma più che dal n u m e r o dei seguaci, la forza dei br igant i veniva dalla loro

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aureola di campioni della giustizia e di vindici del sopruso. «S'intitolavano amici dei poveri - dice Nisco -, d igiunavano il mercoledì, por tavano al collo lo scapolare della Madonna , p ronunz iavano o r r e n d e bestemmie, ma la sera recitavano il rosario». Secondata dal basso clero che faceva da t ramite, la Ca rbone r i a cercava di s t rumenta l izzar l i , e in molti casi ci riuscì, anche a costo di poco onorevol i compromess i . Per non screditare il p ropr io nome, essa assunse vari pseudoni­mi, i Pellegrini bianchi, i Sette dormienti, la Gioventù ravveduta, i Veri patrioti. Era u n o stillicidio di azioni guerr ig l ie re in cui era difficile dist inguere il movente politico da quello del sac­cheggio.

Nel '28 queste sparpagliate iniziative si fusero in una ve­ra e p ropr ia congiura che ebbe il suo epicentro nel Cilento, la zona collinosa che si s tende fra il golfo di Salerno e quello di Policastro, e il suo animatore nel canonico De Luca, ch'e­ra forse l 'ultimo rappresen tan te di quella vecchia società Fi­ladelfia di cui da un pezzo n o n si sentiva più par la re . Ma i quad r i glieli p res tò la Carboner ia , che raccolse circa sette­cen to uomin i , fra cui anche vari ufficiali. I l mo to doveva coincidere con l 'attacco dell 'esercito francese a quel lo au­striaco in Italia, di cui non si sa come si era sparso l ' annun­zio. Si diceva anche ch 'e rano in arrivo, pe r appoggiare i ri­belli, diecimila russi . E il c redi to che r i scuotevano ques te panzane dimostra quanto poco informati e immatur i fosse­ro i dirigenti .

Come al solito, in mezzo ai congiurati c'era la spia, il p re ­te Moccia, che riferì alla polizia tu t to il p i ano . Alla vigilia de l l ' insur rez ione , i capi v e n n e r o ar res ta t i alla chetichella, m e n o De Luca ch 'era riuscito a sfuggire alla cat tura, e che coi pochi rimasti decise ugua lmente di agire con la collabo­razione di alcuni briganti che l 'avevano offerta. Riuscirono a impadronirs i del forte di Palinuro in cui speravano di t ro­vare armi e munizioni. Invece non ci t rovarono quasi nulla.

Cont ro di loro, ridotti a centotrenta , marciava un intero corpo d 'armata, comandato da Del Carret to , un ex-costitu-

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zionale che si e ra g u a d a g n a t o la conferma nel g r ado abiu­r ando e ora smaniava di riabilitarsi comple tamente con u n a prova di zelo. Non r iuscendo ad annien ta re gl'insorti che si e rano dileguati nei boschi, il generale rase al suolo il villag­gio di Bosco p e r c h é aveva solidarizzato con loro e ne de ­p o r t ò gli abi tant i p e r c h é n o n lo r icost ruissero . Di ques ta prodezza fu r icompensato col titolo di marchese.

Ad u n o ad uno , i congiurat i finirono nelle reti della poli­zia. I p r imi a cade re sotto il p lo tone di esecuzione furono De Luca, un suo nipote anche lui par roco , e otto loro com­pagni, le cui teste mozze furono infisse su pilastri ad ammo­n i m e n t o della popo laz ione . Un al t ro g r u p p o r icevet te lo stesso t ra t tamento a Salerno, un altro a Napoli . Gli unici che r iuscirono a cavarsela furono i briganti che, molto più alle­nati alla caccia a l l 'uomo, t rovarono il m o d o di scivolare tra le maglie dei g e n d a r m i e di r agg iunge re gli Stati pontifici, la Toscana e infine la Corsica. Ma non t rovando pace nean­che qui perché la polizia francese voleva arrestarli e riconse­gnarl i a quel la borbonica , r i t o r n a r o n o a v v e n t u r o s a m e n t e nel Cilento, dove caddero combat tendo o fucilati. U no solo, che n o n era un bandi to , ma un vero rivoluzionario, i l Gai-lotti, r imase in Corsica, lasciandosi cat turare ed es t radare a Napol i . Ma il d e p u t a t o l iberale Cons tan t d e n u n z i ò il fatto nel pa r lamento di Parigi facendone un caso clamoroso, che costrinse il governo a in te rven i re su quello di Napol i per ­ché il pr igioniero avesse salva la vita. E così fu. Anzi, pe r le­varselo di torno, gli de t tero un foglio di via.

Liquidata anche quella rivolta, «nient'altro si vide che fie­ra e bassa t i rannide, sempre operoso il governo pe r uccisio­ni e castighi, sempre immobile il popolo nella paura». Così scriveva il Collet ta che , d o p o alcuni mesi di p r ig ione , era stato scarcerato insieme agli altri e sponent i del reg ime co­stituzionale - il Borrelli, il Poerio ecc. -, ma anche lui aveva avuto come gli altri il foglio di via, e dopo molto girovagare aveva t rovato stabile rifugio a F i renze , la Mecca di tut t i i perseguitati .

CAPITOLO TRENTATREESIMO

IL «PAESE DI BENGODI»

Dall 'ondata di repressioni un solo Stato r imase i m m u n e per il semplice mot ivo che lo e ra stato anche dalle cong iu re e dai conati insurrezionali: la Toscana.

Abbiamo lasciato il g r a n d u c a F e r d i n a n d o alle p rese coi p rob lemi della successione dinastica, gli unici di cui aveva qualche ragione di essere preoccupato . Gli era anda ta male. Risposatosi contro voglia a c inquan tadue anni con la sorella di sua n u o r a , non aveva avuto l ' e rede che suo f igl io aveva cercato invano di dargli con la col laborazione della p r ima moglie, e non fece in t e m p o a vedere quello che gli avrebbe dato con la seconda. Q u a n d o morì , nel '24, ucciso dalla ma­laria che aveva cercato di debellare con la bonifica della Ma­r e m m a , i fiorentini p ianse ro s ince ramente il «dolce sovra­no», titolo che si era p ienamente meri ta to .

Il Tommaseo, gran linguaccia, scrisse ch 'era stato «un uo­mo corto, che nel suo gabinetto di studio trovava agio a con­tare le stelle del soppalco». È probabile. Ma di tutti i Sovrani della Restaurazione era stato di g ran lunga il migliore, il più l iberale e u m a n o , il più al ieno da vendet te e rancor i . Non aveva rivelato grandi qualità di u o m o di Stato, ma aveva sa­pu to scegliere un collaboratore che ne aveva: il Fossombro-ni. Giuseppe Montanelli r improverava a questo Ministro un certo spirito conservatore dovuto , secondo lui, a un fonda­men ta l e scetticismo nei confront i delle g r a n d i idee e dei g rand i p rog rammi . C'è del vero. Spirito pragmat ico di for­maz ione il luminista, Fossombroni diffidava dei vasti p iani di r i forma, ma fu un eccellente ammin i s t r a to re . In quel lo stesso anno 1824, nonostante i capitali che la M a r e m m a se-

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guitava ad assorbire, il bilancio segnava un avanzo net to di t r en t a milioni - cifra r a g g u a r d e v o l e , pe r quei t empi - e il cens imento diede, pe r tut to i l Granduca to , u n a popolazio­ne di un milione e 250 mila abitanti con un inc remento di oltre il 7 per cento negli ultimi dieci anni . Ma oltre a queste statistiche che d o c u m e n t a v a n o i l benesse re mate r ia le , ce n ' e r a un 'a l t ra che d o c u m e n t a v a quel lo mora le : quella dei processi politici. Non ce n 'e rano stati quasi punt i . Quelli fio­rentini e rano gli unici tr ibunali disoccupati d'Italia, e le ga­lere non ospitavano che comuni malfattori.

L'unica città che dava qualche grat tacapo alla polizia era Livorno, nonostante il suo boom economico, o forse p ropr io per questo. Livorno era passata quasi d ' un balzo da quaran­ta a settantamila abitanti, grazie al r ipristinato regime liberi-stico che aveva rilanciato il por to facendovi fiorire «banchi» n o n sol tanto toscani e italiani, ma francesi, inglesi, greci, ebrei . Era p ropr io questo ambiente cosmopolita che faceva di Livorno u n a città vivacissima anche cu l tu ra lmente , seb­bene di questo pa re re n o n fosse il suo figlio più illustre, Do­menico Guerrazz i , che scagliava invettive rovent i con t ro i suoi compatrioti , «gente alla quale mai è brillata una luce di bellezza e di sapere , che ha avvoltolato il corpo e lo spirito nei tu rp i piaceri del senso, nella lussuria, nell 'avarizia, nel sangue». Ma p r o p r i o in ques te i n t e m p e r a n z e po lemiche Guerrazzi si mostrava anche lui b u o n livornese e legittimo i n t e r p r e t e di u n a città t u rbo l en t a che la violenza l 'ha nel sangue, commista alla generosità. Essa non avrà avuto «luce di sapere», ma intanto dava al imento a ben nove tipografie che, in un Paese di analfabeti come l'Italia, dovevano r ap ­p resen ta re un p r ima to nazionale o poco meno , e t ra poco, p e r iniziativa dello stesso Guerrazz i , avrebbe da to avviò a u n o dei più impor tant i e battaglieri giornali della penisola, ^Indicatore livornese.

Natura lmente Guerrazzi condivideva l 'opinione di Tom­maseo che «in Toscana si sbadigliava». Ma n o n la condivide­va Met te rn ich che nella Toscana vedeva, al cont ra r io , u n a

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pericolosa centrale d ' idee rivoluzionarie, n o n si stancava di far pressioni sul governo pe rché inasprisse i controlli della censura e della polizia, e q u a n d o Ferd inando morì fece, at­t raverso il suo ambasciatore a Firenze, un tentativo pe r le­gare p iù s t r e t t amen te i l successore L e o p o l d o al c a r ro di Vienna. Ma Fossombroni capì al volo la manovra e la bloccò, m a n d a n d o il nuovo Sovrano a p iangere il pad re in campa­gna e d icendo all 'ambasciatore che l 'orfano era t roppo tur­bato pe r poter lo ricevere.

Leopoldo, dal canto suo, era fe rmamente deciso a difen­de re la p r o p r i a au tonomia . I f iorentini , che da ragazzo lo avevano chiamato «Canapino» e che più tardi lo avrebbero chiamato «Canapone» sempre pe r i l colore dei capelli, ora gli avevano app ioppa to il sop rannome di «Broncio» per via della sua aria malinconica e scontrosa, sottolineata dal lab­bro inferiore péndu lo sul men to . Neanche lui, come suo pa­dre , aveva g ran stoffa di u o m o di Stato. Preferiva s tarsene ad a rmegg ia re nel suo laborator io di ar t igiano, dove si di­vertiva a cos t ru i re ogni sorta di aggeggi . Ma, anche se la­sciava fare ai suoi Ministri, ai p rop r i compiti di supervisione n o n r inunciava e voleva esercitarli in p iena ind ipendenza . Dell 'et ichetta si curava poco, e le ce r imonie l ' annoiavano. Alle poche cui era d'obbligo la sua partecipazione, n o n na­scondeva il suo impaccio, specie con le signore, cui rivolge­va s e m p r e la stessa d o m a n d a : quan t i figli avevano, e gli sembravano sempre t r o p p o pochi. U n a sera, dice Bargelli-ni, lo chiese d u e volte alla stessa d a m a perché , miope com'e­ra, n o n l 'aveva r iconosciuta. «Gli stessi di p r i m a - r ispose costei -: n o n ho avuto il t empo di farne altri!»

Forse questa ossessione dei figli gli derivava dal fatto di non averne. Le tre bambine che gli aveva dato la p r ima mo­glie gli e r ano mor te una d o p o l'altra. E pe r la povera Gran­duchessa era stato un tale s t ruggimento che ne morì anche lei, di etisia. Leopoldo la pianse d ispera tamente , ma il dove­re dinast ico lo costr inse a r impiazzar la . La presce l ta fu un 'ennes ima Borbone di Napoli della inesauribile nidiata di

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Ferd inando e Maria Carolina. Maria Antonia colpì i fioren­tini pe r la sua bellezza e pe r la sua ignoranza, ugua lmen te sproposi ta te ; ma seppe anche conquistar l i con la sua viva­cità e naturalezza. E i suoi compiti li assolse d a n d o al mari to il sospirato e rede che si chiamò, come il n o n n o , Ferd inan­do , ma che era destinato a non eredi tare nulla pe rché il t ro­no lo perse p r ima ancora di salirvi.

Fe rd inando Mart ini ch iamò il G r a n d u c a t o di Leopo ldo «il paese di Bengodi», e il le t terato Giordani , che vi si accasò, datava le sue lettere «Dal paradiso terrestre», sebbene p ro ­venisse dal Duca to d i Pa rma , che n o n e ra poi l ' inferno. Neanche a Firenze, si capisce, la libertà trionfava. Ma la tol­leranza, sì. La città era diventata la Mecca dei persegui ta t i politici della penisola che vi trovavano n o n soltanto rifugio, ma anche occasioni d i lavoro. «Bastava n o n gr idar t r o p p o forte, ma con un po ' di p r u d e n z a si poteva dir tutto»; tut to quello, ben inteso, che n o n si poteva in nessun 'a l t ra pa r t e d'Italia.

Il cent ro di raccolta degl ' intellettuali sbanditi e sbandati e r a il Gabinetto scientifico-letterario, fonda to da Giampie t ro Vieusseux, il vero e rede del Caffè di Verri e Beccaria. Vieus-seux era un l igure di origine svizzera che, d o p o lunghi sog­giorni all 'estero, nel '19 si e ra trasferito a Firenze, dove tro­vava l'aria più congeniale ai suoi polmoni . Forse non posse­deva un g rande talento, ma aveva il dono di capire i talenti a l t ru i e le doti di au tor i tà e di equil ibr io necessarie a dir i­gerli e a orchestrarli . Rilevò la vecchia Antologia che fin allo­ra e ra stata soltanto u n a rassegna di scritti già compars i in altri giornali e ne fece la palestra delle intelligenze italiane. «Sarebbe t e m p o - scrisse - che gli au to r i si pe r suadesse ro essere i giornali fatti p e r il pubblico e n o n pe r loro.» Sem­brerebbe u n a banalità, ed era invece un 'autent ica rivoluzio­ne pe r una pubblicistica come quella italiana, tut ta fatta per «loro» e n o n già per il pubblico. «Sarà nostra cura - scrisse anche - che le voci umanità, amor di patria, gloria n o n siano

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negli scritti dell'Antologia pubblicati, vuoti nomi e re tor iche superflui tà.» E a n c h e questa era un ' au t en t i ca r ivoluzione pe r u n a pubblicistica come quella italiana, marcia di enfasi e d i t r ombonesca solenni tà . N a t u r a l m e n t e n e a n c h e Vieus­seux riuscì a guarir la di questi o r r end i difetti, che tu t tora le avvelenano il sangue. Ma fu il p r imo a dichiarargli gue r r a e a fargliela, t enendo sotto costante controllo i suoi collabora­tori.

Riuscì a r iuni re quan to in Italia c'era di meglio: da Leo­pard i a Capponi , da Salvagnoli a Romagnosi , da Guerrazzi a Montanel l i , da Niccolini a Mazzini, da L a m b r u s c h i n i a Mayer a Giordani a Rosellini, e qualcuno addir i t tura ne in­ventò come Pietro Colletta che fin allora aveva fatto soltanto l ' i ngegnere e il gene ra l e e che , g iun to esule da Napol i , nell'Antologia si rivelò come storico di vaglia. Vieusseux era un pars imonioso ammin is t ra to re ; ma q u a n d o scopriva un cervello, non esitava ad assoldarlo. Chiamò a far par te della redazione un giovane dalmata allora quasi del tut to scono­sciuto, Tommaseo, dandogli un mensile di centoventi lire, e dodici scudi assegnò a un al tro t ransfuga napo le t ano , Ga­briele Pepe.

^Antologia, il cui credito cresceva di giorno in giorno, era pe r Metternich un p r u n e negli occhi. Ma Vieusseux riuscì a tirarla avanti grazie al suo senso della misura. N o n era pe r mancanza di coraggio e pe r considerazioni di con t ingen te o p p o r t u n i t à , come qua lcuno ha de t to , ch'egli smussava le p u n t e eccessivamente polemiche di certi suoi collaboratori; ma perché , u o m o di formazione illuminista, alla rivoluzione non ci credeva. Come ha scritto il suo biografo Prunas , «non pensava eccitare il popolo alle armi pe r un ' idea che non ca­piva e alla quale non era pe r anco né ma tu ro né p repara to ; ma senza bisogno di mascherarsi o di mettersi al sicuro da ' pericoli delle polizie, voleva di g io rno in g io rno r e n d e r l o p iù s e m p r e cosciente d e ' suoi interessi e d e ' suoi dover i , perché meglio intendesse i suoi diritti». A differenza di mol­ti suoi colleghi che dell 'Italia avevano un ' idea astratta e re -

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tor ica e la vedevano com'essi av rebbe ro volu to che fosse, Vieusseux la vedeva senz'illusioni com'era: un Paese di po­veri analfabeti insensibili a qua lunque sollecitazione ideolo­gica finché n o n avessero avuto gli s t r umen t i p e r capir la e reagirvi, cioè un min imo di cultura; su cui galleggiava u n a piccola élite d'intellettuali, in g ran par te chiusi nei loro acca­demismi e incapaci di pa r l a re alle masse. Glielo conferma­vano le modes te dimensioni del suo stesso successo. HAnto-logia era, e pe r molti anni doveva r imanere , la rivista di gran lunga più influente e autorevole d'Italia. Eppure , la sua cir­colazione n o n superò mai le set tecentocinquanta copie per l ' intera penisola. Nel Lombardo-Veneto non se ne vendeva­no più di c inquanta , sessanta in Piemonte , venti nelle Due Sicilie. Sebbene Vieusseux facesse un giornale pe r il pubbli­co, ques to pubbl ico r i m a n e v a poche cent inaia d i p e r s o n e pe rché tutti gli altri n o n sapevano leggere. Tutto il segreto del Risorgimento, cioè della sua incapacità di t radursi in ri­voluzione popolare , è in queste cifre, più istruttive di qual­siasi esegesi sociologica.

Nel '26 comparve sull'Antologia u n o scritto di Pepe che sembrava u n o dei tant i elogi d i Dan te , ma che nel finale con teneva , senza n o m i n a r l o , un 'a l lus ione a L a m a r t i n e , i l quale in d u e versi famosi aveva det to che in Italia non c'era­no uomini , ma soltanto «polvere umana» . La censura n o n aveva capito, ma capì benissimo Lamar t ine , giunto da poco a Firenze come segre tar io dell 'Ambasciata francese. Andò da Pepe e lo sfidò a duel lo . La polizia, che coi diplomatici stranieri non voleva storie, convocò Pepe pe r l ' indomani al­le undici . Pepe lo comunicò a Lamar t ine con cui si accordò pe r battersi alle sei in m o d o da preveni re il divieto. Fu una gara di cavalleria. Per n o n e spo r r e degli amici a rappresa ­glie, Pepe accettò come padr in i quelli francesi del suo stesso avversario e, siccome le d u e spade e rano di lunghezza disu­guale, scelse pe r sé la più corta. Ferì ugua lmen te Lamar t i ­ne , gli fasciò il taglio col p r o p r i o fazzoletto, e andò a p ren ­dersi il rabbuffo della polizia. Ma il minis t ro francese n o n

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solo chiese che il governo si astenesse da qualsiasi rappresa­glia, ma m a n d ò a Pepe la sua carrozza e lo invitò a cena.

L'episodio ebbe u n a r isonanza che raggiunse vette di me­lodrammatica comicità. Da Milano, da Roma, da Napoli, Pe­pe ricevette lettere di questo tenore : «Vendetta è fatta... L'o­no re è salvo... Siamo tutti ai tuoi piedi...» Si p u ò sor r iderne , e c r edo che Vieusseux ne abbia infatti mol to sorr iso . Ma e rano le reazioni abnormi di un Paese abituato alle umilia­zioni.

L'anno d o p o , palazzo Buonde lmon t i , dove il Gabinetto e VAntologia avevano la loro sede, si pa rò a festa p e r il ricevi­mento a un ospite d'eccezione: Alessandro Manzoni che ve­niva a Firenze per risciacquare in Arno i panni dei suoi Pro­messi sposi, il romanzo che aveva messo in subbuglio l'Italia. C 'erano tutti, anche Leopardi . E anche questo avvenimento fece epoca. S e m p r e più l 'Italia si abituava a g u a r d a r e a Fi­renze come alla sua piccola Atene e a p r e n d e r n e il la. Nel '29 Niccolini, altro pu led ro di Vieusseux, vi fece r appresen ta re la sua tragedia Giovanni da Procida, che rievocava i Vespri Si­ciliani. Montanel l i scrisse che i l Niccolini, p u r n o n avendo «né la vigorìa dell'Alfieri né l'estro lirico del Manzoni, l 'uno e l'altro superò in ricchezza di a rmonie e di colore». Invece li superava soltanto in bolsaggine e c iarpame retorico. Ma il la­voro ebbe ugualmente un immenso successo per il significa­to patriottico che imprestava ai Vespri, i quali invece n o n ne avevano avuto nessuno . L'ambasciatore francese pro tes tò pe r le violente invettive che vi r i suonavano cont ro la Fran­cia. Ma il suo collega austr iaco lo calmò. «Queste invettive - gli disse - sono indirizzate a voi, ma rivolte a noi.» Ed era vero. Neanche a Firenze si poteva sproloquiare di re t tamen­te contro l'Austria. Lo si faceva indi re t tamente , fingendo di par lare di un altro Paese; ma lo si faceva.

Per ques to , solo pe r ques to , Fi renze e ra d iventa ta e sa­rebbe pe r un pezzo rimasta la «capitale morale» d'Italia: pe r la sua libertà.

CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO

FRA CARLO FELICE E CARLO ALBERTO

Car lo Felice, i c o n t e m p o r a n e i lo c h i a m a r o n o Carlo Feroce, ma in realtà la sua ferocia si sfogò più a parole che a fatti. A giudicarlo dalle let tere, nessuno aveva la forca più facile di lui. Q u a n d o era in S a r d e g n a , scriveva al fratello nel suo sgrammat ica t i ss imo francese: «Ammazza, ammazza , p e r i l bene del genere umano». Dopo i moti del ' 2 1 , o rd inò un ca­stigo esemplare , ma ne affidò coi pieni poter i l 'esecuzione a T h a o n di Revel n o t o r i a m e n t e p o r t a t o alla mitezza. Delle settanta condanne a mor te si compiacque, e lo disse; ma for­se a l t r e t t an to si compiacque , sebbene n o n lo dicesse, che sessantotto di quei condanna t i fossero al s icuro oltre fron­t iera , né mosse r i m p r o v e r i a l g o v e r n a t o r e di Genova che aveva dato il passaporto ai fuggiaschi.

A Torino, il Re ci stava poco. L'unica cosa che ve lo richia­mava o tratteneva era il teatro. Non perdeva uno spettacolo, sia di musica che di prosa, e u n a sera che D'Azeglio e alcuni suoi amici chiacchieravano come al solito nel loro palco, si vi­dero arrivare un ufficiale delle guardie che gli disse: «D'inca­rico di Sua Maestà, l'invito a tacere». Così Carlo Felice conce­piva e praticava il suo mestiere di Re: che i sudditi si tenesse­ro quieti e si astenessero dal seccarlo anche a teatro. Secondo D'Azeglio, il suo regime era «un dispotismo pieno di ret te e oneste intenzioni, ma del quale e rano rappresentant i ed arbi­tri quat tro vecchi ciambellani, quat tro vecchie dame d 'onore, con un formicaio di frati, preti, monache, gesuiti».

Per istaurarlo, cioè pe r res taurar lo , Carlo Felice n o n ave­va esitato a ch iamare gli austriaci, e ora doveva fare i conti con loro che occupavano tu t to i l Paese e n o n mos t r avano

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p u n t a voglia d ' andarsene . Solo dopo molte proteste, egli ot­t enne che le guarnigioni fossero r idotte, ma pe r il loro tota­le ritiro dovette aspet tare la fine del '23. Ma più che questo, il motivo dei suoi dissapori con Met te rn ich fu il p r o b l e m a della successione, da cui voleva a tutti i costi escludere Carlo Alberto. L'odiava a mor t e , lo chiamava «pollone d e g e n e r e della nos t ra famiglia», e t u t to ques to ora faceva c r e d e r e ch'egli complot tasse col Cancel l iere austr iaco pe r me t t e r e sul t rono, alla p ropr i a mor te , la n ipote Beatrice, allora mo­glie del duca Francesco IV di Modena .

La voce era comple tamente falsa. Metternich non pensa­va m i n i m a m e n t e a Francesco di cui, sebbene austr iaco e di concezioni so l idamen te reaz ionar ie , diffidava più che di Carlo Alberto, e temeva che costui, in caso di estromissione, sarebbe diventato «il Re dei Carbonari» , p ro te t to e a iutato dalla Francia. Ma n e m m e n o Carlo Felice pensò mai a Fran­cesco. Il suo proget to era quello di p romuove re d i re t tamen­te al t rono il figlio di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele , sot­to u n a Reggenza dest inata a d u r a r e pe r la sua m i n o r e età. Ma Metternich respinse anche questa soluzione, vedendovi u n a fonte d'incertezze e instabilità. Al Congresso di Verona, che le Potenze della Santa Alleanza t ennero alla fine del '22, fu definitivamente stabilito che il cont inuatore della dinastia sabauda sarebbe stato Carlo Alberto.

Costui e r a a Firenze, ospite del G r a n d u c a suo suocero , che gli aveva dato un a p p a r t a m e n t o in palazzo Pitti. Aveva rischiato di pe rde re il figlio in un incendio ch 'era costato la vita, pe r salvarlo, alla sua nutrice, e ne aveva avuto un altro, Ferd inando . Non stava d a n d o u n a gran prova di carat tere . Ma lg rado il r ass icuran te v e r d e t t o di Verona , si d i sperava pe r l 'ostracismo cui era condanna to , e n o n faceva che scri­vere supplici lettere a Carlo Felice, che n o n gli r ispondeva. Gli m a n d ò anche un lungo memoria le in cui, pe r scagionar­si, accusava tutti i ministri e dignitari , a t t i randosene addos­so l'ira e le maldicenze. Accennò all 'idea di chiedere un co­m a n d o nell 'esercito russo o di emigra re in America previa

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r inunc ia al t rono ; ma C a p p o n i lo dissuase. Scrisse al Papa p e r o t t e n e r e la sua in tercess ione, e il Papa scrisse a Car lo Felice. Quest i gli r ispose che il r avved imen to del Pr incipe sarebbe stato la sua più g r a n d e consolazione; ma che se i l S ignore aveva r e a l m e n t e c o m p i u t o miracolo , o ra doveva compie rne u n o molto più difficile: quello di pe r suade re lui che il miracolo si e ra avverato.

Carlo Alberto cercò scampo ai suoi s t ruggimenti nella fe­de , o a lmeno fece di tut to p e r lasciarlo credere . Chiese le fo­tografìe di Car lo E m a n u e l e , i l Re abdicatar io che da poco aveva concluso la sua vita in monas tero , e della sua pia mo­glie Clotilde, e ne imitò l 'esempio dandos i a in tense pra t i ­che religiose. Ma Carlo Felice, pe r quan to anche lui religio­sissimo, n o n abboccò. «È u n a vipera intorpidi ta dal f reddo - scriveva a suo fratello -. A p p e n a si riscalda, t o rna a mor ­dere.» E infatti a quella crisi di misticismo e rano in pochi a c redere , anche pe rché contrastava con razzolamenti che vi s ' intonavano poco. A Firenze si parlava molto delle scappa­telle del Principe «dietro tu t te le donnicciòle galanti». Suc­cessivamente gli agiografi di Carlo Alberto l ' hanno smenti­to . Ma lo stesso C a p p o n i , suo g r a n d e amico, scriveva al T o m m a s e o che «tutti r i devano a veder lo inginocchia to in chiesa», essendo noto che den t ro il libro di p regh ie re tene­va la sua corr ispondenza amorosa.

Alla fine gli si p resentò l'occasione del riscatto. A Verona, le G r a n d i Potenze avevano deciso l ' in te rvento mil i tare in S p a g n a pe r res t i tu i re i l p o t e r e assoluto al re F e r d i n a n d o , o rma i p r ig ion ie ro dei Costituzionali e comp le t amen te de-sautora to . Stavolta la Francia n o n solo n o n si o p p o n e v a al transito della spedizione, ma anzi ne forniva il ne rbo e se ne accollava il comando . Carlo Alberto chiese immedia tamente di arruolarsi , e Carlo Felice si affrettò a da re il suo assenso. «Così - scrisse il Re al fratello - o si farà accoppare , e ci sare­mo liberati di lui; o si me t t e rà in condizioni di r i pa ra re al­m e n o in pa r t e ai suoi torti . Perché n o n c'è nulla al m o n d o che mi r ipugni più di lui.»

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Carlo Alberto par t ì nel maggio (del '23), accompagna to da un aiutante di campo incaricato di sorvegliarlo e di rife­r ire. «Mi pare - questi scrisse al Re - che il Principe vorreb­be in un m o d o purchessia r ipor ta re sanguinose ferite», e il Re gli r ispose che «se la Provvidenza lo voleva salvo, t an to meglio p e r lui; ma se u n a palla gli fracassava la testa, pa­zienza».

Ci mancò poco che succedesse. All'assalto del Trocadero , Carlo Alberto si but tò a corpo mor to e tra i pr imi sventolan­do la bandiera , tanto che fu insignito sul campo della massi­ma decorazione e i granatieri francesi della Guardia, ch'egli aveva gu ida to in quello spericolato assalto, gli offrirono le spalline di caporale . Il Pr incipe ne fu lusingato, ma il p r e ­mio a cui aspirava e r a un al t ro . «Spero che il Re sarà con­tento di me» disse all 'aiutante. L'aiutante riferì, e il Re rispo­se facendo sopp r imere la notizia del l 'episodio nei giornali di Torino.

Finita quel la c a m p a g n a in un 'o rg ia d ' impiccagioni , i l Principe prese la via del r i torno facendo sosta a Parigi. Il re Luigi XVII I lo ricevette e gli d imostrò tut ta la sua interessa­ta benevolenza . Lo p r e s e n t ò alla Cor te come «l 'Eroe del Trocadero», e stavolta esigette at traverso il suo ambasciato­re che la notizia fosse da ta anche dalla s tampa piemontese . Dopod iché fece ufficialmente c o m u n i c a r e a Car lo Felice ch'egli trovava es t remamente disdicevole che il Principe fos­se t r a t t a to come un proscr i t to . Al la rmato da ques to gesto che rischiava di t rasformare «l 'erede del t rono di Sardegna in un grana t ie re francese», Met ternich chiese a sua volta a Carlo Felice di re in tegrare Carlo Alberto in tutti i suoi dirit­ti. Il Re non se ne mostrò p u n t o ansioso, e p r ima di cedere volle p r e n d e r e le sue p recauz ion i . Alla fine de l l ' anno m a n d ò a Parigi il marchese Alfieri che sottopose alla firma di Car lo Alber to un so lenne i m p e g n o . I l Pr inc ipe doveva giurare di r ispet tare, u n a volta sul t rono, tut te le leggi fon­damen ta l i della m o n a r c h i a , so t tomet tendos i a l l ' a rb i t ra to d ' u n Consiglio di Stato formato dai p iù alti - e perc iò dai

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più reazionari - notabili della Corte e della Chiesa. Sia il Re che Metternich sapevano che ques t ' impegni contano poco. Ma sapevano anche che, f i rmandoli , Carlo Alberto forniva n u o v a mate r i a agli at tacchi dei l iberali , i l che lo avrebbe vieppiù allontanato da loro.

Ora alla fine gli e ra concesso di r ien t ra re a Torino. Ci ar­rivò p r o p r i o nel m o m e n t o in cui Feder ico Confa lonier i p r endeva la via dello Spielberg, e i liberali n o n si as tennero dal sottolineare la coincidenza. Nei loro scritti lo chiamava­no «il traditore», «lo spergiuro», «l'esecrato Carignano». E il Re n o n lo aiutò di certo a supe ra re l 'amarezza di questi at­tacchi. Gli m a n d ò incont ro u n a staffetta con l ' ingiunzione di n o n en t ra re in città che a notte fonda e pe r viuzze traver­se, cioè come ne era uscito, da ladro, t re anni pr ima. L'indo­mani lo ricevette, ma nessuno assistè al loro colloquio.

Subito dopo il Principe proseguì per Firenze per conge­darsi dal Granduca , r ingraziarlo dell'ospitalità e r iprenders i la moglie e i figli. A Torino n o n ci fu nessun ricevimento in suo onore . Carlo Felice gli negò il titolo di Altezza Reale men­tre, pe r fargli sentire ancora di più l 'umiliazione, lo r iconob­be a sua moglie, e lo escluse r igorosamente da tutti gli affari di governo. La maggior pa r te del suo t e m p o Carlo Alberto la t rascor reva nel castello di Racconigi . In città, a palazzo Car ignano, ci stava poco, anche perché n o n ci respirava che astio e rancore con tutti i nemici che si era fatto col suo me­moriale. Contribuiva a procurargl iene anche la sua p ropen­sione alla caricatura. Come tutti gli uomini di scarsa perso­nalità, imitava benissimo quella degli altri e nel rifare il ver­so alla gen te era un maes t ro . I p iemontes i n o n h a n n o mai avuto molto umor i smo, e specie quelli di Cor te ne e rano to­ta lmente sprovvisti. Le corbellature l'imbestialivano al pun ­to che Cesare Alfieri di Sostegno supplicò il Principe di aste­nersene .

Carlo Alberto obbedì. Era diventato docilissimo. Non ve­deva che persone d ' immacolata fedina reazionaria, che tut­tavia, al suo confronto, sembravano quasi rivoluzionari, tan-

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to lui ardeva di zelo assolutistico. Un giorno si presentò fu­r e n t e dal Re p e r denunz ia rg l i un so t to t enen te del Genio che fin allora gli aveva fatto da paggio e che, d e p o n e n d o n e l 'uniforme, l'aveva chiamata «livrea da lacchè». Quel giova­ne si chiamava Camillo Benso di Cavour, e questo episodio fu il p r imo segno della profonda antipatia che sempre divi­se i d u e uomini .

La p r ima cer imonia ufficiale cui Carlo Alberto fu invitato a p r e n d e r e par te fu il r icevimento a l l ' Impera tore d'Austria, Francesco I, q u a n d o nel '25 venne a Genova; e l'invito ave­va il suo perché . Carlo Felice sperava che i visitatori gli por­tassero da Vienna la copia dei document i del processo Con­falonieri che coinvolgevano il Principe pe r metterglieli sotto il naso e umil iar lo davant i a l l ' I m p e r a t o r e . Siccome questi n o n si pres tò , il Re esigette che il Principe ribadisse anche di fronte agli austriaci g l ' impegni che aveva giurato a Pari­gi. Metternich racconta che il Principe s'inginocchiò davan­ti al Re, che p e r l ' ennes ima volta gli chiese p e r d o n o p ian­gendo , e che il Re gli disse, severamente: «È a l l ' Impera tore , non a me , che dovete la vostra riabilitazione. Non dimenti­catelo mai, e n o n date occasione al vostro prote t tore di r im­piangere la sua generosità».

Se v e r a m e n t e le p r o n u n c i ò , ques te pa ro le n o n fanno molto onore a Carlo Felice: nessun Savoia, pe r nessun moti­vo al m o n d o , aveva mai spinto un p ropr io successore a fare atto di vassallaggio, sia p u r e morale , a un Sovrano stranie­ro . Egli respinse , come il suo predecessore , la p ropos t a di Metternich di en t ra re a far par te di una Lega Italica, natu­ra lmente capeggiata dall 'Austria; ma n o n esitò a sollecitare ancora u n a volta la protezione di Vienna q u a n d o di lì a po­chi anni la Francia fu nuovamente scossa dai fremiti rivolu­zionari che provocarono la caduta dei Borbone e l 'innalza­mento al t rono di Luigi Filippo d 'Orléans, il genero di Fer­d i n a n d o di Napol i . La sua azione di gove rno si r idusse a ben poca cosa, e a beneficiarne fu sopra t tu t to la Sardegna , cui era r imasto attaccato da vincoli d'affetto. Vi fece costrui-

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re un certo n u m e r o di ope re pubbliche, le det te un corpo di leggi civili e penal i p iù m o d e r n e di quelle che vigevano in Piemonte e, pe r metterla al sicuro dalle incursioni dei pirati barbareschi che con t inuamen te la tr ibolavano, m a n d ò u n a spedizione navale che a suon di cannona te r idusse alla ra­gione il Bey di Tripol i e lo costr inse a f i rmare un so lenne impegno .

Gran par te del t empo seguitava a passarla a Genova e in Riviera, e molt i si s tup ivano di ques ta sua p re fe renza p e r u n a città e u n a regione ape r t amen te ostili al dominio e alla dinastia sabauda. Ma Carlo Felice n o n ne era offeso perché n o n ci vedeva nessun t rad imento : i liguri e rano sempre sta­t i r epubbl ican i , ed e ra logico che segui tassero ad esserlo. Era ai p iemontes i che n o n p e r d o n a v a i l collaborazionismo con la Francia e la r ibel l ione del '21 pe r ché li considerava atti di fellonìa. Egli aveva della lealtà un concetto feudalesco e medieva le , e in ogn i infrazione vedeva u n ' e m p i e t à . Fin q u a n d o suo fratello fu vivo, Carlo Felice n o n perse occasio­ni di rendergl i omaggio come al vero Re, quasi consideran­do se stesso un Viceré o L u o g o t e n e n t e . Negli ul t imi a n n i l ' impegno che più lo assorbì fu il r ia t tamento di Hautecom-be, il mausoleo gotico dei Savoia, vicino a Chambéry. Le sue frequenti e lunghe visite a quel tetro e solenne ossario che si staglia in u n o dei più malinconici e funebri angoli delle Al­pi, rivela tut to il suo carat tere di Sovrano m o n t a n a r o e pa­ternalista attaccato alle sue valli e alla tradizione di famiglia.

Poli t icamente, valeva molto m e n o di Carlo Alberto che, p u r con tutte le sue ambiguità, la missione italiana della di­nastia l'aveva intravista, anche se pe r calcolo o codardia era s e m p r e p r o n t o a t radir la . Ma m o r a l m e n t e e ra mol to al di sop ra di lui. Per i l t r o n o n o n br igò mai , ebbe un sacro ri­spetto del pubblico denaro , n o n concesse nulla alla popola­rità, anzi ne rifuggì con o r ro re , n o n fece mai u n a promessa che poi n o n mantenesse e , p u r ve rgognandosene come d i debolezze, ebbe le sue generosità. Da un r a p p o r t o del D'A-glié risulta che non smise mai di passare sotto banco dei sus-

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sidi agli esuli del '21 ch'egli aveva fatto condanna re a mor te in contumacia. E il radicale Brofferio, che lo detestava, rac­conta che q u a n d o Carlo Felice seppe che u n o di questi sus­sidi andava ai congiun t i di u n o dei d u e giustiziati, o r d i n ò che lo raddoppiassero .

Ed ora i n t e r rompiamo il p a n o r a m a politico pe r fare po­sto a quel lo cul tura le , esemplif icandolo nelle sue più r ap ­presentative figure.

CAPITOLO TRENTACINQUESIMO

FOSCOLO

La sera del 4 genna io 1796 si r a p p r e s e n t ò a Venezia u n a t ragedia di stile alfieriano, cioè «urlata» dalla p r ima all'ulti­ma ba t tu ta , che s ' intitolava Tieste. Ur lò a n c h e il pubbl ico , d ' u n en tus iasmo n o n sapp iamo quan to sincero, evocando alla r ibalta l ' au tore , che n o n si p re sen tò . Si chiamava U go Foscolo, e aveva diciannove anni .

Era nato a Zante, figlio di un medico veneziano, che poi era mor to . E sua m a d r e aveva porta to i figli a Venezia, dove li aveva tirati su con molti sacrifici. Ugo aveva il carattere dei suoi capelli, ch 'e rano d ' un rosso a rden te . Aveva cominciato a dar grattacapi fin da bambino con la sua cagionevole salu­te. Una volta lo cura rono col vino, e gliene p rop ina rono tan­to che non volle mai più berne . Fu la sua unica astinenza.

Aveva debut ta to come capo di squadracce scugnizze de­dite a ogni sorta di vandalismi ed era stato il t e r ro re dei suoi maestri di scuola. Poi d ' improvviso gli era scoppiata in cor­po u n a g ran voglia d ' impa ra re , di leggere e sopra t tu t to di scrivere. A sedici anni but tò giù un piano di lavoro da riem­pir la vita di dieci letterati longevi: c'era den t ro la traduzio­ne di tu t to O m e r o , di tu t to Tacito, d i tu t to P inda ro , saggi critici, alcuni poemi, un canzoniere. Il suo professore, l'aba­te Dalmis t ro , diceva: «Non so se da ques to sopraffat tore ver rà fuori un genio o un avventuriero». Come se fra l 'uno e l 'altro ci fosse incompatibilità.

Si e ra i n n a m o r a t o p r ima ancora di sapere di chi. I l suo cassetto era gremi to di lettere appassionate in attesa di de­st inataria, e occasioni di utilizzarle n o n gliene m a n c a r o n o mai . U n a s ignora molto ospitale, Isabella Teotochi Marin,

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mezzo greca anche lei, e moglie di un g rande «notabile» del­la Serenissima, sentì par lare di questo ragazzo-prodigio, ne lesse alcuni scampoli pubblicati su u n a rivista locale, e lo in­vitò nel suo salotto. Privo di qualsiasi «uso di mondo», Ugo vi si sentì impacciato e a disagio. Ma la p a d r o n a di casa capì che qualcosa covava sotto quella selvatica scorza e volle sco­pr i r lo : a Ietto, n a t u r a l m e n t e . Fu investita da una colata di lava, sommersa non solo da baci e carezze, ma anche da sfu­riate di gelosia, lettere di pen t imento , odi e sonetti. Un gior­no, accorso al solito a p p u n t a m e n t o , Ugo si sentì d i re dal ca­mer i e r e che la s ignora era par t i ta in viaggio di nozze e gli aveva lasciato u n a le t tera . In essa Isabella gli diceva che , avendo o t tenuto il divorzio dal mari to , aveva sposato un al­t ro , e t e rminava con ques te pa ro le : «Cogli il favore delle d o n n e come i f iori delle stagioni. Va' mio ragazzo. Te ' un bacio: n o n mi g iurar fedeltà, ch'io né credo né lo voglio».

Ugo corse a casa, prese un pugna le , ma lo r ipose, come gli capi terà anche altre volte. Si uccise invece un suo com­p a g n o di scuola fr iulano, J a c o p o Ort is , senza lasciare u n a lettera né u n a parola di spiegazione. Quell 'episodio Io colpì p ro fondamente , r e n d e n d o ancora più cupa la disperazione in cui era precipi tato. Cercò sfogo nella politica, la cui aria in quel m o m e n t o si met teva a t empes ta . Si par lava di un esercito francese in marcia su Milano al comando di un gio­vanissimo Genera le còrso, a rmato n o n soltanto di cannoni , ma anche d ' idee di libertà e di uguaglianza. Ugo disse subi­to la sua, ch 'era a p p u n t o la libertà e l 'eguaglianza, e la disse così forte che l 'a r res tarono e d o p o il rilascio gli consigliaro­no di anda re a p r e n d e r aria altrove. Andò sui colli Euganei , e fu lì che compose il Tieste.

Il successo n o n l 'ubriacò. Più che u o m o di teatro o di let­tere , si sentiva u o m o d 'azione, e pe r agire corse là dove si poteva, nella Repubblica cispadana appena formata, pe r ar­ruolarsi nel suo esercito come cacciatore a cavallo. In tasca aveva, pe r farne d o n o alla città di Reggio, l'Ode a Bonaparte liberatore, che ora si p repa rava a l iberare anche Venezia. Vi

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accorse pe r collaborare all ' impresa e assumervi il suo posto, e la sua voce r isuonò n o n soltanto dal palcoscenico su cui si recitava la sua t ragedia . Il pod io del t r i buno conveniva al suo t emperamen to . Per tut ta la sua vita, Foscolo n o n seppe mai discutere e t a n t o m e n o conversare , ma solo p red ica re , anzi schiamazzare , a l t e r n a n d o i toni della p e r o r a z i o n e a quelli dell'invettiva. Ne fece le spese anche Alfieri, di cui era stato fin allora il più sperticato esaltatore e cui aveva dedica­to il Tieste, ma che u l t i m a m e n t e aveva ch iamato i francesi «pidocchiume». Foscolo chiese che i suoi d r a m m i fossero bandi t i , che fossero chiusi i circoli dei nobili, che le s tatue dei Dogi reazionari venissero da te alle f iamme. Tut to que­sto gli valse l 'inclusione nella lista dei par lamentar i da invia­re a Mombello pe r t rat tare con Bonapar te , o meglio pe r ri­ceverne gli ordini . Ci a n d ò t r ep idando come incontro a un Messia. Ne to rnò deluso dal piglio satrapesco del Genera le e dall 'aria di baldoria che regnava in torno a lui. E gli avve­niment i che segui rono n o n furono di cer to tali da farlo ri­c rede re . Invece di l iberarla, Napo leone aveva v e n d u t o col t ra t ta to di Campoformio Venezia all 'Austria, e i reazionar i po tevano prenders i la loro vendetta.

Per sfuggirvi, a Foscolo non rimase che la fuga a Milano. Vi trovò Monti, che aveva già incontrato e di cui era diven­tato amico a Venezia. Monti e ra nei guai. La sua Bassvillia-na, il ca rme in cui quat t ro anni p r ima aveva esaltato il mas­sacro del diplomatico francese Basseville a Roma, aveva cor­so l'Italia e lo rendeva inviso al nuovo regime repubblicano e giacobino. Ma in compenso poteva contare su una moglie che, p u r r iempiendolo di corna, al mari to e alla sua carr iera ci teneva: Teresa Pikler. Accorta amministratr ice dei p rop r i mezzi di seduz ione , c h ' e r a n o cospicui , si e ra scelto come aman te un colonnello francese dest inato alla feluca di Ma­resciallo, M a r m o n t . Ma a d i fendere il poe ta minacciato di epuraz ione fu anche Foscolo, e pe r gli stessi motivi del co­lonnello. Appena conosciutala, anche lui si era innamora to di Teresa al suo solito m o d o tempestoso e delirante. Ma Te-

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resa, sebbene un po ' somigliasse a Isabella, non ne aveva la vocazione di nave-scuola. Teneva Ugo a mezza co t tura coi suoi adescament i pe r r ipagar lo delle sue perorazioni in fa­vore del mari to, ma le grazie le riservava a corteggiatori più altolocati, e quindi più utili, di quel ragazzo ventenne pieno di talento, ma senza arte né par te .

Ugo cercava consolazione nel lavoro e nella compagn ia dei let terati . Scriveva nel Monitore articoli ispirati a un pa­triottismo enfatico, ma non privi di qualche lucida intuizio­ne, ed era diventato inseparabile del vecchio Parini, sebbe­ne con lui n o n avesse p ropr io nulla in comune . Ma ogni po­co tornava da Teresa a ossessionarla con d rammat iche sup­pliche o d i spera t i silenzi. Forse, p iù che a m o r e , e ra a m o r p ropr io ferito da quell 'ostinato rifiuto. Dopo averlo più vol­te minacciato, ar r ivò al suicidio i n g e r e n d o u n a dose d 'op­pio abbastanza forte pe r addo rmen ta r s i , ma n o n pe r sem­pre . Invece di commuoversene , Teresa se ne vantò coi suoi amici che ne fecero ogge t to di e p i g r a m m i e corbe l la tu re . Era t roppo . Ugo r u p p e con tut to e con tutti, anche con Mi­lano, e si trasferì a Bologna con armi e bagaglio, che si r idu­ceva a un po ' di b iancher ia , a Tacito, a Plu tarco e alla sua collezione di lettere d ' amore in attesa di destinataria.

Bologna era allora la capitale della Repubblica cispadana n o n ancora fusa con la Cisalpina. Ugo trovò un piccolo im­piego in u n o dei tanti uffici in formazione, e si bu t tò a capo­fitto nella s tesura di un r o m a n z o che aveva già iniziato: Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Il n o m e dice quale episodio glie­ne avesse suggerito l'idea. Ma a fargliela ma tu ra r e era stata la let tura del Giovane Werther, che forniva il modello a quella generazione di romantici «disadattati» cui egli stesso appar­teneva, o credeva di appar t ene re . Nessuno sa per quali mo­tivi il vero Jacopo si fosse ucciso. Ma a Foscolo fu facile attri­buirgli i suoi di pa t r io ta e di a m a n t e deluso. Quel J a c o p o , cavaliere e r ran te di un tradito ideale di patria e di giustizia, respinto dal l 'amore, reietto dalla società, somigliava a lui, o a ciò che lui credeva di essere.

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Ma n o n po tè c o n d u r r e a t e r m i n e i l lavoro, r i ch iamato dall 'azione politica e militare. Partito Bonapar te pe r l'Egit­to, gli austriaci e rano scesi alla controffensiva e di lagavano in Italia. Il tenente Foscolo tornò a indossare la sua divisa di Cacciatore, combat té in Romagna , cadde pr igioniero, fu li­bera to dai francesi, e li seguì p r ima a Firenze, poi a Genova, dove essi fecero quadra to e lui con loro. Partecipò con ono­re ad alcuni combat t iment i , fu p romosso cap i tano , ma ri­trovò Teresa rifugiatasi lì anche lei insieme al mari to, e ci ri­cascò fino a t en ta re u n a seconda volta il suicidio, ma sem­p r e con le solite cautele di dosaggio. Di mor i re rischiò vera­mente nello scontro dei Due Fratelli, dove le sue gesta furo­no citate nel l 'ordine del g iorno dal generale Masséna. Dopo il r i torno di Napoleone a Marengo, riéccolo a Milano addet­to allo stato maggiore del generale Pino, che lo spedì in mis­sione a Firenze.

Per lui, Firenze era soprat tut to Alfieri che da molti anni vi si e ra ritirato con la D'Albany, e con cui si e ra idealmente riconciliato d o p o le invettive di Venezia. A n d ò a renderg l i omaggio, ma non fu ricevuto: «irato ai patri i numi», il vate si era chiuso nella più sdegnosa solitudine. Da ch iunque al­t ro gli fosse venuto , Foscolo n o n avrebbe soppor ta to un si­mile affronto. Da lui lo accettò, e aveva ragione: Alfieri era il suo vero padre , il capostipite della famiglia a cui appar tene­va. Per consolarsi , girovagava fra le t ombe di Machiavelli, Michelangelo e Galileo, ma in un intervallo di queste fune­bri scor r ibande inc iampò in Isabella Roncioni, e fu pe r lui un 'ennes ima cotta.

Di famiglia nobile e ricca, Isabella e ra a p p e n a uscita di collegio, sognava l 'amore con l'A maiuscola, e nessuno era qualificato a incarnar lo più di questo giovane ufficiale n o n bello, anzi f rancamente bru t to col suo viso un po ' scimmie­sco; ma vibrante, intenso, esclamativo e d rammat ico . Tutto s i svolse in un roman t i co intreccio d ' incont r i n o t t u r n i , di mure t t i scavalcati, di travestimenti , di snervanti attese den­tro le siepi del giardino, e si ridusse a qualche bacio furtivo,

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ma conquistato a tale prezzo da appaga re più di un amples­so. Fu con un s u p r e m o sforzo che Ugo dovet te i n t e r p o r r e una pausa pe r accorrere a Bologna, dove l 'editore gli aveva pubbl icato a t r a d i m e n t o , d a n d o l o pe r concluso, l 'abbozzo dell'Ortis, e in d u e edizioni diversamente r imaneggiate: u n a pe r con ten ta re gli austriaci, q u a n d o e r ano arrivati nel '99, l'altra pe r contentare i francesi, q u a n d o e rano tornat i dopo Marengo.

I l povero edi tore si vide i r r o m p e r e addosso un energu­m e n o con la sciabola sguainata che gl ' ingiunse di distrugge­re sedu ta s tan te tu t t e le copie giacenti in magazz ino e di pubblicare nei giornali di Firenze e di Bologna u n a dichia­razione in cui riconosceva che il romanzo s tampato n o n cor­r i spondeva a l testo, r iman ipo la to «da un prezzola to che convert ì le le t tere calde, originali , i taliane del l 'Ort is in un centone di follie romanzesche, di frasi adul tera te e di anno­tazioni vigliacche». Dopodiché, col manoscri t to sotto il brac­cio, Foscolo r ip rese la via di F i renze , dove lo a t t endeva la notizia che Isabella era stata fidanzata d 'autori tà a un conte Bar to lommei , mol to m e n o a t t rezzato di lui alla p a r t e d i amante , ma molto di più a quella di mari to .

Era un d r a m m a del tutto d e g n o del suo sventurato eroe, con cui egli si sentì ancora più spinto a identificarsi. A Mila­no, dove to rnò subito dopo , si rimise al lavoro sul brogliac­cio, lo disfece, lo rifece. Ma bisognava vivere, e gli s t ipendi di Capi tano n o n arr ivavano. La sua protes ta fu vibrata: «E infame che colui che contribuì in gran par te alla vittoria dei Due Fratelli, senza di che Genova era p e r d u t a né l'Italia for­se liberata...», e sembrava insomma che a liberarla fosse sta­to lui col secondario contr ibuto di Napoleone . Ma gli a r re ­trati li ebbe, e con essi ebbe m o d o di r i en t ra re nel «giro» e di f requentare la Scala.

Fu qui che vide Antonie t ta Fagnani Arese, già famosa a ventitré anni n o n soltanto pe r la sua bellezza, ma anche pe r lo sfrut tamento intensivo che ne aveva fatto. Probabi lmente era u n a frigida, ma che sapeva reci tare la sua pa r t e : tutti i

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giovani più in vista di Milano cadevano nelle reti di questa Circe, e forse fu anche questo a stimolarlo. N o n ebbe pace finché n o n le fu presentata , e a fargli questa grazia fu Tere­sa Pikler, forse p e r risarcirlo. Antonie t ta gradì l ' impetuosa cor te di quel lo spas imante così d iverso dagli altri , ma re ­spinse n e t t a m e n t e le sue p re t e se di m o n o p o l i o . U go la soffocava. Q u a n d o non era da lei, era fuori della sua por ta a spiare chi la varcava. La bombardava di let tere, fino t re al giorno gliene scriveva: «Un anno , un solo anno di solitudi­ne insieme con te!» Antonietta ne dava pubblica le t tura agli amici che l 'aiutavano a r i spondere perché , in fatto di sintas­si, e ra piut tosto malsicura. Era d iventa to la favola di Mila­no , ma n o n se n 'accorgeva, o n o n g l ien ' impor tava . Fu in quest 'atmosfera del tut to congeniale al suo eroe che ma tu rò la seconda edizione del romanzo che uscì nel 1802, e fu u n o s t repi toso successo. Da quel m o m e n t o egli fu, pe r tu t te le d o n n e , J acopo Ortis, e come Jacopo Ortis era giusto, tut to sommato , che soffrisse.

Antoniet ta seppe farla d u r a r e a lungo, r iat t izzando con­t inuamente la passione di lui con la gelosia. Ugo era malato, o meglio più malato del solito perché un po ' lo era sempre: soffriva di qualcosa ai reni che ogni g iorno gli dava la feb­bre , e forse era anche questo che contribuiva a esasperare i suoi sent iment i e passioni. Anche pe r distrarsi, giuocava, e q u a n d o gli capi tava di vincere cor reva a c o m p r a r e abiti e cavalli. Data la fama che gli aveva procura to il romanzo , gli o rd ina rono l 'orazione a Bonapar te che i delegati di Milano si r ipromet tevano di leggere ai Comizi di Lione dove sareb­be stata p roc lamata la Repubbl ica i taliana. Avevano scelto male. Pur con tutti i suoi difetti, Foscolo n o n era un Monti p ron to a sciogliere inni e a scampanare elogi al p a d r o n e di t u rno . Ci si provò. Impiegò mesi, lui scrittore di vena zam­pillante e rullante, a redigere quel testo che gli era diventa­to addi r i t tu ra un incubo. Ma n o n riuscì a essere servile. La sua oraz ione a Lione n o n fu letta, ma fu letta dai milanesi che se la passavano da l l 'uno all 'altro, e tutti vi r iconobbero

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la m a n o di un u o m o libero, quale Foscolo era, in un Paese di cort igiani . Alla fine, d o p o scenate e bu r r a sche , t rovò la forza di l iberarsi anche di Antoniet ta . Ad epitaffio, scrisse: «Fu l 'amore più laido della mia vita». Ma non aveva che ven­ticinque anni .

Per disincagliarsi da Milano, dove n o n poteva più veder­si, chiese a Melzi d'Eril un posto di diplomatico a Parigi o a Firenze, ma non l 'ot tenne. O t t enne solo di esser r ichiamato come cap i tano e m a n d a t o col con t ingen te italico a Valen­ciennes, dove Napo leone stava raccogl iendo l 'esercito pe r t en ta re lo sbarco in Inghi l te r ra . N o n c 'e rano molte distra­zioni, a Valenciennes . Ma c 'era u n a colonia d ' inglesi che , sorpresi in Francia dalla guer ra , e rano stati confinati lì. Fo­scolo diventò subito amico di u n o di loro, i l maggiore Ha­milton, titolare di un comodo villino, di u n a moglie e di una figlia, Fanny. Non era bella, e ra anzi un po ' sbiadita, ma in quei paraggi n o n c 'era di meglio, e Foscolo n o n era u o m o da r inunziare a u n a donna , specie se si accorgeva di eserci­tare su di essa del fascino, e su Fanny egli ne esercitava visi­bi lmente moltissimo. Q u a n d o di lì a d u e mesi fu trasferito a Calais, la ragazza gli scrisse ch 'e ra incinta. Ugo rispose, in carat tere con la sua magnanimità , che avrebbe fatto fronte, ma poi se ne dimenticò. Fanny riuscì a r imedia re t rovando un altro mari to , e affidando la creatura a sua madre . Fosco­lo era le mille miglia dal l ' immaginare che nella sua vita essa avrebbe contato qualcosa.

A Calais e po i a Bou logne ebbe ancora al t re avven tu re con mogli e figlie degli ufficiali francesi. Nessuna d o n n a riu­sciva a passare accanto a questo bru t to u o m o senza sentirsi tu rba ta dai suoi veement i mono logh i e dai suoi procellosi silenzi. Nel 1806, q u a n d o Bonapar t e ebbe defini t ivamente r inunzia to a invadere l ' Inghil terra , r i en t rò a Milano carico di lettere e di ciocche di capelli, e corse a Venezia a salutare la mad re , che n o n vedeva da nove anni . Pianse di tenerezza fra le braccia di quel la pove ra d o n n a incanut i ta , che sop­por tava con dignitoso coraggio la sua solitudine e povertà .

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Essa gli disse che Isabella Teotochi , o r a contessa Albrizzi, aveva saputo del suo arr ivo e voleva rivederlo. Anche lui vo­leva r ivederla , e corse da lei, convinto di t rovare un rotta­me . No. Sebbene avesse già quaran taqua t t ro anni , e ra anco­ra bella. Le propose una visita al Terraglio, la fastosa villa di cui il nuovo mari to l'aveva fatta pad rona . Ci anda rono , pas­seggiarono per i vialetti tenendosi pe r m a n o e fecero l 'amo­re come dieci anni pr ima, su una p roda .

Ques to poscr i t to fu l 'unico suo a m o r e p lac ido e senza tempeste , e d u r ò d u e mesi. Poi dovette r i en t ra re a Milano, b e n deciso a concen t ra r s i u n i c a m e n t e sui suoi lavori e a mettervi un po ' d 'ordine. Pur in mezzo a tutti quei tramestìi aveva sempre cont inuato a p r o d u r r e , ma in maniera disper­siva e sommaria, m a n d a n d o avanti parecchie cose alla volta secondo gli estri e gli u m o r i : lavori di e rud iz ione come la Chioma di Berenice e il Didimo Chierico, di t raduzione come il Viaggio sentimentale di Sterne, l 'abbozzo di un romanzo auto­biografico. Foscolo n o n aveva u n a p r e p a r a z i o n e cul tura le organica e p ro fonda . Le sue le t ture e r ano state molte , ma frettolose, e si possono desumere dal suo stile che fin allora le aveva r iecheggia te un po ' tu t te : P lu tarco , Petrarca , Os­sian, Alfieri sono riconoscibilissimi. Forse egli sentiva che , pe r diventare se stesso, aveva bisogno di assimilare e decan­tare tutti questi e lementi . Si mise a tavolino, scrisse / Sepol­cri, e corse a Brescia dallo s t ampa to re Bet toni pe r pubbli­carli.

Ques t ' uomo disordinato, che scriveva q u a n d o e dove gli capitava e spesso perdeva i suoi brogliacci, q u a n d o si tratta­va di s tampa era meticoloso fino alla manìa, una vera dispe­razione pe r i tipografi. N o n aveva t empo per gli amici e gli ammira tor i locali che lo avevano festosamente accolto, non ne ebbe n e m m e n o p e r accorgersi della contessa Marzia Mart inengo, la star di Brescia. Ma, tornato a Milano d o p o la pubblicazione del carme, ci r ipensò. Il lavoro riscosse gran successo pe rché ribadiva l ' immagine ormai accreditata, e al­lora di gran moda , del magni loquente poeta delle tombe. E

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sulle ali di questo successo to rnò a Brescia pe r farsi p e r d o ­nare da Marzia la sua distrazione. Essa non chiedeva di me­glio.

Anche ques to fu un a m o r e abbastanza placido che n o n turbò il suo accresciuto impegno di lavoro. O r a gli era nata in corpo u n a nuova ambizione: la ca t tedra universi taria, e tanto fece che la o t tenne, a Pavia. Convinto che quello fosse il suo definitivo destino («Ho varcato i t rent 'anni , e bisogna ch'io pensi alla quiete e alle lettere»), s 'indebitò fino al collo p e r mettervi su una casa comoda insieme all 'amico Monte-vecchio, un ricco signore marchigiano che faceva lo s tuden­te di professione. Per la pro lus ione , cui aveva lavorato pe r mesi, aveva invitato tut te le maggiori personalità di Milano, meno quelle ufficiali. C'era anche Monti, che gli aveva rac­comandato : «Aggiungi un cenno che ape r t amen te tocchi le laudi del Principe», cioè di Napoleone e del viceré Eugenio. Ma Foscolo ignorò vo lu tamente l 'uno e l 'altro, e forse n o n fu ques ta l 'u l t ima r ag ione de l l ' immenso successo che ri­por tò . Part icolarmente entusiasti, i giovani gr idarono: «Alle s t ampe , alle stampe!» E l ' au tore consent ì . «Il Pr incipe, ti r accomando il Principe!» insistè Monti che, da vero lettera­to italiano, n o n poteva concepire u n o scritto senza cortigia­ner ie . Ma neanche stavolta Foscolo l'ascoltò. Se lo guidasse un amore di libertà o non piuttosto un'orgogliosa e proter ­va affermazione del p r o p r i o io di stile alfieriano, è difficile dire. C o m u n q u e , poco dopo la cat tedra venne soppressa, e lui si r i trovò ancora u n a volta sul lastrico e con tut te le spese della casa da r i fondere ai creditori.

Que i p r imi mesi del 1809 furono dur i , anche sul p i ano sen t imenta le . Ca rezzando v a g a m e n t e p ropos i t i m a t r i m o ­niali, aveva messo gli occhi addosso alla figlia del conte Gio-vio, Cecchina, ma nello stesso t e m p o aveva teso le reti alla bella mogl ie d ' u n banch ie re , M a d d a l e n a Bignami , che c i s'impigliò volentieri . Anche pe r un pol igamo di quella for­za, e ra difficile far fronte c o n t e m p o r a n e a m e n t e a tanti im­pegni , molto più che non aveva ancora disdet to quelli con

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Isabella a Venezia e con Marzia a Brescia. Per tenerle a ba­da, le inondava di let tere, e n o n si capisce dove trovasse il t e m p o di scr iverne tan te . Forse pescava nel vasto archivio accumulato nella p r ima adolescenza.

Ma sop ravvenne u n a compl icaz ione , cui U go n o n e ra abi tuato. Fin lì, anche se n o n aveva s empre avuto la m a n o felice nello scegliersi le amanti , l'aveva avuta sempre felicis­sima nello scegliersi i mariti delle amant i , che n o n lo aveva­no mai impor tuna to . Ma il banchiere trovò da r id i rne , e lo disse così forte che Maddalena tentò di suicidarsi. Al d ram­ma sent imentale si aggiunsero quelli let terari . Un diverbio di salotto con Monti sfociò in u n a violenta polemica sui gior­nali, in cui Foscolo riuscì a t irarsi addosso tu t ta la cu l tu ra accademica italiana. Al pericoloso a t taccabr ighe n o n e r a n r imast i fedeli che pochi giovani e sop ra t t u t t o u n o venu to apposta da Torino pe r conoscerlo e fargli g ra tu i tamente da segretario: Silvio Pellico.

L'occasione di sfogarsi, fu Ugo stesso a offrirla ai suoi ne­mici, m e t t e n d o in scena la sua seconda t ragedia , LAjace. L'attesa era tale che il lavoro venne rappresen ta to alla Scala e migliaia di pe r sone furono respinte pe r mancanza di po­sti. C 'e ra tu t to il gove rno , c 'era tu t to il senato , c 'era tu t ta l'alta società, c 'erano le falangi della gioventù foscoliana im­pazienti di app laud i re il loro ba rdo , ma c 'erano anche le sue vittime, Monti alla testa, che speravano in un suo passo fal­so. E lo aveva fatto. Alla fine dei pr imi tre atti, i fedeli trasci­na rono all 'applauso la platea. Ma gli altri due , lenti e prolis­si, caddero fra sbadigli, r isatine e motteggi . A t rar dai guai lo sfortunato autore provvidero le autori tà vietando ulterio­ri rappresentazioni , e ne avevano di che: l 'unica cosa buona dell'Ajace e r a n o le scoper te e poco lus ingh ie re allusioni a N a p o l e o n e i m p e r s o n a t o in A g a m e n n o n e . E così l ' au tore , bocciato come trageda, si p rendeva la sua rivincita come vit­t ima della persecuzione.

A n d ò a r i t empra r s i p e r qua lche mese a Venezia da sua m a d r e e da Isabella, poi si trasferì a Firenze sempre trasci-

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nandosi dietro una lunga coda di litigi, di duelli e di debiti. E anche lì le d o n n e gli furono subito in torno come falene a un lume , at t rat te dalla fama n o n soltanto dei suoi libri, ma anche delle sue passioni e dei suoi scandali. Stupisce di t ro­vare fra di esse u n a c rea tura senza debolezze intellettuali e m o n d a n e come Qu i r ina Magiotti Mocenni , u n a tipica ter­r iera toscana più fattoressa che dama , avvezza a t ra t tar coi contad in i di viti e d'olivi. N o n era bella, n o n faceva nul la p e r s embra r lo , e Foscolo la cor teggiò sol tanto p e r c h é e ra amica della D'Albany, la vedova di Alfieri. Essa Io amò n o n p e r c h é e r a Foscolo, ma sebbene lo fosse: fu l 'unico u o m o della sua vita, e lo fu pe r sempre .

Firenze r app re sen tò la sua stagione alcionica, anche co­me poeta. Fu qui che compose il più e il meglio del suo ca­polavoro lirico, Le Grazie, un canto finalmente sottovoce in cui zampilla la sua vena più sincera, quella che non ha biso­gno di forzare i toni e schiamazzare. Era diventato il cent ro del salotto D'Albany, che a sua volta era il cen t ro della so­cietà colta fiorentina e italiana. La p r e p o t e n t e e invadente Contessa aveva preso a protegger lo r i t rovando in lui molto del suo Alfieri. Secondava le sue debolezze di narciso facen­dolo r i t ra r re dal pi t tore Fabre ch 'era anche il suo amante e but tandogl i fra le braccia le più belle d o n n e di Firenze per­ché Qu i r i na , n a t u r a l m e n t e , n o n gli bastava. Q u i r i n a sop­portava senza proteste le sue infedeltà, provvedeva alla sua biancheria, gli pagava i debiti, lo curava q u a n d o era malato - e lo era spesso -, subiva i suoi scoppi di collera e le sue cri­s i d ' i pocondr i a . Ugo n o n aveva un soldo, ma ques to n o n g l ' impediva di t e n e r e casa, servitù, cavallo e u n o scelto g u a r d a r o b a p e r c h é , tu t to s o m m a t o , e ra un dandy. Nelle conversazioni di salotto teneva banco, ma guai a chi distur­bava i suoi monologhi . Alla min ima contraddizione, dava in escandescenze, s t rappava il fazzoletto, si mordeva le mani , imprecava, minacciava, se ne andava sbat tendo la porta . Ma i fiorentini lo avevano capi to, lo lasciavano fare e alle sue provocazioni r i spondevano con inviti. Lo lasciava fare an-

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che la g randuchessa Elisa Baciocchi, sorella di Napo leone , sebbene egli seguitasse a fare la f ronda ai regimi francesi. Ma era Foscolo.

Si prec ip i tò a Milano q u a n d o gli g iunse notizia che la censura aveva fermato la sua nuova t ragedia Ricciardo. Era ìa più bru t ta delle t re che aveva composto, sebbene anche le altre d u e valessero poco. Ma lui era convinto che questo fos­se il suo capolavoro, e tanto fece che, con qualche taglio, riu­scì a farla accettare. L'opera venne data a Bologna, e cadde. Ugo to rnò a Firenze immuson i to , ma n o n soltanto del f ia­sco. Era la fine del '12, e dalla Russia cominciavano ad arri­vare le p r ime notizie del gran disastro. Uno dei suoi più ca­ri amici era caduto a Smolensk e, p u r con tut to il suo odio pe r Napoleone , Foscolo cominciava a sentirsi un imboscato. «Che faccio io qui? come mentirò? con chi mentirò?» scrive­va a una delle sue tante amant i col suo abituale accento di sincero bug ia rdo . E più tardi , a un amico: «La mia Dulcinea è l 'Italia, e ques ta donchisciot tesca pass ione di pa t r ia n o n mi lascia tanto b u o n senso che basti a ragionar placidamen­te: ogni passo degli austriaci verso il Regno mi calpesta le ali del cuore».

La D'Albany, che amava Foscolo anche pe r il suo antina-poleonismo, e ra ind ignata di questo «tradimento». Ma Fo­scolo non l'ascoltava più. L'antinapoleonismo di coloro che, come i l Monti , f in al lora n o n avevano fatto che o s a n n a r e Napoleone trionfante e ora gii sputavano addosso perché lo vedevano sconfitto, lo nauseava. Rispose alla Contessa: «Ti­r a n n o era, e sarebbe in ogni evento incorreggibi lmente ti­r anno , questo nostro conquistatore; era, con pensieri subli­mi, d ' an imo volgarissimo; bugiardo inut i lmente, gazzettiere e droghiere universale, ciarlatano anche quand ' e ra onnipo­tente. Ma egli aveva un altissimo meri to presso di me: aveva riuniti e educati alla gue r ra sei milioni d'italiani». E lui era e si sentiva, nel m o m e n t o del pericolo, u n o di questi.

Rientrò di furia a Milano, chiese e o t tenne l 'onore di ri­vestire la sua divisa di capitano e, nonostante la sua vecchia

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ant ipat ia pe r il viceré Eugenio , spinse i suoi amici a strin­gersi in torno a lui pe r l 'estrema difesa del Regno Italico. Le m a n o v r e , le cong iu re , le rivalità che d i sunivano il m o n d o milanese e ne minavano la volontà di resistenza, lo disgusta­rono . Il 20 aprile del '14 si trovò coinvolto in u n a dimostra­zione di folla imbestialita. Era quella che dava l'assalto alla casa del ministro Prina. Coraggiosamente, r ischiando il lin­ciaggio, cercò di s t rappare la vittima dalle mani di quei for­sennati , e gli a n d ò bene che si limitassero a immobilizzarlo con u n a corda . Chiamò a raccolta in to rno a sé Pellico e gli al tr i pochi su cui po teva ancora con ta re p e r o rgan izzare bande part igiane in Valtellina e nel Bergamasco, visto che il governo, invece di mobilitare l'esercito, lo aveva consegnato nelle caserme pe r lasciarlo in balìa degli austriaci. Di sua ini­ziativa, a n d ò a par la re col genera le Macfarlane pe r solleci­t a rne l ' appoggio inglese. Non o t t enne nulla. O t t e n n e solo che il gove rno provvisorio, pe r disfarsi di lui, gli affidasse u n a vaga missione a Bologna, d o n d e lo r ichiamò a cose fat­te, cioè subito d o p o la res taurazione del dominio austriaco sul Lombardo-Veneto.

I suoi sogni d'italiano e ran finiti: Dulcinea lo aveva tradi­to. Si trasse in d ispar te r ifugiandosi nella le t te ra tura . Non aveva più voglia di veder nessuno, e nessuno aveva più vo­glia di veder lui. Nessuno , m e n o il genera le austr iaco Fic-quelmont , che un giorno lo convocò non soltanto per cono­scerlo, ma anche pe r offrirgli la direzione di un nuovo gior­nale. Colto di sorpresa, Foscolo chiese t empo per riflettere. Era chiaro che volevano servirsi del suo n o m e pe r accredi­tare il nuovo regime presso la pubblica opinione; ma la pro­posta era allettante. Rimase in forse quan to gli bastò pe r ac­corgersi che già quell ' indecisione bastava a farlo passare pe r t radi tore agli occhi di molti, fra cui anche Confalonieri. In­vece di to rnare da Ficquelmont, chiamò Pellico, gli affidò le sue carte, e u n a notte di marzo del 1815 traversò clandesti­n a m e n t e la front iera svizzera sp ingendos i avanti un mulo carico di bagaglio.

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In Svizzera, dove na tu ra lmente gl'italiani dissero ch 'era sta­ta l 'Austria a m a n d a r l o come spia, r imase un a n n o , lo im­piegò a scrivere una satira, LTpercalisse, che moltiplicò i suoi nemici - e Dio sa se ne aveva bisogno -, e a impazzire diet ro u n a d o n n a ancora più pazza di lui, Veronica Ròmer, moglie del banchiere italiano Pestalozzi. Brut ta e diabolica, essa gli dava in let tura le let tere di un altro suo amante . Foscolo lo sfidò a duello. Poi, esasperato, denunziò la tresca al mari to, che non ci credette. Foscolo gli chiese pe rdono . Lo chiese a Veronica. Poi lo chiese anche a Quir ina, raccontandole pe r filo e per segno la poco edificante faccenda e foscolianamen­te concludendo: «La frenetica febbre del mio cieco r imorso d u r ò pe r l ' appun to ot to giorni , da u n a domenica all 'altra. O r a sono io, io in tu t ta la forza n a t u r a l e : verace e severo giudice di me stesso; non pe rò avvilito: anzi r incuorato a se­guire con piede fermo il corso della mia vita».

Q u e s t o corso lo conduceva in I n g h i l t e r r a p r o p r i o nel m o m e n t o in cui dal l ' Inghi l terra partiva pe r l'Italia il suo ve­ro fratello: Giorgio Byron . I d u e Paesi si scambiavano se n o n i loro più g rand i poeti , certo i loro più grandi «posato­ri», che infatti s ' incontrarono sul lago di Ginevra, ma n o n si conobbero né r iconobbero. C'era anche, in quei paraggi , la signora De Staél, ma lo scontroso Foscolo non volle vederla e p rosegu ì . Aveva chiesto a Q u i r i n a di r a g g i u n g e r l o e di sposarlo, ma la saggia fattoressa ebbe il buon senso di vince­re la tentazione: «Vivi senza inquie tudine alcuna, e ad ogni tuo bisogno n o n t i d iment icare che mi hai chiamata madre , sorella, figlia e amica. Questi titoli fanno la mia gloria: sono sacri al mio cuore e ne vado superba. Addio, mio figlio, mio fratello, mio amico, addio!» Mai smise di scrivergli e di aiu­tarlo.

A L o n d r a ebbe subito un posto a tavola in casa Holland, il più brillante e cosmopolita convegno di tutto il Gotha po­litico e cul turale . C 'era Wellington, il vincitore di Napoleo­ne , c 'era i l p r i m o min is t ro Cas t le reagh, c ' e rano Greville, Russell, Campbel l , H o b h o u s e . C 'era i l Manzon i inglese,

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Walter Scott, che fu l 'unico a de tes t a re l 'ospite i ta l iano «brut to come un b a b b u i n o che, q u a n d o par la , s embra un porco a cui taglino la gola». Non aveva tutt i i torti pe rché , tra quei suoi flemmatici e misurati amici, Foscolo si sentì in dovere di accentuare la p ropr ia teatralità. Si dimenava, ur­lava, predicava nel suo pessimo inglese, e u n a volta pe r po­co non p r o c u r ò un coccolone al vecchio Wordsworth affer­randolo in una discussione pe r il collo. Ma gl'inglesi, che da un inglese non avrebbero mai tollerato simili scompostezze, da un italiano le accettavano come nota di «colore». Trova­vano quel forsennato «talmente or iginale che riesce ad es­serlo anche q u a n d o se Io p ropone» . E na tu ra lmen te , come sempre , le più entusiaste e rano le d o n n e che però , a diffe­renza delle italiane, si scaldavano al suo fuoco senza lasciar­sene incendiare .

Ma bisognava anche vivere, e questo era meno facile. Fin lì, gli aiuti dall ' I talia n o n gli e r a n o mancat i . Suo fratello si e ra r idot to al verde pe r rifornirlo e anche gli amici più po­veri gli avevano m a n d a t o il loro obolo. Foscolo n o n era un parassita, ma n o n aveva nessun senso del d e n a r o e n o n si dava nessun pens iero neanche di quello degli altri. «In In­ghil terra - scriveva - la povertà è vergogna che nessun me­rito lava». E lui, per n o n macchiarsene, arricchiva il guarda­roba e si man teneva anche un cavallo con cui r incorreva le car rozze delle s ignore . U n ' i m p o r t a n t e rivista gli commis­sionò una serie di lettere, ora conosciuta come Gazzettino del bel mondo, u n o dei suoi migliori scampoli di p rosa pe r t ra­sparenza e levità. Ma at tendeva anche ad opere più serie co­me i saggi su Dante, Petrarca e Boccaccio e quello sulla let­t e ra tu ra italiana c o n t e m p o r a n e a , che comparve con la f i r­ma di Hobhouse , ma in cui tutti r iconobbero la sua furia po­lemica, i suoi amor i e sop ra t t u t t o i suoi odi , che na tu ra l ­mente gliene valsero molti anche a lui. Sulle proposte di al­tri lavori che gli piovvero da tutte le parti , egli n o n si limitò a costruire un castello di sogni, volle anche realizzarlo affit­tando addir i t tura una villa, r iempiendola di mobili pregiati

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1 e oggetti d 'ar te , e tenendovi mensa imbandi ta pe r tutti gl'i­taliani di passaggio. Ci venne Capponi , cui Foscolo d iede il p i ano del g iorna le che avrebbe dovu to fare con Ficquel-m o n t e che poi, por ta to a Firenze, servì di modello all'Anto­logia di Vieusseux. E ci venne anche Confalonieri fingendo­si pent i to dei sospetti nutr i t i su di lui. In realtà seguitava a detestarlo e, r ient ra to a Milano, contr ibuì a diffondere ma­levoli voci sul suo conto. Il t e r r eno era ricettivo perché , nel suo saggio sulla le t te ra tura c o n t e m p o r a n e a , Foscolo aveva offeso tut t i e specia lmente il Mont i che lo accusava di «di-sprezzantropia». Non p o t e n d o più dire ch 'era al soldo del­l'Austria, dicevano che si era venduto al governo inglese, lo attaccavano su tutti i giornali, e Ugo non r ispondeva. Aveva da pensare a ben altro: alle cambiali in scadenza.

Fu a questa svolta che s ' imbattè in u n a vecchia s ignora che viveva in u n a villetta poco dis tante dalla sua insieme a u n a nipot ina , e il cui n o m e gli r icordava qualcosa: Hamil ­ton. Era la m a d r e della ragazza ch'egli aveva lasciato incinta a Valenciennes, e quel la n ipo t ina , Flor iana, e ra sua figlia. La n o n n a che aveva provveduto ad allevarla doveva essere p ropr io di b u o n carat tere pe rché non solo n o n gli t enne i l b ronc io , ma anzi lo accolse af fe t tuosamente e, siccome si sentiva vicina alla fine, accettò la sua p ropos ta di affidargli la bambina con la relativa dote: tremila sterline.

N o n era , n e a n c h e a quei t empi , un g ran capitale. Ma a Foscolo parve immenso . E q u a n d o , di lì a poco, ne ebbe la disponibi l i tà , decise d i mol t ipl icar lo con un b u o n investi­m e n t o immobiliare. C o m p r ò un t e r reno in u n a zona che gli sembrava di sicuro avvenire, e ci costruì n o n u n a villa, ma tre: u n a pe r viverci con Floriana, le altre d u e pe r affittarle. Disse che a lui bastavano tredici stanze e tre cameriste, che furono u n a d o p o l'altra anche sue amant i . Ma ai mobili p re ­giati e alle ope re d 'ar te non r inunciò. Q u a n d o Floriana ven­ne a insediarvisi, trovò la casa già assediata dai creditori .

Cominciò, pe r Foscolo, una disperata ed eroica lotta con­tro la miseria. Gli editori, che se n 'erano accorti, lo prendeva-

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no alla gola ord inandogl i le fatiche più ingrate e dimezzan­dogliene la retribuzione. Per Foscolo, che non aveva mai sa­puto lavorare su ordinativo, era u n a dannazione rovinosa per i suoi nervi. A scrivere di cose che non lo interessavano fatica­va, e si sentiva. Più la sua prosa si faceva rugginosa , p iù le commissioni si d i radavano, più si appesant ivano i debiti. Gli por ta rono via il ter reno, le case, i mobili. Riuscì a salvare solo i suoi libri e il pianoforte di Floriana, diventata la sua unica consolazione. La povera ragazza si era affezionata a quel pa­d re tormenta to e tormentoso, lo seguiva senza protestare da un trasferimento all'altro in appar tament i sempre più squal­lidi in quartieri sempre più miserabili. Gl'italiani che veniva­no a visitarlo dovevano faticare pe r scovarlo, e spesso lo tro­vavano a letto o su u n a poltrona che seguiva con sguardo as­sente i motivi che Floriana gli suonava. Aveva passato di poco la quaran t ina , ma già aveva perso quasi tutti i dent i , l'oftal­mia lo rendeva mezzo cieco, e ai disturbi renali che lo aveva­no sempre afflitto se n 'e rano aggiunti altri di fegato e di ve­scica. Andavano a tenergli compagnia i d u e protagonisti dei moti del ' 21 , il napoletano Pepe e il torinese Santarosa insie­me agli altri scampati: Pecchio, Ugoni, Scalvini. Sebbene tutti in miseria, por t avano a Floriana cibi e piccoli sussidi p e r le medicine. Qualche volta Foscolo n o n si accorgeva n e m m e n o della loro presenza, qualche altra li ar r ingava nei soliti toni concitati b r a n d e n d o , alla min ima obbiezione, la pistola che teneva sempre, carica, sul comodino da notte. Q u a n d o le for­ze glielo consentivano, ridiventava prepoten te . Trovò modo di sfidare un giornalista inglese a un duello che poteva essere mortale: pistola, venendosi incontro a volontà. Sparò pr ima il suo avversario, e fallì. Foscolo gli andò sotto il viso, e sparò in aria: un gesto in tutto degno di lui.

Ma coi c redi tor i n o n poteva fare a l t re t tan to . Dopo u n a not te passata a tavolino, Floriana lo vedeva par t i r e all'alba coi suoi scartafacci alla r icerca di qualche r edaz ione in cui collocarli. Un g iorno n o n to rnò : e ra finito in p r ig ione pe r debiti. Gli amici italiani venne ro a t u r n o a po r t a re scodelle

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di minestra alla ragazza, che sfioriva a vista d'occhio. Un al­t ro g iorno apparve su un giornale un annunz io pubblicita­rio: il s ignor Foscolo offriva lezioni d ' i tal iano, anche fuori Londra , a due scellini l 'ora. A questo si era r idotto. Eppure , seguitava a litigare con tutti: anche con Byron, pe r lettera. Ma q u a n d o questi morì in Grecia, Foscolo fu sopraffatto dal r imorso e propose a un edi tore un saggio apologetico su di lui. Q u a n d o ebbe consumato gli ultimi vestiti e le ultime cal­ze di seta, fece p e r d e r e a tutti le sue tracce nascondendos i in un tugur io e iscrivendo sulla por ta un n o m e falso.

Trascorse gli ultimi mesi a descrivere a Floriana il mera­viglioso viaggio che insieme avrebbero fatto a Venezia, a Fi­renze, a Zante, e la bella casa che li aspettava in riva al ma­re, ombra t a di pini e di cipressi. Ci sarebbero state camere pe r tutti gli amici: p e r Santarosa (ch 'era mor to in Grecia), per Pellico (che languiva nello Spielberg). Il colpo di grazia glielo det te la proposta , poi ritrattata, di u n a cat tedra d'ita­liano all 'Università. Si mise a letto, e i medici dissero: «Idro­pisia». Fino al l 'u l t imo segui tò a p a r l a r e del meravigl ioso viaggio, e q u a n d o capì ch ' e ra la fine chiese a Flor iana di ap r i re la finestra per lasciar en t ra re un raggio di sole. Sulla scrivania c'era un tes tamento di sei r ighe: «Cara figlia, il de­na ro è pagato. Lasciane L. 50 al nostro amico, sig. Roberts, pe rché r imborsi se stesso e pagh i qualche conto dovuto . E conserva i l reso p e r te. Tuo padre» . Era i l 16 se t t embre 1827. Foscolo n o n aveva ancora c o m p i u t o c inquan t ' ann i . Della bri l lante società m o n d a n a e intellettuale che lo aveva così festosamente accolto al suo arrivo, nessuno seguì la sua bara che fu sepolta sotto una n u d a pietra nel piccolo cimite­ro di Chiswick. Solo un paio di set t imane dopo , la Litlerary chronicle gli dedicò questa necrologia: «Mentre l 'Europa am­mira le opere dell 'esule, la sua tomba mostri che nel nostro Paese vi sono alcuni che riverivano il suo ingegno, anche se dep loravano gli e r ror i della sua vita privata. Ora tali error i n o n sono più , e solo al suo genio noi i n t e n d i a m o offrire questo tenue segno di rispetto».

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In Italia i segni furono ancora più tenui , tant 'è vero che Quir ina seppe della morte di Ugo solo d o p o qualche mese. Essa aveva s e m p r e con t inua to a scrivergli, ma lui da ann i n o n le r ispondeva. Solo all 'ult imo aveva scarabocchiato un biglietto per lei, ma non gliel'aveva manda to . Essa si rivolse al canonico spagnolo Riego, che si era preso cura di Floria­na , p e r c h é le affidasse la ragazza. Ma anche Flor iana era morta , consunta dall'etisìa.

L'oblìo di Foscolo d u r ò quanto la rassegnazione degl'italiani alla situazione, politica e letteraria, contro cui Foscolo si e ra d i s o r d i n a t a m e n t e , ma v igorosamente ba t tu to . La gene ra ­zione che ridiscese nelle catacombe della congiura pe r p re ­p a r a r e il '48 e il '59, lo r iscopr ì . Lo r iscopr ì a m o d o suo p r e n d e n d o n e ciò che più le serviva e che non era di certo il suo meglio: l'enfatiche Odi, il melenso e convenzionale Ortis, le t ragedie alfieriane, insomma Io s tentoreo vate, il magni­loquente e retorico t r ibuno. E logico. Era questo il Foscolo di cui gl'italiani avevano bisogno, ed è a questo che Mazzini rese omaggio q u a n d o , g iunto esule a Lond r a , corse a ingi­nocchiarsi sulla sua tomba.

I l poe ta , pe r r ivivere, dovet te aspe t ta re che le passioni decantassero. Esso è tutto o soprat tut to nelle Grazie, dove il suo urlo si smorza, t ra t tenuto dal p u d o r e . E questo il segre­to della loro perfezione tecnica e stilistica. Qui tutti i motivi della sua composita ispirazione, n o n sempre originali e au­tentici, t rovano una misura perfetta e ragg iungono u n a ter­sità e castigatezza di l inguaggio cui, nelle sue ope re giovani­li, Foscolo non ci aveva abi tuato . La sua vera g r a n d e lirica comincia dove finiscono le sue «pose».

Q u a n t o al prosatore , Foscolo lascia un solo romanzo, na­tu ra lmente autobiografico: l 'epistolario. C'è di tut to - l 'oro e il similoro, il d r a m m a e il me lodramma, il vero e il falso, la sincerità e la ciarlataneria - perché di tutto c'era in Foscolo. Ma Foscolo c'è.

CAPITOLO TRENTASEIESIMO

LEOPARDI

«Nacqui di famiglia nobile in una città ignobile» scrisse Leo­pard i . Oggi questa città ignobile, Recanati, r igurgita di tar­ghe dedicate a lui. Ne h a n n o messe dovunque sia passato o si sia seduto, e forse in questa pos tuma devozione c'è anche del r imor so : la provincia i tal iana p r o d i g a s e m p r e ai figli mort i gli omaggi che gli nega da vivi. Finché ci r imase, Leo­p a r d i a Recanat i fu conosciuto sol tanto come «il figlio del Conte», o peggio ancora «il gobbo», anzi «il gobbo fottuto».

I Leopa rd i appa r t enevano a quella tipica aristocrazia di paese che faceva del n o m e e del rango un 'autent ica religio­ne . Il loro albero genealogico era gremito soprat tut to di Ve­scovi, nessuno dei quali tut tavia d iventò Card ina le e tan to m e n o Papa. Il palazzo in cui nascevano e morivano, gelido e sussiegoso, sacrificava alla «rappresentanza» qualsiasi co­modità: stanze solenni e piene di spifferi, servizi igienici ru­dimentali , n iente bagni, n iente angoli d'intimità. Di singola­re , da ta l'allergia di questo ceto alla cultura, c 'era solo la bi­blioteca.

Vi sovr intendeva il conte Monaldo , che aveva pe r i libri u n a passione sconfinante nella mania. Ne incettava dovun­que potesse, mescolando testi classici e cianfrusaglie. Era un tipico nobile del Settecento. Non si era mai mosso da Reca­nati, e trovava del tut to natura le che fino a diciott 'anni n o n gli avessero mai consentito di uscire di casa da solo. Vestiva ancora in parrucca , codino, polpe e spada. Alla spada tene­va molt iss imo: diceva che , p o r t a n d o l a , si acquista il senso del decoro. Era stato un pessimo amminis t ra tore del suo pa­t r imon io , n o n p e r diss ipazione, ma p e r incur ia . Lasciava

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anda re in malora le sue ter re , e la casa era p iena di zii arte-riosclerotici, di servitori in d isarmo e di vecchi pret i chiama­ti come tu tor i e sopravvissuti ai loro pupill i . Con t ro la vo­lontà dei suoi , aveva sposato u n a ragazza della sua stessa condizione, la marchesa Adelaide Antici, che fu pe r lui «una benedizione divina e un divino castigo».

Q u a n d o si accorse in che condizioni la famiglia versava, essa p re se tu t to in m a n o d e s a u t o r a n d o c o m p l e t a m e n t e i l mari to e regolando la casa con ferrea avarizia. Non ci furo­no licenziamenti perché gl ' impegni del r ango lo vietavano. Ma q u a n d o i con tad in i le p o r t a v a n o le uova, le misu rava con un anello: se ci passavano, le faceva sostituire con altre p iù grosse . I m p o n e v a a tut t i u n a dieta spa r t ana , calzava scarpe da soldato e por tava s e m p r e lo stesso vestito con le tasche gonfie di chiavi perché in dispensa e in cantina c'en­trava solo lei. Tut to era misurato e lesinato, anche la legna per i l caminetto. I l mari to , q u a n d o voleva procurars i un po ' di spiccioli, e ra costret to a r u b a r e e a vende re di soppiat to qualche fiasco di vino o di olio. Non c 'erano eccezioni nean­che pe r i figli, che n o n possedet tero mai un balocco e si pas­savano da l l ' uno all 'al tro gli abiti rivoltati . Giacomo scrisse p iù t a rd i che , q u a n d o u n o di essi s i ammalava (su dodici , gliene mor i rono sette), Adelaide era contenta perché pensa­va di regalare un angelo a Dio. Per u n o solo si addolorò per­ché n o n aveva fatto in t e m p o a ricevere il battesimo, e per­ciò aveva perso il diritto alle ali.

Giacomo nacque nel '98, a sei anni lo vestirono da abati­no, e q u a n d o lo po r t a rono in chiesa pe r la p r ima comunio­ne , sua m a d r e en t rò anche lei nel confessionale pe r condivi­de re col p re te i suoi segreti. Come pr imogeni to , egli sedeva a tavola alla destra del p a d r e che gli tagliava il cibo nel piat­to e cont inuò a farlo anche q u a n d o Giacomo aveva venticin­que ann i e l 'Italia già lo considerava un g r a n d e poeta . Gli aveva da to come tu to r e quel lo suo, un gesui ta spagnolo , sebbene lo avesse qualificato «assassino dei miei studi». Ma in real tà i l vero tu to re e ra lui che , da q u a n d o e ra stato ri-

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dotto dalla moglie all ' indigenza, non osava più uscir di casa, e passava la sua giornata in biblioteca. Qui crebbe Giacomo, sotto il vigile sguardo di quel p a d r e a suo m o d o affettuoso, che non dubi tò mai di po te r e di dover fare di lui un altro se stesso: un pedan te e rudi to , zelante suddito del Papa, in­somma un vero conte Leopard i .

Il ragazzo lesse di tut to, avidamente e d isordinatamente , anche perché altro non gli era consentito fare: neanche lui, fino alla maggiore età, ebbe il permesso di uscire di casa da solo. Non sapeva nulla di let teratura m o d e r n a perché la bi­blioteca si fermava al p r imo Settecento. Ma diventò un mae­stro di metrica latina e greca, sino a compor r e perfette imi­tazioni dei poeti classici. Unici suoi amici e r a n o il fratello Carlo e la sorella Paolina, venut i al m o n d o subito d o p o di lui. Con la m a d r e n o n aveva che rappor t i disciplinari. Essa n o n s ' interessò mai ai suoi s tudi , che d i sapprovava , né ai suoi successi che sempre le parvero futili. Q u a n d o , d o p o la m o r t e di Giacomo, un a m m i r a t o r e venne a visitarne il pa­lazzo e la compl imentò pe r aver da to alla poesia un tale fi­glio, essa rispose soltanto: «Dio lo perdoni».

Con le ginocchia coper te da uno scialle di lana per difen­ders i dal f reddo , curvo su un piccolo desco in un ango lo buio che metteva a d u r a prova i suoi occhi, Giacomo cerca­va nei libri un'evasione. Del m o n d o esterno, non conosceva che le piccole fette inquadra te dalle finestre di quella casa-p r ig ione . Un g io rno ci vide stagliato un volto di ragazza, Nerina; un altro, quello di Silvia. Ner ina era probabi lmente u n a piccola popolana che in realtà si chiamava Maria Belar-dinelìi; Silvia era cer tamente Teresa, la figlia del cocchiere; ed e n t r a m b e m o r i r o n o giovanissime. Ma nessuno in fami­glia ebbe il sospetto che quel ragazzo, ormai in là nell 'adole­scenza, covasse sotto la sua aria mansueta , t imorosa e silen­ziosa, degl ' impulsi . La mora le delle famiglie alla Leopa rd i consisteva ne l l ' ignorare le cose disdicevoli o imbarazzant i . I gno ra rono anche, p u r avendolo tutto il giorno sotto gli oc­chi, che a furia di stare reclinata sul desco, la spina dorsale

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del ragazzo si e ra deformata. E q u a n d o lo zio Antici, fratello di Adelaide, scrisse a Monaldo di mandargl i Giacomo a Ro­ma per fargli curare la malformazione, Monaldo rispose in­dignato che il figlio stava benissimo, era un fiore, e con su­blime egoismo aggiungeva che, essendo il suo unico amico, non intendeva privarsene.

Fu u n a t raduzione dell'Eneide che permise a Giacomo di t rovare un contat to col m o n d o . Ne m a n d ò copia, con osse­quiose dediche , a t re dei letterati più in vista. Monti e Mai gli r isposero con u n a degnazione n o n priva di riserve; Gior­dani con u n a lettera piena di calorosi elogi. Giacomo si ag­g rappò a lui come il naufrago a u n a zattera, lo sommerse di le t tere- f iume, e alla fine lo costr inse a ven i re a Recanat i . Pre te con t ro voglia, d i convinzioni liberali, un po ' r e to re , un po ' enfatico, ma gene roso e p i eno di calore u m a n o , Giordani capì subito la t ragedia di quel ragazzo, e lo istigò a evadere dal suo sordido ambien te familiare. Più tardi Mo­na ldo accusò G i o r d a n i di aver abusa to dell 'ospital i tà «ru­bandogl i» il figlio e lo t ra t tò di «miserabile apostata». Dal suo p u n t o di vista, non aveva tutti i torti. Giordani aveva di­schiuso a Giacomo insospettati orizzonti facendogli sent ire ancora di p iù la sua condizione di pr igioniero, e lo aveva a tal p u n t o contagia to dei suoi en tus iasmi da ispirargli d u e odi pa t r io t t iche: u n a All'Italia, l 'altra Sopra il monumento di Dante. De Sanctis dice che sotto lo stile artificioso palpita un sen t imento genu ino , ma noi ci p e r m e t t i a m o di dub i t a rne : anzitutto perché al sent imento genuino qualsiasi artificio ri­pugna , eppoi perché al patr iot t ismo Giacomo si era mostra­to fin allora refrattario. Anzi, due anni p r ima aveva compo­sto una dotta orazione sulla «liberazione» delle Marche, cioè sulla res taurazione del dominio papale . Era farina n o n del sacco suo, ma di Monaldo, d 'accordo. Ma, se l 'orecchio non ci tradisce, anche queste due odi e rano farina n o n del sacco suo, ma di Giordani . Tuttavia quelle d u e poesie, pubblicate con l'imprimatur del Papa, corsero l'Italia, esaltarono e furo­no esaltate da tutti, pe r un pezzo. Carducci dice di esserne

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stato, da ragazzo, travolto; e i volontari del '59 si arruolava­no al gr ido: «In chiesa col Manzoni, alla gue r ra con Leopar­di». L'unico che di quegli en tus iasmi n o n si en tus iasmò fu Monaldo, pe r i l quale l'Italia era u n a bestemmia.

Il successo rese Giacomo ancora più impaziente. Nel '19 - e aveva ormai ventun anni - scrisse di nascosto a un amico di casa, a Macerata, di procurargl i un passapor to . Ma que­sto fu intercettato da Monaldo, che ne fu quasi più sorpreso che costernato. Non riusciva a capacitarsi come un figlio, a cui seguitava a tagliare la ca rne nel pia t to , des iderasse al­lontanarsi da lui e - peggio ancora - glielo avesse nascosto. Per sua fortuna, non lesse la lettera che Giacomo aveva già scritto pe r congedarsi da lui. Condita delle solite formule di ossequio, e ra una t r e m e n d a requisitoria che ci r icorda quel­la di Kafka contro suo pad re .

La delus ione lo immerse ancora di p iù nelle sue mesti­zie, e u n a crisi di oftalmia gliele rese ancora più acute impe­d e n d o g l i di ce rcare scampo nel lavoro. Ma fu p r o p r i o in questi mesi di disperazione ch'egli m a t u r ò i suoi pr imi au­tentici componimen t i poetici, gl'Idilli. Egli stesso riconosce di averne derivato e filtrato l 'ispirazione più dalla letteratu­ra che dall 'esperienza diret ta , e Tommaseo paragonava ve­lenosamente quelle poesie a palinsesti screpolati e r imani­polati in cui, sotto la scrit tura fresca, affiora l'antica. C'è del vero. Dagl'Idilli affiora la lirica greca, ma con u n a tersità e lievità degne di Teocrito. Più tardi Leopard i scrisse che ave­va mira to esclusivamente alla semplicità e naturalezza, e lo confermano i tormentatissimi manoscrit t i che recano i segni di u n a lotta a oltranza contro il superfluo. Giustamente Mo­migliano par la della «sublime povertà» del suo vocabolario, r idot to all'essenziale.

Dopo quella p r ima f ior i tura , seguì un altro a n n o di ma­cerazione e di silenzio, ch'egli impiegò a r iempire oltre mil­le pag ine dello Zibaldone, che ne conta qua t t romi lac inque­cento. C r e d o che siano in pochi ad averle lette tu t te senza saltarne nessuna, e noi n o n siamo di questi. Ma chi n o n ne

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conosce a lmeno le part i essenziali, non p u ò conoscere Leo­pardi . Più che un diario, lo Zibaldone è una specie di magaz­zino in cui p e r quindic i a n n i egli stivò di tu t to : i piccoli eventi della sua vita povera di eventi, le fantasie, i proget t i , i sogni, i comment i critici alle ope re sue e altrui, i r icordi , le confessioni, i r impiant i , le cose più g rand i e le cose più mi­sere che gli passavano pe r la testa.

Q u a n d o fu pubblicato, i con temporane i ammi ra rono so­pra t tu t to le annotazioni filologiche e filosofiche che lo gre­miscono, e ancora u n a volta a dir igere il coro delle lodi fu­r o n o i pedan t i . Sainte-Beuve, che se n ' in tendeva un po ' di più, vedeva nello Zibaldone il documen to del «gusto» di Leo­pa rd i , e aveva r ag ione . L e o p a r d i e ra effet t ivamente un g r a n d e f i lo logo , ma n o n fu g r a n d e p e r c h é e ra f i lo logo . Quan to alla filosofia, n o n era il suo pane . Il suo pane era la let teratura. E intendiamoci bene: n o n è che quella dello Zi­baldone sia tutta di alto interesse e qualità. In questo monu­mentale bric-à-brac si t rovano preziose notazioni, scoperte, f r amment i d i genio , i l luminazioni , scintille, pep i t e d ' o ro , ma anche uggiose r ipetizioni , lungaggini , a rgomentaz ion i rugg inose e involu te , goffo l c t t e r a tume , p iagnucol i i , mal riusciti tentativi di satira. Insomma, ci si trova tutto Leopar­di: quel lo g r a n d e dei futuri Canti e quel lo med ioc re delle Operette morali, che vi son già tut te con tenu te in nuce, e che avrebbe fatto meglio a lasciare a questo stato embrionale .

L'evasione venne alla fine, nel '22, col consenso di Monaldo, che si rassegnò a lasciarlo anda re a Roma insieme al cogna­to Antici. Il viaggio in carrozza d u r ò sei giorni. Era la p r ima volta che Giacomo usciva da Recanati e poteva vedere quel m o n d o di cui si sentiva e si mostrava così airsioso. E p p u r e , non lo gua rdò . Mai una volta mise la testa fuor del finestri­no p e r scopr i re un paesaggio o a m m i r a r e u n a chiesa. La t e n n e s e m p r e recl inata su un testo greco , d i cui andava chiosando le pagine , del tut to sordo al mistico incanto del­l 'Umbria e alla solennità dell 'Agro.

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Pochi giorni d o p o l 'arr ivo, scrisse al fratello u n a let tera intrisa di delusione. Roma non gli piaceva. In realtà era lui che non era piaciuto a Roma, dove aveva spera to di essere accolto a braccia aper te , adot ta to nei salotti e nelle accade­mie, e dove invece si era avvisto che pochi lo conoscevano e quei pochi non gli davano molto peso. Voleva incontrar Ca­nova, cui Giordani lo aveva presentato pe r lettera, ma scoprì ch 'era mor to pochi giorni pr ima. Angelo Mai, cui aveva de­dicato un ' ode , lo accolse con cortesia, ma n ien te di p iù . II più ospitale fu Cancellieri, «il bell'abate» come lo chiamava­no, e rudi to e m o n d a n o , che lo invitò alle sue serate, dove il piccolo provinciale timido, impacciato e deforme, senza pun­to a l lenamento alla conversazione e alla bat tuta spiritosa, si sentì e mise tutti a disagio. Egli r imase completamente estra­neo alla Roma dei grandi palazzi, delle grandi feste e anche della pittoresca plebe, che descriveva Stendhal , il quale vi si trovava anche lui p ropr io nello stesso per iodo. L'unico ami­co che vi si fece fu u n o s t raniero , l 'ambasciatore di Prussia Niebuhr, il quale a tal pun to lo stimava e amava che ne p ro ­pose l 'assunzione alla Corte del Papa. Ma per entrarci biso­gnava o p r e n d e r e i voti, o a l m e n o indossare quella cappa clericale che si chiamava mantelletta. E Giacomo non ne volle sapere . Forse, tut to sommato , cercava solo un pretes to pe r t o rna r sene a Recanati di cui, d o p o averla tanto maledet ta , o ra sentiva la nostalgia: lì, a lmeno , era p u r sempre il conte Leopardi . E infatti, dopo cinque mesi, vi si riaccasò.

Fu allora che scrisse quelle Operette morali in cui si sente benissimo lo sforzo di r iconsiderare la vita e le sue amarezze con sor r iden te distaccò. Ma a p p u n t o pe r ché questo sforzo si sente , n o n è r iusci to. S o r r i d e r e , L e o p a r d i n o n sapeva. Spirito, ironia e scetticismo n o n sono motivi del suo reper ­torio; e q u a n d o li tenta, ci fa magre figure. Egli n o n conob­be il suo coetaneo Schopenhauer . Ma Schopenhauer conob­be lui, sia p u r e da mor to , e ne d iede la giusta definizione: il poeta del dolore, così come egli stesso ne era il filosofo. Leo­pard i è tutto lì, e fuori di lì n o n è nulla.

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A Recanati r imase d u e anni , quant i gli bas tarono pe r ri­me t t e r s i a covare p ropos i t i di evas ione. A forn i rg l iene il pretes to fu il suo edi tore milanese Stella, che gli p ropose di cu ra re l'Opera omnia di Cicerone. Sebbene il compenso fos­se assai m o d e s t o , Giacomo accet tò subi to e p e r s t r ada si fermò a Bologna, che gli p iacque molto pe r la festosità con cui lo accolsero G i o r d a n i e Br ighen t i . Milano invece n o n gli p iacque p u n t o pe rché vi trovò la stessa indifferenza che lo aveva ferito a Roma, tanto che persuase Stella a lasciargli c o n t i n u a r e i l l avoro a Bologna , dove t o r n ò subi to d o p o . N o n sapeva come t i rare avanti pe rché il salario n o n gli ba­stava n e a n c h e p e r la p e n s i o n e , ma ebbe la v e n t u r a (una delle p o c h e della sua d isavventura t i ss ima vita) di t rova re u n a ex-camer iera di casa sposata a un oste che gli offrì un posto p e r m a n e n t e alla loro mensa . Mona ldo avrebbe rab­brividito all ' idea di un conte Leopard i sfamato dalla came­riera. Ma Giacomo n o n aveva scelta, e il conto lo saldò com­p o n e n d o p e r lei u n a poesia , l 'unica poes ia d i L e o p a r d i scritta, diciamo così, «su ordinazione», e p u r t r o p p o anda ta persa. Per combat tere il f reddo, lui che il f reddo lo soffriva molt issimo, lavorava d e n t r o un sacco imbot t i to d i p i u m e , ma a r iscaldarlo e ra sopra t tu t to i l calore u m a n o dei bolo­gnesi. Diede pubblica le t tura di un suo p o e m a all'Accademia dei Felsinei, e d iven tò ospite abi tuale del salotto della con­tessa Malvezzi, u n a fiorentina diventata «prima signora» di Bologna n o n grazie alle sue b ru t t e poesie - com'essa crede­va -, ma al n o m e che por tava e alla vivacità della sua con­versazione.

Non era bella. N o n era più neanche molto giovane. Ma era, alla f ine, u n a donna , cosa pe r lui assolutamente nuova. Non si sa se ne fu veramente innamora to . Si sa soltanto che spinse la sua galanteria fino a elogiare pubbl icamente i suoi poemi . Poi, un g iorno , ne fu messo alla por ta . Corse voce che si fosse gettato ai piedi della Contessa e che costei avesse ch iamato i l c amer i e r e p e r o rd ina rg l i un bicchier d ' acqua pe r il signor Conte che si sentiva male. Fatto sta che, t empo

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dopo , Giacomo scrisse a un amico: «Ho visto il poema della Malvezzi. Povera donna!»

Ancora u n a volta tornò a Recanati, e ancora u n a volta ne fuggì, diretto a Firenze, oramai capitale della cul tura italia­na. Vieusseux, che da un pezzo lo aveva scoperto e invitato a collaborare all'Antologia, lo accolse con molta cordialità nel suo Gabinetto, dove tutti s ' incontravano come in un club, sen­za cerimonie né formalismi.

Ma propr io pe r questo Giacomo si trovò a disagio anche lì. Non era abituato a questo t ipo di rappor t i semplici e di­retti fra uomini che si compor tavano come se si conoscesse­ro da s empre anche se e ra la p r ima volta che si vedevano, alle conversazioni franche e aper te , alla schermaglia spirito­sa, alle bot te e r isposte. E pe r di p iù c 'era fra di essi il suo morta le nemico Tommaseo che non pe rdeva occasione pe r met tere a d u r a prova la sua impacciata timidezza e suscetti­bilità. Non perdonava a Leopard i le critiche che questi ave­va mosso a una sua t raduzione di Cicerone q u a n d o ne cura­va le opere da Stella. E ora se ne vendicava accanendosi sul­le Operette morali, p r o p r i o allora pubbl icate e che, a d i re il ve ro , ne offrivano mate r ia . Anche d o p o m o r t o segui tò a pe r segu i t a r lo , c o n i a n d o p e r lui ques to epitaffio: «Na tu ra con un p u g n o lo sgobbò - "Canta" , gli disse i rata; ed ei cantò» che d imos t ra quan t a poca miser icordia covasse nel cuore di questo bacchet tone. Ma anche gli altri frequentato­ri del Gabinetto, come Capponi e Colletta, lo trovavano poco simpatico e inferiore alla sua fama. Q u a n d o venne Manzo­ni, anche Leopa rd i fu invitato al r icevimento. E rano i d u e più g rand i geni italiani di quel secolo, ma non si r iconobbe­ro e non t rovarono nulla da dirsi. Tanti anni dopo , Manzo­ni confessò a De Sanctis che n o n riusciva a capire come Leo­pard i fosse considerato un gran poeta.

Scacciato dalla t r a m o n t a n a e dai sarcasmi di F i renze , Giacomo si trasferì a Pisa dove gode t te u n o dei rar i inter­mezzi di relativa quiete . Il clima era dolce, e pe r una re t ta di pochi soldi aveva u n a c a m e r a decen te , discreto cibo, e

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perfino il letto scaldato col «prete». Quella piccola città era molto meglio tagliata sulla sua misura di provinciale, e pe r di più ci trovò una ragazza, Teresa Lucignani, di p u n t a cul­tura, ma fresca e allegra, che n o n gli concesse nulla, salvo la simpatia. Ancora nella sua tardissima età (campò fin oltre i novant 'anni) , Teresa ricordava con tenerezza quel giovanot­to pal l ido e de fo rme , s e m p r e vestito di n e r o , che n o n si cambiava quasi mai la camicia, se la sbrodolava con la cioc­colata, e che solo q u a n d o guardava lei riusciva a sorr idere . Fu Teresa a ispirargli // Risorgimento, che non ha nulla a che fare con quel lo del l ' I ta l ia . A r i sorgere e r a il suo cuo re , a contatto di quella creatura piena di gioia di vivere. Sono fra i pochissimi versi n o n dolorosi di Leopard i , e n o n valgono molto.

Tornò a Firenze in estate, e vi fece conoscenza di un gio­vane p r e t e p i emon tese con cui t rovò i m m e d i a t a m e n t e un cer to conta t to u m a n o : Vincenzo Giobert i . R ipa r t i rono in­sieme, Gioberti pe r Torino, lui pe r Recanati, dove aveva de­ciso di ristabilirsi, forse p e r s e m p r e . Ci r i t rovò tu t to come pr ima, Monaldo ansioso di recuperar lo , Adelaide con le sue chiavi, Paolina nella vana attesa di un mari to. Mancava solo quello ch 'e ra stato il suo unico amico, il fratello Carlo, che aveva a b b a n d o n a t o i l te t to pe r fare un ma t r imon io di sua testa. In compenso, ormai poteva uscir di casa da solo, e ne approfit tò pe r fare lunghe passeggiate sui poggi circostanti. Ma sebbene scegliesse i sentieri solitari, qualcuno che gli gri­dasse dietro: «Gobbo fottuto!» lo trovava sempre , e alla fine si r ifugiò, come p r i m a , fra le solite m u r a della biblioteca. Anzi, a tal p u n t o di misantropia si era r idotto che preferiva p r e n d e r e i pasti da solo, salvo a scrivere nello Zibaldone che questa abi tudine, presso i Greci e i Romani , era considerata segno di «inumanità».

Fu in questo pe r iodo che compose i suoi più bei poemi: Il passero solitario, Le rimembranze, Il canto notturno, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, le ope re insomma che d a n n o la sua vera misura. Ma il successo seguitava a sperar-

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lo dalle Operette, con cui aveva concorso a un premio bandi­to dalla Crusca, che fu invece assegnato a un saggio storico del Botta. In compenso gli giunse da Firenze una lettera di Collet ta con u n a p r o p o s t a gene rosa e p iena di ta t to : e ra p ron to pe r lui un assegno mensile che gli avrebbe consenti­to di vivere d e c e n t e m e n t e . Non avrebbe avuto di che r in­graziarne nessuno perché nessuno sapeva da chi veniva, ed egli stesso ne sarebbe stato l ' inconsapevole t ramite . Giaco­mo decise di lasciare Recanati , e stavolta pe r s empre . Suo p a d r e n o n era sulla p o r t a a salutarlo, come alle al t re par ­tenze: aveva capi to ch ' e r a un add io , n o n un a r r ivederc i . Q u e s t ' u o m o che aveva d i s t ru t to suo figlio, e ra a sua volta distrutto dall 'angoscia di pe rder lo .

A Firenze, oltre l 'assegno, trovò Antonio Ranieri , o me­glio lo ritrovò, perché già si e r ano incontrati tre anni pr ima, ma solo di sfuggita. Ranier i e ra un giovane napo le t ano di bella p resenza e di b u o n e m a n i e r e , ga r ru lo , e s u b e r a n t e , pass ionale e superficiale, che il g o v e r n o borbon ico aveva m a n d a t o in esilio p e r le sue professioni di fede l iberale. Avendo la for tuna di un babbo ricco, ne aveva approfi t tato pe r compiere lunghi viaggi in Francia, Svizzera e Inghil ter­ra, frequentarvi gente di cul tura e assumerne a lmeno la pà­tina. Le condizioni in cui vide L e o p a r d i , più ma landa to e disperato di pr ima, lo commossero al p u n t o che, cedendo a u n o dei suoi soliti slanci, decise di met ter casa con lui p ren­dendoselo a carico. Così cominciò quella simbiosi che dove­va d u r a r e fino alla m o r t e del poe ta e che d i ede la s tura a molte voci malevole.

I l soccorso di Ranier i arr ivava, p e r L e o p a r d i , in b u o n p u n t o . L'assegno che Colletta diceva di r icevere pe r lui da ignoti benefat tor i , veniva invece dalle sue p r o p r i e tasche. Ma egli si aspettava che il poeta a lmeno un po ' se ne sdebi­tasse aiutandolo a cor reggere la sua Storia di Napoli. Leopar­di gliene restituì le bozze senza varianti e dimenticò perfino di mandarg l i in omaggio u n a copia dei suoi Canti che p ro ­pr io al lora e r a n o stati pubblicat i . E Colletta, il qua le n o n

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aveva di che scialare e ol t retut to era ser iamente ammalato , cessò il finanziamento. Per Leopard i sarebbe stata una tra­gedia, se in quel m o m e n t o non si fosse trovato coinvolto in una t ragedia ancora più grossa: l 'amore.

A presen ta r lo a Fanny Targioni Tozzetti era stato un al­t ro esule napole tano, Poerio, il quale diceva in u n a lettera a Ranieri che solo delle male l ingue come i fiorentini poteva­no p r e s t a r e a quel la s ignora qua t t r o a m a n t i c o n t e m p o r a ­neamente , men t re in realtà e rano solo due . Questo non im­pediva a Fanny di essere un'eccellente m a d r e e anche, a suo modo , u n a b u o n a moglie, che sapeva secondare le for tune del mar i to , medico e botanico di alto pres t ig io . Era u n a d o n n a piacevole, a t t raente , pe r nulla intellettuale, ma piena di sesso e di gagliardi appetiti , u n a femmina vera, insomma. Leopard i ne fu sconvolto al p u n t o da n o n saper n e m m e n o reggere il segreto della sua passione, e da darla in pasto alla malignità fiorentina. Carducci dice di aver sentito racconta­re, tanti anni dopo la mor te del poeta, che questi noleggia­va un ragazzo molto somigliante a Fanny, lo vestiva come lei e gli diceva tut to quello che a lei n o n trovava il coraggio di dire. Fu lei la famosa Aspasia. Fu per lei che compose II pen­siero dominante, Amore e morte, Consalvo. Essa si mostrò lusin­gata più della sua passione che dei suoi versi. Lo aizzava, lo teneva a bada, lo chiamava affettuosamente «il mio gobbet-to» e andava a far l ' amore con u n o dei suoi d u e o qua t t ro amant i . A quan to pa re , lo fece anche con Ranieri , sebbene costui fosse in quel m o m e n t o innamora t i s s imo di un ' a l t r a donna , un'at tr ice. Poi, non si sa cosa successe. Forse fu Ra­nier i che, pe r t r a r r e l 'amico da quello sconvolgimento, gli disse che Fanny si era solo burla ta di lui. Forse fu lei che, al­la fine anno ia ta dai pet tegolezzi , lo congedò . Cer to , è che da un g io rno al l 'a l t ro L e o p a r d i cessò nelle sue le t te re d i pa r la r di lei, e alla vicenda pose fine con u n o dei suoi più toccanti e concisi poemi: A se stesso. Tanti anni dopo u n a gio­vane giornalista, Matilde Serao, a n d ò a t rovare Fanny, or­mai vecchia, e le chiese perché aveva rifiutato l 'amore di un

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così g r ande poeta. Fanny fece una smorfia e rispose: «Puz­zava».

Richiamato a Napoli dal padre , ch 'era riuscito a fargli re­vocare il b a n d o di esilio, Ranier i si condusse app res so il poeta e si accasò con lui e con la p ropr ia sorella Paolina pri­ma a palazzo Cammarota , poi a Capodimonte . La conviven­za si rivelò a rdua . Il vecchio Ranieri , che n o n l 'approvava, stringeva i cordoni della borsa, e Leopard i versava in condi­zioni di nervi da met tere a d u r a prova anche l'amico più de­voto. I l d r a m m a sent imentale l'aveva defini t ivamente p ro ­strato. Soffriva d ' insonnia, di colite e di asma, e viveva insie­me nella speranza e nel t e r ro re della mor t e . Cont inuava a far del g iorno not te , com'e ra abi tuato o rmai da tanti anni , p r endeva la p r ima colazione alle c inque del pomer iggio , a buio fuggiva di casa e, siccome n o n aveva mai fame ma era ghio t to , si r i empiva lo s tomaco di sfogliatelle e di gelati . Lanciato al suo inseguimento , Ranier i lo trovava in mezzo al popol ino dei bassi con cui amava mescolarsi forse perché a Napol i , invece di schernir l i , i gobbi li r iver iscono c o m e por tafor tuna . Solo gl 'intellettuali lo corbellavano chiaman­dolo «O ranavuòt to lo» , il r anocch ie t to , e a p p u n t o perc iò n o n l i f requentava . Ebbe r a p p o r t i solo col vecchio amico Poerio, anche lui to rna to in patria, e col poe ta tedesco von Platen.

Nell 'estate del '36 andò ospite del cognato di Ranieri nel­la sua Villa della Gines t ra a T o r r e del Greco . C r e d e t t e di aver trovato l 'Eden, si rimise a lavorare e scrisse i suoi d u e ultimi grandi poemi, La ginestra e II tramonto della luna. Poi, come sempre , prese in uggia i suoi ospiti, cominciò a odiar­li, volle r ipart i re . Rientrò a Napoli p ropr io q u a n d o vi scop­piava il colera. Le scene che vide p e r le s t rade , i l l u g u b r e grido dei monat t i che le pe rco r revano con le loro carriole: «Chi ha mor t i , li cavi!», lo a t t e r r i rono . L'asma n o n gli dava t r egua . N o n si è mai sapu to se a p rocura rg l ie la fosse la deformazione del torace che p remeva sui bronchi o una for­ma di allergia dovuta ai suoi devastati nervi. O r a a tutti que-

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sti ma lann i si a g g i u n g e v a n o un gonfiore di g a m b e che il medico diagnostico come idropisia e le cateratte. Ranieri lo convinse a to rna re a Torre del Greco. Ma q u a n d o la carroz­za arr ivò, i l mala to non riuscì ad alzarsi da letto pe r man­canza di fiato. Il poco che gli restava lo usò pe r de t tare all'o­recchio di Ranieri , con quella sua voce ch 'e ra s empre stata un bisbiglio, gii ultimi sei versi del Tramonto della luna anco­ra i ncompiu to . Poi m o r m o r ò : «Non ti vedo più», e il suo cuore cessò di bat tere. Aveva t rentanove anni .

Neanche da mor to ebbe pace. Per far fronte al l 'emergen­za di quella spaventosa morìa , l 'ordine era di bruciare i ca­daveri. Ranieri dovette mettercela tutta per d imost rare che il suo amico non era mor to di colera e o t tenere il permesso di seppellirlo. I doganier i di Piedigrotta fermarono il fune­rale, scoperchiarono la bara e, t rovando sul corpo d u e inci­sioni, a p r i r o n o un ' inchiesta pe r assassinio. Solo grazie alla testimonianza del medico e del pre te , si potè p rocedere alla sepoltura. All'inizio del Novecento l'Italia volle da re al poe­ta una degna tomba, ma scoprì che l 'umidità si era mangia­ta la cassa r iducendo in poltiglia legno e ossa. Anche il cra­nio vi si era sfatto. Anni dopo un p a d r e filippino, Taglialate-la, pubblicò un libro in cui diceva che le esequie di Leopar­di e rano state u n a macabra farsa inscenata da Ranieri , che il feretro conteneva solo alcuni vecchi vestiti del poeta, il qua­le p r ima di mor i re si era confessato e poi era stato bruciato. Questo è comple tamente falso. Di confessarsi, Leopard i non aveva avuto il t empo e n e m m e n o la voglia. Poco t empo pri­ma aveva scritto nello Zibaldone: «Dopo la m o r t e , n o n c'è nulla da sperare».

Ranier i aveva fatto il suo dovere d 'amico sino in fondo. Della mor te del poeta si era affrettato a dar subito notizia a Fanny, a Capponi , a Giordani e a Monaldo. Fanny gli rispo­se compiangendo non il morto , ma lui. Di Capponi n o n co­nosciamo la replica. Quel la di Giordan i era p iena di com­mozione e di r impianto . Q u a n t o a Monaldo, l ' annunzio gli g iunse nel m o m e n t o m e n o o p p o r t u n o : p r o p r i o in quel

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giorno il figlio Pier Francesco gli era scappato di casa con la f igl ia del cuoco, e pe r u n a se t t imana n o n po tè pensa re ad altro. Poi ord inò dieci messe in sua memor ia e fece divieto a tutti di p ronunc ia rne mai più il nome .

Passarono gli anni . E via via che cresceva la fama di Leo­pard i , cresceva quella di Ranieri , considerato il suo angelo pro te t tore e consolatore. Ma le cose cambiarono q u a n d o fu pubblicato tut to l'epistolario del poeta. Le lettere degli ulti­mi anni da Napoli e r ano piene di taglienti critiche ai napo­letani e allo stesso Ranieri che appariva in tutt 'al tra luce: fa­tuo, vanitoso, incapace di affetti profondi . Ranieri , che ave­va quasi o t t an t ' ann i , r ispose infuriato con un l ibro di m e ­morie sul loro sodalizio, da cui vien fuori un Leopard i odio­so: querulo , esigente, ipocrita, ingrato e maligno.

Curiosa fine di un'amicizia che aveva perfino autorizzato sospetti di omosessualità, tanto era stata intima. Ma questo e r a il des t ino di Leopa rd i e la condiz ione della sua infeli­cità: di aver spasimato per tutta la vita d ' amore e di n o n tro­varne neanche da mor to . Il p rob lema s'egli sia stato un clas­sico o un romant ico lo lasciamo ai critici, che a quanto pa re n o n lo h a n n o anco ra r isolto. U n a cosa è cer ta : che al suo t e m p o n o n fu c o m p r e s o p e r c h é e ra fuori del suo t e m p o , n o n ne condivise nulla e in nulla se ne lasciò condizionare. Che il Risorgimento lo strumentalizzasse approf i t tando del­le sue poesie «d'occasione», le uniche b ru t t e del suo reper ­torio, composte in un vano sforzo di partecipazione, era lo­gico e perf ino giusto. Ma o rma i ques t ' i nganno n o n ha più ragione d'essere. Leopard i a p p a r t e n n e al Risorgimento so­lo pe r ragioni anagrafiche. La sua fu u n a costante evasione dalla realtà, u n a fuga nel cielo, del quale egli fu, d o p o Lu­crezio, i l p iù g r a n d e can to re , e che n o n ha né pa t r ia , né t empo , né storia.

CAPITOLO TRENTASETTESIMO

I PROMESSI SPOSI

A r i ta rdare il mat r imonio fra Renzo e Lucia non furono sol­tanto Don Rodr igo e Don Abbondio ; fu anche Alessandro Manzoni, che a dare u n a definitiva conclusione alla loro sto­ria impiegò quasi vent 'anni , dal '21 al '40. Nessun romanzo, c redo, fu mai tan to tribolato. Ma un motivo c'era. L'autore non dovette inventare soltanto una vicenda. Dovette inven­tare u n a lingua. Questo fu il g rande dono che Manzoni fece agl ' i tal iani . Ecco p e r c h é la pubbl icaz ione del libro fu un g rande evento nazionale che trascendeva il p u r o fatto lette­ra r io . Ed ecco p e r c h é gli s t ranier i n o n sono mai riusciti a c o m p r e n d e r n e l ' impor tanza e , anche q u a n d o n o n lo dico­no, si stupiscono di quella che noi gli a t t r ibuiamo.

Nella vita, Manzoni debut tò con u n a involontaria bugia. All 'anagrafe di Milano, egli venne registrato il 7 marzo 1785 come figlio di Pietro e di Giulia Beccaria. Non poteva essere al t r imenti , visto che Pietro e Giulia e rano mar i to e moglie. Ma dalle t es t imonianze dei c o n t e m p o r a n e i risulta chiara­m e n t e che il suo vero p a d r e era Giovanni Verri, i l fratello minore del famoso illuminista, fondatore del Caffè insieme a Cesare Beccaria, p a d r e di Giulia. La re laz ione fra i d u e giovani da tava da p r i m a del m a t r i m o n i o di lei col conte Manzoni. A quanto pare , essi avevano intenzione di legaliz­zarla, e sarebbe stata la saldatura di d u e dinastie già legate da u n a comunanza di blasone nobiliare, di cul tura e d ' idee. Ma fu p r o p r i o il famoso illuminista, Pietro, che si oppose . Come capo della famiglia, egli si p reoccupava che suo fra­tello, piuttosto scapestrato e p ieno di debiti, sposasse soprat­tutto una buona dote, e quella di Giulia non lo era. Così es-

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sa ripiegò sul conte Manzoni, ma senza i n t e r rompere i suoi rappor t i con Giovanni, e senza che questo provocasse scan­dalo: la società milanese e ra p iena di tali «combinazioni». Qua t t r ' ann i dopo , q u a n d o Giulia si fece r i t ra r re col bambi­no dal p i t tore di moda , l 'Appiani, i l q u a d r o finì nella casa del l 'amante, e nessuno trovò da r idirne.

La coppia Manzoni n o n poteva essere peggio assortita: lui gran ga lan tuomo, ma severo, misant ropo, conservatore e bacchet tone, succubo del fratello Monsignore e di cinque sorelle zitelle coi quali conviveva; lei socievole, frivola, cu­riosa del nuovo, tut ta femminilità e civetteria. E incerto se Pietro sapesse delle sue infedeltà e della vera pa tern i tà del b a m b i n o . C o m u n q u e , n o n ne lasciò mai nul la t r ape l a re . Q u a n d o morì , sebbene lei avesse da un pezzo abbandona to il tetto coniugale, la r icordò nel testamento con parole affet­tuose e le lasciò d u e collane di d iamant i «in con t rassegno della mia stima e memor ia che le porto».

Giulia n o n lo aveva lasciato pe r Giovanni, ma pe r Carlo Imbonat i , un ricco, raffinato e colto patrizio milanese, con cui era andata a vivere a Parigi. Non si mostrava molto sol­lecita del b a m b i n o che , d o p o u n a triste infanzia t rascorsa quasi tutta in quel di Lecco - cornice del suo futuro roman­zo -, fu messo in un collegio di padr i somaschi p r ima a Me-ra te e poi a L u g a n o . Non dove t t e ro essere a n n i felici p e r Alessandro , de t to L i sandr ino . Sensibilissimo e afflitto da una timidezza che si manifestava in u n a pronunc ia ta balbu­zie, il ragazzo si adattava male alla vita gregaria, alle grosso­lanità e canaglierie dei suoi compagni . L'unico b u o n ricordo che serbò di quei tempi fu quello di un insegnante , Padre Soave, che faceva onore al suo nome , contraddicendovi solo q u a n d o Lisandr ino si ostinava a scrivere con le iniziali mi­nuscole re , impera tore e papa.

Era un riflesso della situazione politica, la cui eco giun­geva, sia p u r e attutita, anche in collegio. Mentre Lisandrino si c imentava, senza t r o p p o bril larvi, con Tacito e Virgilio, Napoleone era en t ra to a Milano scacciandone gli austriaci.

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Quest i cambiament i n o n e r a n o ben visti in casa Manzoni , dove il ragazzo t o r n ò t r e d i c e n n e nel ' 98 . Ma i giovani ne e rano entusiasti, e Lisandrino ne subiva il contagio, pu r sen­za scaldarsi. Finì gli studi secondari presso i padr i barnabit i del collegio Longone , e s'iscrisse all 'Università di Pavia, ma con poco profitto e senza nulla concludervi.

A vent 'anni , Manzoni era un classico «giovin signore» di s t ampo pa r in i ano . Di media s ta tura , p iut tos to fragile, con un volto delicato e un po ' cavallino, il suo carat tere sembra­va scritto negli occhi pa l l idamente cilestri e freddi. F redde e rano le sue maniere , e freddi e rano anche i versi che com­poneva, come allora era di m o d a fra i giovani, metr icamen­te ineccepibili, ma in cui c'era più Monti e Parini che Man­zoni. A Parini non fece in t e m p o a mostrarl i perché era già mor to . Ma a Monti ne m a n d ò u n o scampolo, e il maestro se ne compiacque, sia p u r e con la solita sufficienza. Frequenta­va il bel m o n d o accet tandone tutte le convenzioni e unifor­mandosi al suo costume, meno quello della galanteria. Tutti lo credevano un frigido, ed era invece un sensuale represso, che dal l 'amore si teneva alla larga pe r p a u r a di esserne tra­volto. I m p e g n i che po tessero c o m p r o m e t t e r l o con d a m e della società n o n ne volle mai . La p r i m a avven tu ra l 'ebbe infatti con un'attrice di giro incontrata sulla strada di Pavia, e fu un amico che dovette cacciarlo a spintoni nella camera della ragazza pe r ché lui n o n osava. La seconda fu u n a ca­mer iera di casa, di cui divise le grazie con un altro amico, e che rimase incinta non si sa bene di chi. Secondo i suoi apo­logeti, p e r Manzoni fu un terribile caso di coscienza da cui sarebbe na to , pe r espiazione, il poetico personaggio di Lu­cia. Ma non so da cosa lo d e d u c a n o . Nei fatti, Manzoni fu ben con ten to che la ragazza andasse a nozze con un mag­g i o r d o m o , né r isulta che si sia mai cu ra to della c r ea tu ra ch'essa mise al m o n d o poco dopo . Era del resto natura le in un 'epoca in cui nelle case della buona società le domestiche venivano scri t turate anche pe r r e n d e r e servigi di alcova ai figli di papà e divezzarli. Di questa vocazione agli amor i an-

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ciliari e mercenar i , Manzoni fu castigato di lì a poco a Vene­zia, dove a n d ò da turis ta con u n a sua zia e dove contrasse u n a «ciprigna», cioè u n a malattia venerea a quei tempi mol­to diffusa. Apprensivo e salutista com'era , ne fu spaventatis-simo; e se n o n amò mai Venezia, è pe rché il r icordo gliene rimase p u r sempre legato a quello dell ' incidente.

Il suo esordio ufficiale di poeta lo fece nel 1802, q u a n d o in un 'antologia di Lomonaco comparve il suo Sonetto per la vita di Dante. O r m a i faceva p a r t e dei circoli le t terar i di cui Milano si era arricchita da q u a n d o vi e rano piovuti gli esuli di tutte le altre par t i d'Italia, ma Alessandro ci stava a m o d o suo, cioè con u n a certa riserva, senza lasciarsi coinvolgere dalle rivalità, risse e polemiche che li dividevano. Come in politica, così anche in let teratura, egli riusciva a non par teg­giare, e questo gli permet teva di restare b u o n amico di tutti senza esserlo fino in fondo di nessuno. L'unico con cui spin­se p iù a fondo i rappor t i fu Vincenzo Cuoco, cui Melzi ave­va affidato la direzione del p iù impor tan te giornale.

Un giorno del 1805 lo raggiunse una lettera di Carlo Im-bonati che lo invitava a Parigi. Alessandro lo aveva visto una volta sola, ma ogni t an to ne riceveva qualche pa ro la affet­tuosa in calce alle r a re lettere di sua m a d r e . La propos ta lo mise in stato d 'orgasmo. Fin allora aveva sempre vissuto col p a d r e legale che lo trattava, sia p u r e al suo bu rbe ro modo , come un f igl io vero. Ma fra quei tetri Manzoni , lui sangue di Verri e Beccaria n o n si sentiva a suo agio, m e n t r e Parigi gli sorrideva. Disse ch 'era Giulia a invitarvelo, e Pietro n o n mosse obbiezioni . M e n t r e p r e p a r a v a i l bagagl io , r icevette un 'a l t ra le t tera , stavolta di sua m a d r e , che con frasi scon­nesse lo supplicava di far presto: Carlo era improvvisamen­te mor to .

A Parigi trovò u n a povera d o n n a mezzo impazzita di do­lore che gli si aggrappò come il naufrago alla zattera. E fra i due cominciò una strana simbiosi al limite del morboso. Ri­masta vedova dell 'unico u o m o che avesse veramente amato e a un 'e tà che n o n era ancora la vecchiaia, ma che n o n era

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n e m m e n o p iù la giovinezza, essa p u n t ò tu t to su quel r i t ro­vato figliuolo, che a sua volta scopriva in lei n o n soltanto la m a m m a , ma anche la femminili tà. «Io n o n vivo che p e r la mia Giulia» scrisse a un amico, volle ado t t a rne anche il co­g n o m e firmandosi Manzon i Beccaria, e compose l 'ode In morte dì Carlo Imbonatì, in cui la commozione p r e n d e final­men te il sopravvento sullo scrupolo formale dei precedent i accademici componiment i . Preoccupazioni materiali non ne avevano perché Carlo aveva lasciato a Giulia tut to il suo co­spicuo pat r imonio , compresa la villa di Brusuglio. I d u e an­d a r o n o a p r e n d e r n e possesso, ma senza met ter p iede a Mi­lano pe r n o n rinfocolare i pettegolezzi che quel tes tamento aveva suscitato in u n a società che agli adul ter i n o n dava pe­so, ma all 'eredità sì. E to rnarono subito a Parigi.

Fra gli amici che Carlo vi aveva lasciato c 'erano persone di tut to rispetto come la vedova Condorcet , il poeta Lebrun , il saggista Fauriel, il filosofo Destutt de Tracy. Essi accolsero con mol ta cordial i tà Alessandro e ne a p p r e z z a r o n o l ' inge­gno. Per il giovane quei salotti e quelle conversazioni, in cui la cul tura e il garbo si sposavano perfe t tamente , furono u n a scoperta . Con Giulia l'idillio n o n aveva pause . N o n usciva che con lei, n o n frequentava che le persone che lei frequen­tava, e ra a lei che leggeva le sue poesie via via che le compo­neva. Del p a d r e si e ra comple tamente dimenticato. A ricor­dargliene l'esistenza fu soltanto la notizia ch 'era in fin di vi­ta. Alessandro si t rovava in que l m o m e n t o a Brusug l io . M a n d ò a Pie t ro u n a le t te r ina p ro toco l l a re con gli a u g u r i pe r la guar ig ione e la p romessa di u n a visita. C o m e r ispo­sta, ricevette l 'annunzio della sua mor te . Non a n d ò n e m m e ­no al funerale. E fu il notaio che dovette scomodarsi fino al­la villa pe r leggergli il tes tamento di Pietro che lo nominava e rede universale, salvo un piccolo legato alla superst i te so­rella.

Anche ad ammogl iar lo provvide Giulia. Essa aveva pen­sato d a p p r i m a alla figlia dei Destutt, ma poi ebbe notizia di un «partito» ancora più al let tante: u n a s ignor ina Blondel ,

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figlia di un ricchissimo banch ie re ginevr ino ch 'era stato in r a p p o r t i d'affari con Carlo. Era d 'estrazione borghese e di re l ig ione p ro t e s t an t e . Ma la do te e ra tale da c o m p e n s a r e questi difetti e non si esauriva nel conto in banca: la ragaz­za, che si chiamava Enrichetta e aveva sedici anni , era anche una collezione di virtù. L'incontro fu combinato a Blevio, in u n a villa della sorella de l l ' Imbona t i . Disc ip l ina tamente , i d u e giovani s ' i nnamora rono subito, e i l f idanzamento n o n d u r ò che tre mesi.

Stavolta Milano reagì . C h e Manzon i n o n fosse f ig l io di suo p a d r e , che n o n fosse a n d a t o n e a n c h e a l suo funera le p u r avendone eredi ta to i l pa t r imonio , che approfit tasse di quello lasciato dal l 'amante di sua madre , passi; ma che spo­sasse una borghese calvinista secondo il rito evangelico, sce­gliendosi come test imone un certo Zinammi, ch 'era un p re ­te sp re ta to : ques to era t r o p p o . Gli sposi ev i t a rono la città che ronzava di chiacchiere come un b u g n o d 'api impazzite, e pa r t i rono pe r il viaggio di nozze p r ima sul lago di Como, poi a Brusuglio, na tu ra lmen te in tre.

Enrichet ta lasciò docilmente nelle man i di Giulia la regìa e accettò, senz 'ombra di gelosia, ch'essa conservasse il suo pr imato nel cuore del f igl io . Non mosse obbiezioni q u a n d o Giulia decise di to rna re a Parigi, e non risulta che mai abbia avuto un moto d ' impazienza pe r quel suo compagno che se­guitava a sentirsi p iù figlio di sua m a d r e che mar i to di sua moglie . Tut to questo è più da d o n n a devota che da d o n n a innamora ta . Ma forse pe r Enrichetta, educata secondo la ri­gida regola calvinista, l ' amore n o n era che devozione. U n a sola volta si ribellò, o p e r meglio dire avrebbe voluto ribel­larsi: e fu quando , d o p o la nascita della p r ima bambina , che na tu ra lmente si chiamò Giulia, questa decise di farla battez­zare secondo il ri to cattolico. Si rassegnò anche pe rché suo p a d r e la spinse a n o n fa rne un p o m o di discordia , ma ne soffrì.

Sui motivi che spinsero Giulia a insistere tanto p e r quel battesimo, noi abbiamo opinioni un po ' diverse da quelle di

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quasi tutti i biografi del Manzoni, che li attribuiscono a u n a sua p ro fonda crisi di coscienza. Di p rofondo , in Giulia n o n c'era nulla, salvo l ' amor ma te rno , che del resto le si era ri­svegliato in corpo solo q u a n d o n o n ne aveva più avuti altri da coltivare. O r a n o n vedeva che pe r gli occhi del figlio, ca­piva che pe r cu ra r e i suoi interessi n o n soltanto economici ma anche let terar i egli doveva p r ima o poi t o rna re a Mila­no , e voleva prepararglici un ambiente favorevole r imet ten­dolo in pace con la Chiesa. Ma p e r ques to ci volevano la consacrazione cattolica del ma t r imonio e la convers ione di Enrichetta.

Na tu r a lmen te Giulia si g u a r d ò bene dal dirglielo. Ma si t irò in casa d u e nuovi amici: u n a vedova svizzera che si e ra a p p u n t o convertita, Angelica Geymuller, e il suo converti to­re , l 'abate Degola, pa r t i co la rmente tagliato alla b isogna in q u a n t o giansenis ta , cioè abbas tanza vicino ai p ro tes t an t i . Sottoposta a un vero e p ropr io «lavaggio del cervello», Enri­chet ta en t rò nel loro giuoco senz 'avvedersene e ne r imase p ro fondamente turbata . A differenza della suocera, una co­scienza religiosa essa l'aveva davvero, da b u o n a calvinista, e l 'abiura le pesava. Ma u n a volta che l'ebbe decisa, essa por tò nella n u o v a fede l ' impegno , lo zelo e il r igore m o r a l e di quella vecchia. Il ma t r imonio r ipa ra to re fu celebrato quasi c o n t e m p o r a n e a m e n t e a quel lo di N a p o l e o n e con Maria Luigia d'Austria nel 1810; e come test imone, Giulia volle il Marescalchi, ambasciatore del Regno Italico a Parigi e sicu­ra garanzia che Milano ne sarebbe stata informata. Le peco­relle smarr i te r ient ravano nel gregge.

A tu t te ques te m a n o v r e si d i rebbe che Alessandro fosse r imasto dappr inc ip io es t raneo , o quasi. Sul p r o b l e m a reli­gioso n o n aveva mai assunto posizioni definite, che del resto n o n s ' intonavano al suo carat tere evasivo. Ma poco alla vol­ta si e ra lasciato anche lui coinvolgere nelle conversazioni fra sua mogl ie e il Degola. Costui p re sen tava la Chiesa in u n a luce assai diversa da quella in cui la presentava monsi­gnor Manzoni, e molto più congeniale a u n o spirito antiset-

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tario come il suo. Quasi più severe che contro i protestanti , le requisitorie dell 'abate giansenista contro i Gesuiti, le loro teorie sul probabilismo e la riserva mentale e le loro capzio­se distinzioni fra attritio e contrìtio, a poco a poco cominciaro­no a interessarlo e infine a turbar lo . Forse cominciava a sen­t ire la scontentezza di un i m p e g n o poet ico che si esauriva soltanto in p rob lemi di stile e di metrica. Dico «forse» per­ché siamo nel campo delle m e r e supposizioni. Ma sta di fat­to che r i l eggendo il suo ul t imo lavoro, VUrania, se ne spa­zientì e si r ipromise di n o n scrivere mai più versi come quel­li, sebbene il suo consulente e confessore letterario, Fauriel, li avesse molto lodati. Fu a questo p u n t o che a sconvolgerlo sopraggiunse un t rauma.

Un giorno andò con Enrichetta a vedere uno spettacolo p i ro tecn ico all'Etoile. A un cer to p u n t o ci fu u n o scoppio fuori p r o g r a m m a , accompagnato da u n o spaventoso boato e da u n a nuvola di fumo che seminò il panico in mezzo alla folla. Enrichet ta che, di nuovo incinta, e ra in precarie con­dizioni di salute, fu spazzata via. E Alessandro, anche lui tra­volto, solo a malapena riuscì a mettersi in salvo den t ro u n a chiesa deser ta . Era quella di San Rocco, in cui ora è affissa u n a lapide che r icorda quell 'episodio «provvidenziale» che avrebbe de te rmina to la conversione di Manzoni. Ma siamo di n u o v o nel campo delle ipotesi, p e r c h é egli n o n confidò mai a nessuno cosa accadde nel suo animo q u a n d o si r i trovò lì den t ro , a t u p p e r t ù col Crocefisso. Solo molti ann i d o p o , alla figlia Vittoria che gliene chiedeva con insistenza, rispo­se: «Fu la grazia del Signore, ch 'ebbe pietà di me», ma n o n volle a g g i u n g e r e a l t ro . Impress ionab i le com 'e ra , è mol to probabi le che in quel l 'ora di sgomento al Signore si sia ri­volto p e r impe t ra rne la salvezza di Enrichetta. Ma credo che sarebbe ingiusto e d iminu t ivo a t t r ibu i re la sua crisi di co­scienza a ques to inc idente , che con tu t ta probabi l i tà servì solo a precipitarla. C o m u n q u e , esso r appresen tò , nella sua vita, u n o spartiacque.

Da allora, egli a b b a n d o n ò o t rascurò le vecchie amicizie

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salottiere, meno Fauriel, pe r sprofondare nella let tura degli autori che Degola gli p roponeva : Kemp , Arnaud , Quesnel , Pascal. Manzoni n o n sapeva molto di f i losofia. Credo che di veri filosofi n o n conoscesse che Kant e Locke. Tuttavia era r imasto influenzato dalle p r e d o m i n a n t i co r ren t i razionali­stiche, e il p rob lema che lo assillava era quello di conciliare la ragione con la fede. N o n so se ci sia mai riuscito, e a far­m e n e dub i ta re è il fatto ch'egli n o n raggiunse mai la sere­nità del vero credente . Più che l 'amore, si direbbe che lo do­minasse il t imor di Dio. E se n o n trovò la fede, trovò di cer­to una morale , come d imost rano le r igorose regole del cate­chismo tu t tora depositato nella cappella di Brusuglio. E non i m p o r t a che n o n le abbia s e m p r e pra t ica te . I m p o r t a solo che n o n smise mai d'ispirarvisi.

Senza sforzo si staccò da Parigi che non gli piaceva più e che soprat tut to più non piaceva né a Giulia né a Enrichetta. Non stava b e n e . Soffriva di u n a di quel le crisi depress ive che pe r tutta la vita n o n smisero mai di tribolarlo. Gli si ma­nifestavano con forme acute di agorafobia che lo r endevano t i tubante davanti al l 'a t traversamento di u n a strada o di una piazza, specie se e rano bagnate, e gli facevano des iderare la quiete della campagna . Forse nelle sue vene riciclava un po ' i l s angue del n o n n o m a t e r n o , Cesare Beccaria. C o m e lui, era attaccatissimo alle gonnelle delle sue donne , casalingo e sensuale: la povera Enrichetta, sebbene fosse u n o scricciolo, passava senza in te r ruz ione da un al la t tamento a u n a gravi­danza e ne era ta lmente spossata che a un certo p u n t o do­vette in tervenire il confessore pe r r ichiamare Alessandro a un po ' di moderaz ione .

Sulla via del r i torno la coppia rese visita ai suoceri in pre­da a u n a «smoderatissima collera» pe r l 'abiura della loro fi­glia. Ma fu un fallimento. L'accoglienza dei Blondel fu ag­ghiacciante, e ad Alessandro non rivolsero neanche la paro­la. Poi i d u e raggiunsero Brusuglio, dove li avevano prece­dut i Giulia e u n a lettera di Degola al pa r roco locale, p a d r e Tosi, con tutte le istruzioni pe r il t ra t tamento di quei neòfiti,

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e specialmente di Alessandro, che si e ra impegna to a mette­re la sua p e n n a al servizio della Chiesa. Ci si provò infatti, e pose m a n o a quelle che poi sarebbero diventate le Osserva­zioni sulla morale cattolica. Ma ci lavorava contro voglia. «Pre­gate il Signore - scriveva a Degola - che gli piaccia di scuo­termi dal mio tepore nel servirlo.» Il fatto è che il suo vero interesse restava la poesia. E fu pe r accordarlo coi suoi nuo ­vi doveri di converti to che si mise a c o m p o r r e gl'Inni Sacri, a t t i ngendone l ' ispirazione ai g r a n d i Misteri cristiani. Pur­t r o p p o n o n ce la t rovò e si sente . In ques te poesie ci sono m o k e pregevoli cose: anche un coraggioso rifiuto della mi­tologia pagana coi suoi convenzionali Dei e le sue rifritte pa­storel le . Ma n o n c'è la Poesia, m a l a m e n t e s u r r o g a t a dalla solenni tà o ra tor ia . N o n ebbe ro nessun successo, ma piac­quero a Goethe, e non era poco.

O r a la vita dei Manzon i si svolgeva q u i e t a m e n t e , m e t à de l l ' anno a Brusugl io , m e t à a Milano dove finirono p e r compra re la casa di Via Morone . Ma quieti n o n e rano i tem­pi in quel crepuscolo del dominio napoleonico, e quindi an­che del R e g n o Italico. I l B e a u h a r n a i s , t o r n a t o dalla disa­strosa c a m p a g n a di Russia, cercava di o rganizzare la resi­stenza agli austriaci. Ma invece di unirsi in to rno a lui come Foscolo, p u r detestandolo, avrebbe voluto, Milano si era di­visa in u n a mir iade di parti t i che si paralizzavano a vicenda e che finirono pe r fare il giuoco dell ' invasore austriaco.

Un po ' pe r p rudenza , un po ' pe r indifferenza, Manzoni si t eneva come al solito in d i spar te . Un g io rno vide scate­narsi , sotto le sue finestre, il putiferio. Era u n ' o r d a di scal­m a n a t i che fra g r ida , lazzi e be s t emmie t r a sc inavano p e r s t r ada i rest i s angu ino len t i de l min i s t ro P r ina . Sconvolto da quel la vista, Alessandro c a d d e svenu to sulla po l t rona , pe r parecchi giorni r imase semincosciente, e da quello spa­ven to n o n riuscì a r iavers i p iù del t u t to . A p p e n a po tè , t o r n ò a rifugiarsi in villa. N o n soppor t ava la violenza, ne aveva o r ro re .

A Milano rimise p iede solo dopo che l'Austria vi ebbe re-

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s taura to l 'o rd ine , un o rd ine che sapeva di caserma e di ci­mitero. Per at t i rare le simpatie della città, il maresciallo Bel-l ega rde cercò di r i a n i m a r n e la vita sociale e m o n d a n a , ch 'ebbe i suoi centr i p iù vivi nelle case Belgioioso e Balza-ret t i . Ma la vita cu l tura le appass ì di colpo p e r i l d i r ada r s i degl ' intellettuali che n o n vi t rovavano più ossigeno. Gli au­striaci avrebbero preferito assoldarli, e ci r iuscirono col soli­to Monti e alcuni altri. Ma i meglio, Foscolo in testa, preferi­r o n o l 'espatrio. Per i l m o m e n t o , l 'unico g r u p p o che r imase uni to fu quello della Cameretta, che faceva capo al poeta dia­lettale Car lo Porta, e la polizia lo lasciò fare p e r c h é n o n si trattava che di un 'accademia paesana, la cui f ronda n o n an­dava al di là di qualche bonar ia scurrilità vernacola. Gli al­tri, i p iù seri (Pellico, Di Breme , Berchet , Borsieri, Gioia) si raccoglievano in to rno ai conti Por ro e Confalonieri , già ri­conosciuti come i veri capi dell 'opposizione liberale, in atte­sa di fondare un giornale che fu poi // Conciliatore.

Manzon i pa r t ec ipò a qua lche r i u n i o n e del la Cameretta, ma n o n si legò né a questo né all'altro g r u p p o . N o n sfuggi­va tuttavia alle grandi emozioni collettive, anzi il suo fragile sistema nervoso le registrava ampl iandole come un sensibi­lissimo sismografo, e quella suscitata dalla fuga di Napoleo­ne dal l 'Elba lo contagiò p r o f o n d a m e n t e . Più p e r ragioni u m a n e che politiche, e ra s empre stato un g r a n d e ammira ­tore del Condot t iero , forse pe rché rappresentava ciò ch'egli avrebbe voluto essere , e quel suo avven tu roso r i t o r n o sul t r ono lo emozionò. Fu in questo stato d ' an imo che seguì le vicende di Mura t in marcia verso la Lombard ia e ne lesse il g lad ia tor io appel lo agl ' i tal iani. I n t e r r o m p e n d o la s tesura del la t r aged ia cui stava l avo rando , Il Conte di Carmagnola, but tò giù, al t ret tanto gladiatorio, un inno di plauso a quel­l ' impresa: // proclama di Rimini. Ma alla notizia che Mura t , ba t tu to , e ra fuggito e che il tentativo di Napoleone era nau­fragato a Waterloo, n o n solo r inunziò a pubblicarlo, ma n o n volle neanche tenerselo in casa e lo affidò in busta chiusa al­l'amico Visconti che lo tenesse in cassaforte. Poco dopo , fos-

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se effetto del t u r b a m e n t o od al t ro , ebbe u n o sven imen to m e n t r e visitava u n a libreria, e cadde picchiando malamente la testa. N o n e ra la p r i m a volta che gli capitava, e non si è mai saputo con esattezza di che male si trat tasse: probabi l ­men te e rano lievi attacchi di epilessia dovuti alla sifilide ere­ditata dal padre .

Si appa r tò ancora di p iù . N o n volle n e m m e n o a n d a r e a sentire la Francesca da Rimini del Pellico che fu il g r ande av­ven imen to teatrale di quella stagione, forse pe r ché sapeva ch ' e r a sgradi ta , p e r i suoi patr iot t ic i accenti , alle au to r i t à austr iache ormai sa ldamente p a d r o n e del Lombardo-Vene­to, e rifiutò di col laborare al Conciliatore f inalmente na to e già alle p rese con la censura . A to rmen ta r lo c 'era anche , e s empre di più, il p a d r e Tosi, che ogni poco gli si presentava col cipiglio del credi tore , a reclamare il promesso lavoro sul­la mora le cattolica, che n o n gli riusciva po r t a r e a t e rmine . Lungi dal r i spondere pe r le r ime a quel rozzo pre te , Man­zoni tergiversava e cercava scuse, come se si riconoscesse in colpa. E forse fu anche pe r sfuggire a quella persecuzione che decise di t o r n a r e a Parigi con la m a d r e , la mogl ie e i quat t ro figlioletti.

A quan to pa re , la sua intenzione era di stabilircisi defini­t ivamente , m a l g r a d o le difficoltà che si f r apponevano alla sistemazione di u n a famiglia così numerosa , tant 'è vero che aveva avviato pra t iche p e r la vendi ta sia della casa di città che di Brusuglio. Rivide i vecchi amici, se ne fece di nuovi, soprat tut to giansenisti. Ma d o p o qualche mese fu colto dal­la nostalgia e tornò, giusto in t e m p o per trovarsi in mezzo a un altro di quei subbugli che tanto paventava.

Si avvicinavano i moti del ' 2 1 , e la polizia si e ra fatta an­cora più sospettosa e vessatoria. // Conciliatore era stato sop­presso d o p o pochi mesi di vita, e la città era tutta un rincor­rersi di voci. Si diceva ch 'era alle viste u n a rivoluzione orga­nizzata da u n a potent iss ima e misteriosa società segreta, la Carboneria , che pe rò n o n doveva essere tanto segreta e mi­steriosa, sé tutti ne conoscevano i capi. Si diceva che Confa-

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lonieri fosse in r a p p o r t i col Pr incipe di Car ignano e che le t r u p p e p iemontes i sarebbero venu te a d a r m a n forte ai r i­belli lombard i . Nel l 'ambiente patr iot t ico molte speranze si e r a n o accese, e come al solito anche Manzoni ne fu conta­giato. Q u a n d o gli a n n u n z i a r o n o che Tor ino e r a in m a n o agl'insorti, che il re Vittorio Emanue le aveva abdicato e che il Viceré austriaco di Milano aveva abbandona to di not te la città, la c o m m o z i o n e lo t ravolse e gli de t tò un a l t ro i nno , Marzo 1821, che nei suoi scalpitanti versi riflette la schiettez­za dell ' ispirazione. Anzi, stavolta fece anche di più: andò da un Monsignore p e r pe r suader lo a en t r a r e in un fronte pa­triottico di cui gli aveva parlato Visconti.

Il fallimento del moto , il r i to rno in forze degli austriaci, gli a r res t i de l Maroncel l i , del Pellico, del Confa lonier i , lo p i o m b a r o n o in u n a nuova crisi di panico e di convulsioni. C o n quegli uomin i n o n aveva avuto r appor t i , anzi verso i l Confalonieri n o n nascondeva una profonda antipatia pe r la sua nobilesca alterigia mescolata di a t teggiament i d e m a g o ­gici e piazzaioli. Ma aveva letto il suo inno ad alcuni amici, qua lcuno dei quali poteva denunz ia r lo ; e già si vedeva an­che lui nelle grinfie del Salvotti. Corse di nuovo a Brusuglio e vi si r inchiuse.

L'opera che aveva in lavorazione era u n a nuova tragedia, Adelchi. La in t e r ruppe pe r compor re il famoso 5 Maggio, l'in­no in mor t e d i Napo leone , personaggio o rmai t rasmigra to nella Storia; poi to rnò aliAdelchi. Trat tandosi di una tragedia storica, aveva bisogno di documen taz ione , e in ques to egli e r a scrupolosissimo. Sfogliando gli Annali del Mura to r i , trovò u n a sentenza di tr ibunale del Seicento che comminava pene severe a un parroco che si era rifiutato di celebrare un matr imonio. L'episodio era così banale che cer tamente gli sa­rebbe subito passato di memor ia , se in quel m o m e n t o n o n gli fosse capitato di leggere (o di r i leggere, pe rché forse l'a­veva già letto a Parigi) Ylvanoe di Walter Scott, il p ro to t ipo del cosiddet to «romanzo storico». Manzoni n o n aveva mai mostrato predilezione pe r i romanzi , ma quello lo aveva en-

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tusiasmato. Tuttavia l'idea di scriverne uno anche lui gli ma­t u r ò in co rpo l en t amen te e p e r successive provocazioni . Sempre pe r documentars i sull'Adelchi, consultò le Cronache milanesi del Ripamonti dove trovò le vicende di suor Virginia di Lejda, la famosa «monaca di Monza». Scrisse d u e capitoli, II curato e Fermo, ch ' e r ano r i spe t t ivamente i r i t rat t i di Don Abbondio e di Renzo Tramagl ino , più un ' in t roduz ione . Ri­prese e concluse la tragedia. Poi tornò a quei suoi personag­gi del Seicento e alle loro vicende, ma con l ' intenzione di far­ne u n a «cantafavola». Non si ri teneva tagliato pe r il roman­zo: «Io sono un uomo impacciato nel cervello e nella lingua» confessava in u n a lettera. Era incerto su tutto, anche sul tito­lo. Il p r imo abbozzo si chiamò Fermo e Lucia, ed era piuttosto sconnesso pe r ché il p r i m o capitolo, dedica to a un famoso processo con t ro dei pover i diavoli to r tu ra t i e uccisi come «untori», cioè come p ropaga to r i di peste nel l ' ep idemia del 1630, faceva pa r t e a sé, senza fondersi col resto. Ci vollero c inque ann i pe rché il Fermo e Lucia diventasse Gli sposi pro­messi e poi {promessi sposi.

Ma, se Manzon i s tentava tan to a i m p a d r o n i r s i del ro ­m a n z o , i l r o m a n z o n o n s tentò p u n t o a i m p a d r o n i r s i di Manzoni, che per la pr ima volta conosceva l 'ebbrezza di un totale abbandono al l 'opera creativa. In questo per iodo egli visse in te ramente calato nei suoi personaggi e nelle loro vi­cende , e di ogni capitolo che portava a te rmine dava let tura la sera alla madre , alla moglie, al canonico Tosi, al Visconti e al Fauriel, venuto ospite a Brusuglio, anno t ando in margine le loro osservazioni, sugger iment i e censure. Fu rono Tosi e Fauriel che per esempio lo indussero a r i d u r r e e a t t enuare l 'episodio della monaca di Monza, sia p u r e pe r diverse ra­gioni: l 'uno pe r salvare la Chiesa, l'altro pe r salvare l'equili­brio narrat ivo.

Il romanzo fu pubblicato, come oggi si dice; «a puntate»: i pr imi d u e tomi nel '25 , il terzo nel '27. Manzoni n o n finiva mai di appor t a rv i correz ioni anche sulle bozze di s tampa, che rivelano le sue incertezze, perplessi tà e to rment i . A la-

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sciarlo insoddisfatto e ra la l ingua che aveva usato. E qui si p o n e un problema su cui ancora n o n si è smesso di litigare, ma spesso con a rgoment i suggeri t i dal campani l i smo, cioè dall'idiozia.

Da secoli, è stato de t to , gl ' i taliani n o n fanno che guar ­darsi la l ingua. Ma ne h a n n o qualche motivo, e più ancora lo avevano ai t empi di Manzoni . Se la g u a r d a v a n o p e r c h é n o n l 'avevano e ne andavano in cerca. Le ragioni sono ab­bas tanza ch ia re . L'affermazione del «volgare», cioè del la l ingua parlata , in Italia era stata par t ico larmente difficile e contrastata dal latino, r imasto fino al Seicento la l ingua del­la Chiesa de l l ' ammin i s t r az ione e del la Giustizia. A n c h e q u a n d o ebbe finalmente vinto la sua battaglia, l 'italiano re­stò, r i spe t to al la t ino, in u n a posizione suba l t e rna e come afflitto da un complesso d'inferiorità nei suoi confronti: ve­niva infatti insegnato secondo le regole del lat ino, cioè co­me u n a l ingua mor t a , e i suoi u t en t i ce rcavano di farselo p e r d o n a r e «latineggiando». Per di più, Paese policentrico, l 'Italia n o n aveva mai avuto u n a capitale come Parigi, che dava il la a tu t to , anche alla l ingua, d e t t a n d o n e il model lo al resto della Francia. Gl'intellettuali che avrebbero dovuto a s sumersene i l compi to e r a n o sparpagl ia t i nelle Cor t i dei vari Comuni , Signorie e Principati , o g n u n a delle quali ave­va un suo gergo. Ma, ol tre a questo, e rano manca te le pale­s t re . Il francese aveva avuto i «salotti», dove cu l tu ra e so­cietà s ' incontravano facendo della l ingua colta u n a l ingua di conversaz ione e del la l ingua di conversaz ione u n a lin­gua colta: ed era questo che la r endeva così esatta, chiara, e legante e na tura le . L'inglese aveva avuto il Par lamento e i clubs: ed era questo che lo r endeva così concreto e prat ico. Gl'italiani n o n avevano avuto che l 'Accademia, dove il dot­to pa r lava a l do t to in u n a l ingua convenz iona le , che n o n aveva più nulla a che fare con quella dell 'uso c o m u n e e che cercava di somigliare il più possibile al latino pe rché si ver­gognava di essere italiano.

Forti della loro super iore tradizione letteraria, i fiorenti­

n i

ni cercarono di dare a questa l ingua una specie di Cor te di Cassazione o di Sant'Uffizio: il Vocabolario della Crusca che, iniziato nel 1612 e prosegui to fra roventi polemiche e con­testazioni, dopo duecent ' ann i n o n era ancora arrivato a ter­mine . N o n e ra un d iz ionar io , ma u n a cr ip ta d i m u m m i e , che accoglieva i te rmini più arcaici e in disuso solo p e r c h é e rano avallati da qualche f i rma accreditata, r i f iutando con o r r o r e tutti gli appor t i della l ingua vera, quella che si parla­va nelle s trade e nelle piazze: il codice insomma di u n a lin­gua n o n m e n o mor ta del latino. Questo divorzio fra le d u e l ingue n o n era che il riflesso di quello, s empre esistito, fra cul tura e società. La cultura in Italia n o n si è mai considera­ta al servizio della società, ma solo del po te re e di se stessa.

Facciamo grazia al lettore di tut te le diatribe che ne era­no scaturite. Queste d iventarono par t icolarmente aspre fra la fine del Sette e i p r imi del l 'Ottocento, grazie alla nascita di un concorrente : quell'Istituto nazionale di Scienze, Lettere e Arti che, fondato da Bonapar te a Milano come corrispettivo i tal iano dell'Accademia di Francia, si p r o p o n e v a fra gli altri compiti anche quello di met tere ord ine nella l ingua. I lette­rat i si divisero: da u n a pa r t e i cosiddett i puristi, fedeli alla Crusca, e capi tanat i dal l ' abate veronese Cesari , secondo il quale la l ingua italiana era quella degli scrittori del Trecen­to e tutto ciò ch 'era venuto d o p o era da but tar via; dall 'altra gl ' innovatori capitanati dal Monti, il quale p re tendeva inno­vare a d o t t a n d o n o n la l ingua successiva al T recen to , ma quella p receden te , cioè quell '«italiano illustre» che, diceva, era stato pat r imonio di tutto il Paese e non monopol io della Toscana. Era u n a tesi che bat teva p e r r idicolaggine quella del Cesari, cui forniva buon i argoment i pe r r i spondere con ironia che restava tuttavia da spiegare come mai di questa bellissima l ingua non restassero document i e nessuno si ri­cordasse di averla mai scritta e parlata . In realtà Monti in­tendeva un 'al t ra cosa: intendeva che l'italiano dovesse resta­re una lingua non di popolo e per il popolo, ma di dotti per dotti , fabbricata in «aula» e imposta dalla cattedra: ch 'era la

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posizione tipica del letterato cortigiano come lui, al servizio non del pubblico, ma della «casta».

Ques te pedan tesche risse, che d imos t rano il miserevole livello dei nost r i le t terat i e q u a n t o lon tan i essi fossero da ogni concezione d ' i m p e g n o civile, invece di affrettarla, ri­ta rdavano la nascita di una lingua italiana che tutti gl'italia­ni potessero scrivere come si parlava e par lare come si scri­veva. La signora De Staél, che il nostro Paese l'aveva capito bene , annotava nel suo diario: «Scrivono di storia, di scien­za e di filosofia servendosi di una lingua mor ta e artificiale, men t r e i poeti si a t tengono a un gergo classico e classicheg­giante, sicché le loro opere non valicano i confini del picco­lo g r u p p o di eruditi».

Ma della stessa opin ione era Manzoni che, per aver vis­suto lungamente a Parigi e partecipato alla sua «civiltà di sa­lotto», poteva stabilire dei raffronti. Dove trovarla, confida­va a Fauriel, una lingua italiana semplice, piana, discorsiva, che tutti potessero capire? Gua rda t e che d o m a n d e doveva porsi un povero scrittore italiano che volesse rivolgersi non più al Pr inc ipe e al l 'Accademia, ma al pubbl ico . Infatt i la sua p r ima idea fu di scrivere il suo r o m a n z o in francese, e fu lo stesso Fauriel a sconsigliarlo pe r for tuna sua e nostra. Ma c e r t a m e n t e sarebbe stata u n a fatica m e n o i m p r o b a d i q u a n t o gli costò i l doverse la inven ta re , quel la l ingua, pe­scandone e cont ro l landone i vari ingredient i . Fu un auten­tico t o r m e n t o , di cui offrono u n a patet ica tes t imonianza i tribolatissimi manoscritt i e le minute postille segnate a mar­gine del famoso - e artificioso - vocabolario. Nelle le t ture che sera lmente dava agli amici, ogni pagina, ogni per iodo , ogni pa ro la veniva frugata, r ivol tata e d iba t tu ta , t an to da d a r e l ' impress ione , come ha scritto Cecchi, «che Manzon i abbia lavorato in pubblico, con un mon te di consiglieri, refe-randar i ecc.». Finita la p r ima stesura, essa gli parve infiora­ta di tali e tant i m o d i gergali l ombard i , che fu colto dalla t en taz ione di disfare tu t to e di rifarlo in dia le t to . Ancora u n a volta fu Fauriel a sconsigliarlo. Ma il p rob lema restava:

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dove t rovar la , quel la b e n e d e t t a l ingua, che fosse ins ieme tan to co r re t t a e popo la resca da p o t e r s tare , nei d ia loghi , tanto sulla bocca del Cardina l B o r r o m e o che su quella del contadino Renzo?

Fu al lora che Manzon i p e n s ò di «sciacquare i p a n n i in Arno», cioè di a n d a r e a cercarsi quella l ingua a Firenze. È ques to che molti le t terat i l omba rd i n o n gli p e r d o n a n o , e n o n senza qua lche fondatezza. Effet t ivamente, cert i vezzi della parlata toscana (e n o n sempre Manzoni ebbe mano fe­lice nello sceglierli) in bocca agli umili personaggi brianzoli del romanzo , s tonano e fanno r idere : i pann i di Agnese e di Lucia, pe r esempio, si prestavano poco a quel bucato. Ma il p rob lema , p e r Manzoni , n o n era d i t rovare un lessico più p u r o , quale c r e d o n o di pa r l a r e i campanil is t i toscani, che non sono più intelligenti di quelli lombardi . Ciò che Firenze offriva e fornì al Manzon i e ra b e n al t ro , e p r o p r i o quel lo che più gli abbisognava e di cui andava affannosamente in cerca: il model lo di u n a l ingua che aveva abolito, o p e r lo m e n o di gran lunga r idot to il divario fra il vocabolario delle pe r sone colte e quello del popolo . E pe r un motivo sempli­cissimo: che ques ta l ingua n o n era na ta nella Cor te o nel­l 'Accademia, come in tut to il resto d'Italia, ma nella «fatto­ria», cioè dal dialogo fra il s ignore e il contad ino . I toscani n o n par lavano e n o n pa r l ano un italiano migliore degli al­tri; ma quello che par lano, lo par lano tutti, il colto e l'incol­to, il nobile, il borghese e l 'artigiano. Fra i vari ceti sociali, a Firenze, c'è sempre stata lotta, ma mai incomunicabilità. Il ca rd ina le B o r r o m e o f iorent ino s ' in tendeva col suo Renzo n o n pe rché parlava il suo dialetto, come a Milano, ma per­ché Renzo parlava la sua l ingua. E siccome Manzoni aveva bisogno p ropr io di questo, di u n a l ingua che fosse nello stes­so t empo del Cardinale e di Renzo, e ne rendesse plausibile la conversaz ione , e r a logico che andasse a cercarsela a Fi­renze . Lo capì beniss imo i l C a p p o n i che , sc r ivendone al Vieusseux, gli diceva, a proposi to del romanzo: «La g rande quest ione è di sapere se sarà letto: ne dubito un poco, dopo

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sbollita la p r ima effervescenza; e n o n tanto p e r difetto del Manzoni , quan to pe r difetto della l ingua ch'egli manegg ia s tupendamen te , ma n o n ha ancora (l'avrà) quello stile con-versativo che possa r e n d e r e la l e t tu ra d ' u n l ibro i tal iano agevole quanto quella d ' un libro francese».

L'osservazione era esatta, ma la predizione sbagliata per­ché l 'effervescenza n o n accennava affatto a sbollire. E se n 'accorse lo stesso Manzon i via via che scendeva verso Fi­renze in compagn ia della m a d r e , della moglie e di c inque dei suoi sei figlioli. Dovunque si fermassero, veniva r icono­sciuto e festeggiato. Alla frontiera del Granduca to un doga­niere, d o p o aver visitato il suo passaporto, si mise a recitare a memor ia : «Quel r a m o del lago di Como...» Spogliandosi la sera, Manzoni confidava al cameriere: «Ma chi lo avrebbe det to, q u a n d o mi affaticavo il cervello sopra quella cantafa­vola, che avrebbe fatto tanto rumore?» Della p r ima edizione si e r ano esaurite in pochi mesi ben nove r is tampe. E questo s t raordinario successo di pubblico dimostra quale sete ci fos­se in Italia di libri scritti non più soltanto pe r i dotti , ma pe r tutti i lettori.

A Firenze l'accoglienza fu calorosa. Tutti p resero d'assal­to i locali dell'Antologia dove Manzoni fu ricevuto e presen­tato. Firenze era in quel m o m e n t o la vera capitale culturale d'Italia, e n o n perché alla cul tura desse il maggior contribu­to. Anzi. Esausta di geni , d o p o Galileo n o n ne aveva p iù prodot t i . Ma il tol lerante reg ime dei Lo rena ne aveva fatto il rifugio di tutti gl'intellettuali che la repressione poliziesca metteva in fuga dagli altri Stati della penisola, consentendo­le così di s t r appare quel p r imato a Milano che solo d o p o il '60 lo avrebbe recupera to . C 'e rano Mamiani , Niccolini, Ri-dolfi, Ricasoli, Lambrusch in i , T o m m a s e o , Collet ta, Pepe . C 'era anche, in un angolo, Leopard i che andava borbot tan­do : «Non capisco p e r c h é l ' au to re d i un r o m a n z o che vale così poco debba suscitare tan to interesse». Manzoni , senza borbot ta r lo , pensava lo stesso delle sue poesie. Si s tr insero la m a n o con una cortesia priva di cordialità.

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Furono , pe r Manzoni , giorni , set t imane, mesi di allegra operos i tà . Mai lo si e ra visto così espansivo e socievole. Si fermava a par lare con tutti pe r far l 'orecchio a certe parole che la Crusca n o n registrava e a certi mod i di d i re che con gioiosa sorpresa coglieva in bocca sia al professore che al fiaccheraio. Voleva sapere di dove venivazro, e segnava tutto sul taccuino. Scriveva Enrichetta a un'amica: «I cambiamen­ti di l ingua che si p r o p o n e di fare ai Promessi sposi consistono nel l ' inser i re pa ro le e espress ioni che p r o v e n g o n o dal lin­guaggio vivo dei toscani. Egli è convinto che n o n c'è nessun luogo in Italia dove si p u ò t rovare quello che è la sostanza di tutte le l ingue, ossia l'uso». Manzoni aveva ben capito che ques ta l ingua n o n sa rebbe ro stati i pur is t i della Crusca, e neanche quelli dell'anti-Crusca, a crearla.

Torna to a Milano coi suoi a p p u n t i , si mise a disfare e a rifare il suo testo per le successive edizioni, che seguitavano a esaurirsi u n a d o p o l'altra. E n o n smet terà più fino al '40. Lasciamolo a questo lavoro, e lasciamo agli esperti il compi­to di valutarne i risultati, raffrontando l 'una all 'altra le varie stesure. Di questi risultati a noi ne interessa u n o solo: gl'ita­liani finalmente avevano un libro, che tutti coloro che sape­vano leggere potevano leggere e in cui t rovavano il modello di u n a l ingua che ancora n o n c'era, ma che i l g iorno in cui ci fosse stata, n o n avrebbe p o t u t o essere che così p e r c h é r a p p r e s e n t a v a i l p iù per fe t to p u n t o di fusione, f in al lora mai raggiunto, fra quella scritta e quella parlata. Ma il libro aveva anche un altro immenso meri to: quello di essersi dato a p ro tagonis ta n o n più l 'Eroe, i l pe rsonaggio d 'eccezione, ma il popolo, il vero popolo, nei suoi scampoli più realistici e consueti. Se siano tutti riusciti e quali lo siano meglio degli altri, anche questo è un giudizio che r imet t iamo ai compe­tenti, tu t tora discordi. Ma pe r la p r ima volta il c o m u n e let­tore , che fin allora la l e t t e ra tu ra aulica e cor t ig iana aveva sdegnosamen te escluso, r iconosceva se stesso e i p r o p r i si­mili negli attori di u n a vicenda, di cui in tal m o d o si sentiva partecipe. Se Manzoni a questo mirasse in coerenza con una

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sua ben precisa concezione politica, n o n lo sappiamo e non lo crediamo. Oggi c'è chi vuol farlo passare pe r una specie di democrist iano di sinistra, e questo ci sembra ridicolo, an­zi lo è senz'altro. Io credo che su questa s t rada l'abbia con­dotto la sua morale. Manzoni non si proclamò mai gianseni­sta pe rché ciò avrebbe significato u n a ro t tu ra con la Gerar­chia, e Manzon i n o n e ra u o m o di r o t t u r e . Ma giansenis ta era, e lo era p ropr io per ragioni morali: basta leggere certe lettere scritte da Parigi al Tosi contro i Gesuiti e il clero fac­cendiere . La sua «poesia degli umili» nasceva da questa esi­genza di evangelico r igore che gl'ispirava, nei confronti del­la Chiesa t empora le , a t teggiament i più eterodossi di quelli della sua moglie ex-calvinista.

Ecco p e r c h é I promessi sposi furono il p iù g r a n d e evento di questo per iodo, e non soltanto sul p iano letterario. Ottu­se come lo sono s e m p r e tu t te le c ensu re , quel la aus t r iaca credet te che il romanzo fosse innocuo perché si svolgeva al t empo della Milano spagnola. Non capì quanto rivoluziona­rio fosse questo p r imo esempio di una le t teratura che rom­peva l 'antica «incomunicabilità» delle regioni e delle classi sociali. N o n crediamo affatto che esageri chi pone Manzoni fra i grandi «padri della patria». Ques t ' uomo pavido, questo ren i ten te alla leva, fu u n o dei maggiori artefici del Risorgi­mento .

Dopo di allora n o n scrisse quasi p iù nulla, forse pe rché sentiva di non poter anda re più in là di dov 'era arrivato. Ma dove t te ro contr ibuirvi anche le dolorose vicende familiari che pun tegg ia rono il seguito della sua lunga vita. La pr ima a lasciarlo, nel ' 35 , fu Enr ichet ta , d is t ru t ta dalla tisi, e p iù anco ra dalle g rav idanze : gli o t to figli e i t r e abor t i e r a n o t roppi , pe r una d o n n a fragile come lei. I biografi dicono che fu, p e r Manzoni , un colpo mor ta le . E un ' ipotes i lecita, ma che non trova conforto in alcuna testimonianza. Non esisto­no let tere di Manzoni a sua moglie , sebbene si fosse in un secolo in cui tutti si scrivevano tutto anche vivendo fianco a fianco, né confidenze di lui su di lei. L'unico pubblico omag-

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gio che le rese fu la dedica dell'Adelchi «alla diletta e venera­ta sua mogl ie Enr iche t ta Luigia Blondel , la quale ins ieme con le affezioni coniugal i e con la sapienza m a t e r n a po tè serbare un animo verginale»: parole ta lmente convenziona­li e di circostanza che non ci pa re di po te rne d e d u r r e nulla, se non a p p u n t o un eccessivo rispetto delle convenzioni. Fi­nito il lutto, si risposò con u n a vedova, Teresa Stampa, quin­dici a n n i p iù g iovane di lui, c o m e aveva fatto suo n o n n o Beccaria di cui, q u a n d o rimase vedovo, tutti avevano temu­to il suicidio.

Della profondità dei suoi affetti, dubi t iamo molto. Senti­m e n t a l m e n t e , Manzon i e r a p iu t tos to frigido, c o m e quasi s empre lo sono, anche pe r difesa, i malati di nervi. Ciò ch'e­gli e i biografi c h i a m a n o «rassegnazione ai voleri di Dio», n o n era forse che un istintivo rifiuto delle commozioni . Una d o p o l 'al tra gli m o r i r o n o q u a t t r o figlie, tu t te s t ronca te a ventisei anni dallo stesso male della madre . I maschi n o n gli de t te ro che dispiaceri e dovet tero con t inuamente r icor rere pe r a iu to di d e n a r o a lui, che quasi s e m p r e glielo negò . Manzoni n o n era avaro, ma e ra convinto di essere sull 'orlo del dissesto e r idot to alla fame con tut t i quei figlioli scape­strati e il mezzo plotone di nipoti che si ritrovava sulle spal­le. In realtà avrebbe po tu to benissimo, v e n d e n d o un po ' del suo cospicuo pa t r imonio te r r ie ro , sanare la si tuazione. Ma n o n capiva nul la d i ques te cose, anzi prefer iva ignora r l e , sempre pe r salvaguardare la p ropr ia tranquillità. Per s t rano che oggi possa p a r e r e , I promessi sposi, n o n o s t a n t e il loro e n o r m e successo, n o n gli avevano reso un soldo. La secon­da moglie lo convinse ad assumerne in p ropr io la s tampa e la diffusione, e ci rimise ot tantamila lire, cifra pe r quei tem­pi colossale. N o n l i r e c u p e r ò mai p iù . Solo molt i ann i più tardi , e d o p o u n a lunga causa in t r ibuna le , r iuscirà a farsi da re dall 'editore Lemonn ie r t rentacinquemila lire.

Umanamen te , l 'uomo n o n ispira molte simpatie. Non gli si conoscono bassezze né acredini nei confronti di nessuno, ma neanche slanci di amicizia e di solidarietà. Era dotato di

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umorismo, ma ne faceva un uso molto modera to pe r la pau­ra di offendere e di crearsi inimicizie. Tutta la sua vita di re­lazione anche con gl'intimi, forse perfino con la moglie, e ra impron ta ta a u n a cauta diplomazia. E sotto i suoi modi gen­tili e un po ' untuos i c'era sopra t tu t to la preoccupaz ione di non lasciarsi coinvolgere nelle vicende di quei tempi calami­tosi né trascinare in amicizie che potessero met te re in peri­colo la sua pace. Per l'Italia e la libertà, fu tra gli uomini che più fecero, ma anche tra quelli che m e n o r ischiarono.

N o n si p u ò fargliene colpa pe rché tut to questo aveva ori­g ine nel la sua fisiologia, o nella sua pa to logia . Ma n o n si p u ò n e m m e n o esimersi dal constatarlo, anche p e r capire i suoi a t t egg iamen t i nelle successive e m e r g e n z e nazional i . Ques to poe ta che de t te p iù di Alfieri e di Foscolo, e senza mai assumerne le pose gladiatorie e i toni declamatori , fu il vero Vate dell ' I tal ia, lo r i t r o v e r e m o s e m p r e a r ruo l a to nei servizi «ausiliari».

CAPITOLO TRENTOTTESIMO

DE MAISTRE

N o n abb iamo mai capi to p e r c h é nella nos t ra storiografia, sia politica che le t terar ia , i l n o m e di Giuseppe De Maistre n o n figuri, o vi figuri solo di r a d o e di straforo. Forse pe r ­ché scrisse in francese? Ma in francese scrisse anche Casano­va, e p p u r e i diritti di c i t tadinanza n o n gli sono contestat i . Cred iamo quindi che a De Maistre l 'indice sia stato commi­na to n o n pe r come scrisse, ma pe r ciò che scrisse. Egli r ap ­presenta l'antitesi dell 'Italia giacobina e carbonara . Ma n o n ci sembra un b u o n motivo pe r epurar lo . Possiamo deplora­re ch'egli abbia messo il suo pat r imonio d'intelligenza al ser­vizio d ' u n a causa sbagliata. Ma quel pa t r imon io resta, de ­gno della più alta ammirazione. L'avesse avuto la Rivoluzio­ne , u n o scrittore come lui! Pu r t roppo , nessuno dei suoi bar­di e avvocati seppe mai a rgomenta re le sue verità col vigore polemico, l 'empito lirico, la forza icastica, la tagliente ironia, la m o d e r n i t à di stile e di l inguaggio con cui il reaz ionar io De Maistre a rgomentò i suoi inganni , se tali sono.

Era nato nel '53 a Chambéry, p r i m o di dieci fratelli, ma la sua famiglia era nizzarda. Suo pad re , un magistrato seve­ro in cui s ' incarnavano le migliori quali tà del funzionar io p i emontese , e ra stato fatto Con te e p r e s i d e n t e del Senato della Savoia in r icompensa dei servigi resi. Giuseppe appar ­teneva qu ind i a quel la n u o v a nobil tà «di toga» che via via r insanguava quella di origine feudale e le impediva di chiu­dersi in casta. Crebbe in un ambiente mon tana ro e patr iar­cale, p r o f o n d a m e n t e legato alle tradizioni, e l ' istruzione la ricevette da dei padr i Gesuiti che dovevano essere di b u o n a qualità perché , invece di covare un anticlericale come molto

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spesso capita ai preti , formarono in lui u n a coscienza catto­lica a prova di bomba . Egli r imase sempre con loro in r ap ­port i filiali, tanto da contestare con violenza la Bolla con cui Clemente XV soppresse l 'Ordine: e non fu l 'unica volta che si sentì più cattolico del Papa.

A quindici anni en t rò a far pa r te di u n a curiosa associa­zione det ta dei «penitenti neri», il cui compito era di accom­p a g n a r e al pat ibolo, sostenendoli e incoraggiandol i , i con­danna t i a mor t e . N o n c'è dubbio che fu questo tirocinio di l u g u b r e fi lantropia a ispirargli p iù t a rd i quel l 'e logio del boia che res ta forse la p iù bella «pagina de l l 'o r rore» della saggistica mondiale .

Gli s tudi li finì, e sempla rmente , a Tor ino, e senza dubbi sulla p r o p r i a vocazione. A differenza di quasi tutti gli altri suoi coetanei , n o n era stato m i n i m a m e n t e tenta to né dalla poesia né dalla politica. Per un nobi le come lui, di nobile n o n c'era che il servizio di Stato: avrebbe ricalcato le o r m e di suo padre , e infatti en t rò in magis t ra tura come assistente del p rocu ra to re genera le di Chambéry . La sua cu l tura era solida, ma limitata alla teologia, al diritto e all 'economia. Fu solo pe r effetto di contagio che nella sua men te si svegliaro­no altri interessi. La rivoluzione francese si avvicinava, e an­che lì in Savoia g iungeva qua lche riflesso del g r a n movi­mento d ' idee ch'essa scatenava. Il loro veicolo era la Masso­neria, a cui anche De Maistre s'iscrisse.

Ques to è il capitolo più cont roverso della sua rett i l inea vita, l 'unico che gli venga rinfacciato come un ' incoerenza . Ma si t r a t t a di un equivoco. C o m e abb iamo già de t to , la Massoneria di quel t e m p o era divisa in parecchi filoni di di­versissima ispirazione ideologica che, r iportat i al vocabola­r io d 'oggi, si po t rebbero anche ch iamare di destra , di cen­t ro e di sinistra. Di sinistra e r ano pe r esempio le logge dei cosiddett i «Illuminati di Baviera», f rancamente massimali­sti e rivoluzionari . Di centro e rano le logge di ri to scozzese, ispirate ai pr incìpi illuministi, cioè r iformatori , di cui face­vano par te anche molti Sovrani. Di destra era u n a cor ren te

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r igorosamente cattolica, domina ta in g ran par te dai Gesuiti che in essa cercavano un sur roga to del loro soppresso Or­dine .

N o n sapp iamo con esattezza a quale di questi t re filoni a p p a r t e n e s s e r o la loggia dei «Tre Mortai» e quel la della «Perfetta-Sincerità» cui De Maistre successivamente si affi­liò. L'ora della verità sarebbe venu ta solo con la Rivoluzio­ne, che le avrebbe messe alla scelta - o p r ò o contro - deter­m i n a n d o n e la spaccatura. Per il m o m e n t o esse e rano soltan­to delle conventicole di «notabili» che prat icavano il segreto solo pe r d i le t tant ismo, visto che la polizia le tollerava e in qualche caso addir i t tura le proteggeva.

E probabile che De Maistre vi s'iscrivesse pe rché in u n a città intel let tualmente sonnolenta come Chambéry n o n c'e­ra altra palestra pe r uomini che volessero tenere in eserci­zio il loro cervello. C o m u n q u e , fu qui ch 'egl i cominciò a p r e n d e r e dimest ichezza coi p rob lemi politici e sociali che sempre più appassionavano la pubblica opinione. Degli au­tori francesi che li agitavano, l 'unico che gli andasse a san­gue e ra Montesquieu , e Io si e ra senti to dal suo p r i m o di­scorso p ronunc ia to p e r la venuta di Vittorio Amedeo I I I a Chambéry, in cui auspicava un par lamento all'inglese come correttivo del regime assolutistico. Il fatto che questo bastas­se a farlo passare pe r sovversivo agli occhi dei dignitari di­mostra solo quanto costoro fossero ottusi.

Q u a n d o la Rivoluzione scoppiò, anche pe r lui si pose il d i l emma della scelta. Convin to che tut te le logge massoni­che n o n fossero che veicoli d ' infezione, i l gove rno mise al b a n d o anche quella di De Maistre, che disciplinatamente se ne ri t irò, ma confutando la motivazione della c o n d a n n a in u n a Memoria al Duca di Brunswick in cui rifiutava energica­mente la tesi che le logge fossero covi di complott i rivoluzio­nari . Può darsi, diceva, che alcuni massoni si siano fatti stru­m e n t o del diavolo, ma la Massoner ia n o n è che la scienza de l l ' uomo, lo s tudio della sua or ig ine e del suo des t ino , il quale conduce non alla Rivoluzione, ma alla Rivelazione. A

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questa tesi r imase sempre fedele, ed era senza dubbio since­ro . Ma ciò d imos t ra quan to arbi t rar io sia ogni tentat ivo di at tr ibuire alla Massoneria un preciso s tampo ideologico.

Nel '92, q u a n d o la Rivoluzione si p resen tò non più nella veste di un ' idea, ma in quella di un esercito che s t rappava la Savoia al P i e m o n t e e l ' anne t teva alla Francia, De Maistre aveva già mogl ie e d u e figli . Con loro fuggì ad Aosta, ma p e r evi tare la confisca dei ben i fu cos t re t to a t o r n a r e e a iscriversi alla guard ia civica. La coscienza glielo r improverò come un gesto di fellonìa, e pe r tacitarla n o n gli r imase che un 'al t ra fuga, stavolta a Ginevra. Fu qui che iniziò la impre­vista e n o n des ide ra ta attività di scr i t tore . Ma n o n lo fece p e r procacciars i fama: t an t ' è vero che le p r i m e o p e r e le pubblicò anon ime . «Scrivere, pe r lui, e ra agire - dice il suo biografo Cogorden - . N o n essendo u o m o di spada, prese la penna.» Ma per brandir la come una spada.

Il quadr i enn io ginevr ino fu decisivo p e r lo svi luppo del suo pens i e ro . Nel f ragore delle po l emiche p rovoca te dal gran r ivolgimento, De Maistre fece pres to a orientarsi . Do­tato di u n a salute di ferro, egli aveva u n a capacità di lavoro eccezionale. Poteva restare a tavolino anche quindici o re di seguito. «Ho raccolto - scriveva a un amico - u n a massa in­credibile di testi pe r r idurl i a un discorso sistematico.»

Q u e s t o discorso sistematico, p e r d i p a n a r n e la matassa, bisogna rifarsi al m o m e n t o . C o m ' e r a logico che accadesse, la rivoluzione aveva provocato un contraccolpo ideologico, che trovò la sua espressione più compiuta in u n o storico in­glese: Burke . Non s i trattava di un conservatore , ma di un liberale che dieci anni p r ima aveva parteggiato pe r gli ame­ricani insorti cont ro l ' Inghil terra. Non era quindi un part i­giano dell 'assolutismo, ma n o n lo era n e m m e n o dell ' ideolo­gia giacobina, di cui contestava tut te le premesse . Vediamo d i ch iar i re ques to p u n t o che n o n ha pe rso nul la della sua attualità.

Figli di Rousseau, i r ivoluzionari francesi par t ivano dal p resuppos to che lo Stato potesse e dovesse adeguare le sue

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s t r u t t u r e al mode l lo di u n a Rag ione assoluta e universa l ­men te valida. Figlio di H u m e - un filosofo che lo aveva pre­ceduto di qualche decennio - , Burke rifiutava questa posi­zione. Una verità assoluta e un iversa lmente valida, diceva, esiste solo nel c a m p o delle scienze as t ra t te , come la mate ­matica, sulle cui regole si possono impostare delle operazio­ni che valgono sempre e dovunque . Ma in u n a realtà com­posita e concreta, qual è u n a società, i r appor t i n o n sono af­fatto «necessari», cioè a u n a d e t e r m i n a t a causa n o n corr i ­sponde sempre quel de te rmina to effetto, perché u n a società vi r i sponde in un m o d o e un 'al t ra in un altro. Sia det to pe r inciso, ques ta tesi, che H u m e estese anche alla rel igione e alla morale , influenzò tut ta la filosofia successiva, compresa quella di Kant. Ma questo è un discorso che n o n ci r iguar­da.

Burke l 'applicò alla politica, ma svi luppandola fino alle conseguenze es t reme. Quel la che orgogl iosamente si chia­ma «la ragione», egli dice, n o n sono che le opinioni , sempre soggett ive e a rb i t ra r ie , di a lcuni pensa to r i che r iescono a impor le in un cer to e p e r un cer to m o m e n t o : m o d e , infa­tuazioni . La vera rag ione della società è ben al t ro: è quel­l 'insieme di «pregiudizi», cioè di sentimenti , di convinzioni, e anche di convenzioni, di miti e di tabù che formano il pa­t r imonio di u n a comunità , sia essa la famiglia, o la classe so­ciale, o la nazione . Ques to pa t r imon io n o n è né e t e r no né universale. Varia da Paese a Paese e si trasforma nel t empo per adeguarsi ad esigenze sempre nuove e diverse, ma non soppor ta t raumi che ne r o m p a n o la «continuità». E il letto­re , a ques to p u n t o , avrà capito l 'antitesi. Da u n a p a r t e l'i­deologia r ivoluzionaria francese che inventa, o c rede d ' in­ventare , un m o n d o assolutamente nuovo, che r innega tut to il suo passato, e qu ind i anche la sua storia, i m p o n e n d o al­l ' uomo di vivere secondo u n a rag ione astratta, immobile e assoluta. Dall'altra l 'ideologia storicistica inglese, che postu­la un sistema in cui alla società è consentito di svilupparsi e p r o g r e d i r e , ma s e m p r e in a r m o n i a coi suoi «pregiudizi»,

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cioè con la sua t radizione. Rivoluzione cont ro r i formismo, insomma: l 'e terno di lemma.

Burke sviluppò queste sue tesi nelle Riflessioni sulla Rivo­luzione francese che uscì nel '90. E fu questo, nella «massa in­credibile di testi» raccolti da De Maistre, quel lo che più lo impress ionò e inf luenzò nel suo rifugio g inevr ino . Aveva q u a r a n t a n n i q u a n d o b rand ì la p e n n a per gettarsi nella mi­schia. Ma trovò immed ia t amen te il suo stile - forse pe rché non lo cercò -, e fu subito scrittore, e g r ande scrittore: feno­meno unico - c redo - nella storia della let teratura.

Quella che uscì dalla sua p e n n a fu d a p p r i m a una proflu-vie di libelli che cominciò con le Lettere di un monarchico sa­voiardo e culminò nelle Considerazioni sulla Francia, di cui an­che il titolo riecheggia l 'ispirazione burkiana . Qua lcuno di­ce che c'è den t ro anche del Bonald, il g rande campione del legittimismo francese. Ma l'ipotesi è smentita dall 'anagrafe. L'opera del Bonald, Teoria del potere civile e religioso, uscì nel­lo stesso anno '96 in cui apparve quella di De Maistre. Seb­bene vivessero en t rambi in Svizzera, i d u e n o n si conosceva­no. Si r iconobbero solo più tardi , q u a n d o si lessero a vicen­da, e De Maistre scrisse a Bonald: «E mai possibile che la na­tu ra si sia divertita a t ende re d u e corde così per fe t tamente assonanti come il vostro spirito e il mio? Si t ra t ta della più rigorosa somiglianza». Ed era vero, ma fino a un certo pun ­to: anche se dicevano le stesse cose, le dicevano in manie ra assai diversa: la rapidi tà , l 'asciuttezza, la rabbia, il patos di De Maistre, Bonald se li sognava.

Forse anche pe r impedirgli di cont inuare a scrivere cose che ferivano a m o r t e i francesi, Car lo E m a n u e l e lo invitò nel '97 a r i en t r a r e a Tor ino. Que l povero Re travicello re ­gnava p e r grazia di Dio, ma pe r volontà di Napo leone che aveva occupato tut to il Piemonte e solo a titolo t emporaneo lo lasciava sul t r o n o . De Mais t re , in cui la fedeltà n o n si confondeva con la cortigianeria, r imase disgustato dalla pa­vidità del Sovrano e dall ' imbecill i tà dei suoi minis t r i . «De Maistre - si legge in u n a lettera di questi t empi - ha visto i

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potenti , e si è già trovato che parlava t roppo , ch 'era t roppo franco. Sarà s e m p r e lo stesso: ricco di b u o n e qual i tà , ma n o n adat to per riuscire qui, dove non si sa nulla, ma in com­penso le schiene h a n n o la flessibilità del vinco.»

Poi successe quel che il l e t tore già sa. Car lo E m a n u e l e firmò l'atto di abdicazione e part ì . Partì anche De Maistre al seguito del suo Re, ma part ì anche Napoleone pe r la sua av­ventura egiziana, e gli austriaci ne approf i t tarono pe r scen­d e r e coi russi al contra t tacco e r iconquis ta re l 'Italia, scac­c iandone i francesi. Breve illusorio intermezzo. Poco d o p o Napoleone tornò , schiacciò gli austro-russi a Marengo e ri­prese il P iemonte non lasciando ai Savoia che la Sardegna . Oui il nuovo sovrano Vittorio Emanuele I nominò come Vi-cere il fratello Carlo Felice e come capo della magis t ra tura De Maistre.

L'isola gli fece un ' impress ione disastrosa. «Il sardo - scris­se - è più selvaggio del selvaggio, perché il selvaggio ignora la luce, il sardo la odia. Esso è sprovvisto del miglior attribu­to de l l ' uomo, la perfettibilità. In q u a l u n q u e mest iere si ci­ment i , lo fa come lo faceva ieri, come la rond ine fa il suo ni­do e il castoro la sua casa. G u a r d a s tup idamente una pom­pa asp i ran te e va ad a t t ingere l 'acqua col secchio. Gli si fa vedere l 'agricoltura del Piemonte, della Savoia, della Svizze­ra, e to rna in patr ia senza saper innestare un albero. Ignora il fieno come ignora le scoperte di Newton. Non si p u ò trat­tarlo che al m o d o dei Romani inviandogli un p re to re e d u e legioni, cos t ruendo delle s trade e cercando di fare il suo be­ne n o n solo senza di lui, ma anche contro di lui. Questo po­polo n o n a m a n ien te . Ho più volte cons ta ta to che ciò che più gli r i pugna è di dover a p p r o v a r e qualcosa. Tutti i suoi vizi sono leggi e tut te le sue leggi sono vizi. Ques to disgra­ziato Paese n o n p u ò essere r igene ra to che da u n a po tenza opulenta , saggia e in t r ap renden te : sarebbe un 'opera , faccio pe r dire , da inglesi.» Come si vede, il p roblema del Mezzo­giorno n o n è di oggi.

Ma, p u r con queste negative idee sui sardi, De Maistre si

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oppose ai metod i spicciativi con cui li t rat tava Carlo Felice che intendeva combat tere il bandit ismo violando il codice e sa l tando i t r ibunal i . Fu il p r i m o motivo dei dissapori fra i d u e uomini , ma non il solo. Que l Principe rozzo e somma­rio che diffidava degl'intellettuali e ne vedeva u n o in chiun­que maneggiasse la sintassi un po ' meglio di lui che la ma­neggiava malissimo, n o n poteva amare quel magistrato de­voto al Re, ma p iù ancora alla Legge , e con t ro i cui a rgo­ment i egli n o n poteva far ricorso che all 'autorità. E questo fu il vero motivo p e r cui, q u a n d o nel 1803 si rese vacante l 'ambasciata del Regno di Sardegna a Pietroburgo, egli stes­so p ropose al fratello di nominarvi De Maistre.

Questi par t ì da solo perché la moglie aveva dovuto rien­t r a re coi figli in Savoia a d i fendervi il p a t r i m o n i o nuova ­mente minacciato di confisca: pe r dodici anni n o n li avreb­be più rivisti. Arrivò a Pietroburgo d o p o un viaggio di d u e mesi, con un camer i e r e e pochi qua t t r in i , p e r c h é , con la pe rd i t a del P iemonte , le casse dello Stato e r ano in secco e gli stessi Reali a r rancavano fra grosse difficoltà di bilancio. Dovet te a r r ang ia r s i anche lui come poteva senz 'a iu to d i personale (solo d o p o d u e anni gli m a n d a r o n o come segre­tario il figlio Rodolfo) e con l'obbligo di far fronte agl ' impe­gni di rappresentanza . «E il secondo inverno - scriveva a un amico - che passo senza pelliccia, ed è come non avere una camicia costà a Cagliari. Poiché il servizio di un solo came­riere è qui r i tenuto impossibile pe r la fatica e il clima, ho in­gaggiato come secondo un ladro che stava pe r cadere nelle mani della Giustizia. Gli ho proposto di diventare un uomo onesto al r iparo del mio privilegio di ministro. E dopo alcu­ni mesi, pa re che vada bene. Poiché l'oste che mi nutriva, o meglio mi avvelenava, ha traslocato, ora non posso più rag­giungerlo: così ho deciso di dividere la minestra del ladro.»

Ma, nonostante la povertà dei mezzi, aveva r ipor ta to un grosso successo pe r sona le presso la società moscovita, la Corte e lo stesso zar Alessandro grazie al suo calore umano , alla sua cultura e alla sua brillantissima conversazione. Ave-

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va rap idamente impara to il russo, e col suo acuto spirito di osservazione si e ra a tal p u n t o impadroni to della situazione di quel Paese che lo Zar e i suoi ministri spesso r icorrevano ai suoi lumi sulle r iforme da in t rodur re . Fu a p p u n t o in que­sta qualità di consulente che compose le Cinque lettere sulla pubblica istruzione in Russia che r e s t ano u n o dei suoi saggi megl io riusciti . Ma n o n solo Alessandro si r ivolgeva a lui. Come il suo arcinemico Voltaire, egli teneva cor r i sponden­za con tutti i g randi d 'Europa nel campo del pensiero e del­la politica, col Conte di Provenza - futuro Luigi X V I I I - e con lo stesso Napoleone che, p u r non essendo u o m o di let­tere, sapeva dis t inguere quelle buone e pe r De Maistre, p u r sapendo quanto gli fosse avverso, aveva un debole. Anzi, fu p ropr io questo che lo indusse a un passo falso. Approfittan­do della simpatia che Napoleone gli dimostrava, gli p ropose un rego lamento a pa r t e della quest ione del P iemonte . Na­po leone , che dalle s impatie n o n si lasciava t rascinare , n o n r ispose. E Vit torio E m a n u e l e , q u a n d o ne fu in formato , m a n d ò al suo ambasciatore u n a strigliata in cui s ' insinuava perfino una velata accusa di t rad imento .

C o m e trovasse i l t e m p o , fra t an te attività, di p o r t a r e avanti i suoi libri, lo spiega solo la sua mostruosa resistenza al lavoro. N o n usciva mai pe r uscire soltanto. Q u a n d o n o n era a Corte , e ra davant i alla sua scrivania dove t rascorreva intere giornate e talvolta nottate. Per n o n doversene alzare neanche ai pasti, si era fatta costruire u n a sedia girevole che r u o t a n d o su se stessa lo met teva di f ronte al desco. Fu in questo per iodo ch'egli scrisse le sue ope re più impegnative: gli undici dialoghi delle Serate di Pietroburgo, che rappresen­tano la sua summa filosofica, il Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche, l'Esame della filosofia di Bacone, i Quattro capitoli sulla Russia, e infine quello ch'egli forse con­s iderava il te t to della sua concezione poli t ico-teologica: il saggio Sul Papa. Ma tut to questo intramezzato da una miria­de di lettere a tutti: ai Re, ai ministri, ai diplomatici, agl'in­tellettuali d 'Europa , ma anche alla moglie e alle figlie di cui

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pre t endeva dir igere da Piet roburgo l 'educazione. A u n a di esse che assumeva pose di suffragetta, r icordava che «una d o n n a a t t r a en t e e graziosa si sposa più faci lmente di u n a dotta, pe rché pe r sposare u n a dot ta basta essere senza orgo­glio, qualità molto rara, m e n t r e pe r sposare una d o n n a gra­ziosa basta essere pazzo, qualità molto comune» e che «una d o n n a non p u ò essere super iore che come donna ; dal mo­m e n t o in cui vuole e m u l a r e l ' uomo, n o n è che u n a scim­mia».

De Maistre assistè all ' invasione della Russia da pa r t e di Napoleone nel '12, e i suoi rappor t i su quei drammatici av­venimenti costituiscono tut tora un documento di palpi tante interesse che getta qualche dubbio sulla ricostruzione fatta­ne a posteriori dagli storici. A sentir lui, le ritirate di Kutuzov, p iù che a un calcolato p i ano strategico, furon dovu te alle esitazioni dello Zar, che finì pe r ba t tere il nemico solo per­ché n o n trovò mai il coraggio di affrontarlo.

La Restaurazione lo deluse p ro fondamen te . La Costitu­zione concessa da Luigi XVII I ai francesi gli parve un vero e p r o p r i o t r a d i m e n t o . «Ci s ' i nganne rebbe inf in i tamente - scrisse - a c redere che il Re di Francia è risalito sul t rono dei suoi antenat i . Egli è salito solo sul t r ono di Bonapa r t e , ed è già u n a gran fortuna pe r l 'umanità. Ma siamo ben lon­tani dal r iposo . La Rivoluzione fu d a p p r i m a democra t ica , po i ol igarchica. Ogg i è monarch ica ; ma con t i nua a fare il suo corso.» Q u a n t o alla Santa Alleanza, ci vide solo «l 'enne­simo most ro par tor i to dall ' i l luminismo»; e se quella s t rana combinazione fu qualcosa, fu p ropr io questo.

A tali motivi di scontentezza, si a g g i u n g e v a n o anche quelli personali . Per i servigi che aveva reso e pe r il credito di cui godeva ne l l ' ambien te d ip lomat ico , De Maistre si aspet tava che il Re lo mandasse a Vienna , dove si s tavano negoziando i trattati di pace, come plenipotenziario del Pie­monte . Invece fu lasciato in disparte e poi r ichiamato a To­r ino. Vi giunse nel '17, d o p o u n a sosta a Parigi dove fu ac­colto come il capo-scuola dai cosiddetti ultras, gli oltranzisti

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del pens iero cattolico e monarchico , e ricevuto dallo stesso Re. A C h a m b é r y potè finalmente r iabbracciare i suoi cari . Ma a Torino si sentì spaesato. Egli aveva sognato la restau­razione di certi valori morali, e lì n o n trovava che quella del­le pa r rucche e dei privilegi. La Corte lo trat tò con freddez­za e lo esiliò nella carica p u r a m e n t e onorifica di ministro di Stato senza portafoglio. Alla figlia che lo complimentava, ri­spose: «Non vi è niente di più nullo del mio posto. Contavo di più q u a n d o facevo il sostituto p rocura to re a Chambéry». Poteva tuttavia intervenire alle r iunioni di Gabinetto, ma ci andava di r ado e quasi mai vi p rendeva la parola, scoraggia­to dai discorsi che vi udiva. Que i fantasmi del passato, a co­minciare dal Re, credevano che il regime fosse solo u n a que­stione di polizia. All'ultimo consiglio cui assiste, gli scappò la pazienza: «Signori - disse -, cosa volete costruire su un suo­lo che trema?» Era il genna io del '21 : pochi mesi dopo , sa­r e b b e r o scoppiat i i famosi mot i che av rebbe ro p rovoca to l 'abdicazione del Re e l 'invasione austriaca. Ma a presentir l i e ra solo lui, che non fece in t empo a vederli.

Aveva seguitato a lavorare con alacrità. Lamar t ine , ch 'e­ra venuto a visitarlo, lo descrive come «un u o m o di alta sta­tura, u n a bella e virile figura militare con u n a fronte spazio­sa su cui ondeggiavano, come i resti di u n a corona, a lcune ciocche di capelli a rgenta t i . I l suo occhio e ra vivo, p u r o , franco. La sua bocca aveva l 'espressione di f ine i ronia che caratterizzava tutta la famiglia». Conservò il suo intelletto fi­no all 'ul t imo: neanche la paralisi r iuscì ad appannarg l ie lo . La sua ultima lettera fu a Bonald: «Muoio con l 'Europa» gli scrisse.

E veniamo al suo lascito. In Francia esso è ormai valutato e catalogato. In Italia, i pochi che n o n lo i gno rano lo esalta­no , ma dal verso sbagliato. Dicono che De Maistre fu un g r a n d e pensatore , e n o n è vero. Il suo pensiero è quello di Montesquieu e di Burke , sopra t tu t to di Burke . Ciò ch'egli vi agg iunge è un empi to lirico e un furore apocalittico che

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gli altri d u e non possedevano e che lo conducono non a un «sistema», ma a u n a «visione» diversa dal la loro . M e n t r e Burke r imane il p a d r e del pensiero liberale dell 'Ottocento e ne p revede tutta l 'evoluzione, De Maistre pe rcor re a ri troso il cammino della Storia e risuscita la concezione medievale-sca di un impero universale del Papa, Rex Regum, Re dei Re, ch 'era stata quella di Gregorio VII , d ' Innocenzo I I I e di Bo­nifacio V i l i . De Maistre non è un filosofo. E un profeta che sbaglia profezia, ma ne azzecca gli accenti. Questi toccano la vetta più alta nel famoso «elogio del boia» in cui si r iassume, pa radossa lmen te , tu t ta la sua u top ia teocratica. «La spada della giustizia n o n ha fodero. Dalla formidabile prerogat iva dei Re di p u n i r e i colpevoli, risulta l 'esigenza necessaria di un u o m o des t ina to a infl iggere ai delit t i i castighi. Ogn i g randezza , ogn i po tenza , ogn i subo rd inaz ione r iposa sul boia. Esso è l 'orrore e il vincolo della società umana . Toglie­te dal m o n d o quest 'agente fatale, e nello stesso istante l'or­dine farà posto al caos, i t roni s ' inabisseranno, la società spa­r i rà . Dio, che è l ' au tore della sovranità lo è d u n q u e anche del castigo. Il patibolo è un altare.»

Lo stesso carat tere espiatorio, e quindi sacrale ch'egli at­tribuisce al carnefice, lo impresta anche alla carneficina, cioè alla guer ra . «Non udi te voi la t e r r a che gr ida e chiede san­gue? La g u e r r a d ivampa . Invaso da un divino fu rore , che n o n è odio né collera, l 'uomo s'avanza sul c a m p o di batta­glia senza sapere né ciò che vuole, né ciò che fa. Che cosa è d u n q u e questo orribile enigma? Nulla è più contrar io della g u e r r a alla n a t u r a de l l ' uomo, e nul la tut tavia gli r e p u g n a meno . Egli fa con entusiasmo quella stessa cosa di cui ha or­rore . Q u a n d o i delitti si sono accumulati fino al limite stabi­lito, l ' angelo s t e rmina to re accelera il suo infaticabile volo a n n e g a n d o le nazioni nel s angue . Si d i r ebbe che ques te grandi colpevoli, i l luminate a un trat to dalla loro coscienza, d o m a n d i n o il supplizio e l 'accettino pe r trovarvi l'espiazio­ne . Fino a che resterà loro u n a goccia di sangue, ve r r anno a offrirla; e ben presto una gioventù d i rada ta si farà n a r r a r e

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questi sacrifici ch 'ebbero origine dai misfatti dei loro padr i . La gue r r a è d u n q u e in se stessa divina...»

Ques to n o n è pens ie ro . E, nella sua poetica t ruculenza , visione da g rande quaresimalista molto più cattolico che cri­stiano, quale De Maistre fu. Per metà.

L'altra metà è il g rande , il grandissimo giornalista, il pun ­tuale fotografo di situazioni e di uomini , ora l'affabile e ar­guto conversa tore delle let tere familiari, o ra l 'aggressivo e tagliente provocatore dei libelli polemici: l 'unico che abbia sapu to d i re i l con t ra r io di Voltaire col br io , coi paradoss i , col m o r d e n t e , col «diavolo in corpo», con la m o d e r n i t à di Voltaire.

Bisogna infatti intenderci sul «reazionarismo» di De Mai­stre. Esso non era affatto ispirato da un ottuso at taccamento al vecchio regime concepito come trincea d'interessi e privi­legi di casta. E infatti questo fedelissimo legittimista fu sem­pre in lotta col Re e coi suoi cortigiani che così, rozzamente , lo in tendevano e prat icavano. Il suo reazionarismo attinge­va a u n a certa visione, pessimistica e sfiduciata, del l 'uomo e del suo destino. Questo povero idiota «pieno di urla e di fu­rore», come dice Shakespeare (altro g r ande reazionario) cre­de di fare la Storia. La Storia la fa Dio; l 'uomo p u ò collabo­rarvi soltanto r iconoscendo gli e terni e immutabil i pr incìpi che la regolano, e attenendovisi . Non p u ò cambiarne il cor­so, p u ò soltanto «descriverlo» come fa Balzac, g r a n d e rea­zionario anche lui. Guai q u a n d o l 'uomo, monta to in super­bia, p r e t e n d e sovvertire le leggi della vita con le sue rivolu­zioni: raggiunge sempre il fine oppos to a quello che perse­gue. Guai q u a n d o s'illude d ' is taurare la libertà: abbandona­to a se stesso, egli n o n è che un animale nella jungla . La sua salvezza sta ne l l 'umi l tà di r iconoscere ques ta sua miser ia . «L'uomo n o n è g r a n d e che in ginocchio» di rà un allievo di De Maistre.

E vero ch'egli n o n appar t iene alla cul tura italiana di que­sto pe r iodo (ma con Dante , p e r esempio , ci sta benissimo) né come formazione, né come spirito, né come stile, né co-

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me lingua. È vero che i suoi più rispettabili discepoli e con­t inuator i fu rono s t ranier i e sopra t tu t to francesi: i L a m e n -nais (prima dell 'apostasia), i Barbey d'Aurevilly, i Veuillot, i Bloy. Ma se in Italia il t e rmine «reazionario» è diventato si­n o n i m o di «forcaiòlo», è a p p u n t o pe rché , invece che ai De Maistre, i reazionari italiani preferiscono ispirarsi ai Princi­pi di Canosa. E così è avvenuto che m e n t r e i francesi posso­no essere intelligenti, spregiudicati e modern i anche da rea­zionari , i reazionar i italiani sono condanna t i a res tare solo degli squallidi e sgrammaticati caporali.

CAPITOLO TRENTANOVESIMO

ROSSINI

Il fatto che nessun letterato, n e m m e n o Manzoni nonostante il clamoroso successo del suo romanzo, riuscisse a vivere dei p r o v e n t i della sua attività, dice abbas tanza c h i a r a m e n t e quan to poco di let teratura gl'italiani si nutr issero. Di chi ne fosse la colpa, lo abbiamo già fin t r o p p e volte r ipe tu to pe r dovervi insistere. C o m u n q u e , quest'allergia faceva sì che l'u­nica manifestazione cul tura le che r ea lmen te interessava il g r a n d e pubblico fosse la musica, o pe r meglio dire l 'opera. Era anzi una vera febbre che teneva l'Italia immersa nell'at­mosfera di una perpe tua San Remo. Ogni g rande città aveva il suo tea t ro che , ol tre al sussidio governat ivo, godeva dei proventi della sala da giuoco che vi era annessa - il Ridotto -e che servivano a finanziare le sue t re o quat t ro stagioni al­l ' anno. In quelle piccole provvedeva a tut to il mecenate , e Stendhal ci ha lasciato la descrizione dei suoi metodi:

«Per p r ima cosa met te insieme u n a compagnia , compo­sta invariabilmente di u n a p r imadonna , un tenore , un bas­so cantante , un basso buffo e una o d u e persone di minore importanza. Poi incarica un compositore di scrivere un 'ope­ra t enendo conto delle voci a sua disposizione e offre a u n o scrittore del luogo da sessanta a ot tanta franchi pe r il libret­to. Immancab i lmente egli s ' innamora della p r i m a d o n n a , e tut ta la città è in agi tazione pe r sapere se le offrirà o no il braccio in pubblico. Così organizzata, la compagnia dà final­men te i l suo p r imo spettacolo d o p o un mese d ' intr ighi che sono stati fonte d'infiniti pettegolezzi. Lo spettacolo è il più g r ande avvenimento del l 'anno, e nessun avvenimento pari­gino p u ò esservi paragonato . Per t re set t imane otto o dieci-

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mila persone discutono i merit i e i demeri t i del l 'opera e dei cantanti con tut to l 'acume che il cielo ha loro concesso e so­pra t tu t to con tutta la forza dei loro polmoni . La p r ima rap­p resen taz ione , se n o n è stata fischiata, è segui ta da a l t re t renta o quaranta , dopodiché la compagnia si scioglie». Solo i memorialisti stranieri riescono a dirci com'era fatta l'Italia.

Siccome i compos i tor i di ta lento e r a n o ovviamente po­chi, i teatri se li d isputavano e le folle ne facevano oggetto di un vero e p r o p r i o culto. Q u a n d o arr ivavano, di solito con un lungo codazzo di accompagnator i , la gente staccava i ca­valli dalla carrozza pe r trainarla a braccia, evocava l'idolo al balcone e gli faceva serenate. Essi pe rò dovevano vedersela coi cantant i che, n o n m e n o divi e capricciosi di loro, esige­vano che le p a r t i t u r e venissero ada t ta te alle loro ùgole , e talvolta anche alle loro manìe . Il soprano Crivelli pe r esem­pio si rifiutava di ap r i r bocca se la sua p r i m a ar ia n o n co­minciava con le parole «Felice ognora», e il tenore Marchesi n o n accettava altre en t ra te in palcoscenico se non a cavallo e con un elmo g rondan te di p iume bianche. Inol t re , ognu­no di essi si r iservava il d i r i t to di a p p o r t a r e var iant i con acrobazie canore n o n previste dal testo, le cosiddette «fiori­ture». E su un solo p u n t o e r a n o concord i : che l 'orchestra dovesse restare al suo posto, cioè occuparne il m e n o possi­bile, l imitandosi al p u r o a c c o m p a g n a m e n t o . Il che basta a farci cap i re a qua le pa r t e , in quest i spettacoli musicali , la musica fosse r idot ta e come mai Glùck e Mozart n o n ebbero in Italia dirit to di cittadinanza.

A contenders i il p r imato nazionale e r ano la Scala di Mi­lano, che t ra poco se lo sarebbe definit ivamente aggiudica­to, e il San Carlo di Napoli , che p rop r io in questo inizio di secolo toccava l 'acme del suo prestigio grazie a un impresa­rio d'eccezione, Barbaja. Misto di genio e di ciarlatano, Bar-baja aveva debut ta to come sguat tero, aveva fatto i pr imi sol­di i nven tando un dolce di p a n n a e cioccolato, la «barbaja-da», li aveva moltiplicati con la gestione del Ridotto da giuo­co della Scala, e ormai tanti ne aveva che q u a n d o il San Car-

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lo andò distrutto da un incendio, lo ricostruì a p ropr i e spe­se. Era semianalfabeta, e di musica n o n conosceva u n a nota, ma conosceva il pubblico, e ra un infallibile scopritore di ta­lenti, e nel 1815 si assicurò quello di un composi tore venti­t r e e n n e , in cui già aveva identificato la f igura p iù r a p p r e ­sentativa della lirica con temporanea : Gioacchino Rossini.

Rossini era nato a Pesaro, ma l 'origine della famiglia era romagnola . Suo pad re era chiamato «Vivazza» per la sua ru­morosa esuberanza, si professava «giacobino» (il che gli val­se anche la prigione) e faceva il suonatore di corno nelle gi­rovaghe compagnie in cui sua moglie cantava. Non poten­do por ta rs i d ie t ro i l b amb ino , lo misero a pens ione da un salumiere di Bologna e a scuola di musica da un vinaio che suonava la spinetta con d u e dita sole e la not te dormiva sot­to i por t ic i p e r c h é soffriva di claustrofobia. Fu grazie a un ' inna ta disposizione che Gioacchino imparò il cembalo e la viola, e a quat tordici ann i già si guadagnava t re lire p e r sera come maestro dei cori in teatro. Non gli mancava nulla pe r p iacere a tutt i : e ra bello, al legro, spir i toso, amabi le , e delle s impat ie che suscitava approf i t tò l a rgamente , specie con le d o n n e .

Il suo d e b u t t o di compos i to re lo fece a sedici a n n i con u n a «cantata» commiss ionatagl i dal Liceo Musicale. Ma il suo vero battesimo fu, d u e anni dopo , un 'opera , la Cambiale di matrimonio. N o n fu un g r a n successo un po ' p e r c h é il li­b re t to e ra un accozzo d i scemenze, un po ' p e r c h é dovet te scendere a patti coi cantanti che lo accusavano di aver sacri­ficato le voci alla musica. Ma il pubblico r imase colpito dal r i tmo indiavolato e applaudì . Molto di p iù applaudì quello del San Moisè di Venezia dove fu r a p p r e s e n t a t o Einganno felice, il suo p r imo trionfo. E da allora fu tut to un susseguir­si di scrit ture fino a quella, decisiva, di Barbaja.

Sobillati dal vecchio Paisiello o rma i in d i sa rmo e orgo­gliosi del loro p r imato musicale, i napole tani n o n r iconob­be ro gli allori già raccolti nelle a l t re città dal ven t i t r eenne composi tore e lo accolsero con riserva. Ma Rossini li conqui-

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sto subi to b u t t a n d o giù in poch i g iorn i u n a n u o v a o p e r a , Elisabetta regina d'Inghilterra, tagliata sulla misura del sopra­no che la i n t e rp re tò : Isabella Colbran , u n a spagnola tu t ta ùgola e sesso, ch ' e ra l ' amante de l l ' impresar io . Rossini che l'aveva già sentita a Bologna e ammira ta n o n soltanto pe r la s t u p e n d a voce, se ne i n n a m o r ò subi to, sebbene lei avesse sette anni più di lui. Barbaja, a quan to pare , n o n sollevò dif­ficoltà. Pr ima accettò il menage a t re, poi si trasse in disparte lasciando che i d u e si sposassero e res tando con loro in ec­cellenti rappor t i .

N o n a v e n d o f i rmato con lui nes suna esclusiva, Rossini accolse l'invito di compor r e due ope re anche pe r i l duca Ce­sarmi Sforza, impresar io del teat ro Argent ina di Roma. La p r ima fu un 'ope ra seria, e cadde. Per la seconda, fu Rossini stesso a ch iedere che il l ibretto fosse trat to dalla commedia di Beaumarchais , // barbiere di Siviglia. Sulla nascita di que­sto lavoro cor rono molte leggende. Si è det to che ci furono delle ingerenze da par te della censura papale , e n o n è vero. Si è det to che Rossini chiese il permesso di usare quel libret­to a Paisiello, che lo aveva musicato venticinque anni pr ima. E n e m m e n o questo è vero perché a quei tempi tutti at t inge­vano agli stessi libretti, che poi e rano quasi sempre quelli di Metastasio. Si è det to anche che Rossini ficcò nella par t i tura b ran i di musica al t rui ; e ques to è vero, ma solo a metà , in q u a n t o fu sol tanto parecch io t e m p o d o p o ch 'egl i sostituì un 'ar ia con un 'al t ra composta da Romani (il famoso «Manca un foglio» di Don Bartolo). Ma il lettore n o n trasalga: allora le o p e r e si «montavano» così, p r e n d e n d o n e di qua e di là pezzi pescati nel magazzino p r o p r i o o in quello degli altri. Q u a n t o al t e m p o che gli occorse p e r la composiz ione, egli disse a Wagner di averci impiegato dodici giorni, ma secon­do il t enore Garcìa furono solo ot to. Come compenso rice­vette mi l leduecen to franchi e un vestito con bo t ton i d 'o ro pe r far bella figura nel l 'orchestra dove usava che il compo­sitore sedesse al cembalo.

L'opera a n d ò in scena il 20 febbraio del '16 e fu, come

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tutti sanno, un colossale fiasco. Ma era un fiasco prefabbri­cato da u n a claque di nemici del Cesarini. La seconda sera i fischi furono rintuzzati dagli applausi, e da allora in poi non fu che un «crescendo» di s tampo t ipicamente rossiniano. Da tutte le par t i d'Italia e d 'Europa venne ro gl ' intenditori pe r r e n d e r s i con to di quel con t rove r so lavoro, e a n c h e quelli più ostili, come Brahms e Berlioz, convennero che la cosid­det ta «opera buffa» n o n aveva mai raggiunto , quanto a ric­chezza inventiva, vivacità, brio, freschezza e movimento , si­mili altezze. Probabi lmente vi contr ibuì anche l'affinità fra Rossini e Beaumarchais , en t rambi portat i più allo spirito e all ' ironia che al sen t imento . Que i pe r sonagg i sembravano fatti appos ta p e r quella musica, fortuna che a Rossini n o n capiterà mai più.

A ventisei ann i Rossini era se non il p iù g r ande , certo il più popo la re composi tore d 'Eu ropa . C h i u n q u e altro forse si sarebbe sentito schiacciato dalle responsabilità che ne de­r ivavano. Lui, no . Per nulla spaur i to dall 'attesa che creava nel pubblico ogni sua nuova opera , seguitava a comporne a getto con t inuo con u n a dis involtura che spesso sconfinava nell ' incuria. Accettava qualsiasi libretto, anche il più idiota e a s su rdo : «Datemi il con to del la lavandaia - diceva -, e vi me t to in musica anche quello». Ma n o n e ra p r e s u n z i o n e : anche al colmo del suo successo, Rossini restava un u o m o semplice, affabile, e di u n a modest ia che qualche volta, nei confronti dei suoi rivali, d iventava add i r i t t u ra umiltà. Era giovane, era sano, era allegro, tut to gli era facile, compreso i l lavoro pe rché di musica era turg ido come u n a mucca di latte. Come disse più tardi , n o n aveva bisogno di a n d a r e a cercar le melodie p e r c h é e r a n o le melodie che venivano a cercare lui. Q u a n d o Barbaja gli p r o p o s e d i mus ica re un Otello, n o n mosse obbiezioni: neanche Shakespeare gli face­va pau ra , e Byron scrisse che nessuno lo aveva servito me­glio di lui e disservito peggio del librettista Berio che infatti aveva fatto del testo un o r r e n d o scempio.

Basta scor re re l ' anagrafe delle sue o p e r e p e r r e n d e r s i

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conto della sua mostruosa vena. In tre anni ne produsse do­dici fra farse, d r ammi , m e l o d r a m m i e perfino azioni sacre. Non tut te furono successi perché qualche volta il pubblico si spazientiva di quel suo eccessivo tirar via. Ma gl'insuccessi, di cui dava rego la rmente notizia alla m a d r e m a n d a n d o l e il d i segno di un f iasco , n o n t u r b a v a n o m i n i m a m e n t e i l suo b u o n u m o r e e tanto m e n o i l suo robusto appet i to . Non era un ghiot tone, come lo h a n n o descritto, ma un raffinato epi­cureo , e non sol tanto a tavola. Gli p iacevano i bei vestiti, i begli ogget t i , e n o n pa r l i amo delle belle d o n n e , di cui la Colbran ebbe il buon senso di accettare la concorrenza. Ol­tre tutto, era anche spiritosissimo, ma senza cattiveria e, no­nostante la modest ia delle sue origini, sapeva stare, tra i si­gnori , da signore.

Q u a n d o , ch iamatovi da Barbaja che ne aveva p re so in appa l to l 'opera , a n d ò a Vienna , la città gli c adde ai p iedi , d iment icando pe r lui i suoi Mozart e i suoi Haydn . Fu Ros­sini a r icordargl iel i d i c h i a r a n d o con mol ta cavalleria che gran par te di quel che era egli lo doveva a p p u n t o a quei d u e maestri che riconosceva molto più grandi di se stesso. Natu­ra lmente questo non fece che aizzare l 'entusiasmo dei vien­nesi , n o n o s t a n t e la so rda g u e r r a fattagli da Weber che lo considerava «il Lucifero della musica, il quale p u ò fare qual­siasi cosa, anche il bene , ma non sempre lo vuole». Ma Ros­sini riuscì a conquistare anche lui. Riuscì a conquistare per­fino Beethoven che, comple tamente sordo e chiuso in selva­tica solitudine, non si lasciava avvicinare da nessuno, ma pe r Rossini fece eccezione. Quest i ha lasciato del l ' incontro u n a patetica testimonianza che gli fa molto onore . Beethoven lo felicitò pe r il Barbiere e gli raccomandò di restare nel l 'opera buffa. «Quella seria - gli disse - mal si ada t t a agl ' i tal iani . N o n avete abbas tanza conoscenza musicale p e r t r a t t a re i l dramma.. .» Q u a n d o Rossini si provò a espr imere l 'ammira­zione che provava pe r lui, Bee thoven lo fermò con un ge­sto: «Oh, un infelice!» disse, ben lon tano da l l ' immagina re che i l suo in t e r locu to re lo sarebbe d iven ta to un g io rno

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quanto e forse più di lui. Coi suoi amici viennesi, Rossini fe­ce il diavolo a quat t ro pe r convincerli a da re al g r a n d e mae­stro u n a casa decente e di che vivere c o m o d a m e n t e . «Ven­derebbe tutto - gli dissero - e t roverebbe il m o d o di r ipiom­bare nella sua miseria.»

Conf ron tando la alla sua sol i tudine, Rossini si sentiva a disagio pe r l 'ammirazione di cui era bersaglio. Non sapeva come far fronte agl'inviti, e di notte la folla gli faceva la se­rena ta cantandogli sotto le finestre i motivi del Barbiere, del­la Cenerentola, della Gazza ladra. Per sdebitarsi, p r ima di par­tire, dedicò ai viennesi un Addio e u n a marcia pe r banda mi­litare, che più tardi pe rò si r iprese inserendola nella famosa ouverture del Guglielmo Teli.

«La gloria di ques t 'uomo è limitata solo dai confini della civiltà» scrisse S tendha l d o p o il tr ionfo della Semiramide, compos ta a Venezia in t r e n t a t r é g iorn i . A n d ò a L o n d r a ch iamato da Giorgio IV, che volle can ta re un due t to della Cenerentola con lui. Andò a Madr id , ospi te di F e r d i n a n d o VII . Andò a Parigi dove gli p ropose ro la direzione del p re ­stigioso Teatro Italiano. Poteva ormai avere quel che voleva, ma cominciava a n o n volerlo più con l ' ingordigia e la gioia di vivere di u n a volta. Gli e ra mor ta la madre , cui era lega­tissimo. Viveva ormai separato dalla Colbran ch 'era rimasta a Bologna e n o n andava p u n t o d 'accordo col vecchio «Vi-vazza». E la sua salute, fin allora a prova di bomba, d e n u n ­ziava qua lche scompenso : forse e r a n o i p r i m i s in tomi del male che doveva di lì a poco r idur lo a ro t tame. Questo n o n gli aveva imped i to di d iven ta re la «vedetta» n o n solo del palcoscenico, ma anche dei salotti di Parigi. In teatro pe rò il successo era dovuto più alle vecchie che alle nuove opere , le quali non avevano suscitato grandi entusiasmi, salvo l'Asse­dio di Corinto, che tuttavia piacque pe r ragioni più politiche che artistiche, la Grecia essendo in quel m o m e n t o di m o d a pe r la sua rivolta contro i Turchi. Più genuino fu il successo del Mose, che Balzac qualificò «un immenso poema musica­le». Ma n o n erano i trionfi del Barbiere, e soprat tut to gli co-

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stavano di p iù perché era lui, ora, che doveva anda re a cer­carsi le melodie.

A compor r e il Guglielmo Teli gli ci vollero sei mesi, du ran ­te i quali a Parigi n o n si par lò d'altro. L'opera fu data nell'a­gosto del '29 in un teatro gremito come un uovo e teso allo spasimo. Non era un soggetto che gli si addicesse e il libret­tista Jouy lo aveva reso ancora più accademico e inamidato. L'esito fu incer to . Il pubblico t rovò l 'opera fredda, noiosa, sop ra t tu t to t r o p p o lunga , e ne r imase de luso . I critici e gl ' intenditori ne furono entusiasti e dissero che quello, non il Barbiere, era il suo vero capolavoro. Perfino Wagner ne ri­conobbe gli altissimi p reg i . E a c e n t o c i n q u a n t ' a n n i di di­stanza il dissenso cont inua. Secondo i competent i , qui Ros­sini ha toccato vette che Verdi n o n ha mai r agg iun to . Ma pe r il pubblico, egli resta quello del Barbiere.

Q u e s t o p r i m o soggiorno pa r ig ino f i n ì nel '30 , q u a n d o scoppiarono i moti che condussero all 'abdicazione di Carlo X e alla successione di Luigi Filippo. La vista delle barricate sgomentò Rossini che negli ultimi tempi era diventato estre­m a m e n t e emotivo e impressionabile. Per di più il nuovo re­gime invalidò il vantaggiosissimo contra t to che lo legava al Tea t ro I ta l iano, a n n u l l a n d o a n c h e la sua pens ione . Gli ci vollero sei anni di processo pe r far r iconoscere i suoi diritti. Ma pe r intanto preferì trasferirsi a Madr id e poi a Baiona al seguito del ricchissimo banch ie re spagnolo A g u a d o che lo adorava e sovrintendeva con molta accortezza e generosi tà ai suoi interessi.

Fu in queste scorr ibande che incontrò Olimpia Pélissier, u l t ima d i scenden te di quella g r a n d e famiglia di demi-mon-daines francesi cui a p p a r t e n g o n o le Du Barry, le Pompa-dour, le Margher i te Gauthier. Era di bassissima estrazione: sua m a d r e l'aveva venduta m i n o r e n n e a un Duca. Ma la ra­gazza aveva saputo bene amministrarsi , restare in un «giro» di amant i altolocati e infine scegliersi come mari to un ricco agente di cambio che subito d o p o l'aveva lasciata vedova ed e rede della sua fortuna. Ora che poteva d isporre di se stes-

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sa, voleva seguire la sua vocazione, anche questa t ipicamen­te francese, d'ispiratrice e impresaria d ' un genio. Forse Ros­sini credet te di averla sedotta. In realtà fu lei a sedurlo, ma non glielo fece r impiangere . Nessuna d o n n a avrebbe potu­to essergli più devota nelle d u r e prove che lo aspet tavano. Isabella non oppose molte resistenze alla separazione. Anzi, q u a n d o Olimpia andò a Bologna, la invitò a colazione, e con Gioacchino rimase sempre in amichevoli rappor t i .

Alcuni biografi dicono che a scatenare la malattia nervo­sa di Rossini fu il t r a u m a di spavento ch 'egli subì q u a n d o volle provare l 'emozione del nuovo aggeggio che la tecnica aveva inventato: il t reno. Ma evidentemente confondono la causa con l'effetto. Se quel l ' innocua esperienza lo sconvolse al p u n t o che n o n riuscì a r imet tersene mai più del tut to, fu perché era già profondamente malato, e del resto si vedeva: a trentasei anni aveva perso quasi tutti i denti , era diventato obeso e flaccido, e pe r nascondere il cranio comple tamente calvo doveva r icorrere alle par rucche , di cui possedeva u n a collezione. Secondo alcuni clinici che h a n n o studiato il suo caso, doveva t ra t tars i di u n a malat t ia vene rea di cui forse non si era accorto. Certo, gli effetti si rivelavano devastatori, e non soltanto nel fisico. Dopo il Guglielmo Teli, che già gli era costato uno sforzo per lui abnorme, non gli era riuscito com­p o r r e quasi più nulla, e agli amici che lo sollecitavano dava risposte evasive e contraddi t tor ie . A Pacini scrisse che un 'e­poca dominata dalla rapina, dalle barricate e dalle macchine a vapo re (quel malede t to t reno!) n o n offriva motivi a u n a musica come la sua ispirata al sent imento e all 'ideale, che a dire il vero non erano le sue note dominant i . A Wagner dis­se che quaranta ope re in m e n o di venti anni d a n n o un cer­to diritto alla stanchezza. Forse la confessione più sincera fu quella che fece al t enore Donzelli: «La musica vuol freschez­za d ' idee, io non ho che l anguore e idrofobia». La meravi­gliosa vena di cui i l m o n d o n o n aveva mai conosciuto l'u­guale, si era improvvisamente inaridita.

Con t ro quel disfacimento che d u r ò oltre q u a r a n t a n n i e

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si concluse q u a n d o lui ne aveva settantasei, Rossini badò a salvate a l m e n o il pe r sonagg io , e in ques to fu a d d i r i t t u r a eroico. Lombroso dice che la sua nevrastenia degene rò a un certo p u n t o in vera e p ropr ia follia, ma forse esagera, e co­m u n q u e nessuno se ne accorse perché , secondato dalla vigi­le Olimpia, egli riuscì sempre a copr i re i suoi to rment i con una maschera di amabilità e perfino di b u o n u m o r e . Un nul­la bastava a sconvolgerlo, l ' insonnia lo rodeva, spesso n o n trovava la forza di alzarsi e restava a covarsi nel letto le sue angosce. Ma in pubblico rimetteva, con la par rucca , la ma­schera del Rossini g a u d e n t e . Mai un accenno alle p r o p r i e condizioni, mai una concessione al compat imento di se stes­so, mai - sembrava - un r impian to pe r quello ch ' e ra stato. I l g r ande maest ro del l 'opera buffa sentiva di n o n poter di­ventare, come Beethoven, un personaggio di tragedia, e re­stò fedele al p ropr io reper tor io . Cosa provasse, q u a n d o se­deva a l p i ano pe r cercarvi i nu t i lmen te qua lche melodia , nessuno Io sa, pe rché a nessuno mai lo confidò. Agli occhi del m o n d o , pe r p u d o r e e coerenza, r imase come i l m o n d o lo vedeva e lo voleva: il pad re di Figaro, il re dell'allegria.

Q u a n d o nel '55 si r iaccasarono definit ivamente a Parigi, egli vi r ip rese la sua pa r t e di «vedetta» e, sotto la sapiente regìa di Olimpia, i «sabati musicali» di casa Rossini d ivenne­ro u n a delle grandi attrazioni della città. Rossini vi si p repa­rava come un at tore a u n a «prima», s tud iando le «battute» da s fornare nel la conversaz ione . U n a volta, a l n ipo te di Meyerbeer che gli chiedeva un pa re re sulla marcia funebre composta pe r la mor t e dello zio, rispose: «Graziosa, grazio­sa. Ma sarebbe stata migl iore se l 'avesse compos ta tuo zio pe r la mor t e tua». Di Wagner : «Eh, certo, ci fa passare dei g ran bei moment i , ma anche dei g ran brut t i quar t i d 'ora». Degli altri g r and i del suo t e m p o : «Prendo Bee thoven d u e volte la se t t imana, H a y d n qua t t ro , e Mozar t tut t ' i giorni». Delle p ropr ie opere : «Quella che preferisco resta il Don Gio­vanni di Mozart». Q u a n d o gli ch iedevano come mai n o n componeva più nulla, r i spondeva con un sospiro: «Che vo-

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lete, da giovani si lavora p e r la gloria, da vecchi p e r i figli. Io, figli n o n ne ho...», avallando così la menzogna del Rossi­ni pigro, vocato all'ozio e ai piaceri della vita: la buona tavo­la (i famosi Toumedos-Rossini), i buoni vini, la bella conversa­zione: lui che, partiti gli ospiti, passava il resto della settima­na a lottare contro l 'insonnia, l ' inappetenza e le angosce.

Morì alla fine del '68, Cavaliere della Corona d'Italia, di un'Italia di cui egli aveva seguito la nascita solo sui giornali, e forse senza mol to interesse. B u o n a g u a r d i a n a anche del suo cadavere, Olimpia lo fece seppellire al Pére Lachaise vi­cino a Cherubini , Chopin e Bellini, del quale era stato ami­co e pro te t to re . Il suo ul t imo «sabato musicale» si svolse lì, davanti a u n ' e n o r m e folla, ed ebbe a protagoniste le più bel­le ùgole del m o m e n t o : la Patti, Alboni, Nilson, Tambur in i , Faure. Olimpia si era riservata un lòculo accanto al suo. Ma q u a n d o Firenze chiese le sue spoglie pe r tumular le accanto a quelle di Machiavelli, Michelangelo e Galileo, consentì alla traslazione, r imandando la pe rò alla p ropr ia mor te .

La valutazione de l l 'opera artistica di Rossini la r imet t iamo ai competent i . Sulla ricchezza, freschezza e spontanei tà del­la sua vena n o n ci sono controversie, come non ce ne sono sulla sua abilità tecnica. La sua «presa» sul pubblico è docu­menta ta dai parer i di uomini che n o n e rano di certo facili a subirla. Stendhal era pazzo di lui. Hegel scriveva alla moglie che n o n si sarebbe mosso da Vienna finché avesse avuto i soldi p e r a n d a r e a tea t ro a sent i re Rossini. S c h o p e n h a u e r curava le p rop r i e crisi d ' ipocondr ia s u o n a n d o sul flauto le arie di Rossini. Di queste entusiastiche test imonianze si po­t rebbero r iempire pagine su pagine.

Le opinioni discordano quanto all 'influenza ch'egli eser­citò sugl'indirizzi fondamental i della musica del suo t empo . Qua lcuno dice ch'egli aprì nuove strade, che pe r esempio la Gazza ladra precorse il verismo di Puccini e di Mascagni, che senza il Guglielmo Teli Meyerbeer n o n sarebbe esistito o sa­rebbe stato diverso da quello che fu. Può darsi . A noi sem-

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bra tuttavia che Rossini segni più la chiusura di un per iodo che l'inizio di un al tro. Egli appa r t i ene più al Sette che al­l 'Ottocento anche pe r ragioni anagrafiche in quan to la sua ca r r ie ra si concluse p ra t i camente nel '30, cioè p r ima della g r a n d e venta ta romant ica: lo d imost ra i l culto che nut r iva per Mozart. Anche la sua musica di maggiore impegno con­serva qualcosa di rococò e resta inseparabi le dalla cipria e dalle par rucche . Aveva o r ro re della rapina, delle barricate e del vapore perché turbavano la sua musa ch 'era la «grazia», e la grazia era u n a musa settecentesca.

Qualche riforma la introdusse. Per esempio la tradizione esigeva u n a net ta separazione di stili fra l 'opera buffa e l'o­pe ra seria: la p r ima doveva essere tut ta car icature e risate, la seconda tutta solennità e lacrime. Rossini cercò di fonder­li con molti accorgimenti, fra cui quello di affidare in un 'o­pe ra seria come il Mose la pa r te di protagonista a un basso, che secondo la convenzione poteva farla solo nel l 'opera buf­fa. Fu lui che col Guglielmo Teli per la p r ima volta introdusse nell 'orchestra la cornetta. Fu lui il p r imo che riuscì a imbri­gliare i capricci vocali dei cantanti scrivendo le «fioriture» e quindi impedendogl i d ' improvvisarle, cosa che Stendhal gli r improverò come un at tentato all 'estro e alla fantasia del bel can to i ta l iano. Fu lui a d a r e magg io r spazio a l l 'orches t ra chiamandola ad accompagnare anche i recitativi e allargan­do la par te degli s t rumenti a fiato.

Ma si t ra t tava di migl ior ìe , n o n di r ivoluzione. Rossini n o n fu un innovatore perché il nuovo n o n lo sentiva, né nel­l 'arte né nella vita. La sua lira non vibrò alle grandi emozio­ni e alle g rand i passioni del suo t empo perché a queste era refrat tar io egli stesso. Con la s tupidi tà che accomuna tutt i gli squadristi di qualsiasi epoca e di qua lunque professione ideologica, anche la più sacrosanta, alcuni volontari del '49, pa s sando sot to le sue finestre a Bologna, lo insu l t a rono ch i amando lo «reazionario». Nel significato ch'essi le at tr i­bu ivano , l 'accusa e ra insensata. Ma u n a sua veri tà l 'aveva. Volendogli da re a tutti i costi u n a qualifica storica, possiamo

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dire che Rossini fu il mùsico della Restaurazione. Non lo sa­peva , e n e m m e n o sapeva che cosa la Res tauraz ione fosse, perché alla politica era comple tamente estraneo, la conside­rava u n a fonte di squilli assordant i e di b ru t t i inni , cioè di cacofonìe. Ma c e r t a m e n t e egli a p p a r t e n e v a a l m o n d o dei Re, dei Principi, delle par rucche , dei merlett i e dei teatri di Cor te che Met tern ich aveva r i e sumato , e pe r ques to si e ra t rovato tanto bene a Vienna e Vienna aveva spasimato pe r lui.

I l Risorgimento insomma non p u ò annoverar lo n e m m e ­no fra i suoi p r ecu r so r i : n o n lo p rev ide , n o n lo p resen t ì , n o n lo sentì . Nessun c a r b o n a r o a n d ò sulla forca e ne s sun garibaldino all'assalto canticchiando o fischiettando u n a sua aria. I l Risorg imento a p p a r t i e n e tu t to in te ro a Verdi , alle sue t rombe, alle sue marce, e anche al suo me lodramma.

CAPITOLO QUARANTESIMO

IL «GIALLO» DI MODENA

Se i moti italiani del '20-'21 cominciarono in Spagna, quelli del '31 cominciarono in Francia.

Grazie alle sue r isorse mater ia l i e mora l i , ques to Paese aveva fatto presto a risollevarsi dal salasso di sangue che Na­poleone gli aveva inflitto con le sue cont inue g u e r r e e dalla batosta di Water loo che le aveva concluse. E via via che le sue energie si r ides tavano, cresceva i l ma lcon ten to p e r un regime che, oltre tut to, aveva il grave tor to di essergli stato imposto dal nemico trionfante. I l re Luigi X V I I I n o n aveva fatto nulla pe r preveni re questo disagio. Aveva res taurato il vecchio r eg ime come se la r ivoluzione n o n fosse mai avve­nuta , e suo fratello che gli e ra successo col n o m e di Carlo X batteva la stessa strada, u n a s trada che n o n poteva condur­re che alla crisi. Q u a n d o questa scoppiò, nel luglio del '30, Carlo credet te di poter la risolvere con un i r r ig idimento del­l 'assolutismo e misure di polizia. Il popolo di Parigi rispose con le barricate, e a Carlo n o n rimase che l 'abdicazione.

Dominata dal l 'e lemento borghese che aveva molto da ri­guadagnare , ma anche parecchio da pe rde re , la rivoluzione n o n volle c o r r e r e t r o p p i rischi, e alla Repubbl ica prefer ì u n a m o n a r c h i a cost i tuzionale inca rna ta in quel Fi l ippo d 'Or léans , che abbiamo già incont ra to a Pa lermo, q u a n d o c'era anda to pe r impa lmare Amalia, f igl ia di Fe rd inando e di Maria Carolina. Issato sul t rono dalla g r ande onda ta libe­rale, egli dovette soddisfarne le più pressanti esigenze: u n a Costi tuzione che istituiva un reg ime rappresenta t ivo di ca­ra t tere par lamentare , il r iprist ino del vecchio glorioso trico­lore al posto del vessillo bianco crociato dei Borbone, e una

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politica estera in net ta antitesi con quella delle Potenze rea­zionarie della Santa Alleanza. Ques t 'u l t ima si t radusse nel principio del non- intervento , con cui la Francia s ' impegna­va a impedire , anche con la forza, le interferenze di u n o Sta­to nelle faccende in terne di un altro Stato. Era insomma la sconfessione della politica che Met te rn ich aveva pra t ica to dieci anni p r ima contro Napoli e il Piemonte.

Gli effetti di ques ta presa di posizione, che faceva della Francia l'alta pa t rona dei moviment i rivoluzionari europei , s i v idero subito. Insu r rez ion i scopp ia rono un po ' d a p p e r ­tu t to , ma specia lmente in Belgio e in Polonia. Per coordi ­narl i , a Parigi s 'era formato un Comi ta to Cosmopol i ta , in cui gli esuli i taliani avevano g r a n p a r t e anche p e r c h é e ra domina to dal l ' indomabile Buonar ro t i , di cui esso fu anzi il canto del cigno. Il vecchio t r ibuno n o n perse t e m p o a redi­gere un proc lama e un p iano d 'azione. I l p roc lama diceva: «Cadano i t iranni, s ' infrangano le corone, e sulle m i n e loro sorga la Repubblica italiana u n a e indivisibile dalle Alpi al mare» . I l p i ano e ra che u n a legione di esuli pene t rasse in Savoia dove, secondo Buonar ro t i , i l popolo sarebbe imme­dia tamente sorto in armi appiccando un incendio che si sa­rebbe p ropaga to fino alla Sicilia. I francesi avevano dato la loro adesione, anzi s ' impegnavano a cedere a questa Italia uni ta e repubbl icana la Corsica in cambio di Nizza e Savoia.

In realtà questi francesi e rano soltanto il vecchio genera­le Lafayette, carico di gloria, ma anche di arteriosclerosi, e ormai r idot to a u n a pa r t e di «venerabile». Egli n o n sapeva nulla delle cose nostre, ma non molto di più ne sapeva Buo­na r ro t i , d i cui ques to p i ano d imos t r a n o n la «generosità» - come dicono alcuni storici -, ma la faciloneria e il retorico massimalismo. Ad esso tentò invano di oppors i il Poerio, re­duce dalla galera e dalle esperienze napole tane del ' 21 . Via via che parlava - e parlava benissimo -, Buonar ro t i lo gua­tava con occhi carichi d 'odio m o r m o r a n d o : «E lui, tut to lui, anche nei gesti e nella voce: quella canaglia di Mirabeau». Erano trascorsi quasi quaran t ' ann i , ma l 'inguaribile giacobi-

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no era r imasto a Mirabeau, i l g r a n d e antagonis ta di Robe­sp ie r re . La r ivoluzione italiana, pe r lui, n o n poteva essere che un poscritto di quella francese dell '89.

Senonché le notizie dall 'Italia n o n e rano affatto incorag­gianti. Cha teaubr i and , che vi si trovava come diplomatico, scriveva: «C'è un diffuso malcontento , che pe rò n o n arr iva fino alla cospirazione». Il giudizio n o n è del tut to esatto per­ché di cospirazione ce n 'era . Ma la drastica repress ione se­guita ai moti del '21 l'aveva r idot ta al lumicino, m a n d a n d o sulle forche i più attivi protagonisti , o relegandoli in galera, o cos t r ingendol i al l 'espatr io. Più che sulle p r o p r i e forze, i patrioti contavano sul solito Messia o demiu rgo . Si parlava con insistenza dei discendenti di Napoleone . Ce n ' e rano pa­recchi a giro pe r l'Italia pe rché quasi tutta la famiglia Bona­par te vi si e ra accasata e partecipava at t ivamente alle vicen­de politiche locali. Elisa Baciocchi, l 'ex-regina di Etruria , ri­poneva le sue speranze nel figlio stesso de l l ' Impera to re , il Duca di Reichstadt, tu t tora ostaggio di Vienna, e a n d ò ad­dir i t tura a par largl iene. Ma quel giovane di scarsa grinta e di salute malferma, in cui di suo p a d r e n o n riviveva nulla, e ra cresciuto come un Principe austriaco, e ormai tale si sen­tiva. Sicché le attese f inirono p e r concent ra rs i su un al tro Napoleònide , Carlo Luigi, i l futuro Napoleone I I I , figlio di Luigi Bonapar te , ex-Re d 'Olanda, e di Ortensia di Beauhar-nais: un ragazzo di ven t ' ann i , da l ca ra t t e re inqu ie to e av­ven tu roso , ossessionato dalla gloria del g r a n d e zio e dal­l 'ambizione di emular lo . Alla notizia delle barr icate di Pari­gi, aveva sperato di po te r r ien t ra re in Francia. Ma Luigi Fi­l ippo si e r a affrettato a con fe rmare il b a n d o alla famiglia B o n a p a r t e , e n o n aveva to r to p e r c h é ques to n o m e stava sempre più r iacquistando fascino sui francesi, e Carlo Luigi Napo leone era alla ricerca di occasioni pe r farlo r i suonare . Perciò si e ra avvicinato ai patrioti italiani di Roma e parteci­pava ai loro complott i . Nel d icembre del '30 ne organizza­r o n o u n o assolutamente fantapolitico: impadroni r s i d i sor­presa di Castel Sant 'Angelo, proc lamare decaduto il gover-

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no pontificio, affidare il po te re allo stesso Carlo Luigi Na­poleone come Reggente, eppoi consegnarlo al Duca di Rei-chstadt dopo averlo rapito a Vienna. Le autori tà lo r iseppe­ro subito e sì affrettarono a sfrattare i congiurati , fra i quali c 'era anche Maroncel l i , da poco l iberato con Pellico dallo Spielberg. Luigi Napoleone fu rispedito con sua m a d r e a Fi­renze, ma non per questo smise di complot tare: era in con­tatto con la Carboneria , anzi pa re che vi fosse stato regolar­mente iniziato.

Ques t i in t r igh i p iu t tos to di le t tanteschi d i m o s t r a n o la fondamentale debolezza di un rivoluzionarismo in attesa di u n a soluzione dal di fuori. Si r ivolgevano a un Napoleone un po ' nella ingenua speranza che quel fascinoso nome ba­stasse a compiere il miracolo, un po ' perché Santi indigeni a cui votarsi n o n ne avevano. La reazione dei Principi italiani alle bar r ica te di Parigi e ra stata d ' i r r i g id imen to . Siccome tutti , salvo forse il Granduca di Toscana, si reggevano sulle baionette austriache, si sentivano minacciati dal principio di non- intervento che li privava di quella garanzia. Ma a spin­gere la loro avversione al n u o v o reg ime francese sino alla furia e all'invettiva furono p ropr io i d u e Principi su cui, do­po la catastrofe napoleonica, si e rano appun ta t e le speranze dei patrioti .

Il p r imo fu Carlo Alberto che, in una lettera a Carlo Feli­ce, auspicava una spedizione militare «contro questo scelle­rato, codardo e infame Orléans», e vi si prenotava. Il pove­ro Car ignano non si era ancora riavuto dal t r a u m a del ' 2 1 , q u a n d o aveva t emuto di essersi giuocato il t rono pe r le sue connivenze coi liberali. Ma forse a fomentare in lui lo zelo assolutistico influiva la conco r r enza del Duca di M o d e n a , che aveva scritto anche lui a Carlo Felice u n a le t tera indi­gnata, in cui gli annunziava che aveva r imanda to al nuovo Re di Francia, senza n e m m e n o aprirla, la lettera che questi gli aveva spedito; e che, siccome Metternich gli aveva consi­gliato maggior p r u d e n z a , lui gli aveva risposto che un So­vrano posto sul t rono da Dio n o n poteva accettarne u n o po-

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stovi da suddit i ribelli. Diceva tut to questo come se il Re di Francia fosse stato lui, e Luigi Filippo il Duca di Modena . Ma Car lo Felice lo congra tu lò v ivamente d icendogl i che r impiangeva di n o n poter imitare il suo gesto perché la geo­grafia n o n glielo consentiva. Ques to car teggio a t re d imo­stra che la part i ta per il t rono di Sardegna era ancora aper­ta, o a lmeno tale la consideravano il duca Francesco che non aveva cessato di aspirarvi , e Car lo Alber to che n o n aveva cessato di t emere ch'egli vi aspirasse. Ent rambi cercavano di guadagnars i i favori di Carlo Felice, mostrandosi più assolu­tisti di lui e l 'uno dell 'altro.

E p p u r e , fu p ropr io in nome del Duca di Modena che si an­nodò la congiura destinata a sfociare nei moti del ' 31 . E qui si ent ra in u n a delle vicende più misteriose del pre-Risorgi­mento , un autentico «giallo».

Nella pr imavera del '26 aveva fatto la sua comparsa negli ambienti degli esuli italiani di Parigi un avvocato modenese , Enrico Misley. Diceva che il movimento nazionale n o n ave­va possibilità di successo se non appoggiandosi su un Prin­cipe autorevole e risoluto, disposto ad assumerne la guida, ma che questo Principe c'era: Francesco IV di Modena.

Gli esuli t rasecolarono. Su Francesco i patr iot i avevano effettivamente appun ta to gli occhi dopo il crollo del sistema napoleonico perché , p u r essendo un Principe austriaco, era di sangue mezzo italiano pe r via della m a d r e Este, in Italia era nato e cresciuto e quindi si poteva anche sperare che ne avrebbe fatto gl'interessi. Ma q u a n d o lo videro all 'opera nel suo Ducato, fecero presto a ricredersi . Era stato lui a istau­r a r e il r e g i m e p iù re t r ivo . Era stato lui a p r o n u n c i a r e al Congresso di Verona del '22 la più feroce requisitoria con­t ro i liberali: così feroce che lo stesso Met tern ich gli aveva dato sulla voce. Sua era stata la repressione più spietata. Suo era il mot to: «Cristo in cielo, io quaggiù», pe r dire che non accettava limiti al suo assoluto potere . Sua la massima: «Me­glio un innocente sulla forca che un reo in libertà». Sua la

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risposta a quelli di Brescello che gli ch iedevano argini pe r di fenders i dal Po in p iena: «Un n ido di ca rbonar i come il vostro paese è meglio che vada sommerso». Tutti sapevano che questo campione «d'astuta ignoranza, d u r o il viso, i mo­di, la voce, cupo e come convulso» faceva staffilare i sudditi che osavano impor tunar lo pe r strada con qualche supplica, e che speculava sulla loro fame incet tando il g rano nelle ca­restie e r ivendendolo a prezzi maggiorati . Ma Misley diceva che questa era la maschera di Francesco, il suo alibi nei con­fronti dell'Austria. In cuore, covava ben altro: covava l 'amo­re pe r l'Italia.

Nessuno saprà mai se Misley fosse in buona fede e fino a che pun to fosse autorizzato a quegli scandagli. Uomo di bel­la presenza e di parola facile, ma provincialmente vanitoso e ambiziosissimo, pa re che da giovane avesse f requen ta to l 'ambiente carbonaro , dove conservava parecchie amicizie. C o m e fosse en t ra to in r a p p o r t i col Duca, n o n sì sa. Il bio­grafo di Francesco, Galvani, dice che se ne guadagnò le gra­zie q u a n d o gli confessò spon taneamente le sue passate pro­pensioni liberali, vi abiurò e gii «promise d ' indagare e rife­r i re i segreti dei comitati di L o n d r a e di Parigi coi loro piani sull'Italia», insomma quando gli si offrì come spia.

N o n vogl iamo e n t r a r e nei det tagl i d i ques to t enebroso affare, sul quale tut te le ipotesi sono lecite. Ci l imit iamo a enunciare quella che ci sembra la più fondata. Le cose n o n e rano anda te come dice Galvani, apologeta del Duca. Dap­principio Misley fu un u o m o d'affari di Francesco, che di af­fari ne aveva molti. Piccolo borghese di provincia, era molto lusingato della fiducia che il Principe gli accordava e proba­bi lmente sognò di d iventa rne l 'eminenza grigia, solletican­d o n e l 'ambizione, che era quella del t r ono di Sardegna . E qui, molte cose lasciano credere che ci sia stato, fra i due , un equivoco. I l Duca, n ipote di Carlo Felice pe r pa r te di mo­glie, pensava a quella corona come a un fine; Misley ci pen­sava come a un mezzo pe r unificare sotto di essa tutta l'Ita­lia. Per realizzare quest 'ul t ima impresa, ci voleva la collabo-

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raz ione dei pa t r io t i , e la sua missione consisteva a p p u n t o nel tastarne il polso.

Che il Duca consentisse, lo dimostra la libertà con cui Mi­sley par lava di questi compromet t en t i contatt i nelle lettere scritte da Parigi a un suo amico di M o d e n a che dappr inc i ­pio, nel r iceverle, dovet te t r e m a r e p e r c h é e ra noto che la polizia le apriva. In esse l'avvocato raccontava con evidente compiacimento i suoi colloqui con Sismondi, con Constant , con Lafayette ed altre vedette della politica europea . «Di' a mia m a d r e - si legge in una di esse - che ha un figlio che la dovrà far insuperbire.» Ma c'è un episodio ancora più rive­latore. Siccome il comitato di Parigi si mostrava sempre più diffidente nei suoi confront i , Misley si rivolse a quel lo di L o n d r a attraverso un fuoruscito suo compaesano, Manzini, che aveva tutte le carte in regola, e questo in termediar io se lo condusse al seguito a Modena , dove n o n solo n o n ebbe noie, ma fu subito ricevuto dal Duca, cui riferì che il Comi­tato era p ron to a spalleggiarlo pe r unificare l'Italia, non già per allargare i suoi Stati. E anche qui l 'allusione al t rono dì Sardegna è evidente.

Negli ambient i liberali di M o d e n a questi contatt i e r ano r i saput i e des tavano perpless i tà e diffidenze. Il Duca n o n aveva addolcito il suo regime, anzi aveva chiamato presso di sé come consigl iere quel l ' infame Canosa che , band i t o da Napoli, era stato espulso anche dalla Toscana pe r le sue me­ne reazionar ie . Misley diceva che Canosa serviva a France­sco di «copertura» nei confronti dell'Austria. Ma questo era falso perché era stato p ropr io Metternich, che lo detestava, a far al lontanare Canosa da Napoli. Molto più verisimile ap­pare che fosse Misley a servirsi della «copertura» di Manzini per accreditarsi presso i liberali. E a questo scopo cercò l'a­vallo di una personalità ancora più insospettabile di Manzi­ni: Ciro Menott i , un industr iale di Carpi , che già aveva su­bito la pr igione pe r carbonarismo.

U o m o ones to , ma d i un c a n d o r e che sconfinava nella sprovvedutezza, Menot t i si en tus iasmò dell ' idea e si lasciò

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c o n d u r r e dal Duca. Cosa si dissero, n o n si sa. Il Galvani af­ferma che anche lui accettò di fargli da spia. Questo è in an­titesi n o n solo col cara t tere del personaggio , ma anche coi fatti. U n a cosa sola si p u ò di re con certezza: che da questo m o m e n t o Menotti si gettò nell ' impresa con a rdore e la con­dusse da u o m o convinto di avere il Duca dalla sua. Andò a Bologna , a Forlì, a R a v e n n a p e r riallacciare i conta t t i coi vecchi Cugini e stabilire un p r o g r a m m a di azione comune . Incon t rò molte difficoltà pe rché in questi centr i Francesco lo conoscevano meglio che a Parigi e a Londra , tanto che a Bologna Menot t i corse r ischio di essere assassinato come agen te provoca tore . Ma il suo entus iasmo era tale che finì pe r vincere le altrui diffidenze. Solo Firenze vi si d imost rò refrattaria: e ra diffìcile i n d u r r e i toscani a bara t ta re il loro Leopoldo con Francesco. Capponi rispose, profet icamente: «Signor Menot t i , vi a m m i r o e vi c o m p i a n g o : voi sare te la vittima del Duca di Modena». Tuttavia anche lì u n a recluta la fece: Luigi N a p o l e o n e , s e m p r e alla r icerca di occasioni pe r mettersi in vista agli occhi dei francesi.

Dopo o g n u n o di questi viaggi, tornava a Modena a rife­r i r n e a Francesco, presso cui occupava o ra il posto di Mi­sley, quasi s empre in missione all 'estero. Il Duca ascoltava, approvava, o pe r lo m e n o n o n dava segno di d isapprovare . Se si p roponesse di s trumental izzare il moto rivoluzionario pe r accrescere i p rop r i domini , o se fin d'allora mirasse sol­t an to a p rocu ra r s i informazioni p e r p o t e r colpi re , a l mo­m e n t o o p p o r t u n o , con magg io re efficacia, è difficile d i re . Ma, da to il tipo, la seconda ipotesi è più verisimile della pri­ma. Nel '29, pe r la mor te di sua m a d r e Ricciarda, aveva ar­ro tonda to i suoi Stati con Massa e Car rara , rinforzava i ser­vizi di polizia e si teneva in s tret to conta t to epis tolare con Car lo Felice cui, ch iedendog l i in pres t i to alcuni c annon i , scriveva: «So che me la vogliono fare, ma essi mi t emono e io non temo affatto loro».

Secondo Misley e il suo biografo Ruffini, il Duca fu in b u o n a fede fino alla rivoluzione francese di luglio. Que l ri-

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volgimento ne provocò u n o anche in lui e lo r isospinse in braccio al reazionarismo. Misley ne ebbe sentore, e da Pari­gi p iombò a Modena, dove un colloquio col Duca confermò i suoi t imori . Ne avvisò Menott i , ma questi - dice Ruffini -non c i credet te , un po ' pe rché n o n voleva crederci , un po ' p e r c h é i fatti gli d imos t ravano il cont ra r io . Ch'egl i p r epa ­rasse l ' insurrezione era noto a tutti, e tutti in città ne parla­vano. La sua casa «parea una borsa di negozianti: chi anda­va, chi veniva sì di g iorno che di notte , la scuderia sembrava u n o stallatico. Tutte le armi da caccia a due , a quat t ro colpi, fucili, pistole t rovate presso i mercan t i di M o d e n a furono compra te in pochi giorni. La città tutta e i paesi circonvicini echeggiavano rivoluzione. Le d o n n e in molte case, senza ri­guardo , si occupavano di sciarpe tricolori e di coccarde». La polizia n o n poteva ignorarlo. Eppure , non interveniva.

La data fissata era il 5 febbraio (del '31). Gl'insorti sareb­bero scesi in piazza al gr ido di: «Viva Francesco IV e mor te ai suoi ministri!», m e n t r e da tutti gli altri centr i del Ducato le colonne dei congiurat i si sarebbero messe in marcia sulla città. Il Duca sarebbe stato messo al bivio: o darsi prigionie­ro della r ivoluzione, o a s s u m e r n e il p a t r o n a t o e marc ia re con essa alla conquis ta degl i Stati vicini. Ma Menot t i e ra convinto che il Duca avrebbe scelto la seconda alternativa, e di questa certezza aveva contagia to tutt i gli altri . A Parigi, dov 'e ra r ien t ra to , Misley avrebbe assicurato l ' appoggio sia del Comitato, che degli ambienti liberali francesi.

Ma la matt ina del 3 ci fu un fatto nuovo e inatteso: la po­lizia arrestò alcuni capi della congiura ed espulse dal Duca­to alcuni sospetti , fra cui i genera l i Zucchi e Fontanell i , le due personali tà di maggior prestigio. I l colpo era grave pe r gli uomini raccolti in casa Menotti - una quaran t ina -, con­vinti come lui di avere il Duca dalla loro. E fu forse pe r pre­venire una loro diserzione che Ciro decise di precipi tare gli eventi. Stavano p r e n d e n d o gli ultimi accordi, q u a n d o i sol­dati bussarono alla por ta e in t imarono la resa. L'edificio era c o m p l e t a m e n t e c i rcondato e già sotto la mi ra dei cannon i

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prestati da Carlo Felice. A dir igere l 'operazione era il Duca in persona , che aveva al suo fianco Canosa, inebriato dalla prospett iva di un massacro di «giacobini».

Persi p e r pers i , i cong iu ra t i dec isero di v e n d e r cara la pelle, e al l ' int imazione r i sposero con un nu t r i to fuoco che stese mor t i a lcuni g e n d a r m i . La fucileria d u r ò pa recch ie ore . A un certo p u n t o Menotti , n o n si sa se pe r un tentativo di scampo o di diversione, si bu t tò a co r re re pe r i tetti, ma fu ferito e cadde pe r strada. Gli altri segui tarono a spara re finché il Duca diede la parola al cannone che in d u e borda­te demolì l'edifìcio e costrinse gl'insorti alla resa. Il Duca si prec ip i tò ne l l ' appa r t amen to e lo perquis ì di pe r sona . Evi­den temen te , voleva impadronirs i dei carteggi.

Era convinto di aver l iquidato la rivolta, tan t ' è vero che chiese al governatore di Reggio di mandargl i subito il boia. Ma le notizie che frattanto arr ivavano a palazzo n o n e r ano mol to rassicurant i . Dai paesi circonvicini, g r u p p i d ' insort i marc iavano su Modena , e i r epa r t i regolar i , invece di fer­marli, se ne lasciavano disarmare . Francesco pe rò confidava nella sua a rma segreta: le t r u p p e austriache del Lombardo -Veneto di cui aveva già sollecitato l ' in tervento . Ma l ' indo­m a n i il cap i tano a cui aveva affidato l 'ambascer ia t o r n ò a mani vuote: pe r strada i rivoltosi gli avevano sequestrato la risposta del generale Fr imont , che pera l t ro era negativa: i l comandan te austriaco si rifiutava di m a n d a r e t r u p p e oltre i confini senza un esplicito ord ine di Vienna. E a p p u n t o per­ché avevano saputo di questa risposta, gl ' insorti seguitava­no a marc i a re /R i so lu to anche nella codard ìa , i l Duca n o n pose t e m p o in mezzo a mettersi in salvo oltre il Po. Ma, in­sieme alla famiglia, si por tò al seguito il principale ostaggio. E chiaro che aveva p a u r a dei segreti di Menott i . E p rop r io questo segnava irrevocabilmente la sorte del pr igioniero.

Così la rivoluzione, che credeva di aver perso, si trovò in­vece vincitrice e p a d r o n a della città. Essa liberò i compagni di Ciro e gli altri detenut i , p iantò sulla cittadella il tricolore, e is taurò un governo provvisorio di cui Reggio si d ichiarò

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solidale, e di cui l 'avvocato Nard i fu l 'anima, ma un ' an ima e s t r e m a m e n t e incer ta e t imora ta , che di u n a cosa sola si p reoccupò: di d isarmare l'ostilità dell'Austria, d imos t rando­si rispettosissimo del l 'ordine costituito e qu indi combat ten­do e smorzando lo slancio patriottico e libertario.

Questi bravi rivoluzionari, in fondo, non avevano r inun­ziato alla speranza di far la r ivoluzione d 'accordo coi gen­darmi .

CAPITOLO QUARANTUNESIMO

LA R I V O L U Z I O N E MANCATA

Il contagio fu fulmineo. Appena r isapute le notizie di Modena, quelli di Parma si

rovesciarono in piazza e vi t u m u l t u a r o n o al gr ido: «Viva la Duchessa , m o r t e a Werklein!» Werklein e r a l ' uomo che , mor to Neipperg , ne aveva assunto presso Maria Luigia tut­te le funzioni, m e n o quelle coniugali, ma senza possedere le qual i tà del suo p redecesso re . Era un colonnel lo aust r iaco d u r o , freddo, sussiegoso, privo di tatto e di fiuto e, a quanto p a r e , abbas tanza dis involto in fatto di qua t t r in i . I d i m o ­stranti chiesero alla Duchessa di licenziarlo e di concedere u n a Costituzione. Spaventata e piangente , Maria Luigia an­nunz iò che sarebbe par t i ta . E allora tu t ta la città si r iversò davanti al palazzo evocandola al balcone e supplicandola di restare. Essa fìnse di a r renders i , ma d u r a n t e la not te prese la via di Piacenza, l'altra città del suo Ducato, dove l'accolse­ro con g rande entusiasmo pe r fare dispetto a Parma. A Par­ma fu istituito un governo provvisorio che ricalcò le o r m e di quello di Modena.

Ma intanto le Legazioni, da sempre ribelli al malgoverno del Papa, avevano preso fuoco. Un fuoco incruento perché , salvo che a Forlì dove ci furono alcuni mort i , tut to si risolse in accordi p iù o m e n o consensual i coi Legat i e Prolegat i , che finirono pe r accettare l'istituzione di governi laici e libe­rali, d ie t ro garanzia ch'essi avrebbero m a n t e n u t o l 'ordine. E infatti quasi esclusivamente a questo i nuovi regimi pen­sarono, sordi ai richiami dei pochi che avrebbero voluto da­re al mo to un con tenu to e delle prospet t ive nazionali . Fra quest i pochi ci furono il genera le Zucchi che, sloggiato da

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Reggio dove si e ra rifugiato d o p o l 'espulsione da Modena , e ra accorso a Pa rma , e di qui lanciò il p r o g e t t o d ' is t i tuire una milizia cittadina in difesa delle conquiste realizzate; e il colonnello Sercognani che quel proget to lo t radusse in fatti raccogliendo tremila volontari, occupando alcuni forti e co­s t r ingendo alla resa la guarnig ione papal ina di Ancona.

Ma occorreva una volontà politica, e questa volontà n o n c'era. Un'assemblea di «notabili» di tut te le province insorte - Emilia, Romagna e Marche - fu convocata a Bologna, che aveva assunto la funzione di capitale. Qua le spiri to rivolu­zionario animasse questi uomin i , lo d imos t ra il fatto che il de lega to des igna to da Recanat i e ra Giacomo L e o p a r d i , g ran poeta, d 'accordo, ma non u o m o da Convenzione. Essi decisero la formazione di un «Governo delle province unite italiane» e ne d e l e g a r o n o la p re s idenza al p iù t imora to di tutti loro, Vicini. Invano Sercognani sollecitava aiuti e l'au­torizzazione a marciare su Roma. Bologna rispose, pe r boc­ca del genera le A r m a n d i , che l ' impresa e r a irrealizzabile. Che lo fosse veramente , c'è da dubi ta rne . L'esercito pontifi­cio era u n ' o r d a di lanzichenecchi buon i soltanto a saccheg­giar pollai. E lo stava d imos t rando anche in quell 'occasione. Coi suoi improvvisati manipoli , Sercognani era pene t ra to in U m b r i a senza i ncon t r a r e serie resis tenze. La popolaz ione n o n mostrava molto entusiasmo per i l nuovo regime, ma ne mostrava ancora m e n o pe r quello vecchio. E a Roma il pa­nico dilagava. Ma, invece che ad approf i t ta rne , i rivoluzio­nar i di Bologna miravano a calmarlo. Pra t icamente essi te­nevano i l Prolegato , cardinale Benvenut i , in condizioni di ostaggio, ma lo t rat tavano con tutti i r iguardi . Come potes­sero i l ludersi che i l Papa consent isse alla p e r d i t a di u n a metà dei suoi Stati, e la più ricca e popolosa, Dio solo lo sa. Ma essi agivano come se nutr issero questa certezza, la quale a sua volta si pasceva di un 'al t ra certezza: che la Francia im­pedisse l ' intervento dell'Austria. Perciò i loro occhi e rano ri­volti a Parigi.

A Parigi gli avven iment i avevano p re so tut t i di con t ro -

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piede, anche il Comitato. Questo, sapendo di ciò che si p re ­pa rava a M o d e n a , ne aveva chiesto i par t icolar i a Misley, q u a n d o e ra t o rna to d o p o l 'ul t imo colloquio col Duca. Ma Misley, forse pe r vendicarsi degli affronti fin lì ricevuti, si ri­fiutò di darli al legando l ' impegno del segreto. Disse soltan­to che a Modena i dadi e r ano tratti e le da te fissate pe r far ben capire che la sua congiura n o n in tendeva p r e n d e r e di­rettive dai fuorusciti. A quan to più tardi rivelò, egli era or­mai convin to che l ' insur rez ione dovesse a n d a r e avant i d i forza propr ia , senza il Duca e magari anche contro di lui. E di p r o p r i a iniziativa, si d i ede a raccogl iere a Marsiglia un carico di a rmi per t raghet tar le in Italia.

Q u a n d o giunse la notizia che il tricolore sventolava sulla cittadella di Modena , il solito Buonar ro t i stilò un proc lama che recava il sigillo della sua magniloquenza. Esso spronava gl ' i taliani a sollevarsi in massa con t ro «il t ruce A l e m a n n o che spietato t racanna il vostro sangue e si pasce delle vostre lacrime» (chissà cosa avrà de t to , leggendolo , Vieusseux), e annunziava l ' imminente sconfinamento in Savoia di u n a le­gione di volontari.

Questi si stavano effettivamente raccogliendo a Lione fra gl ' incoraggiamenti della popolazione e la benevola tolleran­za della polizia. Il governo aveva rei terato il suo impegno a impedi re , anche con la forza, qualsiasi in tervento, cioè l'in­t e rven to dell 'Austria, e ancora il g io rno 24 l 'ambasciatore francese a Vienna ne aveva ammoni to Metternich. I p repa­rativi fervevano febbrili in un clima d 'entus iasmo, q u a n d o d ' improvviso l 'a t teggiamento delle autor i tà cambiò, anzi si capovolse. Le a rmi vennero sequestrate e i volontari espulsi con foglio di via, sebbene le loro violente proteste trovasse­ro larga eco nella s tampa e nel pa r lamento di Parigi. Cos'e­ra successo?

Era successo che Met ternich aveva risposto a l l ' ammoni­men to dell 'ambasciatore facendo pubblicare con g rande ri­lievo la notizia che u n o dei principali esponent i del Gover­no delle Province Unite Italiane era Napoleone Bonapar te .

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N o n era vero. Napoleone si era arruola to nel piccolo eserci­to di Sercognani , ma poi era stato r ich iamato a Bologna e messo in disparte a p p u n t o perché i dirigenti temevano che la sua presenza alienasse loro la simpatia di Luigi Fil ippo. Questi infatti accusò il colpo, e Metternich ne approfit tò pe r assestargliene subito un altro avanzando pe r la corona del Belgio la c a n d i d a t u r a del Duca di L e u c h t e n b e r g , che poi era il figlio di Eugenio di Beauharnais .

Luigi Filippo capì. Senza neanche informarne il suo Pri­mo Ministro - che, q u a n d o a cose fatte lo seppe , si dimise pe r protesta - fece avvertire Metternich che il principio del non-intervento, in senso assoluto, valeva solo per il Piemon­te. Sui Ducati, visto ch ' e rano austriaci, Vienna aveva mano libera. Q u a n t o agli Stati della Chiesa, la Francia auspicava la formazione di un comitato di Grandi Potenze che facesse da media tore . Insomma, era la via libera a quella spedizio­ne punit iva che il Cancelliere aveva già deciso sin dal p r imo giorno.

Di ques to compromesso sotto banco , che n o n faceva di certo onore al nuovo regime francese, in Italia non si seppe nulla. Si cominciò solo a sospettarne quando , all'alba del 25 febbraio, u n a colonna di soldati austriaci traversò il Po e col­se di so rpresa la piccola gua rn ig ione nazionale di Fioren-zuola. Il governo di Parma ne fu sgomento . Ma, invece di band i r e l ' emergenza, badò a ca lmare la pubblica op in ione d icendo che l 'atto n o n doveva essere cons idera to ostile in quan to Fiorenzuola faceva par te della provincia di Piacen­za, tu t tora sotto la sovranità di Maria Luigia.

Subito d o p o un ' a l t r a co lonna austr iaca mosse su Novi, sulla strada di Modena. Bologna, che vi aveva dislocato u n a piccola gua rn ig ione , le o r d i n ò di r i t i rars i . I l c o m a n d a n t e Morandi , ex-legionario di Spagna, disobbedì e contrattaccò s u b e n d o parecch ie pe rd i t e , ma anche inf l iggendone , e fu deplora to da Bologna dove il governo fece affliggere questo bel manifesto: «Gli affari dei modenesi n o n sono i nostri. Il sano principio di non-intervenzione (sic) impone le sue leg-

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gi sia a noi che ai nostri vicini». Da buon i italiani, i bologne­si c redevano di salvarsi separando la loro sorte da quella de­gl'italiani dei Ducati , ed e ra su questa miserabile d ip loma­zia, n o n sulla volontà di difendersi , che fondavano le loro speranze . A teat ro si r app re sen t ava con g r a n d e fragore di applausi la Francesca da Rimini del Pellico, e il pubblico scan­diva in coro il r i tornello: «Presto all 'armi, corr iamo, c'invita - Lo squillar della t romba guer r ie ra - Presto all 'armi, la no­stra bandiera - De' nemici spavento sarà». Ma q u a n d o Zuc­chi si p re sen tò con set tecento uomin i racimolati alla bell 'e meglio, gl ' imposero di disarmarli pe rché l'Austria n o n se ne sentisse provocata.

Il 6 marzo giunse come una folgore la notizia che, sebbe­ne n o n provocata, l'Austria aveva occupato Ferrara . Quella n o n faceva par te dei Ducati . Faceva pa r t e delle Legazioni , come Bologna. E p p u r e a Bologna dissero che n o n si tratta­va di atto ostile, ma dell'esercizio di un vecchio diri t to a te­ne re qualche guarnigione a sud del Po. Non volevano guar­da re in faccia la realtà pe rché n o n avevano il coraggio di af­frontarla. E r icorrevano a tut to p u r di salvare le loro illusio­ni, ispirate soltanto dalla irresolutezza e dalla pavidità.

Tuttavia i fatti s embra rono lì pe r lì confermarle: la mar­cia degli austriaci pe r qualche giorno si fermò. Essa era sta­ta sollecitata dalla Santa Sede fin dalla me tà di febbraio, e nei te rmini più pressanti . A tal p u n t o il Papa si sentiva mi­nacciato che aveva annunc ia to a Metternich l ' intenzione di rifugiarsi a Genova, e il Cancelliere gli aveva risposto consi­gliandogli, caso mai, Venezia. E ciò d imost ra quan ta ragio­ne avesse Sercognani , che del res to , sebbene da Bologna n o n gli avessero m a n d a t o nes sun r inforzo, segui tava ad avanzare in Umbria .

Metternich n o n aveva mai dubi ta to di dover in tervenire nel le Legaz ioni . I motivi che , d o p o F e r r a r a , g l ' impose ro un r a l l en t amen to , e r a n o d u e . Anzi tut to , doveva r isolvere l 'operaz ione sul p i ano d ip lomat ico p e r c h é la Francia, p e r salvare la faccia, seguitava a sollevare difficoltà all ' interven-

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to fuori de i Ducat i . I l s econdo e r a n o le esi tazioni di Fri-m o n t che n o n voleva indebo l i r e l e g u a r n i g i o n i del L o m ­bardo-Vene to dove t emeva lo scoppio d ' u n ' i n s u r r e z i o n e . Ma la Santa Sede insisteva in toni s empre più drammat ic i . Sercognani si e ra spinto fino a Rieti. E vero che n 'e ra stato scacciato da i papa l in i , ma la sua minaccia segui tava a in­combere sul l 'Urbe.

Il 20 m a r z o gli austr iaci r i p re se ro la marc ia ca lando su Bologna. Il capo del governo provvisorio, Vicini, che fin al­lora aveva dato un 'esemplare prova d ' indecisione e incom­petenza, offrì a Zucchi i pieni poter i pe r scaricarsene di dos­so la responsabilità. Il Generale rispose ch 'era un po ' tardi , ma che il senso del dovere gl ' imponeva di accettare «quan­t u n q u e senza speranza di successo», e o rd inò il trasferimen­to del governo ad Ancona pe r da re a se stesso il t empo di ri­congiungersi con Sercognani e tentare con lui u n a resisten­za. Al m o m e n t o di par t i re lanciò ai bolognesi un proc lama in cui l 'invitava a «cedere con dignità» al l 'occupazione au­striaca: invito che, salvo la dignità, si rivelò del tut to super­fluo.

Zucchi condusse la sua colonna pe r Imola, Faenza e Ce­sena, fino a Rimini. Qui seppe che ad Ancona Sercognani , fur ibondo contro quell ' inetto governo, lo aveva destituito e r impiazzato con un t r iunvi ra to mili tare in cui f igurava an­che Zucchi. Questi aveva ora ord ina to i suoi uomini su u n a b u o n a linea di difesa, e aspet tava gli austriaci, le cui avan­guard ie giunsero la sera del 25. Col favore del buio, mime­tizzandosi sotto berret t i tricolori e al gr ido: «Viva gl'italiani, viva la libertà!», r iuscirono a so rp rende re gli avamposti na­zionali. Ma Zucchi r imediò subito facendo avanzare l 'arti­glieria di cui era specialista, e pe r parecchie ore martel lò il nemico infliggendogli t recento mort i . Si ri t irò solo q u a n d o si accorse che stava pe r essere aggi ra to , ma l ' inattesa resi­stenza sorprese gli austriaci e r imase l 'unico glorioso episo­dio di quella confusa e poco esaltante vicenda.

«Ah, se avessi dieci o quindici giorni pe r addes t ra re que-

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sti focosi ragazzi!» disse il Generale , m e n t r e si ritirava ordi­na tamente su Pesaro coi suoi repar t i quasi intatti. Stava or­mai pe r ragg iungere Ancona e unirsi al l ' indomabile Serco-gnani , q u a n d o a Fano gli si presentò un ufficiale spedito con tan to di lasciapassare da Vicini e compagn i al quar t i e r ge­nerale austriaco con un'offerta di resa. Zucchi trasecolò an­che pe rché i l messaggero non aveva nessuna comunicazio­ne pe r lui, che credeva di essere uno dei Triunviri , e anzi il p iù autorevole. Invece, nel f ra t tempo, Vicini aveva r ipreso le p r o p r i e funzioni e, consigliato dal genera le Armand i , il qua le andava dal p r i m o g io rno p r e d i c a n d o l ' inutil i tà d i qualsiasi resistenza, aveva alla svelta firmato un armistizio col cardinale Benvenut i , che il governo si e ra por ta to al se­guito da Bologna, impegnandos i alla remissione dei poter i alle autori tà pontificie e al d isarmo delle t r u p p e nazionali in cambio d i u n a genera le amnis t ia . Solo Terenz io Mamian i aveva rifiutato la p ropr i a firma su quel d o c u m e n t o qualifi­candolo «indegnissimo».

Per quan to avvilito e disgustato, Zucchi calmò le ire dei suoi ufficiali che p roponevano di passare pe r le armi i «tra­ditori» di Ancona e di tentare la resistenza a oltranza. Anco­ra più violenta fu la reazione di Sercognani e dei suoi che p e r Te rn i risalivano verso la costa adriat ica. Ma n o n c 'era nulla da fare con t ro la mental i tà dimissionaria di quel go­verno.

Gli austriaci n o n r iconobbero l ' impegno preso da Benve­nuti di u n a sospensione delle operazioni militari da ambo le pa r t i . Avanza rono su Ancona e l ' occuparono , m e n t r e nel por to si affollavano, in cerca d ' imbarco e di scampo, i r edu­ci di quella disgraziata avventura, fra cui Zucchi e Mamiani. Altri si e rano avviati verso il confine della Toscana; e con es­si marciavano Luigi Napoleone e sua madre Ortensia.

E t o rn i amo a Modena , ep icent ro di quel l ' e ruz ione , e al suo protagonista.

Trascinato al suo seguito dal Duca, che a nessun costo vo­leva farselo scappare, Menott i era stato m o m e n t a n e a m e n t e

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affidato agli austriaci, che lo avevano rinchiuso nella fortez­za di Mantova. Di lì Francesco era part i to per Vienna a sol­lecitarvi gli aiuti che Fr imont gli aveva nega to . Il 9 marzo , a p p e n a r ien t ra to nella sua capitale al seguito delle t r u p p e austriache, si fece subito r iconsegnare il pr igioniero, lo rin­chiuse in un ergastolo sorvegliato da un intero battaglione, e affidò l ' i s t rut tor ia su di lui al p iù malfamato giudice di Modena, Zerbini. Disperata, la moglie del pr igioniero scris­se a Misley, tut tora a Parigi. Misley rispose che aveva già in­teressato al caso alcuni autorevoli deputa t i francesi, fra cui Lafayette, i quali a loro volta si e r ano impegna t i a interes­sarne il governo; e c o m u n q u e egli stesso sarebbe r ient ra to in Italia a p e r o r a r e la causa di Menott i presso il Duca «che non è crudele». Il mistero si aggroviglia sempre più. Effetti­vamen te , alla fine di febbraio, Misley stava p e r t o r n a r e in patr ia , ma p e r a iu ta re la r ivoluzione con un carico d ' a rmi che gli venne sequestrato a Marsiglia. Come potesse pensa­re di essere ancora nelle b u o n e grazie del Duca, Dio solo lo sa. Pure , gli scrisse veramente sollecitandone la clemenza, e lo fece sapere ai Menott i dicendogli che il Duca n o n avreb­be mai condanna to a mor t e Ciro pe rché pe r ben d u e volte questi gli aveva salvato la vita dalle macchinazioni dei con­giurati.

Il difensore che il t r ibunale militare aveva assegnato - di p rop r i a autor i tà - a l l ' imputato era un sot totenente Ricci di scarsa esper ienza giuridica, ma leale e coraggioso. Egli im­postò la causa sull ' ipotesi più pericolosa, ma che forse e ra anche la più fondata: quella della connivenza dell 'accusato col Duca. Disse che questi cer tamente n o n aveva inteso ser­virsi di Menott i per procurars i «un a u m e n t o di dignità e di dominio» (e l 'allusione al t rono di Sardegna era chiara); ma che Menott i invece p r o p r i o a questo mirava, e lo aveva di­most ra to c o n d u c e n d o l ' impresa «con tanta i m p r u d e n z a da n o n nasconder l a all 'occhio vigile della polizia, la quale ne conosceva già l 'origine, l ' a n d a m e n t o e le fila anche p r ima dello scoppio».

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Le cose stavano p ropr io così. Ma a p p u n t o pe rché stava­no p ropr io così, Menotti e ra spacciato. Sapeva t roppo delle intenzioni del Duca. N o n bisognava dargli i l m o d o di rive­larle, mai più. L'osservatore austriaco Marschall - che stava pe r p r e n d e r e il posto di Werklein a Parma - avvertiva Met­ternich che Francesco conduceva l ' inchiesta a suo arbi t r io sovrapponendosi al t r ibunale cui stava pe r impor r e un ver­det to , la cui odiosità sarebbe r icaduta sull 'Austria. Ma n o n ci fu nulla da fare. Cont ro ogni consiglio e r ichiamo di Vien­na, Menott i fu avviato al capestro. Mentre aspettava l'esecu­zione, venne a fargli compagnia un altro condanna to a mor­te: Borelli. Era stato il notaio che aveva steso l'atto di deca­denza del g o v e r n o ducale . Si sentiva così poco colpevole che, fuggito da Modena , dopo pochi giorni vi e ra r ient ra to di p rop r i a volontà. Invano Marschall cercò di s t r appa re la grazia per en t rambi i condannat i . «Questo non è un Princi­pe - scrisse disgustato a Vienna -, ma un agente provocato­re che istiga alla rivolta pe r divertirsi con le forche.»

I d u e infelici sal irono sul pat ibolo il 26 maggio : Borelli con compor tamento fermo e quasi spavaldo, Menott i turba­to e recalcitrante. Ma i tribunali con t inuarono a lavorare fi­no a l '37. Coloro che avevano avuta qualche pa r t e , anche min ima , nel r ivo lg imento , c i pas sa rono tut t i . Tutt i , m e n o u n o : Misley, che n o n fu c o n d a n n a t o n e a n c h e in con tuma­cia.

Lo condannò viceversa l 'opinione pubblica come spia pa­tentata, e forse non lo era. Ma bisogna dire ch'egli fece ben poco pe r liberarsi di questa taccia. Il suo biografo e avvoca­to difensore dice che nel '32 egli avrebbe tu t to chiar i to in un volume di memor ie , se i l governo francese, for temente a l larmato (di che?), n o n lo avesse i m m e d i a t a m e n t e seque­strato. Può anche darsi. Ma quelle memor ie avrebbe po tu to pubblicarle a Londra , dove poco dopo si trasferì, e invece se ne astenne. Riprese il proget to , pare , vent 'anni dopo , a Gi­nevra . Ma n e a n c h e stavolta i l l ibro vide la luce. Probabi l ­men te , esplicito o implicito, c 'era fra lui e il Duca un pat to

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che lo impegnava al silenzio. «Se scroccone soltanto, o insie­me t radi tore , non sai» scrisse di lui Tommaseo. Arr ivabene e r a incer to : «Mi par lò di sé e de ' suoi passati i ngann i con tanta soavità e tanta mostra di candore , ch'egli è o demonio o santo». Forse il giudizio più esatto è quello di Mazzini che scriveva a sua m a d r e : «Non v'è tan to da p r o n u n c i a r e spia quel signore, anzi noi c redo tale, ma vi è tanto da p r o n u n ­ciarlo imbroglione e u o m o n o n di veri p ro fondamente radi­cati princìpi: e basta pe r tenersene discosti».

Probabi lmente quel pasticcione n o n era che u n a vittima dei p rop r i pasticci.

CAPITOLO QUARANTADUESIMO

L'UOMO N U O V O

Immancabi le strascico di tut te le rivoluzioni mancate , un'al­t ra onda ta di repressioni si abbatté sull'Italia. Ma n o n tutti, p e r fortuna, imitarono i metodi del Duca di Modena. Maria Luigia, p r ima di r ien t ra re a Parma, ci m a n d ò il suo fiducia­rio Melegari, un ga lan tuomo che si affrettò a provvedere di passaporto i più compromessi in m o d o che si mettessero in salvo. Nelle reti della polizia n o n caddero che persone di se­condo piano, e ci r imasero poco pe rché già in agosto la Du­chessa t roncò tutti i processi con un'amnistia.

Il governo pontificio invece perse anche quell 'occasione di d a r e un esempio di carità. I l nuovo pontefice Gregor io XVI, da poco succeduto a Pio V i l i , e ra comple tamente nel­le mani del suo Segretario di Stato, cardinale Bernett i , u n o di quegl i «zelanti» che c redevano p iù nella forca che nella croce. Egli n o n volle r iconoscere la convenzione di Ancona stipulata dal cardinale Benvenut i che garantiva l ' immuni tà agl ' insort i in cambio della loro r inunc ia alla resistenza ar­mata. La nave su cui essi si e rano imbarcati venne cat turata da d u e fregate aus t r i ache lanciate al suo i n s e g u i m e n t o . I fuggiaschi furono trascinati davanti a un tr ibunale d'ufficia­li e sot topost i a u n o s t r ingen te i n t e r roga to r io . Cercavano Zucchi che - come r i co rde re t e - e r a u n o di quei Genera l i dell 'esercito italico ch ' e rano stati assorbiti in quello austria­co, e figurava ancora nei suoi quadr i , anche se da molti an­ni era spon taneamente passato nella riserva. Su di lui quin­di pendeva l'accusa di t rad imento .

Sebbene provvis to di d o c u m e n t i falsi, Zucchi rif iutò la finzione. «Se cercate il generale Zucchi, eccolo!» disse facen-

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dosi avanti , e gli ufficiali austriaci si misero sull 'at tenti . Fu spedito in Austria, processato per direttissima e condanna to a mor t e . Ma poi la p e n a fu c o m m u t a t a in quella dell 'erga­stolo nella fortezza di Gratz dove rimase diciassett 'anni, fino al '48 . Gli altri furono r inchiusi nel forte di San t 'Andrea a Venezia, e minuz iosamente in ter rogat i . Met te rn ich voleva ricostruire le fila del l ' insurrezione anche pe r vedere se essa aveva avuto addentel lat i nel Lombardo-Veneto. Tutti , com­p r e s o il fratello di Menot t i , f o rn i rono la stessa vers ione: ch'essi avevano c redu to di agire in p ieno accordo col Duca di Modena e che questi aveva fatto di tutto p e r incoraggiar­li in questa convinzione. Per Metternich fu più u n a confer­ma che u n a sorpresa. Egli si rifiuto di consegnare a France­sco i pr igionieri modenesi , e u n o alla volta li l iberò.

Papa Gregor io , dal canto suo, aveva già nomina to d u e commissioni d'inchiesta pe r impart i re un castigo esemplare, ma doveva vedersela con una conferenza di ambasciatori isti­tuita a Roma su richiesta della Francia. Violentemente attac­cato dall 'opposizione liberale che l'accusava di aver tradito e manda to allo sbaraglio gl'italiani pr ima proc lamando il non­intervento e poi r imangiandoselo, il governo di Luigi Filippo reclamava da quello pontificio l'amnistia, una serie di riforme liberali, e l ' immediata evacuazione dei suoi Stati da par te del­le t ruppe austriache. D'accordo con Metternich, Bernetti ter­giversava. Alla fine di giugno sembrava che si fosse alla vigilia di una guer ra tra Francia e Austria. Poi Roma cedette, o pe r meglio dire Vienna le impose di cedere. L'amnistia fu conces­sa e le t ruppe austriache cominciarono lentamente a sgombe­ra re . Q u a n t o alle r i forme, fu più fumo che a r ros to , anche pe rché quello Stato era ta lmente marcio che n e m m e n o vo­lendo sarebbe riuscito a realizzarle. Ma bastò pe r consentire alla Francia di salvare la faccia e di r ip rendere la sua par te di alta pa t rona del liberalismo europeo.

Nel loro insieme, i moti del '31 avevano rappresen ta to più u n o strascico di quelli seguiti al crollo dei regimi napoleoni-

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ci che l 'inizio di u n a n u o v a è ra r ivoluzionar ia . A ispirar l i e rano state le vecchie società segrete disseminate nella peni­sola dai francesi e sui modelli francesi ricalcate. Sia come or­ganizzazione che c o m e ideologia , i l segno p iù visibile e r a quel lo impresso da B u o n a r r o t i , u l t imo ost inato r a m p o l l o del vecchio giacobinismo r o b e s p i e r r i a n o . E anche i loro pro tagonis t i come Zucchi e Sercognani e r a n o uomin i for­matisi nella Cisalpina e nel Regno Italico. Si trattava insom­ma ancora, pe r dirla con Cuoco, di u n a rivoluzione «passi­va», frutto di un t rapianto .

Ma fra le vittime della repress ione, che ora p r e n d e v a n o la via dell'esilio pe r anda re a infoltire i r angh i dei fuorusciti, c 'era un u o m o nuovo che, anche pe r ragioni di età, con quel passato aveva poco a che fare: Giuseppe Mazzini.

Era na to a Genova ne l 1805, figlio di un medico che in gioventù aveva avuto i suoi slanci patriott ici e f requenta to gli ambienti massonici e carbonari , ma poi era r ient ra to nel­l 'ordine costituito b a d a n d o sopra t tu t to a farcisi u n a solida posiz ione. N o n e ra affatto un u o m o spregevole : faceva la sua professione con molta coscienza e, coeren te con le sue idee democra t iche , curava gratis i poveri . Ma aveva un ca­ra t t e re au tor i ta r io e chiuso, che resp ingeva il sensibile ra­gazzo, at trat to molto di p iù da sua madre , Maria Drago, che sapeva guan ta re di soavità la sua severa morale ancorata su u n a ferma fede religiosa di s tampo giansenista. E gianseni­sti furono anche i precet tor i cui essa affidò il piccolo «Pip­po», come lo chiamavano i genitori e le t re sorelle. Il ragaz­zo stupì i suoi maestr i n o n solo p e r «la s o r p r e n d e n t e tena­cissima memor ia , talento s t raordinar io e genio senza limiti d i app rende re» , come scrisse u n o di loro, ma anche p e r la sua p recoce ser ietà . Preferiva la c o m p a g n i a dei g r a n d i a quella dei coetanei, e le sue uniche evasioni e rano la musica e le l u n g h e passeggia te soli tarie nei boschi . N o n e ra un «mammaione» a n c h e p e r c h é sua m a d r e n o n gl ie l 'avrebbe consent i to . Ma i suoi r a p p o r t i con lei e r a n o così stret t i e p ro fond i che dovevano inf luenzare tu t t a la sua vita senti-

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mentale . Cont ra r iamente a ciò che dicono certi suoi sciocchi apologeti, Mazzini n o n fu, in fatto di donne , un asceta. Esse contarono molto nella sua vita. Ma furono tutte o quasi tut­te d o n n e m a t u r e , di cui egli sapeva sollecitare i sent iment i materni .

Il suo p r imo a m o r e fu forse un 'amica di sua madre , ma­d r e a sua volta dei suoi tre amici Jacopo , Giovanni e Agosti­no Ruffini. Si t ra t tò na tu ra lmen te di un sent imento nasco­sto. Mazzini fece di lei, d o n n a anch'essa di g ran carat tere, la sua confidente e guida spirituale, e dei tre figli i suoi pr imi discepoli. Ma da loro n o n ricavò che amarezze . J acopo , di g r a n l unga il migl iore e p iù do ta to , fu p iù t a rd i a r res t a to come suo seguace, si suicidò in carcere, e pe r Mazzini fu un r imorso di cui n o n si sarebbe mai più liberato. Gli altri due lo bersagliarono di meschini attacchi e maldicenze.

E molto probabile che le pr ime professioni di fede politi­ca egli le abbia sentite in bocca a suo p a d r e nel '15, q u a n d o i trattati di Vienna sancirono l 'annessione di Genova al Pie­monte . Attaccatissima alle sue vecchie istituzioni e tradizioni repubblicane, la città ne fu indignata e cer tamente lo fu an­che il do t to r Mazzini. Più ta rd i P ippo trovò nel suo studio, nascosti fra i manua l i di medic ina , a lcuni vecchi g iornal i francesi del t e m p o della r ivoluzione, e li lesse con avidità, p u r senza capirci molto. Altre suggestioni dovet tero venirgli dalla scuola. Per dis t rarre i giovani dai problemi attuali, gli si dava da s tudiare la storia della Grecia e di Roma, ch 'e ra tut ta un inno a Catone, ai Bruti , alla libertà e al t irannicidio, nella convinzione che l 'antichità di questi ideali bastasse a render l i innocui e mater ia di p u r a declamazione.

A quei tempi all 'Università si arrivava molto presto. Maz­zini vi s'iscrisse a quattordici anni , in medicina come voleva suo p a d r e . I suoi apologet i sment iscono che se ne r i trasse p e r c h é , a l p r i m o e s p e r i m e n t o d i necroscopia , svenne . Lo raccontò sua m a d r e a Jessie White Mario, e n o n riusciamo a vedere che male ci sarebbe. Che Mazzini abbia sempre avu­to o r r o r e del sangue, è provato: l'uccisione di un to rdo ba-

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sto a svogliarlo pe r s empre dalla caccia. Ma è p rop r io que­sto che r e n d e ancora più ammirevole il suo immenso corag­gio morale . A sgomentar lo era il sangue altrui, n o n il suo, e si affrettò a d imostrar lo: a quindici anni aveva già fatto co­noscenza delle bastonate , delle mane t te e della pr ig ione. Il pretes to era stato del tut to occasionale ed epidermico. Maz­zini, che ora si era iscritto a legge, recalcitrava ai bigotti re­golamenti universitari che imponevano agli s tudent i di an­d a r e a messa e di confessarsi, e gli proibivano i baffi come indizio di t endenze rivoluzionarie. Costret to a f requentare anche lui la chiesa, un giorno il p re te invitò lui e i suoi com­pagn i a lasciare i posti di p r i m a fila ai cadett i del Collegio Reale. Mazzini, che al posto n o n ci teneva, si ribellò pe rò al sopruso, e con tale furore che si fece arrestare .

Per q u a n t o m o d e s t o , l ' episodio bas tò a confer irgl i un cer to pres t ig io sui condiscepol i , ed egli ne approf i t tò pe r raccoglierne in to rno a sé alcuni, che come lui n o n sapeva­no ancora cosa volevano, ma già sapevano di volere qualco­sa. Non diventò un alfiere della contestazione: f in d 'al lora aveva in uggia gli a t teggiament i demagogic i e le chiassate go l i a rd iche . Gli amici se li sceglieva con cu ra , e con essi conduceva vita appar ta ta , fatta d ' interminabi l i passeggiate e discussioni. Discutevano di tut to , ma specialmente di let­t e ra tu ra , che fu la vera vocazione giovanile di Mazzini. Le sue l e t tu re e r a n o p iu t tos to d i so rd ina t e . Conosceva b e n e Tacito e Dante . Si e ra i n n a m o r a t o di Goe the - diceva che avrebbe dato la vita pe r passare un g iorno con lui - , ma poi gli aveva pre fe r i to Shakespea re , e infine Alfieri e Byron . Ma a folgorarlo fu il Foscolo. Rimase t a lmente colpito dal

Jacopo Ortis che da allora n o n si vesti p iù che di ne ro e sua m a d r e t eme t t e che volesse imi t a rne i l gesto suic idandosi . Quel l ' e roe n o t t u r n o fu la sua g r a n d e passione giovanile, e qualcosa gliene r imase pe r s empre addosso. Mazzini fu un Jacopo della politica, inconsciamente - o subconsciamente -vocato alla pa r t e dello sconfitto pe r ché era quella che me­glio gli si attagliava. Egli avrebbe po tu to far sua l 'orgoglio-

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sa divisa spagnola: «La disfatta è il blasone del l 'anima ben­nata» .

I l t r a u m a r ivela tore del suo des t ino gli capi tò nel ' 2 1 , q u a n d o a Genova a r r iva rono in cerca di scampo i Federat i p iemontesi reduci dal loro tentativo di rivolta. Per metter l i in g rado d' imbarcarsi , e ra stata indet ta pe r strada u n a que­stua fra i passanti, e anche Mazzini det te il suo obolo, mosso forse soltanto dalla pietà. Ma poi cominciò a r imuginare sul­la loro sorte: «Quel giorno fu il p r imo in cui mi si affacciasse confusamente, n o n d i rò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un pensiero che si poteva, e quindi si doveva, lottare per la l ibertà della Patria». La novità n o n e ra concet tuale , ma morale , e stava tutta in quel quindi si doveva. Esso r iassume il c redo di un u o m o per il quale la vita si annunziava, religio­samente , come un dovere da compiere . Mazzini aveva cre­du to , fin allora, di essere un ateo, e l 'unico grosso dispiace­re che aveva dato alla m a d r e era stato il rifiuto di confessar­si. In realtà si era soltanto ribellato alla Chiesa, con cui n o n si riconcilierà mai. Ma già si rendeva conto che nessun idea­le politico è realizzabile e degno di essere realizzato se non viene concepito e praticato come un sacerdozio. Fu questo a far di lui un e te rno straniero in un Paese come il nostro, do­ve la politica viene concepita e prat icata come u n a «combi­nazione» di contingenti oppor tuni tà .

La le t tera tura seguitò a occuparlo anche pe rché era l'u­nico campo in cui si potessero espr imere delle opinioni. Fi­niti senza entusiasmo gli studi e presa la laurea, si e ra messo a eserci tare la professione nello s tudio di un avvocato, ma l'attività che più lo impegnava era quella di giornalista. C'e­ra a Genova un giornale, YIndicatore genovese, che la censura tol lerava p e r c h é e r a quasi esc lus ivamente un bol le t t ino commerciale . Mazzini lo persuase a pubblicare anche delle recens ion i di libri, e ciò gli de t t e il des t ro di segna la re al pubblico quelli che meglio servivano alla formazione di una coscienza civile. Era già anche quella u n a scelta: pe r Mazzi­ni n o n c'era né ci poteva essere altra le t teratura che quella,

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come oggi si chiama, «impegnata» e, anche se n o n lo disse, lo fece a b b o n d a n t e m e n t e cap i re t r i b u t a n d o p e r e sempio g r a n d i elogi, che p robab i lmen te n o n sentiva, alla Battaglia di Benevento del Guerrazzi : un romanzacelo, ma ricco di ac­centi patriottici.

La censura lasciò fare pe r un po ' , poi soppresse addiri t­tu ra il giornale. Ma gli articoli di Mazzini, che si firmava con la sola iniziale del c o g n o m e , avevano a t t i ra to l ' a t tenzione de l l ' onn iveggen te Vieusseux, che scrisse al Lambrusch in i d ' indagare chi fosse quell 'M. che, sotto u n a p e n n a ruggino­sa e un po ' enfatica, faceva tut tavia t r ape la re delle idee. E Lambruschin i rispose: «Il mio cor r i spondente c rede di po­te rmi assicurare che M. sia un cer to avvocato Mazzini che pa re abbia u n a cat tedra all 'Università, giacché lo chiama uo­mo di grandissimo talento e dei più liberali dell'università. Non so p e r ò conciliare questa quali tà con quella che p u r gli dà di avvocato di recente laureato. C o m u n q u e sia, egli è figlio del prof. Mazzini, medico in Genova. Aggiunge che questo suo f igl io , benché giovane, ha grandissima r iputazione. I l n o m e del Mazzini giovane è Giuseppe che a Genova, come sapete, ch iamano Pippo».

Su invito di Vieusseux, Mazzini m a n d ò all'Antologia alcu­ni articoli sul d r a m m a storico e altri problemi letterari , che a t t i ra rono su di lui l 'at tenzione dei circoli n o n soltanto fio­rent ini , ma nazionali . Altri ne pubblicò sull'Indicatore livor­nese, che il Guerrazzi aveva fondato nella sua città. Ma que­sto n o n gli bastava, un po ' p e r tut te le r inunzie e ret icenze che la censura imponeva, un po ' pe rché sentiva l'inutilità di que l par la rs i fra «iniziati». Odiava le accademie e bollava con parole di fuoco il narcisismo e l'evasività di u n a lettera­t u r a intesa u n i c a m e n t e «a fo rmare lo scrit torello vanaglo­rioso, il sofista, il p e d a n t e , e n o n l'uomo, n o n l'utile cittadi­no». Perciò si p roponeva di dedicarsi a u n a storia popo la re d'Italia che, r ivolgendosi a un pubblico più vasto, ne risve­gliasse la coscienza e gl'interessi. Totalmente preso da questi impegni e proget t i di apostolato, conduceva un'esistenza di

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cenobita. Unici lussi, il caffè e il sigaro, d u e vizi di cui r ima­se poi s e m p r e schiavo. Un iche dis t razioni , le passeggiate preferibi lmente no t tu rne coi pochi amici che già in lui rico­noscevano un capo, e la ch i ta r ra con cui si accompagnava canticchiando perché aveva molto orecchio e anche u n a di­screta voce di ba r i tono leggero . Sua m a d r e lo covava. Suo p a d r e aspet tava che gli passasse, com 'e ra passata a lui. La polizia lo sorvegliava.

Nel '27 u n o dei suoi amici, Torre , gli confidò d'essere ag­g rega to alla C a r b o n e r i a e gli p r o p o s e d ' iniziarvelo. «Io - scrisse più tardi Mazzini - n o n ammirava gran fatto il sim­bolismo complesso, i misteri gerarchici e la fede politica, o piuttosto la mancanza di fede politica, della Carboner ia . Ma e ro allora impoten te a tentare cosa alcuna di mio, e mi s'af­facciava u n a congrega di uomini i quali, inferiori probabil­men te al concetto, facevano ad ogni m o d o u n a cosa sola del pens i e ro e del l ' az ione, e sfidavano scomuniche e p e n e di mor te ; persistevano, distrutta u n a tela, a rifarne un 'al t ra: e bastava pe rché io mi sentissi debito di da r loro il mio n o m e e l 'opera mia.»

Gli f issarono, come al solito, un a p p u n t a m e n t o di no t te in u n a s t raduzza fuori m a n o , dove v e n n e a pre levar lo un cer to R a i m o n d o Doria , «di f i s ionomia n o n piacente» che , d o p o averlo in te r roga to , lo sot topose ai soliti riti. Inginoc­chiato, i l neòfita p ronunc iò con la m a n o sul pugnale , ma an­che con un certo fastidio, la formula del g iuramento , ascoltò i soliti t ruculent i racconti delle terribili vendet te abbattutesi sui t radi tor i , e se ne t o rnò a casa ca rbonaro , ma completa­m e n t e a l l 'oscuro d i ciò che ques to significasse come p r o ­g r a m m a politico, e cioè se si doveva lottare pe r un'I tal ia mo­narchica o repubbl icana, uni tar ia o federalistica. Ne chiese a Tor re , il quale gli rispose che si contentasse di «ubbidire in silenzio» e ringraziasse Dio di aver evitato le « t remende p ro ­ve» che di solito il r i to r ichiedeva. C h e avrebbe fatto - gli chiese - se pe r esempio gli avessero int imato di spararsi alla tempia u n a pistola caricata davanti ai suoi occhi? Mazzini ri-

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spose asciutto che si sarebbe rifiutato pe rché delle d u e l'u­ria: o la pistola era caricata solo a polvere, e in tal caso si sa­rebbe t ra t ta to di u n ' i n d e g n a farsa; o e ra caricata a palla, e in tal caso «era assurdo che un uomo , chiamato a combatte­re pe r la Patria, cominciasse dallo sparpagliarsi quel po ' di cervello che Dio gli aveva dato». Era la reazione di un u o m o t r o p p o libero e t r o p p o serio p e r accettare la s t ru t tu ra ma­fiosa e gli aspetti ciarlataneschi di quella organizzazione che si rifiutava di r ivelare i suoi scopi e p re t endeva t ra t ta re gli accoliti come semplici killers.

Per il m o m e n t o tuttavia r imase nei ranghi , e anzi vi fece ca r r i e ra f ino al g r a d o di G r a n Maestro che gli pe rme t t eva di affiliare a sua volta altri adept i . Si p roponeva di formare con loro u n a «base» capace «d ' infondere un po ' di giovane vita in quel corpo invecchiato», cioè in parole povere d' im-p a d r o n i r s e n e e r i formarla a m o d o suo. Ma capiva benissi­mo che l'Italia n o n poteva nascere dai complott i e dagli at­tentati di u n a società segreta. Ciò che occorreva era illumi­na re la pubblica opinione, o pe r meglio dire c rea rne una , e pe r questo ci volevano ben altri s t rument i .

Un giorno la Vendita lo incaricò di u n a missione a Livor­no pe r farvi altri proseliti. Mazzini l'accettò, soprat tut to pe r la prospett iva d ' incontrare Guerrazzi con cui s'era scambia­te mol te let tere, ma che d i pe r sona ancora n o n conosceva. Gue r r azz i n o n c 'era. Poco p r i m a , c o m m e m o r a n d o in un pubblico discorso un ufficiale livornese caduto sotto le ban­diere napoleoniche, si e ra lasciato trascinare dalla foga ora­tor ia a dichiarazioni che avevano costre t to perf ino il mi te G r a n d u c a a comminargl i il confino a Montepulc iano. Maz­zini ve lo ragg iunse in compagn ia del c o m u n e amico Bini. Ma, d o p o aver un poco par la to con lui, o meglio dopo aver ascoltato la l e t tu ra ch 'egl i inflisse ai visi tatori delle p r i m e pagine del suo nuovo libro, Eassedio di Firenze, le simpatie gli s ' intiepidirono. «Il sangue gli saliva alla testa m e n t r e legge­va ed ei bagnava la fronte pe r r idursi in calma. Sentiva alta­men te di sé, e quella persecuzioncella, che avrebbe dovuto

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farlo sor r idere , gli rigonfiava l 'anima d'ira... Non aveva fe­de. . . Stimava poco; amava poco». Ritrat to impietoso, ma a bersaglio. Fu così deluso di lui che «partii senza parlargli a viso a p e r t o del motivo pr inc ipa le della mia gita». Mazzini n o n si rassegnava, n o n si rassegnerà mai alla retorica e alla teatralità degl'italiani. E questo fu un altro dei motivi che lo resero sempre s traniero in patria.

Ma a Genova lo a t tendeva una bru t ta sorpresa. Que l tale Doria che lo aveva iniziato e r a un marchese spianta to che viveva di espedient i , ma che ora , t rovandosi a corto anche di quest i , si e r a v e n d u t o alla polizia d e n u n z i a n d o l e tut t i i capi ca rbona r i . La polizia volle p r o c u r a r s e n e le p r o v e e m a n d ò a Mazzini d u e suoi sgher r i che si finsero aspi rant i all'affiliazione. Mazzini ci cascò, e n o n doveva essere l'ulti­ma volta: pe r tutta la vita era destinato a r ipo r re la sua fidu­cia e a lasciarsi so rp rende re dalle spie che gli met tevano alle calcagna. Q u e s t o g r a n d e cosp i ra to re r imase s e m p r e u n g r a n d e ingenuo : come tutti gli uomin i onesti , c redeva che anche gli altri lo fossero.

Iniziò i d u e provocatori , e poche sere dopo , r i en t r ando a casa, ci t rovò i g e n d a r m i . Colui ch ' e ra svenuto di fronte a una necroscopia d iede prova di un sangue freddo esempla­re . Sotto gii occhi degli sbirri, riuscì a far sparire gli oggetti e le ca r te p iù c o m p r o m e t t e n t i , affrontò la p r ig ione senza bat ter ciglio; e q u a n d o si trovò di fronte al Commissario in­q u i r e n t e , negò tu t to . Rimase a lcuni g iorn i nella p r i g ione della caserma, e le uniche cose di cui soffrì furono il f reddo e la mancanza di sigari . Poi, u n a no t te , lo svegl iarono p e r un trasferimento. Suo pad re , che lo aveva saputo, era fuori del carcere pe r salutarlo insieme ad Agostino, il minore dei tre fratelli Ruffìni. Forse in quel m o m e n t o il povero Dottore capì che quel suo f igl io n o n sarebbe mai rinsavito. Ma n o n po t è par larg l i e dovet te con ten ta r s i d i un c e n n o di a d d i o con la mano .

Nella diligenza in cui lo caricarono, c'era un altro Cugi­no, e fra i più in vista, Passano: tut ta la Vendita doveva esser

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caduta nella rete. E il pr igioniero capì anche come, q u a n d o r iconobbe fra i soldati di scorta u n o dei d u e neòfiti ch'egli aveva iniziato. Ce n 'era abbastanza pe r sgomentare anche il cospiratore più esper to e rot to a queste disavventure. Maz­zini si m a n t e n n e impassibile e, r inchiuso in u n a cella della fortezza di Savona, ci trovò i suoi lati belli: la vista, oltre l'in­ferriata, del cielo, del m a r e e delle Alpi, «le più sublimi cose che la na tu ra ci mostri», e la compagnia di un lucher ino, che ogni g io rno veniva a becche t t a re le briciole del la sua pa­gnotta.

Era il d icembre del 1830. Per il pr igioniero fu u n a grossa v e n t u r a che i l suo caso fosse scoppia to p r i m a dei mot i di Modena, di Parma e degli Stati pontifici e del l 'ondata di re ­press ioni che quest i s tavano p e r sca tenare . Si adeguava , senza farne un d r a m m a , a quella pausa di galera. Negli ulti­mi t emp i , tu t to p r e s o dalla sua attività di cosp i ra to re e di giornalista, non aveva più avuto il t empo di riflettere e me­d i ta re . Ed e ra i l m o m e n t o di farlo. No, la Carboner i a n o n era neanche un corpo invecchiato. Era un cadavere. Da sep­pellire con tutti gli onori , ma da seppellire. Per u n a rivolu­zione nazionale, pe r u n a Repubblica democratica, ci voleva ben altro che i complott i e gli at tentati di g rupp i terroristici guidat i dall 'alto, come robots, da uomini di volto ignoto d'i­gnote intenzioni, d ' ignota etichetta ideologica. Ci voleva un moto corale dal basso, u n a volontà collettiva e cosciente.

Nasceva nella sua men te l'idea della Giovane Italia.

Carlo Felice volle che il caso fosse vagliato col massimo scru­polo e con tutte le garanzie di legge. E perciò, invece che al giudice o rd inar io , preferì affidarlo a d u e dei p iù rispettat i senatori del Regno, Borio e C r o m o , che infatti si most raro­no all'altezza della loro fama. Gli arrestati e r ano sette. E seb­b e n e tu t t i avessero nega to , l e p r o v e c o n t r o d i lo ro e r a n o schiaccianti. Ma i d u e magistrati , s apendo da che fonte ve­n ivano, n o n ne t e n n e r o conto , e assolsero. I l min is t ro de ­gl ' interni t rovò tuttavia eccessiva questa indulgenza plena-

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ria, e decise che Passano, essendo còrso, fosse restituito alla sua isola, e che Mazzini si scegliesse un 'a l t ra residenza, nel Regno o fuori, a esclusione di Genova e della Riviera.

Mazzini n o n esitò. Per p o r r e m a n o al suo p r o g r a m m a di azione politica, aveva bisogno di l ibertà, e in nessuna città del Regno ne avrebbe avuta. Prese coraggiosamente la via dell'esilio, e il 10 febbraio (del '31) attraversò il Moncenisio. Per s t r ada lo r a g g i u n s e r o le notizie della sollevazione nei Ducati e negli Stati pontifici e incontrò altri esuli che gli par­larono dei preparat ivi in atto a Lione pe r u n a spedizione in Savoia. Vi accorse subi to e vi r i t rovò «molti di co loro che aveva veduto dieci anni addie t ro e r ra re , con l'ira della delu­sione sul volto, per le vie di Genova». S' imbrancò con loro, partecipò at t ivamente all 'organizzazione dell ' impresa che si svolgeva in un entusiasmo par i soltanto alla confusione. Poi, a l l ' improvviso, v e n n e la doccia f redda: l ' in t imazione agli esuli di sciogliere il comitato e di r i en t ra re ai loro domicili. Il loro furore era al colmo. «Imprecavano - dice Mazzini -al t r a d i m e n t o e ai t r ad i to r i : vende t t a sterile di quan t i , in un ' impresa di Patria, f idano in altro che nelle p r o p r i e for­ze». Era la conferma di u n a convinzione già ma tu ra ta nella sua mente : che l'Italia potevano e dovevano farla gl'italiani, e da sé.

Tut tavia n o n volle p e r i l m o m e n t o dissol idar izzare dai suoi c o m p a g n i e ne seguì un g r u p p o che s i p r o p o n e v a di sbarcare dalla Corsica in Italia pe r da re m a n forte agl'insor­ti delle Legazioni. Attraverso i loro emissari chiesero un po ' di soldi al governo di Bologna pe r noleggiare u n a nave. Ma il p res idente Vicini, s empre pe r n o n «provocare» l'Austria, rifiutò. E anche questa fu pe r Mazzini u n a lezione. No, n o n era con uomini di quella pasta che si poteva fare l'Italia. Bi­sognava ricominciare tut to daccapo: dalle coscienze.

I l ve ro Risorg imento inizia di qui : da l l ' appe l lo alle co­scienze. Tut to ciò che lo aveva p recedu to n o n e ra stato, co­me aveva det to Cuoco, che u n a cattiva imitazione d' ideolo­gie altrui.

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C R O N O L O G I A

1790 - Pietro Leopoldo di Toscana diventa Imperatore d'Austria.

1792 - I francesi invadono la Savoia.

1794 - 22 settembre. A Dego i piemontesi sono battuti dai francesi.

1796 - Marzo. Prima campagna di Napoleone in Italia.

1796 - 28 aprile. Armistizio di Cherasco.

1796 - Maggio. Vittorio Amedeo III cede alla Francia la Savoia e il Nizzardo.

1796 - 16 maggio. Napoleone entra in Milano.

1796 - 16 ottobre. Nasce la Repubblica Cispadana.

1797 - 7 gennaio. Il congresso Cispadano, a Reggio, adotta il tri­colore bianco, rosso, verde.

1797 - 19 febbraio. A Tolentino Napoleone stipula la pace con il papa.

1797 - 15 maggio. Abdicazione del doge Manin a Venezia.

1797 - 17 ottobre. Pace di Campoformio.

1798 - 15 febbraio. Proclamazione della Repubblica Romana.

1798 - 20 febbraio. Pio VI viene tradotto a Siena.

1798 - 19 maggio. Spedizione di Bonaparte per l'Egitto.

1798 - 1-2 agosto. Nelson distrugge la flotta francese ad Abukir.

1799 - 24 gennaio. I francesi occupano Napoli.

1799 - 27 marzo. Il granduca di Toscana abbandona Firenze ai francesi.

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1799 - 15 giugno. Il cardinale Ruffo occupa Napoli.

1799 - 29 agosto. Morte-di Pio VI.

1800 - Maggio. Seconda campagna d'Italia del Bonaparte.

1800 - 5 giugno. Napoleone ristabilisce la Repubblica Cisalpina.

1800 - 14 giugno. Battaglia di Marengo.

1800 - 16 giugno. Armistizio tra francesi e austriaci.

1801 - 19 febbraio. Trattato di Lunéville.

1801 - 15 luglio. Concordato tra Bonaparte e il papa.

1802 - 27 marzo. Trattato di Amiens fra Inghilterra e Francia.

1802 - 14 giugno. Carlo Emanuele IV abdica in favore di Vittorio Emanuele I.

1804 - 18 maggio. Bonaparte assume il titolo di imperatore con il nome di Napoleone I.

1805 - 26 maggio. Napoleone I assume la corona del Regno d'I­talia. Eugenio di Beauharnais è nominato viceré.

1805 - 4 giugno. La Repubblica di Genova è annessa all'Impero francese.

1805 - 15-18 ottobre. Sconfìtta degli austriaci a Ulma.

1805 - 21 ottobre. La flotta franco-spagnola è distrutta a Trafal-gar.

1805 - 14 novembre. Napoleone entra in Vienna.

1805 - 2 dicembre. Austerlitz: Napoleone sconfigge gli

austro-russi.

1806 - 15 febbraio. Giuseppe Bonaparte è Re di Napoli.

1806 - 14 ottobre. Sconfitta dei prussiani a Jena.

1807 - Luglio. Trattati di Tilsit.

1808 - 2 febbraio. Le truppe francesi occupano Roma.

1805 - 5 maggio. Gioacchino Murat è il nuovo Re di Napoli.

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1808 - 24 maggio. La Toscana e l'ex Granducato di Parma e Pia­cenza sono annessi alla Francia.

1 8 0 9 - 17 maggio. Lo Stato della Chiesa è annesso all 'Impero francese.

1809 - Luglio. Il papa è arrestato e relegato a Savona.

1812 - 12 maggio. Il papa è trasferito da Savona a Parigi.

1812 - 24 giugno. Inizio della campagna di Russia.

1812 - Ottobre. L'Armata francese sconfitta passa la Beresina.

1813 - 12 agosto. L'Austria dichiara guerra alla Francia.

1813 - 16-19 ottobre. Napoleone è sconfitto a Lipsia.

1814 - Maggio. Trattato di Parigi: l'Austria rioccupa la Lombar­

dia e il Veneto.

1814 - Settembre. Congresso di Vienna.

1815 - 26 febbraio. Napoleone fugge dall'isola d'Elba.

1815 - 2 maggio. Murat è battuto dagli austriaci a Tolentino.

1815 - 18 giugno. Waterloo. 1815 - 13 ottobre. Fucilazione di Gioacchino Murat a Pizzo di Ca­

labria.

1818 - Esce a Milano // Conciliatore.

1820 - 2 luglio. Nel Napoletano scoppiano i primi moti carbona­ri.

1820 - 15 luglio. Rivoluzione a Palermo.

1820-21 - La polizia austriaca arresta Pellico, Maroncelli ed altri.

1821 - Gennaio. Congresso di Lubiana: è deciso l'intervento au­striaco nel Napoletano.

1821 - 12 marzo. Moti carbonari in Piemonte. Vittorio Emanuele I abdica a favore di Carlo Felice.

1821 - 13 marzo. Carlo Alberto concede la Costituzione.

1821 - Dicembre. Federico Confalonieri ed altri patrioti sono ar­restati dalla polizia austriaca.

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1822 - Congresso di Verona: si decide lo sgombero delle truppe

austriache dal Piemonte.

1823 - A Pio VII succede Leone XII.

1825 - A Napoli Francesco I succede al padre Ferdinando.

1827 - Giuseppe Mazzini aderisce alla Carboneria. 1831 - Febbraio. Moti insurrezionali scoppiano a Modena, Parma

e Bologna.

1831 - 25 marzo. L'esercito rivoluzionario comandato dal genera­le Zucchi è sconfitto dagli austriaci presso Rimini.

1831 - 26 maggio. Ciro Menotti e Vincenzo Borelli vengono giu­stiziati a Modena.

1831 - Ottobre. Nasce a Marsiglia la «Giovane Italia» di Mazzini.